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Tutto sull’ “ubercapitalismo”

Ecco i numeri della nuova “economia collaborativa”.
Il fenomeno più imponente di questa fase di “sboom” economico
Ultime notizie dall’ubercapitalismo. Airbnb vale 26 miliardi di dollari, ha raccolto fondi per 2,3 e occupa circa 500 dipendenti. Snapchat è quotata dagli analisti 26 miliardi, ne ha raccolti 1,2 e dà lavoro fisso a 400 individui. Uber, varrebbe tra i 40 e i 50 miliardi, ha trovato risorse per 6 miliardi e ha circa 500 salariati diretti (esclusi, per ora, gli autisti).
Sono cifre, ancora ballerine e un po’ oscure, soprattutto quelle relative alle persone, rilevate dall’Economist, che ha quantificato in 74 il numero delle start-up dei settori tecnologici che fanno parte di quei particolari ”unicorni” di successo, ovvero le aziende che quotano più di un miliardo. Valore totale (anche qui, presunto) di tutti gli animali mitologici, oltre 273 miliardi di dollari.
Marx aveva già a suo tempo trovato una definizione perfetta per questa rivoluzione digitale. Nel 1846, quando definì la società comunista. ”La possibilità di fare oggi una tale cosa e domani un’altra, di cacciare al mattino e di pescare nel pomeriggio, di praticare l’allevamento la sera e di fare della critica dopo i pasti. Tutto a proprio piacimento, senza essere pescatore, cacciatore o critico”. Sono passi scritti dal filosofo nella sua opera L’ideologia tedesca, quando certo non arrivava a preconizzare che col socialismo reale qualcuno tra milioni si sarebbe arricchito immensamente.
Eppure sembrano pensati oggi per definire il pianeta delle condivisioni, dove il capitalismo sembra ammantarsi di libertà, nell’attimo stesso in cui genera immensi profitti e un miliardo di utenti in un solo giorno si connettono a Facebook regalandogli sogni, desideri e identità.
È l’economia collaborativa, che si è materializzata decenni dopo la caduta del Muro e sembra aver creato spazi inimmaginabili per i consumatori e per la creazione di plusvalore: sì, proprio ”quel” Capitale, che continua comunque a dividere i fattori della produzione da chi li impiega.
Possibile che il neo comunismo sia nella Rete e nelle sue centinaia di applicazioni mobili, che cominciano a vivere molto bene sulle spalle dei giganti over the top? È questo il modello finale della nostra società, come professano il giovane economista Gaspard Koenig, o Maurice Levy, il primo a parlare di ‘ubercapitalismo’ al Financial Times, e prevedono negli Usa (entro il 2020 il 40% dei lavoratori sarà indipendente), ovvero un mondo in cui si affitta un’auto o una casa e si vende e si compra di tutto, diventando una volta proprietari di una rendita, un’altra ancora strumenti della stessa?
Il saldo finale ha il segno più o bisogna aspettare l’esito della rivoluzione, durante la quale cadono parecchi teste? In Francia, dove non manca lo spirito rivoluzionario ma si è anche tradizionalisti, a questi interrogativi non ci sono risposte certe ma si segue con attenzione il germogliare dei frutti della trasformazione digitale, si contano con stupore e ammirazione le decine di nuove aziende che fasciano come un vestito da sarto ogni cliente e tra dieci anni varranno come le blu chips dell’indice Cac di borsa, secondo Pwc.
Oggi, non raggiungono la capitalizzazione di Solvay. Si chiamano Blablacar, Ornicar, Ouicar, Drivy, Heetch, Boaterfly, Etaussi, KissKissBankBank, Indiegogo, Ulule, Lendingckub, Lecollectionist, DemanderJustice e altri ancora e ancora, in una teoria di sigle senza fine dagli scopi utili e banali allo stesso tempo, se la nostra società non avesse smesso di funzionare.
Solo aggiungendo ai tre big suddetti da 100 miliardi di dollari gli altri sette magnifici ”unicorni”, Palantir, Spacex, Pinterest, Dropbox, Wework, Theranos e Square, si arriva a oltre 80 miliardi di dollari di valutazione e non più di 10.000 addetti. Insomma, molto capitale e poco lavoro. Lo avesse immaginato il buon Karl si sarebbe strappato barba e baffi.
Ma i settori tradizionali, a cominciare da quello cruciale del turismo alberghiero, sono in subbuglio e preparano la controriforma, a cominciare proprio dal paese transalpino.
D’altronde negli anni dell’eurocrisi l’economia digitale è cresciuta il doppio di quella reale e non si dovrebbero preoccupare solo a Parigi (dopo gli Usa, primo mercato per Uber e Airbnb).
Il settimanale francese Le Point, in una lunga inchiesta di copertina sulla rivoluzione del capitalismo, ha piazzato una tabella su cui riflettere: un confronto tra AirBnb e Accor, il gigante dell’accoglienza. I numeri, più di ogni altra cosa, devono far riflettere, senza alcuno spirito tecnofobico.
Airbnb, come ricordato, ha un valore di 24 miliardi di dollari, un giro d’affari di 900 milioni, 130 milioni di perdite, 500 dipendenti, nessun immobile di proprietà ma vende un milione di stanze nel mondo, mentre Hilton, Marriot e Intercontinental ne fanno 700.000 ciascuna impiegando più di mezzo milione di persone. Ecco perché insidia Accor, che vale 10,4 miliardi di dollari, ha un giro d’affari di 5,4 miliardi, utili per 233 milioni, 180.000 occupati e 495.072 camere in 3.792 paesi.
In teoria non dovrebbe esserci match, ma la crescita dell’ospitalità alternativa è esponenziale, a cominciare dalla città più visitata al mondo e da New York (rispettivamente 11% e 17% del mercato totale). Se cresce l’unicorno dell’affitto in proprio, se la condivisione si sostituisce al commercio, ai servizi, alle banche, agli avvocati, che fine faranno le decine di migliaia di posti di lavoro tradizionali, potranno davvero dirsi sostituite dai nuovi prosumers di beni e servizi (consumatori e produttori allo stesso tempo) o avrà ragione chi, come Hillary Clinton, ha parlato a questo proposito di nuovo ”precariato”?
Sono tutte domande scomode, forse ormai anche retrò, che occorre però porsi senza preconcetti. Il cambiamento epocale che stiamo vivendo quasi inconsapevoli in questo sboom senza fine deve in qualche modo essere sostenuto e allo stesso tempo governato, proprio per evitare che le prossime start-up siano soffocate nella culla da chi ha preso il dominio del web e si è fatto mercato.

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