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Servizi di buon vicinato: arriva Toctocdoor, social network di quartiere

Accade a Torino, dove una piccola startup ha lanciato un’applicazione che servirà a scambiarsi servizi e consigli con gli altri utenti registrati nella stessa zona: per localizzarli e accedere agli annunci basterà registrarsi, visualizzandoli poi su una mappa.
Quasi ogni genitore ci è passato, almeno una volta nella vita: sono le 8 del mattino e ci sono due figli da accompagnare in due diverse scuole, ma di accendersi l’automobile non vuol proprio saperne. La lista delle possibili opzioni, tutte più o meno inefficaci, comprende ad oggi: compulsare l’agenda telefonica per trovare un “collega” che faccia all’incirca lo stesso tragitto; prendere un taxi spendendo spesso l’equivalente della riparazione della vettura, o magari farsi assalire da una crisi di panico da riversare presto su figli, consorte e chiunque capiti a tiro, mentre i ragazzi si avviano con gran gusto a perdere almeno una mezza mattinata di lezione. A offrire una soluzione più incisiva, però, potrebbe essere molto presto il mondo dei social network: a Torino un team di creativi e sviluppatori ne sta sperimentando uno pensato per mettere in comunicazione i residenti di uno stesso quartiere, in modo che possano scambiarsi beni, servizi, favori e consigli di buon vicinato. Si chiama Toctocdoor e al momento è attivo in una porzione del Capoluogo che comprende la centralissima via Giolitti e tutte le strade limitrofe, da via Po a via Vittorio Emanuele, passando per il lungofiume. A idearlo è stata una squadra proveniente dalla città di Foggia, e composta dai fratelli Lorenzo e Antonio Trigiani – esperto in pubbliche relazioni il primo e sviluppatore il secondo – e da Viviana Tiso, a sua volta esperta in social media e comunicazione. Un altro aiuto arriverà presto dal centro servizi per il volontariato di Torino, che nel weekend presenterà l’iniziativa alla cittadinanza nel corso di una conferenza pubblica.

Il funzionamento è quanto di più semplice: “durante la registrazione – spiega Tiso – all’utente verrà chiesto di specificare l’indirizzo di residenza. Da quel momento, oltre a visualizzare su una mappa il numero esatto e la collocazione degli utenti attivi in zona, si potrà accedere a post e annunci pubblici divisi per categorie contrassegnati secondo una logica di utilità, molto simile a quella delle banche del tempo ma anche dei semplici rapporti di buon vicinato”. Un modo per portare la pervasività dei social network in una dimensione locale, insomma, analogamente a quanto già fatto da servizi come “Last minute sotto casa”, una app che – riunendo una cordata di supermercati e negozi alimentari – pare stia dimezzando lo spreco di cibo in più di una città italiana. Con la differenza che, in questo caso, la platea di utenti, seppur delimitata da specifici quartieri, sarà decisamente più estesa: al momento, le categorie attivate per la fase sperimentale riguardano gli annunci gratuiti, la compravendita, una sezione per gli oggetti persi e ritrovati e una relativa a crimini e sicurezza. Vale a dire che, con cinque semplici marcatori semantici, c’è già un’infinità di operazioni e servizi che gli eventuali “vicini di social” possono scambiarsi. “Prendiamo la categoria ‘crimini e sicurezza’ – illustra Tiso -: se sentissi arrivare dei rumori sospetti dall’appartamento del mio dirimpettaio in ferie, con un semplice click potrei avere la possibilità di allertare lui, oltre alle forze dell’ordine”. Nel già citato caso dei bambini da portare a scuola, invece, secondo Tiso basterebbe “pubblicare o guardare gli annunci nell’area ‘genitori e figli’, e con un po’ di fortuna si troverebbero diverse mamme e papà che potrebbero offrirsi di dare un passaggio ai bimbi”.

Attivo dallo scorso marzo, al momento TocTocDoor è agli sgoccioli di quella che viene definita “fase beta”: man mano che gli utenti sperimentali – o beta tester – ne saggiano funzioni e caratteristiche, suggeriscono agli sviluppatori migliorie e nuove funzionalità. Il prossimo venerdì, comunque, l’applicazione verrà presentata al pubblico sabaudo: l’appuntamento è per le 17 alla sede del Centro servizi per il volontariato di via Giolitti 21. Segno che, a breve, l’iniziativa potrebbe essere pronta ad abbracciare l’intera cittadinanza.

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Bruno Manghi: “Il problema delle periferie è la qualità demografica”

«La particolarità di Torino sta nel fatto che per alcuni secoli è stata governata da un forte potere centrale. Dopo un periodo di smarrimento, ha sostituito in parte quel potere pubblico con l’auto, con la grande fabbrica, che è stata a sua volta un riferimento autoritativo. Tutto questo è finito, ma ha lasciato una traccia nella mentalità del territorio, per cui ci si aspetta sempre dalle autorità qualcosa di particolarmente rilevante, e invece non è così. Siamo entrati in una situazione nuova che si è accompagnata anche ad un grande cambiato territoriale di natura demografica»: Bruno Manghi, sociologo, una vita passata nel sindacato (Cisl), collaboratore di Prodi, attualmente presiede la Fondazione Mirafiori promossa dalla Compagnia di San Paolo. Sabato, in occasione dell’assemblea annuale di Confartigianato Imprese Torino, è intervenuto trattando il tema delle periferie, ma anche il ruolo dell’associazionismo. «Partiamo da una banalità: se le periferie sono i luoghi dove vivono le persone meno abbienti, dopo 7 anni di crisi le loro condizioni di vita non possono certo essere migliorate. La crisi colpisce in maniera più seria coloro che sono svantaggiati in partenza. La novità sta, invece, nel grande cambiamento territoriale avvenuto. Quando ero ragazzo la cintura torinese era un posto da evitare, ora, invece, a Grugliasco, Collegno, Nichelino, Settimo, ecc., abbiamo assistito ad una trasformazione positiva e ad un ringiovanimento medio della popolazione. Mentre nella cintura torinese è avvenuto un netto miglioramento reddituale, demografico e di attivismo, la povertà si è concentrata nella cerchia urbana, e questa è una novità di non poco conto. A Mirafiori Sud il nostro problema numero uno è strettamente demografico, nel senso che le periferie torinesi sono invecchiate, magari dignitosamente, ed i giovani si allontanano perché non hanno opportunità di qualità. Ad eccezione di Barriera di Milano, che fa caso a sé anche per la sua vastità, il problema di questi quartieri non è la delinquenza, ma l’invecchiamento, cioè la qualità demografica. Come ha spiegato bene Enrico Moretti nel suo saggio sulla nuova geografia del lavoro – dove traccia un’analisi comparata delle città americane – normalmente ciò che fa la differenza è la qualità del capitale umano che si insedia in un luogo. Per questo a Mirafiori Sud tra le attività più interessanti promosse dalla Fondazione, a parte gli orti urbani, c’è il sostegno a 130 studenti stranieri del Politecnico che vivono in via Negarville. Perché se in un luogo arrivano giovani in gamba con aspirazioni di reddito e di qualità della vita, questo non può non avere influenza su tutti i servizi di quel luogo».
Ma Bruno Manghi ha colto l’occasione dell’assemblea degli artigiani per una riflessione sul ruolo delle associazionismo. «A Mirafiori incontro tante persone, ma le associazioni sono poche e poco presenti. In pochi si presentano come associazione, con l’orgoglio di essere un’associazione e i valori di un’associazione. Confartigianato come le altre associazioni di categoria dà servizi cruciali, è una tecnostruttura importante, fa lobby verso le istituzioni, ma non è solo questo a fare un’associazione. Da Confindustria al sindacato, tutte le associazioni hanno attraversato momenti difficili, però ci sono alcuni esempi in controtendenza. Pensiamo alla Coldiretti: vent’anni fa era un’associazione finita, perché erano finite le relazioni con il mondo politico, erano cambiati gli interlocutori. Un gruppo di giovani l’ha presa in mano e l’ha riformata fornendo una identità professionale e non generica e intercettando la nascita della curiosità per l’ambiente e per l’agricoltura. Oggi le sue bandiere le conoscono tutti. Quando l’autorità centrale diventa più debole e meno decisiva, la parola torna alle associazioni, ma solo se sono associazioni e non semplici coalizioni di lobby. Gli artigiani, per esempio, sono anche degli educatori, perché quando trasmetti la bottega non trasmetti solo un’attività economica, ma trasmetti il senso di quella bottega, il gusto di fare qualcosa. Oggi si è riscoperto il valore del maker, del fare, c’è una grande ripresa del lavoro che non va confuso con il posto di lavoro ma con il senso di un’esistenza. Da questo, dall’orgoglio del fare, devono ripartire le associazioni».

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opinioni A Torino la politica culturale punta su periferie, biblioteche e teatri

Francesca Leon è la nuova assessora alla cultura della città di Torino. Nel corso della sua vita professionale ha accumulato una serie di esperienze in diversi settori del mondo culturale, dall’editoria alla tivù, occupandosi di promozione della cultura e inventandosi una formula di abbonamento ai musei torinesi e piemontesi che si è rivelata uno strumento efficacissimo per assicurarsi la fedeltà dei visitatori e l’aumento del loro numero.

Non a caso, la cosa è stata replicata altrove. Ora però forse ha di fronte il compito più impegnativo: impostare in veste di assessore alla cultura il lavoro che in questo ambito andrà fatto in una città come Torino nei prossimi cinque anni. Ma se le si chiede quali saranno le sue linee guida, preferisce parlare di metodo di lavoro:

L’esperienza mi ha insegnato che alla base di qualsiasi scelta debba esserci ascolto, conoscenza e condivisione. L’ascolto è indispensabile per capire i bisogni sia dal lato della domanda sia da quello dell’offerta; la conoscenza serve per capire il funzionamento e le interazioni tra i diversi attori del mondo culturale, per analizzarne le dinamiche, l’efficacia delle azioni nel contesto cittadino, i risultati e le ricadute sulla città, non solo in termini economici e strumentali. La condivisione, infine, è lo strumento per individuare gli obiettivi e le azioni da mettere in atto per raggiungerli. La città è un organismo complesso e per questa ragione il mio lavoro di assessore alla cultura sarà in stretta interazione con le politiche urbanistiche, educative, sociali.

Nel corso degli ultimi decenni, al pari di altre realtà europee con un grande passato manifatturiero, Torino è diventata una città postindustriale. E come altrove anche qui si è deciso di “puntare sulla cultura” per dare all’ex capitale dell’auto una nuova identità e nuove prospettive anche dal punto di vista economico.

Oggi però alla voce cultura si sovrappone spesso quello che un tempo si sarebbe detto intrattenimento, che non di rado ha a che vedere con l’effimero. E in molti si chiedono quali carte possa giocarsi una città come Torino per non diventare semplicemente una fabbrica di eventi. Francesca Leon sorride: “Magari fosse una fabbrica di eventi”. Secondo lei, la capacità di programmazione e quella produttiva si sono ridotte in modo più che proporzionale alla riduzione di risorse, anche se non mancano le eccezioni positive.

Alcune grandi istituzioni, teatro Regio innanzitutto, sono riuscite a produrre spettacoli e a farli circuitare; ma nel mondo delle compagnie indipendenti la produzione è limitata, le coproduzioni sono rare così come la loro circolazione di al di fuori del territorio piemontese, anche in questo caso, mi dice, con ovvie eccezioni.

Anche in alcuni ambiti in cui l’intervento pubblico ha avuto incidenza marginale, a Torino come in Italia, esistono realtà importanti, radicate sul territorio e al tempo stesso affermate nel mercato globale, come Club to club, Share festival, Movement, Kappa futur festival, View conference. Lo stesso problema si pone per le istituzioni museali: la linea di indirizzo seguita è stata quella dell’acquisto di eventi espositivi più che la loro programmazione e produzione e questo ha generato un doppio danno: perdita di competenze e perdita di relazioni con musei italiani e stranieri che si alimentano solo attraverso l’ ideazione, la progettazione, la programmazione delle attività e la continuità.

A suo parere, la chiave è tornare a produrre, dare spazio alle idee anche individuando sistemi di finanziamento pubblico legati a bandi che indichino la strada che si intende percorrere: innovazione, collaborazione pubblico privato, allargamento della platea, distribuzione delle attività sulla città, coproduzione, esportazione. Sottolinea:

La competitività e l’attrattività del territorio e la qualità dei servizi ai cittadini non sono obiettivi conflittuali e incompatibili, a patto di inserirli in una visione unitaria. Bisogna rendere protagoniste di questi obiettivi le forze creative e culturali locali, coinvolgendole nella ideazione e nella programmazione anche degli eventi in funzione di attrazione turistica purché in un percorso che costruisca opportunità di crescita professionale, di rafforzamento strutturale della scena creativa cittadina in una dimensione nazionale e internazionale.

Metto da parte i miei trascorsi di curatore del programma dedicato dal Salone del libro agli editori indipendenti, e prima ancora di Bookstock, la sezione dedicata ai ragazzi delle scuole, e a proposito di eventi che non sono stati effimeri ma che corrono oggi seri rischi di sopravvivenza le chiedo che cosa pensi si possa fare per evitare che Torino perda definitivamente questo appuntamento, per 29 anni la manifestazione legata al libro più importante d’Italia e, con la Buchmesse di Francoforte, la maggiore in Europa. La questione ovviamente mi tocca da vicino, volendo anche semplicemente in veste di autore, ma si tratta di un tema che non posso evitare di sollevare.
Francesca Leon in piazza Castello, Torino, il 3 settembre 2016. – Daniele Ratti per Internazionale
Francesca Leon in piazza Castello, Torino, il 3 settembre 2016. (Daniele Ratti per Internazionale)

Francesca Leon si mostra sicura, come peraltro la nuova sindaca Chiara Appendino. “Torino non perde il suo Salone internazionale del libro. Semmai rischiamo che con due appuntamenti in concorrenza perdano tutti”.

Ai suoi occhi è poco lungimirante pensare che basti fare una fiera a Milano per superare i problemi che oggi colpiscono il mondo dell’editoria. “Hanno prevalso gli interessi di pochi contro quelli di molti, in un mercato che in Italia perde terreno. Perché in Italia la lettura è una attività sempre meno praticata, con conseguenze che vanno ben oltre la crisi dell’editoria. Un paese che non legge è un paese che perde coscienza di sé, della sua storia e delle storie degli altri”. Da queste riflessioni, mi spiega, nascerà il nuovo Salone. “Che realizzeremo con i lettori, con le istituzioni formative, con gli editori, con gli autori e con i librai; mettendo al centro del nostro impegno il lettore e lavorando su temi come l’innovazione: oggi ci sono moltissimi modi di scrivere e di leggere, che utilizzano le molteplici opportunità di innovazione rese possibili dal digitale”.

Contrapposizione tra centro e periferia
Secondo Francesca Leon, l’obiettivo della manifestazione sarà lavorare sulla promozione della lettura al livello nazionale costruendo un appuntamento dove trovino spazio i progetti, i festival, le fiere e gli eventi legati al mondo del libro. “Lavorare in cooperazione con uno scopo condiviso è condizione indispensabile per superare le competizioni territoriali che, se non sono inserite in un progetto di respiro nazionale, non riescono a incidere su un paese che legge poco”.

Ma, tornando alla città: non da ora e non solo a Torino quando si parla di cultura salta spesso fuori la contrapposizione tra quanto offre il centro della città e quanto avviene nelle periferie. C’è chi non parla più di periferie ma sostiene l’idea di una città policentrica. Torino ha avuto una storia non facile con le sue periferie: quartieri come Mirafiori o le Vallette hanno solo da poco le loro biblioteche, che peraltro funzionano splendidamente.

E a parere di Francesca Leon, occorre individuare una scala di priorità di intervento che tenga conto dello stato attuale del rapporto tra i cittadini e l’offerta culturale. “Entrando in una biblioteca e partecipando a un evento in piazza San Carlo si scoprono due volti della stessa città. Ma i rispettivi sguardi non si incontrano quasi mai”. Per lei si tratta di rispondere ai bisogni che arrivano dai primi pensando a un sistema culturale più inclusivo, che riesca ad arrivare laddove il grande evento non può farlo. “In questo senso dare priorità al sistema bibliotecario vuol dire rispondere ai bisogni di una moltitudine di persone: le biblioteche sono il principale presidio culturale in città e oggi sono in sofferenza per problemi strutturali, di distribuzione e di personale. Occuparsene vuol dire in primo luogo avere un quadro preciso delle risorse necessarie per affrontare le maggiori criticità, programmando gli interventi nel medio e lungo periodo”.

Naturale che per Leon, che come si è detto in questi anni si è occupata di musei, proprio il sistema museale sia un’altra priorità: lo è del resto a ben vedere in tutta Italia, visto e considerato che proprio all’interno del sistema museale è conservata una parte notevole del nostro patrimonio culturale. “Il fatto è che bisogna collegare maggiormente il lavoro delle istituzioni museali e dei beni culturali ai bisogni della città, sviluppandone la funzione educativa e la capacità progettuale”.

Per quanto riguarda la prima, individuando strumenti per conoscere meglio il rapporto tra scuole e musei, stabilendo un dialogo che ne favorisca una relazione dinamica; quanto alla seconda, favorendo le collaborazioni tra le istituzioni museali torinesi e tra queste e quelle italiane ed europee, allo scopo di produrre eventi espositivi, scambi formativi e di esperienze. Un capitolo a parte è poi quello rappresentato dal mondo dello spettacolo dal vivo. “Che oggi appare cristallizzato, mentre la riduzione di risorse calata anche su questo settore dal 2008 ha portato a una forte riduzione di compagnie e artisti che operano a Torino, imponendo alla maggior parte dei soggetti una contrazione della capacità di produzione e di investimento”.

La città policentrica
Da qui in avanti, mi spiega, le politiche dovranno operare verso una modalità diversa nell’attribuzione delle risorse pubbliche e nella gestione degli spazi, così da recuperare un rapporto virtuoso tra le grandi istituzioni e le compagnie di produzione professionali, tra le grandi orchestre e le organizzazioni musicali più piccole, tra i professionisti e i giovani che si avvicinano a questo mondo. “Ritengo che puntare sulla cooperazione e sulla crescita sia più efficace della mera competizione sulle risorse che, all’inverso, porta chiusura e autoreferenzialità”.
Francesca Leon a palazzo Madama, Torino, il 3 settembre 2016. – Daniele Ratti per Internazionale
Francesca Leon a palazzo Madama, Torino, il 3 settembre 2016. (Daniele Ratti per Internazionale)

Torino è oggi tra le città italiane più visitate. Spesso in un recente passato c’è stato chi ha rilevato come certe piazze auliche della città siamo state usate in modo inappropriato, allo scopo di ospitare manifestazioni simili alle sagre di paese. E in molti si chiedono se sia possibile conciliare il senso estetico e il rispetto del patrimonio urbanistico e architettonico con le esigenze di bilancio. “Torino non è solo le sue piazze auliche, la città è grande e si possono valorizzare altri circuiti coinvolgendo a raggiera altri spazi, creando nuovi circuiti per le manifestazioni che ne hanno bisogno. Questo non configge con le esigenze di bilancio, anzi, vuol dire operare perché Torino diventi effettivamente una città policentrica”.

I doveri di uno stato
Per tornare alla questione del “puntare sulla cultura”, Torino ha nel Politecnico un’eccellenza in grado di attirare studenti anche dal resto del mondo. Forse è questa una delle strade da percorrere, fare di Torino sempre più un luogo dove i giovani vogliano trasferirsi per studiare. Possibilmente non nei cinema o per strada, com’è accaduto ancora di recente a causa dei problemi di agibilità che affliggono palazzo Nuovo…

“Rendere Torino una città accogliente per i giovani è una priorità, non solo per chi studia”, mi dice l’assessora. “Ma perché questo accada non basta avere delle ottime università e una vita culturale dinamica. Occorre che quei giovani una volta finita l’università trovino lavoro in città e decidano di restare, di mettere su famiglia. Torino ha una disoccupazione giovanile altissima e se non si inverte la tendenza la città invecchia e le prospettive di sviluppo peggiorano”.

Uno dei temi più spinosi, per ciò che riguarda il patrimonio architettonico, è stato in questi ultimi anni quello del futuro della Cavallerizza, ovvero delle ex scuderie dei Savoia, un luogo di grande fascino iscritto dal 1997 tra i beni Patrimonio dell’Unesco e attualmente occupato.

Ho seguito le recenti vicende legate alla Cavallerizza e ne conosco la lunga storia dei tentativi di recupero e utilizzo, legata alle vicissitudini dei passaggi di proprietà e delle diverse destinazioni immaginate e percorse dalle giunte che si sono avvicendate negli ultimi 15 anni. A mio parere la destinazione dovrebbe essere a uso culturale, di servizio a enti, organizzazioni culturali e formative, proprio per la sua localizzazione al crocevia tra le più importanti istituzioni della città. A oggi la giunta sta approfondendo lo stato delle decisioni operate finora per capire come sarà possibile tracciare una nuova strada per la Cavallerizza.

Complice la crisi, oggi in Italia si dice che la cultura deve imparare a sostenersi senza più dipendere dai finanziamenti pubblici, convincendo con la bontà dei progetti anche sponsor privati. Ma c’è chi paventa il rischio di veder sopravvivere solo certe grandi realtà, e di vedere l’estinzione di esperienze magari validissime ma magari meno pop e dunque lontane dai grandi numeri. Francesca Leon scuote la testa.

Laddove vi è un patrimonio culturale pubblico da tutelare e valorizzare è dovere dello stato nelle sue diverse articolazioni farsene carico. E per patrimonio non intendo solo i beni culturali. L’obiettivo da porsi è sviluppare con i privati un rapporto di collaborazione che veda un impegno reciproco nel sostegno alla diffusione della partecipazione culturale, allo sviluppo delle idee e della loro realizzazione, puntando sulla capacità della città di diventare un luogo dove si produce cultura, dove le idee innovative prendono forma e crescono puntando alla loro sostenibilità nel tempo.

In questo senso, secondo lei, chi amministra una città ha il dovere di far emergere non solo il singolo ente, evento, manifestazione, ma come questo si inserisca nel progetto culturale complessivo, definendo obiettivi, strumenti e azioni che coinvolgano anche i soggetti privati interessati alla crescita e allo sviluppo della città. Si è fatto tardi, non voglio far perdere altro tempo alla mia interlocutrice, ma decido comunque di farle una domanda alla Marzullo, e le chiedo quale sia il suo sogno di assessora alla cultura. “Da quando sono stata nominata non ho avuto molto tempo per sognare e potrei dire che anche i bilanci non aiutano in questo senso. Preferisco restare con i piedi per terra e dare il mio contributo con il pragmatismo che mi è proprio, lavorando alla costruzione di futuro condiviso con la città”.

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