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Vincenzo Trione, le città nel cinema e nell’arte

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Da Roma a New York, da Parigi a Los Angeles. Con il suo ultimo libro, ‘Effetto città’, il critico porta i lettori in giro per le metropoli che abbiamo amato al cinema o nei quadri famosi. Per una nuova estetica da marciapiede

Ce n’è abbastanza per spazzar via ogni pregiudizio anti-cittadino. Non che ne avessimo, e confessa di non averne neppure Vincenzo Trione, storico e critico d’arte, professore allo Iulm di Arte e Nuovi Media: «Non mi piace l’ecologia, non mi piace la campagna, amo l’architettura delle città e il loro vitalissimo disordine. Possono fare paura ma hanno un fascino che attrae poeti, pittori e cineasti, non solo nel Novecento».Dieci anni di lavoro, condotto in parallelo con gli impegni del critico militante e curioso. Ne è uscito un volume di 800 pagine, ricchissimo e illustratissimo:Effetto città. Arte cinema modernità (Bompiani). «Si parla di libri-mondo, dove lo scrittore costruisce un universo e lo mette a disposizione di chi legge. Io ho voluto tentare un libro-città: il lettore può vagare tra i capitoli, può smarrirsi e ritrovarsi, svoltando in un vicolo o lasciandosi conquistare da uno scorcio inatteso. Può scegliere le tappe che gli interessano e costruirsi un itinerario personale».

Per questo le immagini, prese dal cinema, dai quadri o dagli schizzi degli architetti sono riunite in otto Passage. Era il nome delle gallerie commerciali parigine che suggerirono al berlinese Walter Benjamin, gran vagabondo e grande studioso della modernità, il titolo del suo libro più famoso, rimasto incompiuto dopo tredici anni di lavoro: Passages, appunto.

A Charles Baudelaire, altro punto di riferimento e di confronto che spesso torna nel saggio di Vincenzo Trione, dobbiamo invece la figura del flâneur: il gentiluomo che passeggia senza meta per i boulevard di Parigi. Osservando i passanti e in cerca di piaceri squisitamente cittadini, da “botanico del marciapiede”. Sempre parole di Baudelaire, del tutto immune al fascino della natura (e se state per dire “oggi con i cellulari questi piaceri sono spariti”, sappiate che la flânerie è stata di recente accostata alle nostre dispersive quanto attraenti navigazioni in rete). Effetto città si apre con Pier Paolo Pasolini, che adorava Roma e le borgate, non altrettanto la modernità: come tutti gli anti-moderni considerava il passato frutto di un armonico disegno, e il futuro foriero di temibile disordine. Il caos, la frenesia e la vita solitaria fanno parte del modello cittadino, neanche i fanatici delle metropoli lo possono negare. Tra le molte suggestioni del libro c’è un parallelo tra Venezia e New York, a partire dalla frase di Friedrich Nietzsche: «Cento profonde solitudini formano insieme la città di Venezia. Questo il suo incanto».

Sulle solitudini della Grande Mela o di Gotham City – così i fumetti Marvel hanno ribattezzato la New York del supereroe Batman, fantasiosa ma riconoscibilissima – la lista dei film e dei romanzi sembra non finire mai. Uno per tutti, Manhattan Transfer di John dos Passos, ambientato nell’età del jazz. Nell’età del folk, al Greenwich Village subito prima che Bob Dylan irrompesse sulla scena, abbiamo i fratelli Coen di A proposito di Davis. Con il passare del tempo cambiano le metropoli di riferimento – Her di Spike Jonze è ambientato in una Los Angeles con i grattacieli di Shanghai – e a consolazione dei solitari arriva la voce femminile di uno smartphone. Primo tempo e Secondo tempo scandiscono le due parti di Effetto città, che ha tra le sue parole chiave “cinecontagio”. La dobbiamo a Rem Kolhaas, architetto e urbanista olandese che in gioventù voleva fare il regista. Sua anche la definizione di generic city: «Una città senza la camicia di forza del centro storico». Soffrono i nostalgici delle antiche piazze, decisamente questo libro non è adatto a loro, e Vincenzo Trione rilancia creando inediti cortocircuiti: «Ho cercato di portare gli autori che ho studiato e che cito dove non erano mai stati». Giorgio De Chirico, per esempio. «Nei suoi quadri ruba la simultaneità introdotta dal montaggio cinematografico. Ma lo negherebbe, a parole il cinema lo odia». Da De Chirico discende Michelangelo Antonioni, attento alle immagini quanto era disinteressato ai dialoghi e alle trame (“Togliere l’audio e godersi il resto”, lo ammettono anche i fan, figuriamoci noi che consideriamo “bella la fotografia”, l’insulto peggiore che si possa fare a un film). Portava sul set cataloghi di Cy Twombly, di Antoni Tàpies e di Mark Rothko, era interessato alla pittura astratta e ai paesaggi senza figure. Da qui “l’effetto pitturato” – dice ancora Vincenzo Trione – di Deserto rosso. Ma il cinema incanta per la sua varietà, e possiamo sempre preferirgli le affollate città-spettacolo di Metropolis e di Blade Runner.

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