Niente blocco. Oggi un pezzo del Paese è a rischio: per la prima volta dopo oltre trent’anni la legge di Stabilità varata a fine dicembre non ha rinnovato il blocco degli sfratti per finita locazione. Un diritto riconosciuto ai nuclei familiari con determinati limiti di reddito (27mila euro lordi l’anno) e con a carico persone malate, minori o anziani. L’ultima proroga è scaduta a fine anno, fra l’esultanza diConfedilizia – l’associazione dei proprietari che chiede al governo di non scaricare sui privati il problema abitativo – e la disperazione dei sindacati degli inquilini, secondo i quali ci sono fra le 30 e le 50mila famiglie a rischio. Non esistono cifre ufficiali invece per l’altro tragico effetto dell’emergenza abitativa: quella degli immobili violati e occupati. Fenomeno che riguarda soprattutto le case popolari (stime parziali parlano di 15mila illeciti solo fra Roma e Milano), dove si entra abusivamente approfittando di una momentanea assenza del legittino inquilino o per le quali si punta ad una sanatoria (o al comodato, come avvenuto a Parma tra mille polemiche), contando sulle lentezze dei bandi comunali che ne determineranno le assegnazioni e la vendita.
Pubblico e privato poca chiarezza. Il fatto è che, sempre ammesso che i soldi entrino in tempo nelle loro casse, ed emergenza sfratti a parte, il problema abitativo resta tutto da risolvere: sia nel settore privato, dove le case restano vuote e gli affitti languono, che nel settore pubblico, dove i meccanismi di assegnazione sono poco chiari. Per Guido Piran, segretario generale del Sicet, sindacato degli inquilini, l’emergenza attuale si risolve solo rilanciando l’edilizia pubblica e ristrutturando in primis il patrimionio esistente. “Ma l’edilizia pubblica, come la sanità, costa”. La gravità attuale, assicura, “nasce dal fatto che gli affitti privati sono troppo alti e la locazione concordata non esiste più. Puntare sul taglio delle tasse a carico del locatore, la famosa cedolare secca, è stato un errore. Quella misura non ha funzionato, non ha prodotto una riduzione degli affitti”. Quanto all’edilizia pubblica, per Piran è essenziale “ridefinire la norma di alloggio sociale: oggi è equivoca. Serve una legge quadro sull’edilizia pubblica che chiarisca chi ha diritto ad usufruirne e in base a quali criteri: ora ogni Regione va per proprio conto, decide da sola anche i limiti di reddito e le iniquità sono evidenti”. E soprattutto servono più risorse: “Vanno coinvolti i privati, va studiata una politica fiscale d’appoggio, ma le cifre di cui parla il governo arrivano tardi e coprono più anni. In Europa si fa molto di più, il solo Regno Unito spende 2 miliardi di sterline l’anno”.
Roma a caccia di morosi con un software di MARIO REGGIO
E all’assessorato alle Politiche abitative del Comune di Roma, dopo le dimissioni di Daniele Ozzimo, indagato nell’inchiesta Mafia Capitale, non c’è alcuna voglia di parlare. Ma qualcosa riesce a filtrare lo stesso: “Il governo non ha ripresentato il decreto di blocco degli sfratti – dice un dirigente che chiede di restare anonimo – ma la questione riguarda solo i contratti scaduti per fine locazione, ergo sono esclusi quelli di morosità e non sono ovviamente coinvolti gli enti che gestiscono le case popolari. Per Roma parliamo di alcune migliaia di famiglie che si aggiungeranno a quelle già in lista attesa. Al momento il Comune di Roma non è in grado di gestire questa situazione drammatica. Un esempio concreto: su 10 casi segnalati dagli assistenti sociali, che riguardano soprattutto i “nuovi poveri”, solo uno viene risolto. Senza contare le famiglie che vivono nei residence, una scelta che dovrebbe essere provvisoria e che invece è diventata endemica con costi di milioni di euro per Roma Capitale”.
Come uscire dall’emergenza. “L’emergenza abitativa è una condizione strutturale dal dopoguerra – rispone Daniel Modigliani, commissario straordinario dell’Ater – ma sono contrario al suo uso strumentale, mantenere l’emergenza fa comodo sia alla politica che agli utenti. Manca e servirebbe una ricognizione puntuale dei numeri e delle emergenze, per programmare una concreta politica abitativa. Faccio un esempio. La domanda di alloggi è cambiata: servono tipologie di immobili più piccole rispetto al passato, mentre sono cambiati i nuclei familiari che sono aumentati ed hanno meno componenti”.
E con l’emergenza non si ferma il mercato clandestino. Nel 2013 ottocento persone sono state denunciate per occupazione abusiva di alloggio. E ogni anno centinaia di case passano di mano in maniera abusiva, subaffittate o vendute. Negli anni passati andava di moda il passaparola, oggi con internet è cambiato tutto. È cresciuto e si è consolidato un racket che entra in azione quando una famiglia si assenta per qualche settimana. Basta un click e la casa viene venduta dopo aver sostituito la serratura. Sono lontani i tempi di Cristiana Petriacci, alias “la padrona di Testaccio”, finita poi in carcere con l’accusa di estorsione e truffa per aver gestito la compravendita di immobili dell’Ater. La signora si avvaleva di un esperto del settore, più noto come “Er tapparella”, in grado di entrare negli appartamenti vuoti passando dalla finestra o dal balcone.
I numeri dell’Ater. Un po’ di storia. L’Istituto Case Popolari nasce nel 1903, sindaco di Roma il principe Prospero Colonna. Nel 1928 diventa Istituto Autonomo Case Popolari. Nel 2002 si trasforma nell’azienda territoriale edilizia residenziale pubblica del comune di Roma. La proprietà è della regione Lazio. Il suo patrimonio è valutato attorno a 10 miliardi di euro e comprende: 47.674 alloggi, 3.126 locali, 27.905 cantine, 147 terreni e 159 cartelloni. I dipendenti sono 482. Nel 2013 ha incassato 23 milioni di euro dagli affitti, mentre il 24,2 per cento degli inquilini risulta moroso. Mancano all’appello 7 milioni e 386 mila euro. Malgrado tutto, i conti dell’Ater non vanno poi così male. Dopo anni di perenne deficit, nel 2013 il conto economico ha registrato un avanzo di oltre 7 milioni di euro. “Abbiamo scoperto che i bilanci degli ultimi anni non erano mai stati approvati – afferma Claudio Rosi, direttore generale dall’ottobre del 2013 – dopo un lungo periodo di sonno profondo, l’Ater comincia a marciare”. E snocciola una serie di progetti.
L’azienda ha presentato alla Regione Lazio un programma quadriennale per la costruzione di 651 nuovi alloggi con un costo complessivo di 84 milioni di euro. E sulla manutenzione ci sono 18 gare d’appalto per 40 milioni di euro. Ma l’asso nella manica dell’Ater è la nuova piattaforma informatica per la gestione del patrimonio immobiliare che è collegata con la Guardia di Finanza. Il programma è stato “girato” a Roma Capitale, l’azienda casa della Provincia di Torino, di Trieste e Bologna. “Grazie alla piattaforma informatica – conclude Rosi – stiamo recuperando la morosità e siamo arrivati a incassare, assieme ai proventi che derivano dagli affitti e dai servizi, circa 130 milioni di euro”. E dopo anni di vacche magre sono in arrivo dalla Regione Lazio 19 milioni di euro per la manutenzione di Corviale, il serpentone sulla via Portuense.
Il caso Corviale. Il cosiddetto “serpentone” è lungo 996 metri, alto nove piani e ospita 1.200 appartamenti, dove vivono 5mila persone. “Quelli del quarto piano”, gli abusivi che si sono costruiti la casa da soli negli spazi destinati a negozi e attività artigianali, alloggiano in 124 case e dovrebbero essere 4-500, ma nessuno sa in realtà quanti siano. Una visita al quarto piano è d’obbligo. Cancelli dappertutto, panni stesi sui ballatoi, fili volanti che si collegano con le centraline. Sì, perché gli abusivi hanno fatto le cose perbene: non pagano la luce, nè ovviamente l’affitto e neanche le spese condominiali. È ora di pranzo. Si sentono tv accese. Una signora fa capolino. “Non parlo con nessuno – esordisce – fatevi gli affari vostri”. Domanda: “Sa che vogliono ristrutturare le vostre case”. Risposta: ” Da qui non se ne va via nessuno, non ci provassero e ora mi lasci in pace che devo andare lavorare”. Poi sbatte la porta.
Tor Sapienza e San Basilio. L’anello stradale che circonda Tor Sapienza si chiama via Giorgio Morandi. All’intero, il grande quadrilatero delle case popolari. Nei 504 appartamenti abitano quasi duemila persone. Poi ci sono gli abusivi, cioè gli occupanti. Lungo il cortile interno un serpente ad un piano di quelli che avrebbero dovuto essere i negozi. Ci hanno provato, ma poi Auchan e Carrefour, che sorgono a poca distanza, hanno massacrato qualsiasi attività. Ergo, i locali sono stati occupati da famiglie al limite della povertà ed immigrati e rom. Impossibile entrare in questo girone infernale. A parte il buio la risposta è sempre la stessa: “Niente domande, andate via…..”. Altro caso esemplare è quello di San Basilio. Qui la storia è diversa dalle altre. Primi anni 70. Il governo Fanfani decide di varare un robusto piano di edilizia popolare. E proprio a San Basilio sorgono come funghi i quadrilateri delle case popolari. Partono le occupazioni. Nel settembre del ’74 la questura decide lo sgombero di 150 famiglie. Un gigantesco spiegamento di poliziotti inizia le operazioni. Il quartiere scende in piazza. La polizia si ritira. L’8 settembre torna in forze. Fabrizio Ceruso, 18 anni, perde la vita colpito da un proiettile di pistola. Da tutta la città arrivano migliaia di manifestanti, la polizia ingaggia una battaglia senza esclusione di colpi, ma San Basilio non cede. Oggi è tutta un’altra storia. A San Basilio vivono 3 mila e 400 famiglie nelle case popolari più le 700 che hanno occupato gli alloggi ma hanno beneficiato della sanatoria. Oggi il verde è aumentato, campeggiano quattro murales uno dei quali dedicato a San Basilio e a Fabrizio Ceruso. Per il resto si tira avanti. “Gli spacciatori ci sono anche ai Parioli…. ognuno di noi ha i suoi problemi, come tutti…”
L’esistenza stravolta di chi subisce lo sfrattodi MARIA ELENA SCANDALIATO
Siamo andati nel residence sociale “Aldo dice 26×1”, a Sesto San Giovanni; un enorme stabile dell’Alitalia occupato da diversi comitati per la casa, dove trovano alloggio quasi cento inquilini, di cui una trentina bambini. Si tratta di famiglie in emergenza abitativa, che hanno subito uno sfratto e che magari sono da anni nelle liste dell’Aler, in attesa di ricevere una casa popolare. Le loro storie si assomigliano molto: iniziano tutte con un affitto di sei-settecento euro al mese e un lavoro a basso reddito che all’improvviso viene meno. A quel punto diventa impossibile continuare a pagare e i debiti si accumulano per mesi. Fino all’arrivo dello sfratto, che tutti pensano di procrastinare, ma che alla fine bussa puntuale alla porta di casa, costringendo gli inquilini a prendere quel che possono e a lasciare l’alloggio immediatamente.
“Sono riuscita a raccogliere appena quattro stracci”, racconta Anila, sfrattata con suo marito e il loro bambino da un appartamento di Quarto Oggiaro. “I mobili e tutto il resto ho dovuto lasciarli lì, perché portarli via mi sarebbe costato troppo”. Stesso copione per Antigua, madre sola con due figli, entrambi minori: “Ho fatto in tempo a preparare due valigie e andar via. Nessuno mi ha proposto una soluzione alternativa. Mi sono ritrovata con i miei figli da sola, in mezzo alla strada. Una situazione che non auguro a nessuno”.
Nel 2014 Milano ha registrato oltre 13mila richieste di sfratto esecutivo: 4mila per finita locazione, il resto per morosità. A pagarne le spese sono soprattutto i bambini, i cui bisogni vengono pressoché ignorati. Ahmed è stato sfrattato a marzo e si è rivolto subito al Comune di Milano in cerca di una soluzione d’emergenza. Non tanto per sé e sua moglie, quanto per i suoi figli di nove e undici anni che il giorno dopo dovevano andare a scuola: “Mi hanno detto di arrangiarmi. Sono riuscito a pagare un albergo per una settimana, e poi sono andato alla Caritas. Alla fine un consigliere di zona mi ha suggerito di venire qui, in questo residence. È un posto occupato, ma almeno i miei figli hanno un tetto sulla testa”.
Senza Caritas e comitati i figli di Ahmed, come quelli di molte altre famiglie, sarebbero rimasti in mezzo alla strada. Non solo a marzo, ma anche nel freddo invernale. “Alle famiglie con minori vengono offerte quasi sempre delle soluzioni alternative – afferma Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche Sociali del comune di Milano – sono pochissimi i casi di persone che dormono in macchina”. In effetti, una donna cui è stata proposta una soluzione alternativa l’abbiamo incontrata: si chiama Francesca e ha tre figli di sette, quattordici e sedici anni. Quando è stata sfrattata il Comune ha offerto a lei e alla sua bambina più piccola un posto in una comunità protetta, dove sono ospitate madri con minori vittime di violenza. Purtroppo, però, questa comunità si trova in un paesino della provincia di Asti, decisamente lontano da Milano. I due figli più grandi, che il comune avrebbe destinato a una struttura per adolescenti chissà dove, alla fine sono andati a stare con la nonna, a Monza. La famiglia, quindi, è divisa da più di un anno e lo resterà finché a Francesca non sarà assegnato un alloggio Aler. “È un’esperienza dura, perché gli altri bambini della comunità hanno dei problemi molto seri e mia figlia non c’entra niente con loro”, racconta Francesca. “Mangiamo solo pollo e riso, tutti i giorni. E in quel paesino non posso certo cercare lavoro. Per guadagnare qualche soldo e dare a mia figlia del cibo diverso faccio dei lavoretti per le educatrici della comunità. Stiro i loro abiti, lavo la loro auto… Cose così, per avere qualche soldo in tasca”.
Senza contare la distanza dagli altri figli. “Se penso che il Comune di Milano spende 4500 euro al mese per tenerci lì, mi viene da piangere. Se avessero dato a me quei soldi, avrei risolto tutti i miei problemi”. E qui scopriamo i “numeri” di questo sistema emergenziale, poco efficiente ma costosissimo. Il Comune di Milano, nel 2012, ha inserito in comunità 404 minori accompagnati dalle madri, e 844 minori soli; per farlo, ha speso ben 30 milioni e 661mila euro. Cifra che nel 2013 è salita a 32 milioni. Somme da capogiro, con le quali si sarebbe potuto fare ben altro, soprattutto per le famiglie sfrattate. Un budget che, d’altronde, lo stesso Majorino intende ridimensionare: “Abbiamo avviato il progetto della residenzialità sociale temporanea, con cui daremo a mille persone, ogni anno, uno sfogo abitativo di emergenza”. Il progetto dovrebbe partire nel 2015. Ad oggi, però, il Comune continua a spendere tra i 70 e i 90 euro al giorno solo per collocare in comunità un minore sfrattato. Cifra che raddoppia in presenza della madre.
Il flop dei centri d’emergenza di Milanodi MARIA ELENA SCANDALIATO
I centri di emergenza sociale a Milano sono due e godono di una pessima fama: uno si trova in via Barzaghi, l’altro in via Lombroso. Si tratta di strutture della Protezione Civile adattate, con grande difficoltà, a ospitare delle famiglie che possono restare al massimo 40 giorni (prorogabili in condizioni particolari), ricevendo una branda per ogni membro di più di tre anni, l’uso di cucine comuni e l’uso di bagni comuni.
La struttura di via Barzaghi, che abbiamo visitato, può ospitare un centinaio di persone dislocate in quattro camerate. Uomini, donne e bambini dormono negli stessi ambienti, separati da “capannine” costruite dagli ospiti incastrando manici di scopa e tende da doccia, per garantire almeno un minimo di privacy. La gestione del centro è affidata alla Fondazione Progetto Arca, che nel 2013 ha stipulato una convenzione con il Comune di Milano. Nonostante la struttura si mostri già in pessime condizioni, la situazione potrebbe essere peggiore di quanto sembri. “È un luogo terribile, dov’è impossibile lavorare”, racconta uno degli operatori del centro, che ci ha contattati dopo la nostra visita.
Stando alla testimonianza in via Barzaghi gli educatori si trovano costretti a gestire non solo le decine di ospiti presenti, ma anche la portineria (il portone è rotto), i macchinari (dalle lavatrici ai forni delle cucine) e l’ingresso dei mezzi della Protezione civile, parcheggiati nel cortile della struttura. Senza contare la presenza di infiltrazioni di acqua e i servizi igienici di difficile utilizzo: “Il bagno degli uomini sarebbe privo di acqua calda, mentre le turche (non ci sono water) sono inutilizzabili per i bambini più piccoli”.
Ecco perché nessuno accetta l’alternativa dei centri di emergenza, dove si dovrebbero costruire dei percorsi di “autonomia abitativa”. Gli unici a essersi adattati sono i Rom, che pure abituati a condizioni di vita pessime non meritano certo di abitare in un luogo simile. Un luogo subìto soprattutto dai bambini, che non vengono neppure accettati nelle scuole di prossimità. Racconta ancora l’operatore che ci ha chiesto di rimanere anonimo: “Li rifiutano perché gli altri genitori non li vogliono. L’anno scorso a dicembre sono arrivati dei piccoli che sono riuscita a iscrivere a scuola solo a marzo. A novembre è arrivata una famiglia con 5 figli. Nonostante le mille telefonate e le lettere ai dirigenti scolastici, ancora non hanno un posto in nessun istituto. E pensare che ci sarebbe l’obbligo scolastico”.
Tra affitto e proprietà, il progetto Abita Giovanidi EDOARDO BIANCHI
Deguene, ingegnere civile e mamma di due bambini, racconta con entusiasmo la sua esperienza in questo progetto. Ci descrive l’iniziativa del gruppo su Facebook che le ha dato l’opportunità di ottimizzare le spese per l’appartamento. Grazie al gruppo social, ha avuto modo di chiedere suggerimenti a chi facesse già parte del programma e quindi con più esperienza in merito. La pagina web rappresenta un modo per avvicinare le persone attraverso interazioni telematiche che rendano partecipi tutti coloro che hanno aderito al progetto Abita Giovani.
Alice ci racconta come l’iniziativa funzioni e che oggi giorno, secondo la ventottenne studente di veterinaria, è uno dei programmi più interessanti per i giovani in cerca di un’appartamento. Si sofferma inoltre sui costi relativamente bassi d’affitto e come a quel prezzo sia difficile trovare un’offerta migliore nel panorama milanese. Dario, impiegato in una banca, ci spiega come l’acquisto di una casa oggi sia estremamente difficoltoso per un giovane con un reddito di fascia media, anche con possibilità di accesso a mutui agevolati. Nello specifico, sostiene che senza aiuti da parte del nucleo familiare l’investimento in immobili sia possibile solo grazie al sostegno di realtà quali quella di Abita Giovani.
Caterina, insegnante in un sobborgo di San Siro, nonostante abbia trovato attraverso questo programma una soluzione abitativa, si sofferma sulla svendita del patrimonio pubblico immobiliare in Lombardia. A tal proposito, si chiede come mai non vengano più costruiti alloggi popolari e perché quelli esistenti vengano dismessi. Ritiene inoltre i criteri di selezione dell’Housing Sociale buoni per le persone di ceto medio, ma non idonei per le famiglie meno abbienti.
I programmi per agevolare l’acquisto immobiliare sono in costante aumento a seguito del positivo esito dei programmi come Abita Giovani e di altri progetti che stanno prendendo piede a Milano. Oggi le persone in possesso di un lavoro a tempo indeterminato e con meno di 35 anni possono permettersi attraverso un contratto d’affitto con futura vendita una casa di proprietà. Resta da capire se l’organizzazione sia volta a far ripartire una città immobilizzata che presto ospiterà una manifestazione di livello mondiale come l’Expo, o se sia l’ennesimo bacino che verrà sfruttato per interessi e ritorni economici.
A Napoli fallisce uno sgombero su duedi TIZIANA COZZI
I grandi numeri, anche se inferiori a Milano, riguardano anche gli sfratti che hanno diritto alla sospensiva. Ma se nella città del Duomo si è provveduto in altri modi all’assegnazione di nuovi alloggi, all’ombra del Vesuvio il provvedimento ora negato dal governo resta l’unica speranza. “A Napoli c’è esigenza della sospensiva – spiega Gaetano Oliva, Cgil Casa Napoli – perché non c’è nient’altro che abbia messo in moto nuove assegnazioni. L’ultimo bando è del 2010 e in 4 anni hanno esaminato solo 8 mila pratiche, non si riesce nemmeno a pubblicare la graduatoria provvisoria”. L’ultima risale a 20 anni fa e su 20 mila aventi diritto, in 15 anni è stata data sistemazione a 1.500 famiglie. “Questo vuol dire che un’intera generazione è tagliata fuori – sottolinea Oliva – non avrà diritto a un bel niente. La nostra preoccupazione è che torneranno gli ufficiali giudiziari a bussare alle case, come accadde nel 2010, con il governo Berlusconi, quando in un mese si contavano a Napoli 6-7 esecuzioni di sfratto. Si buttava fuori gente che non sapeva dove andare. Il ministro Lupi risponda sui fatti e intervenga concretamente sulla nostra emergenza”.
Anche le agevolazioni per morosità incolpevole non hanno sortito grandi effetti. Su un fondo di 1 milione e 400 mila euro assegnato alla Campania, a Napoli sono ben poche le domande arrivate al Comune, per questo l’avviso pubblico è stato prorogato fino al 15 febbraio. Eppure si contano circa 2.400 morosi incolpevoli tra Napoli e provincia.
Nel 2013 sono 3.320 gli sfratti emessi di cui 1.505 a Napoli e 1.815 in provincia. L’80 per cento sono sgomberi per morosità, si tratta appunto di inquilini che non ce la fanno più a pagare, un fenomeno sempre più frequente in provincia. La crisi corrode le possibilità economiche anche dei proprietari. Accade sempre più spesso che chi possiede un solo immobile non abbia la forza economica per fare causa al suo inquilino moroso. Non tutti gli sfratti emessi nel 2014 sono stati eseguiti proprio perché il proprietario non poteva rivolgersi ad un avvocato per aprire la procedura. Così gli inquilini morosi continuano a restare in casa. Sono stati 2.684 gli sfratti esecutivi per morosità (1.382 in provincia e 1.302 in città). Quasi seimila (5.849) invece le richieste di esecuzione di sfratto, cioè quelle in cui la procedura è stata avviata e si attende solo l’arrivo degli ufficiali giudiziari.
Polemiche a Parma per edifici in comodatodi MARIA CHIARA PERRI
Proprio nelle ultime settimane la giunta 5 Stelle ha deciso di risolvere il problema di due occupazioni, in un ex cinema e in uno stabile privato, scendendo a patti con gli occupanti e con i loro sostenitori. Come? Concedendo alle famiglie uno spazio pubblico in comodato d’uso. Una soluzione che ha scatenato una marea di polemiche.
L’assessore ai Servizi sociali Laura Rossi difende la scelta, spiegando che si tratta di una soluzione temporanea d’emergenza, per fare uscire dall’illegalità famiglie disperate che solo così potranno essere prese in carico dai servizi sociali. Dall’altra, l’opposizione politica parla di “premio all’illegalità”. Una scorciatoia concessa a chi commette reati rispetto ai tanti che rispettano la legge. Il dito è puntato non tanto contro l’accoglienza ai senzatetto, ma contro la decisione di concedere parte dello stabile anche alle attività di un centro sociale pur di mettere fine all’occupazione, mentre tante altre associazioni aspettano in fila il benché minimo contributo.
Ragioni contrapposte su un problema delicato, destinato a ripresentarsi presto: altri due condomini in centro sono occupati da 13 famiglie con otto bambini, tra cui due gemelline neonate. I tecnici si sono già presentati per staccare il gas.