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Corte dei Conti Sezione Giurisdizionale per la Regione Lazio, sentenza n.77/2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER LA REGIONE LAZIO
composta dai Sigg.ri Magistrati
dott.ssa Piera Maggi Presidente
dott.ssa Anna Bombino Consigliere
dott. Eugenio Musumeci Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio n.74720 proposto dal P.R. nei confronti dei sig.ri Mirella di Giovine, rappresentata e difesa degli avvocati Gennaro Terracciano e Amelia Cuomo, Cinzia Marani, rappresentata e difesa dall’avvocato Stefano Rossi, Lucia Funari, rappresentata e difesa degli avvocati Alessandro Fusillo e Jacopo Varalli, Francesca Saveria Bedoni, rappresentata e difesa dall’avvocato Maria Vertucci, Clorinda Aceti rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Lo Mastro;
Visti gli atti di causa;
Uditi, nella pubblica udienza del 6 aprile 2017, con l’assistenza della Segretaria Francesca Pelosi, il relatore, Presidente Piera Maggi, il Procuratore Regionale nella persona del Vice procuratore Generale dott. Guido Patti e, per le convenute, gli Avv.ti Giacomo Terracciano e Amelia Cuomo per Di Giovine, Giuseppe Lo Mastro per Aceti, Maria Vertucci per Bedoni, Alessandro Fusillo per Funari, Stefano Rossi per Marani;
FATTO:
Con atto di citazione depositato in data 26 maggio 2016, il Procuratore Regionale, ha evidenziato una fattispecie ritenuta dannosa che concerne:
l’assegnazione provvisoria in concessione, con ordinanza sindacale n. 3483/1997, di un immobile di proprietà del Comune di Roma Capitale, sito in Roma, via della Penitenza 33, alla Associazione Agorà 80 (in seguito: l’Associazione), che ivi gestisce l’omonimo teatro, ad un canone originariamente determinato in poco più di euro 500 mensili (conseguente all’abbattimento dell’80% dell’importo del canone di mercato determinato nel 1997).
L’Associazione avrebbe sempre goduto del bene immobile in modo illecito, atteso che essa non ha mai concluso un valido ed efficace atto di concessione.
Nonostante sia stata emanata una determinazione dirigenziale di riacquisizione del bene, non risulta che l’immobile sia stato restituito al Comune di Roma.
L’occupazione dell’immobile in questione da parte dell’Associazione risale al 1983, ma l’assegnazione provvisoria è stata disposta con ordinanza sindacale n. 3483 del 3 gennaio 1997, emanata ai sensi dell’art. 4, comma 11, della delibera del Consiglio comunale 3 ottobre 1996, n. 202, che prevede la possibilità di emanare un provvedimento provvisorio ed urgente nel caso in cui l’attività svolta dal concessionario non possa essere interrotta senza nocumento per la collettività (nel caso di specie il P.R. è dell’avviso che tale urgenza non ricorresse atteso che l’Associazione aveva per lungo tempo occupato, ed occupava ancora nel 1997, abusivamente l’immobile. Tale considerazione porrebbe in evidenza che la situazione illecita in cui versa l’immobile, sito in via della Penitenza, risale nel tempo e che, da decenni, sino ai giorni d’oggi, il Dipartimento del patrimonio del Comune sarebbe stato assolutamente incapace di gestire correttamente i beni immobili comunali ed in particolare il bene immobile in questione. Quello che si discute in questa sede, peraltro, è riferibile a tempi più recenti).
Nella ordinanza sindacale n. 3483/1997 è stabilito che la procedura istruttoria per la verifica dei requisiti richiesti avrebbe dovuto essere conclusa con l’emanazione del provvedimento formale di concessione da parte della G.C. entro il termine perentorio di 120 giorni, in conformità del disposto dell’art. 4, commi 12 e 13, della citata delibera del Consiglio comunale 3 ottobre 1996, n. 202.
Il predetto termine non è stato rispettato, con la conseguenza che il provvedimento provvisorio di assegnazione sarebbe divenuto inefficace, “valendo l’inosservanza del termine quale condizione risolutiva” della ordinanza adottata.
In considerazione della sopravvenuta inefficacia dell’ordinanza, l’immobile in questione avrebbe dovuto, quanto prima, rientrare nel possesso del Comune di Roma Capitale e,000000000000 per tutto il periodo di possesso del bene (possesso non giustificato da un idoneo titolo valido ed efficace), l’Associazione avrebbe dovuto (e tuttora dovrebbe, essendo essa inadempiente) corrispondere il canone di mercato. In tal modo sarebbe stato possibile evitare il perpetuarsi di una situazione illecita produttiva di danno erariale di cui sarebbero in perpetuo chiamati a rispondere i dirigenti dell’Ufficio competente, abilitati a richiedere il canone di mercato fino alla restituzione dell’immobile (ovvero alla legittima emanazione di un provvedimento di concessione e alla stipula del relativo contratto: ma, secondo il P.R., deve tenersi presente, al riguardo, l’attuale difficoltà di garantire la concessione di un immobile a favore di un (pre)determinato soggetto poiché la costante giurisprudenza richiederebbe, al fine di attuare una giustificabile par conditio, anche per la scelta del concessionario lo svolgimento di una apposita gara).
Successivamente, in data 5.8.1997, la G.C. ha emanato la deliberazione n. 3170 con cui è stato stabilito che l’immobile sito in Roma, via della Penitenza 33, fosse concesso alla Associazione. L’efficacia di tale deliberazione era espressamente subordinata al (preventivo) parere favorevole della Soprintendenza per i beni ambientali ed architettonici essendo l’immobile un bene sottoposto ai vincoli di cui alla legge n. 1089 del 1939 (fatto questo ben conosciuto dall’amministrazione comunale: v. nota in data 15 luglio 1997, prot. 22150, con cui è stato richiesto il parere alla Soprintendenza). Tale organo, con nota in data 28.7.1997, prot. 29357, espresse netto parere contrario, essendo l’immobile oggetto di un programmato intervento di restauro. A seguito di molteplici riunioni, peraltro, in data 18.1.2001, prot. RIS. 1280, la Soprintendenza comunicò di avere rilasciato il proprio nulla osta, modificando in tal modo il precedente parere contrario.
Peraltro, così come risulta dagli atti trasmessi dall’amministrazione, il relativo contratto di concessione, che dovrebbe sempre seguire il provvedimento amministrativo, non fu concluso e l’Associazione continuò tranquillamente ad avere il possesso del bene.
Nonostante il mancato perfezionamento del procedimento di concessione (mancanza del contratto di concessione), l’amministrazione ha richiesto all’Associazione, peraltro, in virtù dell’abbattimento dell’80% previsto per lo svolgimento di attività anche culturali, lire 12.815.057 (il canone a prezzi di mercato in precedenza era stato quantificato dalla Commissione stima in lire 64.075.286 annue).
Tale richiesta, secondo parte attrice, sarebbe illecita poiché il termine di 120 giorni era ed è già da tempo scaduto e, precisamente, in data 3.5.1997. Alla data del 31.7.1997, considerando anche il credito derivante dal pregresso illecito possesso, l’amministrazione risultava creditrice, secondo il P.R., di lire 270.365.100 (324.165.100 — 53.800.000) (v. nota in data 2.6A 997, prot. 17124).
Soltanto in data 10.6.2002, il Comune di Roma (v. nota prot. 9664) comunicò all’Associazione che essa — a quel momento, secondo parte attrice, illecitamente in possesso del bene – sarebbe stata abilitata al lecito possesso soltanto dopo che fosse stato completato il restauro ed in base ad un formale atto di concessione. Tale provvedimento avrebbe considerato e legittimato anche l’accertata occupazione illecita da parte dell’Associazione di aree ulteriori rispetto a quelle oggetto della precedente deliberazione G.C. n. 3170 ed avrebbe determinato il nuovo canone concessorio dovuto (v. nota del 18.11.2003, prot. 19896).
Tale nuova concessione non è stata mai deliberata (ed il conseguente necessario contratto mai concluso) e, pertanto, il possesso del bene, nel quale l’Associazione fu illecitamente reintegrata (v. verbale di consegna del 19.1.2004), dovrebbe essere sin dal 1983 ritenuto illecito ed illegittimo (per l’individuazione dell’estensione dell’immobile occupato v. nota della Polizia municipale in data 10 febbraio 2014 prot. 26184).
Il Comune, dopo un lasso di tempo di otto anni, ha:
1) in data 18.1.2012 effettuato un sopralluogo in via della Penitenza 33;
2) alla fine del 2012, con nota del 27.12.2012, prot. 28491, a firma dell’arch. Bedoni (direttore della U.O. Gestione amministrativa), si è di nuovo interessato alla vicenda in questione richiedendo alla Polizia municipale di effettuare un ulteriore sopralluogo al fine di accertare quali porzioni del bene fossero possedute dall’Associazione;
3) identica richiesta è stata formulata con nota in data 1.10.2013, prot. 21399, a firma dell’arch. Di Giovine (direttore del Dipartimento patrimonio). Tale sopralluogo è stato effettuato in data 21.11.2013 (v. nota della Polizia municipale del 10.2.2014, prot. 26184), ma esso non ha prodotto alcun risultato;
4) successivamente, la dott.ssa Aceti (direttore della U.O. Gestione amministrativa), in data 31.3.2014, 25 agosto 2014 e 24 marzo 2015 ha redatto alcune note indirizzate all’Associazione. Altresì, in data 6.11.2014 essa ha rivolto alla U.O. Direzione commissione stime la richiesta di effettuare la determinazione di una nuova indennità d’uso.
Tutte le note sopra indicate non apparirebbero corrette poiché esse non considererebbero che il possesso del bene da parte dell’associazione era illecito mancando un provvedimento di concessione valido ed efficace. Le suindicate dirigenti avrebbero dovuto richiedere immediatamente la restituzione dell’immobile ed ottenere il pagamento del canone di mercato da tempo dovuto.
L’amministrazione non avrebbe saputo quantificare esattamente le somme pagate nel corso del tempo dall’Associazione, sia per i locali originari sia per quelli occupati successivamente, né avrebbe provveduto a determinare il nuovo canone concessorio (v. le richieste formulate con la nota istruttoria in data 13.11.2015, rimasta senza risposta nonostante il successivo sollecito).
In base alla documentazione trasmessa risulterebbe che l’Associazione, per quel che vale, avrebbe risposto ai quesiti posti dall’amministrazione in merito al possesso dei locali diversi da quelli originari occupati abusivamente, ma non che abbia pagato, per il bene occupato, il dovuto canone di mercato.
Alla luce di quanto accertato il P.R. ritiene che:
Se essi, sicuramente consapevoli dell’intervenuta inefficacia dell’ordinanza sindacale, avessero da tale fatto tratto le dovute conseguenze ed avessero immediatamente posto in evidenza la necessità della repentina riacquisizione del bene e l’applicabilità del canone di mercato al posto di quello ridotto dell’80% sino ad allora applicato, il considerevole danno cagionato all’erario comunale non si sarebbe prodotto.
Il P.R. osserva che, per il periodo successivo al 5.8.1997, data di emanazione della deliberazione G.C. n. 3170, l’Amministrazione comunale non avrebbe correttamente valutato che il possesso del bene (quello concesso originariamente in base all’ordinanza sindacale) non sarebbe stato mai legittimato dal menzionato provvedimento deliberato dalla Giunta comunale poiché il provvedimento concessorio era espressamente condizionato al parere favorevole — non intervenuto — della Soprintendenza (probabilmente, per tale motivo, non sarebbe stato stipulato il successivo atto di concessione). Successivamente, il bene, dapprima è stato riacquisito dal Comune, e poi — nel 2004 – è stato illecitamente restituito all’Associazione pur in mancanza di un idoneo provvedimento concessorio (la inefficace deliberazione n. 3170 nel frattempo aveva perso significato).
In base agli accertamenti istruttori espletati, l’ufficio competente a richiedere il canone di mercato e la restituzione dell’immobile è stato individuato nel Dipartimento patrimonio del Comune di Roma patrimonio (diretto dall’arch. Mirella Di Giovine dal 16.9.2013 all’1.5.2015), Direzione generale gestione amministrativa, V U.O. — II Servizio amministrativo Spazi Sociali, nel corso del tempo, per quel che interessa in questa sede, diretta dalle dott.sse Funari, Bedoni ed Aceti.
Tutte le menzionate dirigenti sarebbero responsabili del danno cagionato al Comune di Roma:
Inoltre, il P.R. ritiene, come detto, che responsabili del danno siano anche tutti coloro che, indipendentemente dal ruolo da essi rivestito nell’ambito del Dipartimento del patrimonio, nel corso del tempo hanno esaminato il fascicolo riguardante la concessione disposta in favore dell’Associazione e che, con grave colpa, hanno omesso di dare la dovuta rilevanza al fatto che il termine di 120 giorni dalla data di emanazione dell’ordinanza provvisoria di assegnazione era da tempo scaduto e che l’Associazione risultava possessore sine titulo del bene immobile. Tali soggetti sono i sigg. Colalillo (nota del 24.5.2011, prot. 18), Bedoni (nota del 27.12.2012, prot. 28491), Di Giovine (nota dell’1.10.2013, prot. 21399), Aceti (note del 31.3,2014, prot. 7820, 25.8.2014, prot. 18893, 6.11,2014, prot. 24626, 24.3.2015, prot. 7293, quest’ultima di messa in mora per meri euro 5.328,00). Secondo il P.R. essi erano sicuramente consapevoli dell’intervenuta inefficacia dell’ordinanza sindacale e dell’illiceità del possesso dell’immobile da parte dell’Associazione (ad es. la dott.ssa Di Giovine con la menzionata nota dell’1.10.2013 ha richiesto alla Polizia Municipale di effettuare un sopralluogo e tanto dimostrerebbe che era consapevole della illiceità del godimento del bene), e, quindi, da tale fatto avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenze ed avrebbero dovuto porre immediatamente in evidenza la necessità della repentina riacquisizione del bene e l’applicabilità del canone di mercato al posto di quello ridotto dell’80% sino ad allora applicato; in tal modo il considerevole danno cagionato all’erario comunale non si sarebbe prodotto.
Il P.R. ritiene, pertanto, che la condotta di tutti i soggetti sopra indicati (tranne quella del dott. Colalillo, mero responsabile del procedimento) sia illecita, connotata da colpa grave ed abbia concorso alla produzione del danno subito dal Comune atteso che essi, quali dirigenti e soggetti redigenti gli atti del procedimento, avrebbero dovuto provvedere in modo adeguato ed omettere di redigere inutili atti istruttori. Essi avrebbero dovuto rispettivamente emanare o predisporre tutti gli atti necessari per garantire immediatamente la corresponsione del canone di mercato e la restituzione dell’immobile.
Oltre alle suindicate dott.sse Di Giovine, Funari, Bedoni, ed Aceti, responsabili per avere omesso, pur avendo esaminato concretamente il fascicolo relativo alla vicenda in questione, di redigere atti idonei a tutelare la posizione creditoria del Comune, il P.R. ritiene responsabile del danno erariale anche la dott.ssa Marani, dirigente della menzionata U.O. dal 14.8.2008 al 14.1.2010. La responsabilità della dott.ssa Marani, come delle sue colleghe, andrebbe riconosciuta in conseguenza della sua titolarità dell’ufficio protrattasi per un lungo periodo di tempo e della sua completa condotta omissiva, così come stabilito nella recente sentenza della Sezione Lazio n. 486 del 2015, che ha condannato la predetta dirigente per motivi analoghi a quelli di cui si discute in questa sede.
Il danno subito dal Comune di Roma Capitale sarebbe difficilmente quantificabile non essendo stata trasmessa — nonostante apposita richiesta – idonea documentazione da parte dell’amministrazione. La somma dovuta, tuttavia, viene ritenuta dal P.R. quantomeno pari ad euro 357.283,76.
Il canone, determinato nel 1997, era pari a lire 64.075.286 = euro 32.037,64. Tale somma rivalutata — coefficiente 1,394 — risulta pari ad euro 44.660,47. Tale canone annuale dovuto, moltiplicato quantomeno per 8 (dal marzo 2008 al marzo 2016) ammonterebbe ad euro 357.283,76. Tale somma è stata calcolata sino al 31.3.2016. Sarebbe risarcibile anche il danno di euro 3.721,70, relativo a ciascuno dei mesi successivi a tale data, da calcolare fino all’emanazione del provvedimento che applichi il canone di mercato, alla sua successiva accettazione da parte dell’associazione ed al conseguente pagamento fino al rilascio dell’immobile.
Tale quantificazione si riferisce al canone di mercato. La relativa richiesta si basa su una corretta ripartizione dell’onere della prova a carico delle parti processuali. Il P.R. ritiene, infatti, che non sia onere della Procura regionale provare che il concessionario non ha pagato il canone, bensì che sia a carico di quest’ultimo provare l’avvenuto pagamento.
Da un punto di vista giuridico, secondo l’attore, si tratterebbe di accertare:
In materia, al fine di risolvere l’annosa questione sarebbero intervenute le Sezioni Unite della Corte di cassazione con la fondamentale sentenza n. 13533 del 30 ottobre 2001, che ha accolto la seconda opzione sopra descritta.
Ciò determinerebbe l’obbligo del rappresentante della pubblica amministrazione (così come di colui che agisce per un’impresa privata) di richiedere al debitore complete ed esaustive prove dell’adempimento del contratto, specialmente qualora venga sottoposta al suo esame documentazione assolutamente insufficiente ed inidonea in quanto predisposta dallo stesso debitore.
Ritiene il P.M. che, sulla Procura regionale attrice, in fattispecie del tipo di quella oggi all’esame, graverebbe unicamente l’onere di provare che il soggetto convenuto in giudizio non ha effettuato le necessarie verifiche dirette ad accertare che il debitore ha eseguito correttamente il contratto e che egli, conseguentemente, ha supinamente ed ingiustificatamente pagato il prezzo richiesto, non potendo ritenersi soddisfatto l’obbligo a carico del pubblico amministratore, in conseguenza della mera ricezione delle fattura, di brevi ed inconcludenti relazioni e di fotografie descrittive dell’attività che il debitore afferma essere stata svolta.
Secondo l’attore, quindi:
– tutti gli oneri ingiustificati in precedenza indicati (euro 357.283,76 + interessi) costituirebbero un danno per l’amministrazione ed inoltre i danni non ancora prodottisi alla data del 31.3.2016 dovrebbero essere determinati dalla Sezione giurisdizionale e dovrebbero essere oggetto della eventuale sentenza di condanna, in base alle regole che disciplinano la risarcibilità del danno futuro per i danni non ancora verificatisi al momento del deposito della sentenza di condanna;
– di tutti i danni subiti dall’amministrazione dovrebbero rispondere i destinatari dell’atto di citazione nella loro qualità di dirigenti dell’ufficio competente ad attivare la procedura finalizzata alla quantificazione del canone di mercato e ad ottenere il pagamento del dovuto, ovvero al rilascio dell’immobile, nonché coloro che hanno posto in essere atti del procedimento finalizzato all’emanazione della concessione definitiva, salva la responsabilità dell’attuale (dott. Gherardi) e dei futuri dirigenti della V U.O. — II Servizio amministrativo Spazi Sociali i quali, nel corso del tempo (successivamente al 30.11.2015), ometteranno con colpa grave di richiedere ed ottenere il pagamento del canone di mercato fino al rilascio dell’immobile, sicuramente da richiedere ed ottenere immediatamente;
– nella condotta dei soggetti destinatari del presente atto di citazione sarebbe rinvenibile, quantomeno, l’elemento soggettivo della colpa grave; tale colpa grave consisterebbe nella concreta ed ingiustificata applicazione della deliberazione della Giunta comunale n. 3170/1997, provvedimento inefficace per mancanza del parere favorevole della Soprintendenza (al rilascio di tale parere favorevole era espressamente condizionata la menzionata deliberazione), nel non aver tenuto in considerazione il fatto che, a seguito di tale deliberazione, non era stato concluso il necessario contratto di concessione, e nell’aver consentito il possesso dell’immobile senza che fosse stato preventivamente emanato un idoneo atto giustificativo del possesso in capo all’Associazione; in aggiunta all’aver consentito l’illecito possesso del bene, i dirigenti avrebbero omesso di richiedere ed ottenere il pagamento del canone di mercato (per quel che concerne il dott. Gherardi, al quale l’invito a dedurre, rivolto alle convenute, è stato inviato per mera ed opportuna conoscenza, il P.R. pone in evidenza che egli, nominato dirigente della Direzione generale gestione amministrativa in sostituzione della dott.ssa Aceti, è stato personalmente reso edotto della grave situazione in cui versava la Direzione generale da lui diretta. Sinora egli si è attivato con diligenza a sanare la situazione dell’Ufficio);
– sussisterebbe il richiesto nesso di causalità tra la condotta ascrivibile ai soggetti destinatari del presente atto e gli oneri finanziari ingiustificatamente sostenuti dalla amministrazione;
– in termini generali, non sarebbe condivisibile una condanna della Sezione giudicante ad una somma “comprensiva di rivalutazione e/o di interessi” poiché il giudice deve esaurientemente motivare in merito al calcolo di rivalutazione ed interessi, chiarendo quale sia il metodo seguito (es. indici Istat) e l’importo esatto di tali elementi, da distinguere nettamente rispetto alla somma capitale.
Le deduzioni contrapposte all’invito a dedurre sono state ritenute insufficienti dal P.R. ad escludere le contestate responsabilità e, pertanto, è stata emessa citazione nei confronti delle convenute citate in epigrafe per ivi sentirle condannare, in parti eguali, in favore del Comune di Roma Capitale al pagamento di curo 357.283,76 calcolati sino al marzo 2016, oltre ad euro 3.721,70 per ogni mese successivo al marzo 2016, salva diversa ripartizione; in ogni caso con condanna al pagamento degli interessi dalla data di emanazione della sentenza fino al saldo e alle spese di giudizio.
E’ presente in atti appunto del P.R. in cui si svolgono talune considerazioni:
L’architetto Francesca Saveria Bedoni si è costituita in giudizio con il patrocinio dell’avvocato Maria Vertucci e il difensore, con memoria, ha precisato che la sua assistita ha ricoperto l’incarico di dirigente presso la U.O. concessioni per soli 199 giorni in modo frammentario per le plurime competenze del suo ufficio e, nel 2005, aveva fatto contratto di servizi con la Romeo gestioni per monitoraggio e censimento del patrimonio comunale ed iniziative al riguardo, ma tanto non è stato considerato. Inoltre la Bedoni chiese, ai sensi della delibera di Giunta n. 670 del 19 novembre 2002, di poter assegnare gli immobili a canone di mercato, ma il dott. Palumbo non dava seguito né provvedeva a dar seguito alle richieste di personale. Non sono stati chiamati in giudizio né il Colalillo, responsabile dei procedimento, né la società Romeo. Ripercorre la parte l’iter già descritto di assegnazione dei locali e ricorda gli atti normativi che regolavano le concessioni e rileva che esisteva il responsabile del procedimento non citato in giudizio. Né sarebbe stato possibile chiedere la restituzione degli immobili in quanto tale obbligo non era contenuto in alcuna disposizione e la Bedoni presumeva la liceità dell’occupazione e risultava che il canone fosse pagato. Mancano poi, nell’atto di citazione, le singole e specifiche imputazioni nei confronti di ciascun chiamato. La mancanza di colpa grave deriverebbe anche dalla sentenza n. 486/2015 di questa Sezione che ha trattato analoga fattispecie. Le norme non prevedono la richiesta di restituzione e il danno non è provato né attuale non essendo certa la attribuibilità del bene, con sue peculiari caratteristiche, ad altro soggetto, ma, comunque, mai a prezzo di mercato. Si contesta poi l’’asserita inversione dell’onere della prova e si sostiene che la Bedoni agì in conformità alla legge. Il personale dell’ufficio è passato da 22 ad 8 persone e risulta che, nel periodo della gestione Bedoni, sono state smistate 55 pratiche al giorno e molto lavoro è stato svolto. Alla luce di quanto sopra mancherebbe la colpa grave ed il nesso causale in quanto, allo spirare del termine, vi era altro dirigente non chiamato. Sussisterebbe, infine, il concorso di colpa dell’Ente per la disorganizzazione. La parte eccepisce anche, ferma la mancanza di responsabilità, la prescrizione.
Concludendo la parte chiede, in via principale, di dichiarare inammissibili e/o infondate in fatto e in diritto le domande del P.R., con conseguente rigetto di esse, nei confronti dell’arch. Bedoni; in via subordinata, accertare e, per l’effetto, dichiarare infondate e/o inammissibili le azioni incardinate e, dunque, rigettare le domande per carenza dei presupposti legittimanti l’azione in mancanza di danno, colpa grave, nesso di causalità, per mancanza della specificità delle condotte omissive e di qualsivoglia portata; in ogni caso assolvere da ogni responsabilità l’arch. Bedoni; in via subordinata chiede l’applicazione della prescrizione quinquennale; in via subordinata, nella denegata ipotesi di non accoglimento delle eccezioni sollevate, chiede la riduzione dell’addebito con vittoria di spese, competenze ed onorari.
La dott.ssa Aceti si è costituita in giudizio con il patrocinio dell’avvocato Giuseppe Lo Mastro il quale, nella memoria, ha lamentato l’enorme numero di inviti a dedurre e di citazioni di cui è stata destinataria la sua assistita ed ha illustrato la situazione del patrimonio immobiliare del Comune e degli Spazi speciali. Ha citato il giudicato di cui alla sentenza n. 486/1985 ed ha escluso che, nelle condizioni in cui si svolgeva il lavoro, potesse riscontrarsi la colpa grave. Comunque non sussisteva possibilità di applicare un canone di mercato all’immobile di cui trattasi. Rileva che i comportamenti che il P.R. ritiene che si sarebbero dovuti tenere non erano previsti nei regolamenti comunali che vengono esaminati. Evidenzia la mole di lavoro svolta dalla dott.ssa Aceti nelle sue competenze di ufficio, anche con carattere di urgenza, pur in carenza di organico. A seguito dell’azione della Procura sono state poi avviate numerose azioni per migliorare la gestione dei beni. Ritiene persecutorio il comportamento della Procura e singolare la ritenuta sufficienza di uno scadenzario per evitare il problema che si è verificato. Ha illustrato il lavoro svolto per migliorare la gestione dei beni. Conclusivamente ha chiesto il rigetto dell’azione.
L’avvocato Lo Mastro ha anche prodotto, per l’odierna udienza, ulteriore memoria in cui, oltre a ribadire le precedenti argomentazioni, ha criticato il modus operandi del P.R. che si sarebbe ingerito nelle competenze dell’amministrazione forzando l’emissione di provvedimenti di sfratto posti in essere da taluno onde evitare la chiamata in giudizio. L’avvocato ha poi ancora analizzato le delibere regolamentari del Comune e le procedure adottate per le concessioni escludendo la configurabilità di un danno discendente da esse.
La dott.ssa Mirella Di Giovine si è costituita in giudizio, con il patrocino degli avvocati Gennaro Terracciano e Amelia Cuomo, i quali hanno sostenuto l’insussistenza del nesso causale e di qualsiasi profilo di responsabilità della loro assistita che è stata direttore Apicale del Dipartimento Patrimonio e di responsabile ad interim U.O. Concessioni dal 16.9.2013 al 30.10.2013 e direttore Apicale dal 16.9.2013 al 15.5.2015 e, quindi, lontano dal periodo di genesi del danno. L’interim è durato 45 giorni e, nel periodo, erano molte altre le incombenze affidate né esisteva un servizio informatizzato affidabile per la gestione di 860 beni. Ciononostante la Di Giovine ha agito con discontinuità rispetto al passato intraprendendo iniziative per migliorare la gestione del patrimonio chiedendo anche un potenziamento degli uffici e provvedendo a sgomberi e diffide. Mancherebbe, comunque, l’elemento soggettivo del dolo e/o della colpa grave in quanto, nel caso di specie, si registrano interventi specifici, ma anche precise disposizioni della Sovrintendenza dei beni culturali e dell’assessore alle Politiche del Patrimonio del Comune di Roma sull’utilizzo del bene. Comunque sono state anche inviate diffide all’Agorà per la corresponsione del canone di mercato, degli arretrati e per il rilascio del bene. La Di Giovine è stata già assolta nel giudizio di questa Sezione che è stato esitato con la sentenza n. 486/2015. Mancherebbe, comunque, il danno erariale in quanto la natura del bene ne impediva la locazione a canone di mercato (del n. 26/1995 e n. 202/1996 del Comune di Roma) e l’eventuale riattribuzione dell’immobile presupponeva, comunque, lo sgombero di esso e tanto esulava dalle competenze del dipartimento Patrimonio. Infine, a tutto voler concedere, sussistendo il credito, non sarebbe da ritenere maturato il danno.
Conclusivamente la parte chiede che sia dichiarata la nullità/inammissibilità delle domande ed il rigetto di esse come infondate in fatto e in diritto per mancanza di danno e dell’elemento soggettivo e, in via subordinata, che venga considerata l’assoluta marginalità dell’attività della Di Giovine ai fini della quantificazione del danno con uso anche del potere riduttivo e vittoria di spese, competenze ed onorari.
L’arch. Lucia Funari si è costituita in giudizio con il patrocinio degli avvocati Alessandro Fusillo e Jacopo Vavalli e, nella memoria, i difensori hanno eccepito l’intervenuta prescrizione sostenendo l’inammissibilità della tesi proposta dal P.R. in appunto diverso dalla domanda e ritenendo, comunque, maturata la prescrizione dai 5 anni antecedenti l’invito a dedurre (12.2.2011) e non oltre la cessazione dalle funzioni del 17.5.2011. Da tanto conseguirebbe anche che, essendo il relativo periodo di svolgimento delle funzioni inferiore all’anno (dal 17 novembre 2010 al 17 maggio 2011) la stessa non avrebbe dovuto essere chiamata in giudizio alla stregua dei principi di cui alla sentenza n. 486/2015. Inoltre la gestione degli immobili comunali non era affidata al Dipartimento Patrimonio, cui spettava solo l’alta sorveglianza ed attività amministrativa connessa alle comunicazioni del gestore, ma alla Romeo Gestioni s.p.a. che deteneva anche i fascicoli, come dimostrato dalle notizie di stampa relative al cattivo stato di riconsegna dei fascicoli stessi. Sostengono ancora i difensori la mancanza del danno erariale per la destinazione del bene da utilizzarsi per finalità sociali e ciò sarebbe dimostrato anche dalla sentenza del TAR n. 3764/2016 che ha annullato l’ordinanza di riacquisizione. Viene poi descritta l’organizzazione del Dipartimento, la carenza dell’organico disponibile e la individuazione, comunque, di un responsabile del procedimento. In ogni caso, sussisterebbe una incertezza e scarsa chiarezza sul procedimento di assegnazione dei beni in concessione e il termine di 120 giorni per la concessione definitiva contrasterebbe con l’art. 20 della legge n. 241/1990 che qualifica il silenzio dell’amministrazione come assenso ed ancora, non era prevedibile un termine perentorio per provvedere al riguardo. Il danno mancherebbe anche in relazione al fatto che non vi è prova della riallocabilità del bene alle condizioni ipotizzate dal P.R. e, comunque, ove ciò fosse ipotizzabile, non sarebbe ancora maturata la prescrizione per chiedere il surplus ipotizzato, non senza considerare che l’art. 3 del Regolamento comunale n. 5625 del 1983 prevede che, alla scadenza della concessione, si debba provvedere al suo rinnovo a meno che non sussistano fondate ragioni per rientrare nel possesso del bene, fermo restando che, per il periodo di occupazione senza titolo, il concessionario è tenuto a pagare il medesimo canone pagato vigente il titolo concessorio.
Conclusivamente la parte chiede la declaratoria di prescrizione, la disapplicazione, ove occorra, del regolamento 201/1996 del Consiglio Comunale e il rigetto delle domande della Procura e, in via subordinata, ai sensi dell’art. 83, 2° comma n.c.g.c., ridurre a zero la percentuale di responsabilità nei confronti della convenuta per totale responsabilità della Romeo Gestioni s.p.a, con vittoria di spese, competenze ed onorari.
La dott.ssa Cinzia Marani si è costituita in giudizio con il patrocinio dell’avvocato Stefano Rossi e il difensore, ripercorsa la cronistoria dei fatti, ha sostenuto la mancanza degli elementi di cui all’art. 86 n.c.g.c. e la nullità della citazione, l’inammissibilità dell’appunto presentato dal P.R. con argomentazioni aggiunte, la prescrizione dell’azione, la manifesta infondatezza, in fatto e in diritto di tutti gli addebiti. Si sostiene poi l’abuso della potestà punitiva per l’esagerato numero di citazioni e, ricostruita la normativa in materia di concessioni, si rileva che non sussisterebbe alcun automatismo tra la scadenza della concessione e l’affitto a prezzi di mercato per beni destinati ad utilità sociale tant’è che la richiesta di ottenere il canone a prezzi di mercato è stata impugnata davanti al TAR. Inoltre la gestione dei beni era affidata alla Romeo gestioni s.p.a. e, comunque, sussisteva una preesistente disorganizzazione degli uffici e carenza di personale di cui non si è tenuto minimamente conto. La scadenza del termine di 120 giorni non esauriva il potere del Comune di provvedere al riguardo e non sono state indicate le condotte riferibili a colpa grave della Marani, che non aveva ricevuto alcuna consegna all’atto del suo insediamento, mentre è stata esclusa la chiamata del responsabile del procedimento dott. Colalillo.
Si insiste, poi, per l’inesistenza di un danno erariale certo, attuale e concreto e per la erronea quantificazione di esso. Mancherebbe, inoltre, l’elemento soggettivo non essendo definiti i comportamenti riferibili a colpa grave della Marani, che era al suo primo incarico in un Dipartimento che era stato senza dirigente per 8 mesi. La difesa eccepisce anche la prescrizione dell’azione e chiede la compensatio lucri cum damno, poiché l’Agorà ha fatto lavori nell’immobile, nonché l’uso del potere riduttivo.
Conclusivamente la parte chiede, previa riunione del procedimento con gli altri, di assolvere la dott.ssa Cinzia Marani e, comunque, di rigettare l’azione risarcitoria per le ragioni esposte ivi inclusa la prescrizione. In via subordinata chiede la riduzione dell’addebito e la compensazione del danno con i vantaggi avuti da Comune.
Alla precedente udienza del 21 febbraio 2017, su istanza del P.R. e per consentire una trattazione unitaria almeno di un rilevante numero di ricorsi e la loro eventuale riunione, si è disposto il rinvio alla presente udienza.
All’odierna pubblica udienza il P.R. ed i difensori delle parti presenti hanno ribadito ed ampiamente illustrato le proprie tesi degli scritti e confermato le rispettive conclusioni.
DIRITTO:
Il P.R., nel presente giudizio, ha chiesto la condanna delle parti citate in epigrafe che, nelle rispettive qualità di dirigenti del Comune di Roma, egli ha ritenuto responsabili del danno, a suo avviso derivante dalla differenza tra il prezzo agevolato della concessione (20% del prezzo di mercato) del bene immobile descritto in fatto e detto prezzo di mercato in quanto, allo scadere dei 120 giorni previsti dall’ordinanza provvisoria per l’emanazione del provvedimento concessorio definitivo, o, comunque, alla scadenza della concessione, si sarebbe dovuto procedere alla riacquisizione del bene e provvedere alla sua locazione a prezzo corrente di mercato o pretendere tale importo dall’assegnatario, ma ciò non è stato fatto.
L’ipotesi oggi all’esame, pertanto, non riguarda casi di morosità per canoni di locazione di appartamenti o altri beni del patrimonio disponibile gestibili secondo le regole del mercato (questione che, più propriamente, potrebbe inquadrarsi nel fenomeno della c.d. “affittopoli”) ma riguarda, unicamente, la tesi, che sostiene il P.R., secondo cui il canone concessorio di beni demaniali o del patrimonio indisponibile, avrebbe dovuto essere incrementato fino al prezzo di mercato in caso di mancata formalizzazione dei provvedimenti concessori, o di tardività degli stessi, o di mancato loro rinnovo, sia pure assentiti con provvedimenti provvisori.
Le parti convenute hanno sollevato plurime eccezioni pregiudiziali e preliminari, non immediatamente risolvibili anche per la fondata previsione di necessità istruttorie sui relativi punti, ma si ritiene, considerato anche il primario interesse delle parti stesse ad ottenere una pronuncia di merito favorevole, che, per economia processuale, possa affrontarsi subito la questione di merito dirimente. Tanto è consentito in applicazione della giurisprudenza della Cassazione che, con sent. n. 17/03/2015 n. 5264, ha ribadito il suo precedente orientamento secondo cui una domanda può essere respinta sulla base di una questione assorbente, pur se logicamente subordinata, senza che sia necessario esaminare tutte le altre, essendo ciò suggerito dal principio di economia processuale e da esigenze di celerità anche costituzionalmente protette dall’art. 111 Cost. (v. Cass. 16/05/2006 n° 11356 ma anche Cass. 27/12/2013 n° 28663). In particolare la Cass. (sent. 28/05/2014 n. 12002), ha affermato che “il principio della ragione più liquida, imponendo un approccio interpretativo con la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo, piuttosto che su quello della coerenza logico-sistematica, consente di sostituire il profilo di evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare, di cui all’art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze di economia processuale e di celerità del giudizio, costituzionalizzata dall’art. 111 Cost., con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione, – anche se logicamente subordinata – senza che sia necessario esaminare previamente le altre” (così v. anche Cass. 22/01/2015 n° 1113)”.
Ciò posto, si osserva che la tesi del P.R. non convince.
L’ordinanza del Sindaco n. 3483/1997 di provvisoria concessione è stata, infatti, emessa ai sensi delle deliberazioni regolamentari comunali n. 5625/1983, n. 26/1995 e n. 202/1996 che prevedevano la assegnazione di beni demaniali o patrimoniali indisponibili per le utilità sociali ivi previste (anche culturali) con pagamento di canone ridotto al 20% del prezzo di mercato.
Nulla eccepisce parte attrice su tale ordinanza i cui firmatari e proponenti non sono stati citati o, comunque, sul fatto che i beni e i destinatari di essi non fossero stati, originariamente, correttamente individuati a fini concessori per le finalità socio-culturali.
Non viene contestato, pertanto, che detti beni potessero essere dati in concessione al prezzo ridotto indicato e ai destinatari individuati per le finalità da essi perseguite, ma il P.R. ritiene che l’assegnazione a dette condizioni potesse valere solo fino allo scadere del termine di provvisorietà entro il quale doveva emettersi il provvedimento definitivo, invece non intervenuto, o, comunque, valesse solo fino alla scadenza del termine concessorio ove intervenuto.
Ritiene parte attrice che, dopo detti termini, il bene avrebbe dovuto essere riacquisito e locato, a mezzo gara, a prezzi di mercato, cosa che non è avvenuta ed il danno consisterebbe in tale mancata entrata differenziale.
Deve al riguardo osservarsi che la particolarità dei locali individuati, destinati, comunque, a usi di pubblica utilità sociali e culturali, non li rendeva utilizzabili e sfruttabili alla stregua di locali da affittare e, quindi, tale peculiarità rafforzava la natura di beni non fruibili sul libero mercato e rientranti tra quelli per i quali era prevista, dai regolamenti comunali 5625/1983, 26/1995 e 202/1996, una utilizzazione a prezzo ridotto e agevolato per finalità sociali e culturali.
In disparte ogni altra considerazione, pertanto, la scadenza del termine senza che fosse intervenuta la concessione definitiva o senza che la stessa fosse stata rinnovata, non cambiava la natura del bene e la sua utilizzabilità alle stesse condizioni agevolate attuate con il provvedimento originario con conseguente impossibilità di praticare, per esso, un prezzo di mercato.
D’altro canto, come è stato rilevato, sarebbe singolare che l’inosservanza, da parte del Comune, del rispetto del termine per la conclusione o per il rinnovo del procedimento concessorio, si possa risolvere in un pregiudizio per la parte che lo subisce e che dal silenzio dell’amministrazione possa derivare la risoluzione del rapporto in quanto ciò contrasterebbe con l’art. 20 della legge n. 241/1990, di rango superiore rispetto ai regolamenti, che qualifica il silenzio dell’Amministrazione come silenzio assenso.
Non si esclude che una diversa e più accorta gestione del patrimonio avrebbe consigliato modalità di regolamentazione più ponderate e più attente al pubblico interesse, ma tanto non è oggetto del presente giudizio, né, nel caso, riguarda le parti convenute che non possono essere chiamate a rispondere per la diversa causa petendi più volte indicata.
Non si ravvisa, pertanto, l’esistenza del danno e manca, quindi, l’elemento presupposto per poter riconoscere responsabilità delle parti chiamate nella presente fattispecie ed esse devono, conseguentemente, mandarsi assolte dalla domanda attrice.
Né l’esistenza di precedente sentenza, peraltro appellata, su fattispecie analoga, limita questo Collegio ad una diversa valutazione stante la non vincolatività della giurisprudenza.
Lamentano talune parti le modalità con cui il P.R. ha sviluppato l’azione, instaurando, nei confronti di almeno alcune di esse, un numero di giudizi che viene ritenuto persecutorio, e concretizzante abuso del processo e, pertanto, chiedono la applicazione dell’art 96, 3° comma c.p.c. per la responsabilità aggravata.
Al riguardo si osserva che, di per sé, la scelta attorea di non operare ab origine con un unico atto di citazione o con pochi atti cumulativi, ha comportato l’effetto positivo di una maggiore attenzione su ogni singolo caso e ha reso più gestibile la trattazione dei giudizi che, comunque, si riferiscono a chiamati o gruppi di chiamati non sempre identici. Ciò rende evidente la mancanza, comunque, dell’intento persecutorio adombrato dalle parti e dimostra l’inesistenza dell’elemento soggettivo (dolo o colpa grave) di parte attrice che la giurisprudenza ha ritenuto necessario per il concretizzarsi della fattispecie.
Infatti, per un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma e per evitare che il Giudice possa applicare ad libitum la predetta sanzione in caso di soccombenza, la disposizione non può che essere applicata a quelle condotte che siano imputabili soggettivamente alla parte a titolo di dolo o colpa grave, ovvero ad una condotta negligente che abbia determinato un allungamento dei termini del processo (cfr Tribunale di Terni, 17 maggio 2010 e anche Tribunale di Varese, 27 maggio 2010).
Ove si prescindesse dai predetti requisiti, dal solo agire o resistere in giudizio potrebbe derivare la giustificazione della condanna (cfr Tribunale Verona 28 febbraio 2014) in contrasto anche con l’art. 24 della Costituzione.
D’altro canto, la mancanza di abuso e dell’elemento soggettivo del dolo o della colpa grave può desumersi sia dal fatto che l’esistenza di molti casi da perseguire era un fatto obiettivo, sia dall’esistenza di una precedente sentenza che ha innescato una serie di ulteriori procedimenti.
Né si può ritenere che l’esistenza di più citazioni sia più vessatoria di un’unica citazione, ove, cumulativamente, la somma richiesta sia la stessa del totale delle singole considerata anche l’estrema difficoltà e/o ingestibilità di un unico giudizio comprendente oltre trecento casistiche.
Da tanto consegue che, ferma restando la possibilità dei singoli Collegi di valutare le modalità di trattazione, anche allo stato non si ritiene utile, nel caso, la riunione dubitandosi fortemente che essa si risolverebbe in una concreta semplificazione dell’attività difensiva.
Le spese legali si liquidano nella misura di €. 1.000,00 (mille/00) per ciascuna parte.
P.Q. M.
La Corte dei Conti – Sezione giurisdizionale per la Regione Lazio, ogni contraria istanza ed eccezione reiette, definitivamente pronunziando,
RIGETTA
– la domanda del P.R. e, per l’effetto, assolve le parti convenute in epigrafe dalla domanda attrice;
– l’istanza delle parti convenute per l’applicazione dell’art. 96 3° comma c.p.c..
Le spese legali si liquidano nella misura di €. 1.000,00 (mille/00) per ciascuna parte oltre spese generali IVA e CPA.
Così deciso in Roma, nelle Camere di consiglio del 6 aprile, 10 aprile e 11 aprile 2017.
Il Presidente Estensore
F.to Piera Maggi
Depositata in Segreteria il 18 aprile 2017
Il Dirigente
F.to Dott.ssa Paola Lo Giudice