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Rapporto sullo stato sociale 2017

Lunedì 15 maggio 2017, presso l’Edificio di Economia, si è tenuta la presentazione del “Rapporto sullo stato sociale 2017”, giunto alla sua dodicesima edizione. La presentazione del Rapporto, curato da Felice Roberto Pizzuti del Dipartimento di Economia e diritto con il sostegno del Master di Economia pubblica e il contributo di studiosi ed esperti esterni, rappresenta un appuntamento stabile di dibattito proposto dalla Sapienza sulle problematiche del welfare state nel contesto economico-sociale. Le questioni affrontate nel Rapporto di quest’anno riguardano la natura della “grande recessione” iniziata nel 2007-2008, le sue connessioni con l’ipotesi di una “stagnazione secolare”, la riduzione della dinamica della produttività, le proposte di decentramento contrattuale dei salari e i ruoli che possono essere affidati all’intervento pubblico e al welfare state per superare la crisi. Il Rapporto approfondisce le tematiche specifiche dello stato sociale in Italia e più in generale in Europa, le tendenze demografiche e migratorie, le politiche economico-sociali seguite dai responsabili dell’Unione europea e da quelli nazionali. In particolare, verranno analizzate le ultime riforme, le proposte e le tendenze nel mercato del lavoro, il sistema previdenziale pubblico e privato, il reddito minimo garantito, l’istruzione scolastica e universitaria, il sistema sanitario, gli ammortizzatori sociali e l’assistenza.

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Rapporto stato sociale 2017 Estratto




Nuove voci contro la povertà, primi vagiti di un nuovo welfare

Ci sono molte famiglie vulnerabili, che prima della crisi avevano un’adeguata capacità di far fronte ai propri bisogni e che ora l’hanno persa. L’isolamento aumenta la vulnerabilità. La soluzione? Costruire ambiti pubblici, luoghi civici in cui sia possibile segnalare i propri bisogni senza avvertire lo stigma.
In sintesi il ragionamento è questo: ci sono in giro molte famiglie vulnerabili; persone che prima della crisi avevano un’adeguata capacità di far fronte ai propri bisogni, ma che in questi ultimi anni hanno inciampato in qualcosa che ha cominciato a metterne in crisi l’equilibrio: la perdita del lavoro di uno dei componenti, l’aggravamento dei carichi familiari, problemi di salute, la separazione. L’esperienza ci dice che poche di queste persone sono arrivate a chiedere aiuto ai servizi sociali, bloccate da un lato dal pudore e, dall’altro, dai meccanismi con i quali funzionano i servizi tradizionali. Molte persone non vogliono riconoscere di aver bisogno di una mano, ma altrettante non hanno una rete di relazioni – parentali, amicali, di vicinato – in grado di aiutarli anche solo in termini di ascolto e di orientamento nella ricerca di risposte.

Quindi, si conclude la prima parte del ragionamento, isolamento e impoverimento aumentano la vulnerabilità di una fascia di popolazione che è cresciuta a dismisura in questi ultimi anni. Se tutti aspettassero di arrivare con l’acqua alla gola per rivolgersi ai servizi locali, questi ultimi verrebbero travolti da una marea che metterebbe a rischio non solo i servizi in sé, ma anche la stessa convivenza democratica. C’è chi parla infatti di un vero e proprio esodo silenzioso dalla cittadinanza da parte di una fetta importante di nostri concittadini, impoveriti e incattiviti nei confronti di tutto ciò che ha una funzione pubblica.

E dunque, che fare? Ecco l’ipotesi: costruire ambiti pubblici, luoghi civici, in cui sia possibile segnalare i propri bisogni senza avvertire lo stigma che spesso vi si accompagna; luoghi aperti e attraversabili, non riconoscibili come “servizi”, hub in cui i cittadini possano trovare tante opportunità diverse, tra le quali anche risposte ai propri bisogni. Ma che siano soprattutto risposte collettive e non individuali – superando l’”effetto bancomat” che ormai affligge i servizi locali – aggregando le energie positive che anche le persone e la famiglie in difficoltà conservano. Insomma, luoghi di costruzione di legami generativi ancor prima che sportelli-a-domanda-risposta.

Da qualche settimana siamo qui proprio per questo: il Comune ha messo a disposizione questa vecchia sala conferenze, completamente trasformata in un piccolo hub in cui sperimentare se effettivamente si può far emergere i bisogni e utilizzare i legami sociali come carburante per un nuovo modo d’intendere il welfare locale. La sala è stata suddivisa da nuove pareti in laminato che ritagliano una reception, due stanze per colloqui e una grande area per il lavoro di gruppo.
Le pareti non arrivano al soffitto e questo sta già generando qualche problemino di privacy, ma mi dà oggi la possibilità di percepire la direzione in cui ci stiamo muovendo. Le voci, infatti, formano un tappeto di suoni sospeso al soffitto: voci che si accavallano e si sovrappongono, si intrecciano.

Qui stiamo lavorando per allestire laboratori di comunità con i comitati genitori delle scuole, di là si sta svolgendo il primo “smartjob”, brevi cicli di incontri di orientamento lavorativo per disoccupati, dalla terza stanza arriva l’eco attutito del lavoro degli educatori finanziari. Le ultime voci, le più confuse, stanno lavorando nella reception per promuovere gli incontri serali dello “yoga della risata” e quelli della rete di associazioni che si sta muovendo dentro e attorno a questo nuovo hub civico.

Prime con-fuse voci di un nuovo impegno corale.
Timidissimi vagiti di un nuovo welfare?

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Papa Francesco: il welfare non è un costo

Incontrando gli iscritti alle Acli il Papa ha detto: “È una importante battaglia culturale quella di considerare il welfare una infrastruttura dello sviluppo e non un costo”

Papa Francesco incontra le Acli in occasione del 70° anniversario della fondazione delle Associazioni Cristiane dei Lavoratori Italiani e alza forte la sua voce contro le storture del mercato del lavoro e le ingiustizie che esso si porta dietro e lo ricorda alla politica: “E’ una importante battaglia culturale quella di considerare il welfare una infrastruttura dello sviluppo e non un costo. La proposta di un sostegno non solo economico alle persone al di sotto della soglia di povertà assoluta, che anche in Italia sono aumentate negli ultimi anni, può portare benefici a tutta la società”.

“Non possiamo – il suo appello – tarpare le ali a quanti, in particolare giovani, hanno tanto da dare con la loro intelligenza e capacità; essi vanno liberati dai pesi che li opprimono e impediscono loro di entrare a pieno diritto e quanto prima nel mondo del lavoro”. Bergoglio insiste quindi sulla necessità di un lavoro che sia davvero ‘solidale’: “Ogni giorno voi incontrate persone che hanno perso il lavoro, questo fa piangere, o in cerca di occupazione; persone che vogliono portare a casa il pane per la loro famiglia. A queste persone bisogna dare una risposta. In primo luogo, è doveroso offrire la propria vicinanza, la propria solidarietà”.

Si rivolge poi così ai delegati: “I tanti ‘circoli’ delle Acli, che oggi sono da voi qui rappresentati, possono essere luoghi di accoglienza e di incontro. Ma poi bisogna anche dare strumenti ed opportunità adeguate. È necessario l’impegno della vostra Associazione e dei vostri servizi per contribuire ad offrire queste opportunità di lavoro e nuovi percorsi di impiego e di professionalità”. “Libertà, creatività, partecipazione e solidarietà. Queste caratteristiche – ricorda il Papa – fanno parte della storia delle Acli. Oggi più che mai siete chiamati a metterle in campo, senza risparmiarvi, a servizio di una vita dignitosa per tutti”.

“Troppo spesso il lavoro è succube di oppressioni a diversi livelli – ha continuato Papa Francesco -: dell’uomo sull’altro uomo; di nuove organizzazioni schiavistiche che opprimono i piu’ poveri; in particolare, molti bambini e molte donne subiscono un’economia che obbliga a un lavoro indegno che contraddice la creazione nella sua bellezza e nella sua armonia. Dobbiamo far si’ che il lavoro non sia strumento di alienazione, ma di speranza e di vita nuova”. E poi ancora sui ragazzi che “sono in pericolo di cadere nella malavita o di andare a cercare orizzonti di guerra come mercenari” senza l’opportunità di un lavoro.

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Welfare, la sfida di Brescia: collaborazione e zero gare

Brescia si prepara a diventare la prima città italiana libera dalle gare d’appalto e dalla competizione al ribasso nei servizi sociali. Una novità che, se avrà successo, ha tutte le caratteristiche per fare scuola e rivoluzionare l’ambito dei rapporti tra le amministrazioni locali, i soggetti che operano sul territorio e le comunità. La parola chiave è «co-progettazione». Che significa: uscire da una logica in cui l’amministrazione comunale individua il bisogno del territorio e affida la gestione del servizio attraverso una gara, per passare a una prospettiva nella quale il Comune incentiva la comunità a progettare insieme e a collaborare.

A lanciare la sfida è l’assessore ai Servizi sociali e alla famiglia di Brescia, Felice Scalvini, 63 anni, uno dei padri della cooperazione sociale italiana e promotore di alcune delle più importanti iniziative di finanza per non profit. Il ‘cantiere’ è stato aperto un anno fa e merita di essere seguito, se non altro per la portata innovativa in un ambito, quello delle gare comunali per i servizi di welfare, che la cronaca recente – si pensi agli scandali di «Mafia Capitale» – ha mostrato aver bisogno di molta manutenzione.

Scalvini, che cosa vi ha spinti a lanciare l’obiettivo ‘zero gare’?
Il contesto è profondamente cambiato rispetto a un tempo. Facciamo un esempio classico, quello delle badanti: è un welfare fai-da-te che in una città come Brescia costa alle famiglie 40 milioni l’anno, più di tutto il bilancio dei servizi sociali del Comune, che è di 27 milioni. Di fronte all’emergere di bisogni nuovi si tratta di trovare nuove modalità di intervento per essere ancora più vicini alle necessità del territorio. Il welfare non può più essere una questione della sola amministrazione comunale, come vorrebbe una visione ideologica superata, ma è la città nel suo complesso, la comunità, che deve mobilitarsi e organizzarsi con le sue istituzioni e le sue realtà locali.

Da che cosa si deve partire per incominciare a cambiare approccio?
Il primo cambiamento è di mentalità. Il Comune deve favorire la collaborazione sul territorio, non la competizione, deve sviluppare cioè la capacità di lavorare insieme. Non si può chiedere ai soggetti del sociale di competere tra loro al massimo ribasso, magari tagliando le buste paga dei lavoratori o lesinando sui servizi che offrono. Non parliamo di eliminare i bandi, che sono il modo per chiamare a raccolta le disponibilità del territorio, ciò di cui vogliamo fare a meno sono le gare, e trattandosi di co-progettazione la normativa lo consente. Il primo passaggio è stato istituire un Consiglio di indirizzo del welfare cittadino, al quale partecipano i ‘portatori di bisogni’, cioè le famiglie, e i ‘produttori’, le fondazioni, le cooperative sociali, gli organismi di volontariato, le associazioni.

Quali sono i primi risultati? Può fare qualche esempio di cosa è cambiato?
Nell’assistenza domiciliare e nel sostegno multiprofessionale ai minori in difficoltà la prassi era indire una gara e poi acquistare ore-lavoro da alcune cooperative sociali che fornivano il personale per il servizio. Al nuovo bando hanno risposto le stesse tre cooperative di prima, ma è cambiato il modo di lavorare. Ci siamo messi a un tavolo insieme, il Comune ha indicato il budget a disposizione, e proprio in questi giorni abbiamo incominciato a ragionare su vari aspetti: le eventuali risorse aggiuntive delle cooperative, la possibilità di attirare altri finanziamenti, la ricerca di soluzioni nuove. Ora partirà una fase di lavoro per progettare insieme gli interventi necessari, con un orizzonte temporale di più di tre anni.

In questo processo scompare la competizione, che tuttavia può anche produrre efficienza e minori costi.
L’efficienza ha molti modi per declinarsi. Se non sono più in competizione tra loro le cooperative possono pensare di riorganizzarsi e anche fondersi per dare alla città soggetti molto più robusti e, soprattutto, specializzati su aree di bisogno e non sull’intermediazione di forza lavoro, capaci di risposte più complete. In questo senso l’amministrazione non ‘chiede’ più persone per fare, ma incentiva la qualificazione dei produttori. Il medesimo approccio di co-progettazione è applicato in diversi programmi rivolti ai giovani e per gli anziani di una zona. Stiamo anche lavorando per promuovere ‘punti comunità’ in ogni quartiere, gestiti in forma auto-organizzata dai soggetti sociali presenti e disponibili: l’obiettivo è ridisegnare le maglie della nostra presenza sul territorio in modo totalmente sussidiario. Un’altra novità riguarda le attività estive (Grest, camp, cre…), intendiamo dare alle famiglie un servizio di informazioni completo, così che sei mesi prima della chiusura delle scuole possano disporre di una grande guida di tutte le iniziative che la città offre per i loro figli, e magari un centro unico di iscrizione. Per farlo abbiamo chiamato a raccolta tutti i soggetti che organizzano centri estivi, associazioni, privati, parrocchie. Il processo ha spinto le realtà a incontrarsi, a riunirsi, a discutere tra loro per avviare forme di collaborazione. Questo è già un grande risultato.

La traduzione di certi principi richiede un cambio culturale forte. Come si comunica la novità e come si superano gli ostacoli?
L’intenzione è superare l’idea di amministrazione comunale come un Grande Vecchio che capisce i bisogni della gente e si preoccupa di ridistribuire le risorse dei cittadini affidandosi al meccanismo competitivo del libero mercato. La concorrenza non è necessariamente sinonimo di trasparenza e imparzialità. Si tratta di evolvere verso un meccanismo di collaborazione e dibattito nella comunità, dove la prima risorsa è la condivisione delle informazioni. Tutti i soggetti devono avere il massimo delle informazioni relative agli ambiti in cui operano, e tutti i buoni progetti dovrebbero essere messi in comune senza il timore che qualcuno li rubi, senza gelosie e con l’idea che insieme possiamo realizzare progetti migliori.

Che cosa la preoccupa più di tutto?
Da un lato si tratta di rimodellare la macchina pubblica, chiamata, nell’insieme e come singoli operatori, a saper svolgere una forte, costante e diffusa azione promozionale. Vi è poi la preoccupazione di fondo che il settore non profit, abituato a rapportarsi in termini competitivi sul territorio, fatichi ad aggiornarsi ora che è scoppiata la pace. Storicamente in Italia il mondo del sociale ha avuto due cattivi maestri: il primo sono le amministrazioni pubbliche, che troppe volte hanno generato relazioni solamente competitive o, peggio ancora, creato canali di relazione privilegiati e poco trasparenti, generando legami collusivi; il secondo è una certa cultura di management proposta al mondo cooperativo e al non profit, per la quale i bravi manager non devono tanto essere organizzatori di risorse e legami del territorio, ma piuttosto far crescere dimensioni e fatturati alla ricerca di presunte economie di scala. Questa impostazione, intrisa di una visione manageriale liberista, ha creato molte distorsioni e tanti problemi al sociale. Il welfare di un territorio ha invece bisogno di coprogettazione e collaborazione, perché questo non è un pezzo di mercato pubblico da conquistare. È per tale ragione che stiamo cercando di cambiare.

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Bologna: benvenuti in via Fondazza, la prima social street italiana. Scopri cos’è

solidarietaUn’idea tanto banale quanto geniale: perché non trasformare le amicizie su Facebook in amicizie vere? E perché non aiutarsi come si faceva un tempo? Ecco le risposte. Che diventano anche una soluzione anti crisi
Via Fondazza, a Bologna, è la prima social street italiana. Non ne hai mai sentito parlare? Ecco che cos’è e come funziona: ce lo spiega chi ci vive.
A COSTO ZERO – Dall’estraneità alla condivisione. Dal senso di solitudine al «buongiorno vicino» indirizzato al dirimpettaio. Dall’isolamento, alla consapevolezza di far parte di un gruppo che ha energia e potenzialità contagiose. Le finestre aperte di via Fondazza, la strada bolognese che è diventata la prima social street italiana, non si richiuderanno tanto facilmente. Grazie ad un’intuizione a costo zero, un gruppo su Facebook, Federico Bastiani ha trasformato la sua via, una strada della vecchia Bologna, in una palestra di buone pratiche, una community di buon vicinato, dal successo contagioso.
TUTTO NASCE DA FACEBOOK – «Mi ero accorto che, dopo tre anni, eccetto qualche negoziante, non conoscevo nessuno dei vicini», racconta Federico, 36 anni. «Ai primi di settembre, ho creato un gruppo su Facebook e ho affisso sotto i portici volantini con l’invito ad aderire. La risposta mi ha sorpreso: una valanga. Aspettavo venti adesioni, in tre settimane eravamo cento; adesso siamo 500. Volevo soprattutto trovare coetanei di mio figlio Matteo, 2 anni e mezzo. Ma i fondazziani mi hanno travolto».
IL PORTICO – Via Fondazza, una strada nel centro storico di Bologna, con l’immancabile portico, conta novantuno numeri civici: palazzi affiancati a case più semplici, molte botteghe di alimentari kebab e verdure, gestite da immigrati, che si intrecciano a qualche artigiano, il calzolaio Antonio, il tappezziere, i falegnami, una legatoria. In un ex convento ristrutturato, aule della facoltà di Scienze Politiche. Residenti di lungo corso, novantenni nati nella stessa casa nella quale vivono tuttora, come fece per tutta la vita, al 36, Giorgio Morandi, il pittore delle bottiglie e degli scorci dei giardini, studenti fuorisede o da Erasmus, giovani coppie.
IL BENVENUTO AI NUOVI ARRIVATI – In pochi giorni la bacheca del gruppo Residenti in via Fondazza è diventata un tripadvisor a km zero, una lavagna di benvenuto per i nuovi arrivati, con uno scambio vivacissimo di informazioni, richieste, suggerimenti. A 360 gradi. «Dalle domande sulla focacceria migliore, alla ricerca del veterinario che venisse a domicilio nel week end. Il passaggio dalle informazioni allo scambio di servizi è venuto da sé. Due studenti cercavano una lavanderia a gettone e Sabrina li ha invitati a usare la sua lavatrice in cantina. Laurell cercava una baby sitter e Veru ha proposto di assumerne una sola per tutti i bambini di età simile della strada. I negozianti hanno offerto prezzi scontati, il cinema ha invitato tutti i residenti a un’anteprima, il bistrot francese ha preparato un menù riservato ai residenti».
AMICIZIA REALE, NON VIRTUALE – Presto hanno deciso di conoscerci di persona, racconta ancora Bastiani: «L’idea di trasferire l’amicizia virtuale nella vita reale si è fatta largo rapidamente. Ci siamo dati appuntamento di domenica mattina, nella piazza più vicina, per guardarci in faccia». La scintilla era scattata. Dagli incontri in piazza sono nate belle abitudini, il caffè assieme la mattina, le feste di compleanno nel bar sotto casa, i tanti progetti per il futuro.
ANTISPRECO, ANTICRISI – La community dei fondazziani ha dimostrato subito una spiccata vocazione antispreco e anticrisi. «Le possibilità sono infinite», dice Bastiani. «Da una sorta di banca del tempo dove ci si scambiano le competenze, al gruppo di acquisto solidale, il gas della strada, facile da gestire. Oppure lezioni di pianoforte in cambio di un’ora di inglese, il materasso che dalla cantina di Michele si è spostato a casa di Paolo, l’ SoS per il computer infettato da un virus, e dopo 5 minuti trovi davanti alla porta, in ciabatte, il vicino di casa informatico smanettone. Federica doveva fare traslocare da sola, e ha trovato tre amici mai visti prima che l’hanno aiutata a spostare tutti gli scatoloni. A me serviva il seggiolino da auto per Mattia? Ho messo un annuncio e Saverio me l’ha prestato». Oppure per evitare sprechi alimentari: «Parto, e ho il frigorifero pieno di cibi che non posso congelare? Metto un post e invito i vicini a venire a prenderseli», spiega Laurell, moglie di Federico.
SOLUZIONE AI BISOGNI – La social street è nata così, per condividere bisogni e offrire soluzioni. «Abbiamo capito che siamo una forza. Un gruppo di persone come noi può fare un sacco di cose», dice Luigi Nardacchione, manager neopensionato, uno dei più attivi del gruppo, nominato sul campo, “vice” di Bastiani. «Risolvere problemi quotidiani di tutti, ma anche migliorare la qualità e la vivibilità della strada, tenerla pulita, aiutare le persone in difficoltà, come gli anziani che vivono soli, candidarsi per far visitare al pubblico la casa museo del pittore Morandi, che in questa via visse e lavorò, dotarsi della banda larga e metterla a disposizione di tutti. E organizzare momenti ludici, cene, una festa della strada».
UN NUOVO CLIMA – Tra le priorità della social street, la più pressante è trovare i modi per coinvolgere tutti quelli che non usano Facebook. Al primo incontro pubblico, organizzato per farsi conoscere e per presentare il sito, ha partecipato quasi un centinaio di persone. Molti venuti da altri quartieri a osservare quest’oggetto misterioso dalla identità incerta. Il sito, creato per rispondere alle decine di richieste che arrivano da tutta Italia, spiega la filosofia dell’iniziativa e contiene le indicazioni per creare altre social street. «Anche il sito è rigorosamente made in Fondazza, a costo zero, grazie a Filippo, che di mestiere progetta siti, e a Laura, la grafica che ha disegnato il logo, scelto, ovviamente, on line. «La cosa più importante, però, non è l’interesse suscitato, ma è il nuovo clima che abbiamo creato», dice Nardaccchione. «Dal virtuale siamo passati presto alla vita reale perché abbiamo avuto il desiderio genuino di conoscerci. Grazie alla spontaneità si è creato tra noi un senso immediato di fiducia reciproca».
COME UN PICCOLO PAESE – Nel successo della social street c’è qualcosa di molto legato al momento che viviamo, ragiona Federico. «In tanti mi hanno raccontato che in via Fondazza si è sempre vissuto così, come in un piccolo paese. Un posto dove tutti si conoscevano, si salutavano, collaboravano. Però quell’abitudine è andata sparendo, ed è scomparsa, da almeno venti anni. Se oggi la vecchia Fondazza rinasce come social street vuol dire che il bisogno di socializzare, compartecipare e condividere è ancora fortissimo, inalterato, anche ai tempi di Facebook». E su Facebook qualcuno gli fa eco: «Fino a poco tempo fa non amavo molto questa strada, anzi, la trovavo brutta. Ora la guardo con occhi nuovi. Comincia a piacermi».
Rita Cenni
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