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Corviale e il nuovo modello di città

Nell’articolo “che cosa significa nuovo modello di sviluppo e di citta” di Romainpiazza si prefigura un nuovo modello di città già intravisto nei vari forum di Corviale. Questo modello sarà al centro del forum di Corviale del 2015 perchè non solo è il futuro dietro l’angolo, ma è il modello che – nella generale diminuzione della centralità dei lavori tradizionali – riuscirà a creare nuove possibilità occupazionali.
Corviale è lo scenario ideale per sperimentare queste possibilità sia per la sua concentrazione quantitativa (circa 6.000 abitanti in uno stesso edificio, il tetto piano più grande del mondo, la centralizzazione amministrativa, la necessità di diminuire i metriquadri di appartamenti ormai sovradimensionati rispetto agli attuali nuclei familiari…), che per la propensione alla partecipazione collettiva dell’intero quadrante, che per – last but not least – il lavoro progettuale fatto in questi anni.

Che cosa significa nuovo modello di sviluppo e di città

Forse l’articolo di Francesco Grillo ci aiuta a capire che significa in pratica questo cambio di paradigma.
Come cambia la nostra vita, la nostra città, la nostra mobilità, il nostro lavoro?
Proviamo ad immaginare una città – come già stanno cominciando a ragionare a Berlino e Londra – senza auto, con le strade libere dalle auto in sosta, con i negozi ormai chiusi (dai centri commerciali) e non sostituiti dagli ormai inutili garage.
Proviamo ad immaginare una vita in cui non bisogna pendolare tra il luogo dell’abitare e quello del lavoro (telelavoro e decrescita lavorativa da robotizzazione del lavoro).
Aggiungiamoci che saranno necessari sempre meno metri quadri abitativi per case che non avranno più bisogno degli spazi per libri, cd musicali, dvd, diapositive, foto, impianti hifi, diaproiettori…
Una città così come sarà?
Sarà scritta, invece che intorno alla cinquecento, intorno allo smartphone e alle app che ci permettono di trovare la bici, lo scooter, il bus, il taxi, l’auto elettrica, la baby sitter, la spesa, il ristorante che ci serve just in time quando e solo quando ci serve risparmiando un mare di euro, bolli, assicurazioni, multe, revisioni, passaggi di proprietà, tagliandi, garage, lavaggi…?
Non è che ho disegnato uno scenario di sharing city? e quindi reso anche quest’oggetto misterioso un po’ meno criptico?

Dal fallimento tedesco la possibilità di rinnovare

Fu Adolf Hitler in persona che ordinò nel 19937 all’ingegnere Ferdinand Porsche di progettare un’automobile in grado di ripetere ciò che era riuscito a Henry Ford negli Stati Uniti qualche decennio prima: motorizzare il popolo tedesco e, quindi, portarlo nella modernità. La Guerra arrivò troppo presto persino per le previsioni del Fuhrer e, tuttavia, quella fabbrica nata a Wolfsburgper produrre l’“automobile del popolo” è diventata nei decenni successivi talmente grande che la sola necessità – improvvisa – di dover contemplare la possibilità di una sua bancarotta, sta mettendo in ginocchio – dal punto di vista politico, ancor più che economico – la Germania.
Ciò può, paradossalmente, trasformare un problema che preoccupa i vertici della Banca d’Italia per le sue conseguenze sulla sostenibilità di una ripresa economica ancora non consolidata, in un’opportunità per l’Italia di costruire nuovi, più avanzati rapporti di forza. Per riuscirvi è, però, indispensabile – proprio a partire dall’automobile – essere capaci di elaborare una strategia che non sia un gioco a somma zero tra interessi nazionali di breve periodo, ma un progetto su come si riporta l’Europa ad avere il primato dell’innovazione proprio nei settori nei quali ha la leadership mondiale. La posta in gioco è uscire – ricominciando a ragionare di ingegneri e città, persone concrete e talenti – dalla logica dell’astratta guerra di posizione tra economisti che fanno da custodi dell’austerità ed altri votati ad essere paladini della crescita.
In effetti, la batosta che ha fatto sparire in meno di dieci giorni un terzo del valore della più grande industria automobilistica del mondo, ha il potenziale di dover obbligare ad un ripensamento della propria politica industriale e del proprio ruolo nel mondo, il Paese che – per dieci anni – ha conteso alla Cina il primato del più elevato surplus commerciale, mentre il resto d’Europa languiva.
Non solo perché – come ricorda questa settimana l’Economist – in Germania un posto di lavoro su sette è legato alla produzione di automobili; o perché sulle spalle larghe delle automobili tedesche poggiava buona parte di un mito di invincibilità tecnica e affidabilità che ora è infranto dalle dimensioni dello scandalo (11 milioni di pezzi truccati corrisponde al numero totale di automobili vendute dal gruppo tedesco in un anno). Ma perché ad entrare in crisi è un modello di potere – non sempre “soffice” – che ha consentito ai tedeschi di dettare – negli ultimi vent’anni – da quando, più o meno, è stato introdotto l’Euro – agenda e regole in Europa.
Tre i problemi del metodo tedesco sui quali lo scandalo impone una riflessione.
Innanzitutto, l’applicazione dei principi comunitari – ad esempio, quelli che limitano gli “aiuti di Stato” per non distorcere i meccanismi di mercato e incoraggiare, dunque, l’innovazione – è diversamente rigida a secondo dei Paesi e delle situazioni. Secondo uno studio di qualche anno fa, di una delle più prestigiose think tank tedesche (lo ZEW di Mannheim), la Germania ha, negli anni successivi alla crisi, erogato, da sola, quasi il 90% dei 4,5 miliardi di Euro che i governi europei hanno pagato per schemi di “rottamazione” finalizzati a rinnovare il parco automobili e far sopravvivere case che si erano ritrovate in forte difficoltà; e, in particolar modo, alla Volkswagen fu destinato la metà dei finanziamenti tedeschi.
In secondo luogo, il rispetto di regole come quelle che hanno disegnato la traiettoria dei sei successivi innalzamenti (appunto dal primo Euro 1 del 1993 all’ultimo Euro 6) degli standard sulle emissioni di veicoli diesel: i controlli sono, spesso, stati interpretati come un elemento opzionale (ciascuna casa se li faceva praticamente a domicilio scegliendo il verificatore) rendendo le norme risibili e, di fatti, sbugiardate dalle verifiche fatte dall’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, in un Paese che dovrebbe avere molto meno sensibilità ecologica, come gli Stati Uniti.
Infine, all’Europa manca, ancora, appunto e, nonostante, le rigidità teutoniche una vera riflessione sul futuro di comparti grossi come quello dell’industria automobilistica che rischiano di scomparire come certi Dinosauri che, semplicemente, non si accorsero della mutazione che stava per sconvolgere il proprio ecosistema.
La domanda a cui nessuno, ancora in Europa, osa rispondere è, in fin dei conti, semplicissima: fino a quando potrà il mondo – squassato da crisi ambientali e finanziarie che arrivano fino alla periferia di Shanghai – tollerare il più evidente spreco di energia costituito da una tecnologia che ci fa usare una leva (un’automobile appunto) che pesa circa una tonnellata per spostare un peso utile (in carne umana o merce) di circa, in media, un centinaio di chili? Fino a quando potremo continuare a comprare un oggetto che per il 90% della sua vita utile è parcheggiato in garage e che quando si sposta – per il 90% del tempo in circolazione – usa un quarto della sua potenza (e velocità potenziale)? Com’è possibile continuare ad alimentare questi veicoli con una forma di energia che – oltre ad avere le pesanti conseguenze geopolitiche che ci intrappolano da cinquant’anni in guerre e negoziati senza fine – ha anche l’inconveniente di costare dieci volte di più di altre forme di alimentazione (elettrica, ad esempio) che inquinerebbero dieci volte di meno? Quando comincia la riprogettazione di città, infrastrutture, abitudini, orari di lavoro, servizi pubblici che la fine dell’automobile – così come la conosciamo – comporta (e che, in realtà, a Berlino o Londra è stata avviata anche se manca una strategia che sia, davvero, europea)?
A queste domande, in effetti, la stessa Commissione Europea ha provato a dare una risposta attraverso direttive visionarie come quella che impongono che nel 2030 nelle città il numero delle automobili a benzina e a diesel si dimezzino per azzerarsi nel 2050. Mancano, però, quei passaggi senza i quali le visioni rimangono tali. Visioni che, altrimenti, sarebbero molto concrete visto che il futuro è già sta cominciato; visto che tra i giovani americani, ormai, un terzo ha rinunciato, persino, a prendere la patente; che i mercati erano già così preparati all’inizio della fine del diesel che – anche prima dello scandalo – il valore che davano alla prima industria automobilistica del mondo era già inferiore a quello della Pepsi Cola; che negli stessi giorni in cui con la Volkswagen veniva colpita quasi a morte, l’Apple annunciava la volontà di varare la prima automobile intelligente nel 2019 e la Tesla di voler aprire il primo stabilimento in Europa.
Indubbiamente, i riflessi politici della crisi danno un’opportunità all’Italia, resa unica dalla circostanza che il modello entrato in crisi accomuna ai tedeschi i francesi (nella necessità di voler difendere innanzitutto i posti di lavoro); che gli inglesi devono ancora decidere se stare in Europa e che il governo spagnolo vive un momento di oggettiva difficoltà interna. C’è bisogno, però, sfruttando di avere, forse anche meno da perdere, di ricominciare a pensare in maniera strategica: ad esempio a pensare al futuro dell’automobile come futuro delle città europee e come traiettorie per arrivare a traguardi che non aspettano. Parlando di persone concrete, di tecnologie, di qualità che ci appartengono e di come governare transizioni di posti di lavoro enormi. Un po’ come del resto, l’Italia del dopoguerra fece ripensandosi attorno alla cinquecento.

Francesco Grillo sul Messaggero del 30/9/15 (fonte: linkiesta del 30/9/15)




Corviale e la nuova mobilità

Già nell’articolo “Che cosa significa nuovo modello di sviluppo e di città” in romainpiazza ci sono vari elementi che fanno intravedere come si sta delineando la nuova mobilità nelle metropoli. In particolare ci ha colpito Francesco Grillo in “Dal fallimento tedesco la possibilità di rinnovare” quando ci fa notare che “una leva (un’automobile appunto) che pesa circa una tonnellata per spostare un peso utile (in carne umana o merce) di circa, in media, un centinaio di chili? Fino a quando potremo continuare a comprare un oggetto che per il 90% della sua vita utile è parcheggiato in garage e che quando si sposta – per il 90% del tempo in circolazione – usa un quarto della sua potenza (e velocità potenziale)?” e che “tra i giovani americani, ormai, un terzo ha rinunciato, persino, a prendere la patente”. Se a queste riflessioni uniamo le informazioni di Erasmo D’Angelis in “E’ partita la ciclorivoluzione” sull’Unità del 2/10/15: “nel 2014 le auto immatricolate sono state 1.359.616 e le biciclette acquistate dagli italiani 2.300.000. Sono oltre cinque milioni gli italiani ciclisti…E’ il 9% degli italiani, e nel 2001 erano appena il 2.9…la sorpresona che segna, ormai dal 2012, lo storico sorpasso sull’automobile e ha fatto salire a circa 30 milioni le biciclette in nostro possesso.”
Con i numeri non si discute e se questa è la situazione statistica bisogna solo prendere atto – urbanisticamente, istituzionalmente, politicamente, socialmente e soprattutto culturalmente – che occorre ripensare le nostre città, le nostre strade, i nostri ritmi, la nostra vita in questa chiave così come “l’Italia del dopoguerra fece ripensandosi attorno alla cinquecento”.
Noi a Corviale nei vari forum già svolti e in quello prossimo 2015 abbiamo già cominciato con progetti concreti di nuova mobilità connessi al ridisegno dell’intero Quadrante, all’interconnessione tra gli spazi urbanizzati e quelli agropastorali, alla relazione tra i luoghi dell’abitare, del lavoro e del tempo libero.




Da globale a glocale

Finiti, con la crisi, i peana alla globalizzazione si comincia a fare i conti con il glocale: un mercato interno capace d’interagire col globo ma autonomo e radicato senza tuttavia essere autoreferenziale.
Lo confermano i dati del Fondo Monetario Internazionale che cita la discesa ad agosto delle esportazioni del 5,2% dell’economia matura che più ha puntato sull’export: la Germania.
Se leggiamo questo dato alla luce della crisi Volkswagen motivata dalla spasmodica rincorsa della crescita sui mercati esteri e delle odierne difficoltà della Deutsche Bank fortemente esposta sui paesi emergenti, ci rendiamo conto che un modello di crescita sta crollando.
Infatti “Le maggiori economie mondiali hanno una crescita interna superiore agli scambi con gli altri…A Pechino e Shanghai aumentano…i consumi di servizi: dall’istruzione alla sanità, dalla finanza al turismo…ci scambiamo sempre meno merci fisiche e sempre più servizi online, comunicazione e informazioni…Obama…ha inserito nelle clausole del trattato i diritti sindacali e la protezione dell’ambiente” (1)
“L’unica soluzione è investire nel capitale umano…Chi non ha studiato è fuori dal processo produttivo” (2)
Istruzione, ambiente, sanità sono tutti servizi che fanno lievitare il mercato interno rafforzando l’economia glocale e permettendole di competere nel globale in quell’economia della comunicazione e delle informazioni che muove il mondo.
Far crescere le possibilità dei territori vuol dire allora partire da quella ch’è la vera nostra forza: un serbatotio di tradizioni e di eccellenze cha dalla filiera del food ai beni culturali e ambientali può portare di nuovo sviluppo e occupazione.
Come già nelle passate edizioni nel Forum Corviale 2015 discuteremo e presenteremo progetti su questo.

(1) Federico Rampini “Si è rotta la globalizzazione” Repubblica del 9/10/15

(2) Erik Maskin in “Il rimedio alle diseguaglianze è investire nell’educazione” di Eugenio Occorsio Repubblica del 9/10/15