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Aubervilliers, le startup delle banlieue

Uber, sviluppatori, scuole: il futuro che nasce nei ghetti.
Superate le vetrine di boutique cinesi sull’avenue Pékin, la fila si riconosce da lontano. Non è difficile orientarsi nel Fashion Center di Aubervilliers, periferia Nord di Parigi. “Tutti sanno dov’è Uber” ci avverte al telefono Badia Berrada. La giovane responsabile comunicazione del gigante americano apre le porte del centro dove si svolge un incessante pellegrinaggio. Ogni settimana 4500 giovani vengono a bussare per trovare un lavoro. La maggior parte si sposta di appena qualche chilometro, vive nelle banlieue-ghetto della regione come Yanis, 24 anni, che sogna di essere presto alla guida della sua berlina nera. “Ho tanti amici driver – spiega – voglio provare anche io”.

Nel Paese del colbertismo, delle 35 ore, delle barricate alzate l’anno scorso contro il Jobs Act del governo socialista, ci sono ragazzi pronti a lavorare fino a 60 ore a settimana senza un padrone, senza contributi e per un reddito medio non garantito di 1700 euro. Uber è diventato il più grande reclutatore della zona. Ogni quattro nuovi posti di lavoro in tutta l’Ile de France, la regione parigina, uno è creato nel settore delle auto con conducente. “Dieci anni fa i giovani delle banlieue bruciavano le automobili per protestare, oggi sono al volante, portano la cravatta e sono servizievoli con i clienti” sintetizza Berrada facendo riferimento agli scontri che avevano incendiato le periferie nel 2005. La responsabile comunicazione di Uber fornisce un profilo tipo dei 17mila driver: più della metà ha meno di 35 anni, per il 55% si tratta di un primo lavoro, un altro 40% era iscritto sulle liste di disoccupazione.

Con due milioni di clienti, la Francia è uno dei mercati europei più importanti per Uber. Ironia del destino, il fondatore Travis Kalanick ha avuto l’intuizione di creare la sua piattaforma proprio durante un soggiorno nella capitale francese, dopo aver cercato invano un taxi. Nonostante il successo, la relazione tra Francia e Uber è tutt’altro che serena. La Ville Lumière è stata teatro di scontri e violenze dei tassisti contro gli autisti del gruppo americano. Dal 2009 sono state votate tra le polemiche ben quattro riforme per mettere più paletti alla licenza Vtc (voiture de transport avec chauffeur), l’equivalente del Ncc, noleggio auto con conducente. Da qualche mese è in corso l’ennesimo tentativo di mediazione del governo, stavolta dopo la protesta dei driver contro il calo delle tariffe.
La Francia della new econony riserva molte sorprese. A Parigi c’è un record di nuove imprese nelle nuove tecnologie, sono state lanciate piattaforme di successo come Blablacar, Vente-Privée, il motore di ricerca Qwant. La capitale è uno dei principali mercati per AirBnb e tra qualche settimana aprirà nel tredicesimo arrondissement Station F, il più grande incubatore al mondo di start-up, nuovo progetto avveniristico di Xavier Niel. L’imprenditore delle telecomunicazioni, che sbarcherà presto in Italia, ci aspetta rilassato, jeans e barba lunga. L’appuntamento è Porte de Clichy, non lontano da Aubervilliers, per visitare l’École 42. L’istituto che forma sviluppatori informatici è aperto sette giorni su sette, giorno e notte. Accoglie ragazzi senza pretendere requisiti. “Chiediamo solo nome e cognome, data di nascita. Quasi metà dei nostri alunni non ha la maturità” racconta Niel, che tre anni e mezzo fa ha investito 30 milioni nel progetto, senza sovvenzioni dello Stato. Oltre la metà degli alunni viene dalle banlieue più povere. Un quarto ha precedenti penali. “Offriamo una seconda chance. La scuola si svolge come un enorme gioco, davvero accessibile a tutti”. È un modello alternativo all’Ena, la scuola dell’élite francese? “Siamo un’altra cosa, evitiamo paragoni” risponde Niel diplomaticamente. Ogni anno 70mila persone tentano di iscriversi con i test online. Meno di un terzo è poi selezionato nei locali della scuola con esame continuativo davanti al computer, oltre quindici ore al giorno per un mese di fila. Nei corridoi si vedono materassi, panni stesi, ci sono docce a disposizione.Il nome in codice di quella che assomiglia a una prova estrema di resistenza psico-fisica è “La Piscine”. Meno di mille candidati restano a galla, prescelti per frequentare gratuitamente “42”, il numero che secondo un libro culto di Douglas Adams è la soluzione a qualsiasi domanda esistenziale. Gli alunni non hanno lezioni né professori, costruiscono da soli il proprio percorso interagendo dentro al sistema informatico. Frequentano come e quanto vogliono, si danno i voti gli uni con gli altri, e alla fine del corso non ricevono neppure un attestato. Non ce n’è bisogno. “Trovano lavoro già prima di finire la scuola” racconta il patron di Free che rappresenta un’eccezione nell’élite francese: ha solo la maturità, si è fatto da solo, non viene da nessuna aristocrazia industriale. “Quel che proponiamo – aggiunge – è atipico ma funziona, corrisponde a ciò che chiedono le imprese”. Una succursale è stata appena aperta nella Silicon Valley. L’École 42 è stata visitata da François Hollande, l’ex ministro Emmanuel Macron è venuto più volte. Niel, tra gli editori del giornale Le Monde , fa attenzione a non sbilanciarsi sul leader di En Marche: “La politica non può tutto – sostiene – è giusto che, a un certo punto, la società civile prenda l’iniziativa per cambiare il Paese”.

Molti politici non sanno come approcciarsi alla rivoluzione della new economy. Solo Macron – che alcuni hanno paragonato a Uber in politica – propone di riconoscere uno statuto per i lavoratori indipendenti e non inquadrati come driver, fattorini. “Sono proposte modeste, purtroppo Macron è molto più timido da candidato che da ministro” commenta Denis Jacquet, promotore insieme ad altri imprenditori del movimento dei Pigeons per far togliere al governo l’imposta sulla plusvalenza della vendita delle start-up. “C’è uno straordinario sfasamento tra una parte del Paese reale e la politica” commenta Jacquet nel suo ufficio, un gigantesco loft boulevard Haussmann da cui si vede tutta Parigi. “La Francia ha ancora un ottimo sistema di educazione, buone infrastrutture. È un Paese che crea talenti, ma molte energie restano bloccate”. La parola “digitale”, osserva, è assente da quasi tutti i programmi. “Nessuno cerca di fare chiarezza su dove ci sta portando la new economy: né sugli aspetti più inquietanti, proponendo soluzioni, né su quelli più positivi che possono portare benefici alla società. È disperante”.

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Le start up di successo? Nascono in periferia e sono fondate da donne

A Milano la maggior parte nasce per iniziativa di donne, under 35. Dalla ciclofficina con bar all’hamburgeria con carne di struzzo, la fantasia delle nuove imprenditrici non ha limiti. Dal 2012 al 2015 complessivamente in città sono nate 382 imprese e l’83% è ancora in attività. Danno lavoro a 706 soci e 1.222 dipendenti

Anche in periferia possono nascere start up di successo. I fratelli gemelli Veca, uno apicoltore e l’altro disegnatore, a Baggio hanno avviato un progetto di animazione nelle scuole sulla difesa della biodiversità, con tanto di “Ape canterina” che accompagna gli incontri con i bambini. Luca e Riccardo, ingegneri ma con una grande passione per la corsa, al Parco Nord hanno creato, insieme ad altri amici, la prima (e per ora unica) Runstation della città: “La42” un negozio in cui non solo si possono acquistare scarpette, tute o integratori, ma dove è anche possibile fare la doccia o lasciare in deposito oggetti di valore (dal cellulare al pc) prima di fare la solita corsetta durante la pausa pranzo o prima di cena. Sono due tra le 570 imprese e start up sorte dal 2012 a oggi a Milano. Alcune grazie a specifici bandi dedicati alle periferie. L’ultimo, chiamato “Startupper” e chiuso l’estate scorsa, ha messo a disposizione 1,5 milioni di euro: ne sono nate così 21 imprese di periferia. La maggior parte fondate da donne (16), under 35 e in possesso di laurea o diploma. Le nuove realtà che aprono sono sei in Corvetto, quattro a Villapizzone, tre in Lorenteggio e Giambellino, due in Barona e in Bicocca-Greco una a Morsenchio, a Bruzzano, in Bovisa e in Certosa. La fantasia dei novelli imprenditori va dalla produzione di pasta fresca a una moderna ciclofficina con annesso bar, passando da elementi d’arredo esterno realizzati in marmo a un’hamburgeria dove gustare sapori esotici come carne di canguro e struzzo, sino a uno studio specializzato nella realizzazione di spazi abitativi sostenibili, come giardini e orti urbani.

Secondo i dati del Comune, presentati oggi dall’assessora al Lavoro e Commercio Cristina Tajani, su 382 start up monitorate e sostenute attraverso gli otto incubatori d’impresa o con i diversi bandi dedicati come “Risorse in periferia”, “Tira su la clèr”, “Tra il dire e il fare” e “Agevola Credito”, l’83% è ancora attiva a 5 anni dalla nascita, quando il tasso di sopravvivenza nazionale è del 44%. Sono imprese che danno lavoro a 706 soci e 1.222 dipendenti. Dal 2012 al 2015 hanno fatturato circa 314 milioni di euro, mentre i finanziamenti ricevuti ammontavano a 7,1 milioni di euro. Questo vuol dire che ogni euro dato tramite bando ha generato circa 43 euro di fatturato. “I risultati raggiunti costituiscono la miglior cartina di tornasole per giudicare l’efficacia delle politiche attuate dall’Amministrazione”, ha sottolineato con un certo orgoglio l’assessora.

Tra le imprese sostenute in questi anni dal Comune ci sono anche quelle nate o che operano all’interno delle carceri milanesi. Ne è nato anche un consorzio, Vialedeimille, che raccoglie cinque cooperative con 100 persone -detenute o in misura alternativa- assunte e un fatturato di produzione di circa 1,5 milioni di euro in diversi campi d’intervento, dalla ristorazione alla meccanica, dall’artigianato alla botanica.

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Periferie, nascono le prime start-up dell’amministrazione Sala

Sono 19 le attività che oggi accendono le luci da Greco al Corvetto, dalla Barona al Lorenteggio passando per la Bovisa e Bruzzano, grazie al sostegno dell’Amministrazione.
Milano crede nello sviluppo degli esercizi commerciali e dei servizi in periferia. Sono 19 le attività che oggi accendono le luci da Greco al Corvetto, dalla Barona al Lorenteggio passando per la Bovisa e Bruzzano, grazie al sostegno dell’Amministrazione che ha messo a disposizione dei nuovi progetti d’impresa circa 1,5 milioni di euro. Ad annunciarlo questa mattina, presso il nuovo “ciclo-spazio” di Turro, il sindaco Giuseppe Sala con l’assessore alle Politiche per il lavoro, Attività produttive e Commercio Cristina Tajani, affiancati da alcuni degli aspiranti imprenditori che hanno deciso di far nascere e crescere le loro attività nelle aree periferiche della città.

“Milano è una città vivace, che sa reinventarsi ogni giorno, che permette ai giovani imprenditori di sviluppare i propri sogni, le proprie idee. I 19 progetti che presentiamo oggi ne sono un esempio concreto: sono la migliore espressione della capacità di innovazione e dell’intraprendenza della nostra città e dei suoi cittadini. Puntare sulle start-up, investire su iniziative di valore nelle periferie, aiutare nuove imprese a farsi spazio sul mercato non è un atto estemporaneo, ma sarà un obiettivo costante di questa Amministrazione, perché Milano ha tutte le caratteristiche per diventare un punto di riferimento internazionale, anche in questo settore”, afferma il sindaco Giuseppe Sala.

“Con questi primi 19 progetti d’impresa vogliamo dare nuovo slancio alla riqualificazione di tante aree decentrate, sostenendo nuove aperture artigianali e commerciali di vicinato che per noi rappresenta il modo migliore di far tornare a vivere le vie e i quartieri della periferia”.

Così l’assessore alle Politiche per il Lavoro, Attività produttive e Commercio Cristina Tajani, che prosegue: “Da oggi inoltre avviamo un nuovo dialogo con MM per identificare i tanti spazi commerciali degli immobili del Comune che possono ospitare attività imprenditoriali contribuendo anche a sviluppare processi aggregativi e di socialità diffusa”.

Diciannove i progetti d’impresa selezionati tra le oltre 70 richieste pervenute all’Amministrazione.

Cinque gli ambiti in cui spazieranno le nuove attività: dalla ristorazione innovativa a quella rivisitata, passando dall’artigianato, sino ai servizi alla persona e allo sport. Tra i vincitori 12 sono donne e 7 uomini, l’80% è under 35 e molti di essi sono in possesso di laurea o diploma, oltre ad aver maturato esperienze lavorative precedenti in linea con il proprio percorso di studi per poi diventare imprenditori di se stessi. Tutti hanno frequentato il corso di avviamento alla gestione d’impresa realizzando un accurato business plan dell’iniziativa.

Nascono dunque nuove attività in periferia, come “C’è pasta per te” a Villapizzone, nata dalla volontà di due giovani laureati non solo di produrre e vendere il più amato alimento nazionale, la pasta fresca, ma anche divulgare i segreti dell’arte bianca con lezioni, incontri e corsi. Legate al cibo anche la “kebabberia gourmand” a Greco, realizzata con prodotti a km 0, e l’hamburgeria in Bicocca, dove gustare sapori esotici come carne di canguro, struzzo, asino e cavallo. Nel segno dell’etnico la proposta di una giovane camerunense in Corvetto, che delizierà i palati dei milanesi con gli insoliti sapori della frittura di platano e salse tipiche del Continente nero. Non può mancare lo street food di “Sfrigola” a Lorenteggio con frittura di prodotti ittici.

Spazio anche al design con chi reinventa l’attività di famiglia a Bruzzano: dai marmi funebri ai più moderni mobili da giardino e chaise longue, ovviamente in marmo.

E ancora, mentre a Corvetto un giovane realizza il suo sogno, rilevando l’attività del suo datore di lavoro e facendo sua l’officina dove ha appreso i segreti della meccanica e dei motori, in Barona nasce la sartoria “Punto e Croce”, che proviene da una precedente esperienza a sostegno della Croce Rossa per il reintegro lavorativo di donne in difficoltà.

A Turro, poi, sorge il primo “ciclo-spazio”: noleggio e riparazione di biciclette oltre a un bar e garden market su 1300 mq lungo la ciclopedonale della Martesana (gli altri dieci progetti sono descritti in allegato).

Tutti i progetti vincitori potranno contare su un finanziamento dell’Amministrazione pari al 50% dell’investimento (fino a un massimo di 50mila euro, 25% a fondo perduto e 25% a un tasso agevolato dello 0,5%), volto a coprire le spese come ad esempio il rinnovo dei locali, i canoni di locazione, l’acquisto di software gestionali, le spese sostenute per la comunicazione o per il pagamento delle utenze. Per i progetti che abbiano necessità di una facilitazione di accesso al credito per il restante 50% delle spese sarà possibile richiedere l’utilizzo del Fondo di Garanzia che consentirà alle imprese di essere facilitate nell’accesso a un ulteriore finanziamento bancario.

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MyFoody, la startup che ha già salvato 80 chili di cibo

Prodotti in scadenza o con difetti estetici vengono venduti sulla piattaforma web a prezzi ribassati. L’idea di quattro under 30 italiani.
Ottanta chili di cibo “salvato” dalla spazzatura, e 320 chilogrammi di anidride carbonica in meno. Sono i risultati di quasi due mesi di attività di MyFoody, una delle startup dell’incubatore Alimenta sviluppato dalla fondazione del Parco tecnologico padano. La piattaforma, lanciata il 20 maggio dal ventisettenne Francesco Giberti, sembra un normale sito di e-commerce. Ma in vendita c’è un prodotto speciale: il cibo vicino alla data di scadenza, con difetti di packaging o in eccedenza, che i supermercati rifilerebbero nella pattumiera. E che invece, tramite MyFoody, può essere venduto a prezzi ribassati e quindi recuperato.
L’idea nasce nel 2012 quando Francesco, allora studente di giurisprudenza per un periodo di studio in Belgio, compra un pacco di biscotti bio e una volta tornato a casa si accorge che la scadenza è imminente. Si chiede se è giusto comprare a prezzo pieno un prodotto che ha una vita minore rispetto agli altri. Da lì comincia le sue ricerche. Scopre che i numeri italiani sono sconcertanti: nella distribuzione alimentare si buttano ogni anno 277mila tonnellate di cibo ancora commestibile. Un grosso danno ambientale, visto che ogni chilo di cibo sprecato equivale, secondo i calcoli di Wwf , a quattro chilogrammi di anidride carbonica emessa nell’ambiente. Solo 8,5% delle eccedenze viene recuperato e donato dalle associazioni non profit, il restante 91,5% finisce con gli altri rifiuti.
Nella distribuzione alimentare si buttano ogni anno 277mila tonnellate di cibo ancora commestibile. Ogni chilo sprecato equivale a quattro di anidride carbonica emessa nell’ambiente
Il 20 maggio, dopo un periodo di accelerazione nell’Impact Hub di Firenze, viene lanciata la piattaforma (per il momento ancora in versione beta) con in coinvolgimento di 13 punti vendita di Milano, tra catene, market indipendenti e negozi bio. La squadra è composta da quattro ragazzi, tutti under 30: oltre a Francesco, che nel frattempo si è laureato, ci sono Luca Masseretti, laureato in economia, Esmeralda Colombo, laureata anche lei in giurisprudenza, e Stefano Rolla, con una laurea in architettura.
Il funzionamento di MyFoody è semplice. Il punto vendita carica sulla piattaforma i prodotti a rischio spreco. Il cliente, una volta consultata la piattaforma, si reca nel punto vendita e compra i prodotti a prezzi più bassi di quelli di mercato. «I prodotti a rischio sono di tre tipi», spiega Francesco Giberti. «Ci sono i prodotti vicini alla scadenza che vengono tolti dagli scaffali, ma che hanno ancora da due a dieci giorni di vita utile». Lo scatolame, addirittura, viene rimosso dagli scaffali anche venti giorni prima della scadenza. Per policy aziendale, i clienti non devono imbattersi in scadenze ravvicinate. Poi ci sono «i prodotti con difetti estetici, come lo scatolame ammaccato o la frutta e la verdura rovinate all’esterno e i prodotti overstock acquistati dai negozi in quantità superiori rispetto ai reali bisogni che rimangono in magazzino».
Il punto vendita carica sulla piattaforma i prodotti a rischio spreco. Il cliente, una volta consultata la piattaforma, si reca nel punto vendita e compra i prodotti a prezzi più bassi di quelli di mercato
Anziché finire nella pattumiera, questi cibi vengono venduti sulla piattaforma MyFoody a prezzi scontati. Per i prodotti vicini alla scadenza viene anche indicato il numero di giorni utili che restano. Lo sconto aumenta con l’avvicinarsi della scadenza. Ai venditori viene fornito un kit, con un dispositivo a forma di pistola che rende molto semplice il caricamento dei prodotti sulla piattaforma. Per i punti vendita non c’è quindi un impiego di tempo eccessivo e si riesce a ottenere un guadagno da prodotti che invece avrebbero fruttato zero. Il guadagno per MyFoody è in percentuale sul venduto, dal 10 al 15% in base alla grandezza del punto vendita, più un canone d’uso del dispositivo per caricare i prodotti.
«La nostra sfida», spiega Francesco, «è che la grande distribuzione possa creare valore per se stessa ma anche per gli utenti a livello sociale». Quando fa la spesa, l’utente sa in tempo reale quanto risparmia in termini economici e quanta anidride carbonica ha risparmiato. Prendiamo ad esempio una barretta di cioccolato fondente che ha ancora 18 giorni di vita utile: il prezzo è scontato del 30 per cento, il risparmio equivale a 1,15 euro, mentre l’anidride carbonica risparmiata è di 400 grammi. «Recuperare i prodotti per donarli per i punti vendita rappresenta un costo», dice Francesco. «Né si ha alcun vantaggio a livello fiscale ed economico». Per questo le donazioni sono ancora ferme all’8,5 per cento. Con MyFoody, invece, il prodotto può essere venduto ancora. E il negozio ci guadagna. Dopo la fase beta, che terminerà a settembre, a MyFoody fanno progetti in grande. Sono in fase accordi con nomi noti della grande distribuzione organizzata, e da Milano promettono di spostarsi da ottobre anche in altre città. Il risparmio è garantito.

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Start up innovative

online i moduli per presentare la domanda.

Sul sito Smart&Start la guida alla compilazione delle domande da inviare dal 16 febbraio.

E’ online la documentazione e tutte le informazioni necessarie per la richiesta delle agevolazioni al programma di incentivazione Smart&Start da 200 milioni di euro destinato alle start-up innovative.

Nella nuova sezione attivata ieri si trovano i moduli da compilare off line e caricare sulla piattaforma, assieme al business plan, dal 16 febbraio 2015 per l’ammissione alle agevolazioni.

Le informazioni richieste per la presentazione del piano d’impresa e della domanda di agevolazione sono diverse per una start-up innovativa già costituita o per una start-up che deve nascere; di conseguenza anche la modulistica sarà diversa a seconda che si tratti di società costituita o non ancora costituita.

E’ possibile trovare anche un facsimile di domanda, ovvero un pdf che evidenzia tutte le informazioni che verranno richieste al momento della compilazione della domanda digitale.

Infine è presente un’utile guida alla compilazione della domanda per consentire agli utenti una corretta stesura della richiesta.

Smart&Start Italia consiglia di approfondire questa documentazione così da redigere la domanda in maniera completa e corretta ed avere accesso alle agevolazioni.

Inoltre si precisa che il 16 febbraio non è un click day, ma solo la data d’inizio per l’invio delle richieste; perciò non bisogna compilare i moduli con fretta a discapito della completezza delle informazioni.

Tutti i business plan ricevuti da Smart&Start Italia saranno valutati in base all’ordine di arrivo.

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Startup sociali, la guida per il riconoscimento

Il ministero dello Sviluppo Economico ha annunciato l’introduzione di un nuovo metodo per l’identificazione. Un agile vademecum per capire come funziona

Nei giorni scorsi come segnalato da Vita.it (vedi nelle correlate) il ministero dello Sviluppo Economico ha annunciato l’introduzione di un nuovo metodo per l’identificazione delle startup innovative a vocazione sociale. Si tratta di un iter estremamente agile

e flessibile, fondato sulla rendicontazione dell’impatto sociale, sulla trasparenza e sul controllo diffuso delle informazioni. In allegato una guida a cura della nostra redazione che illustra nel dettaglio quali sono le novità introdotte dal Mise.

«Le startup innovative a vocazione sociale», spiega Mattia Corbetta, componente della segreteria tecnica del ministro Federica Guidi, «oltre a perseguire una finalità di profitto, coltivano un interesse riconducibile all’intera collettività».

Passando dal piano intuitivo a quello giuridico «i criteri identificativi sono gli stessi che a fine 2012 il “Decreto Crescita 2.0” ha attribuito alle startup innovative con un’ulteriore specificazione. L’impresa, infatti, deve operare in uno dei settori individuati dall’art. 2, comma 1 del decreto legislativo 155 del 2006, (la normativa sull’impresa sociale). Alle persone fisiche e giuridiche che scelgono di investire in questo segmento vengono riconosciuti benefici fiscali più elevati rispetto alle altre startup innovative: la detrazione Irpef passa dal 19 al 25%, mentre la deduzione dell’imponibile Ires va dal 20 al 27%.

Guida Startup sociali

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Spazi vuoti rianimati dalle startup sociali

Erano le ciminiere a delineare, nell’Ottocento, il profilo delle città. Oggi sono i palazzi e i capannoni, simboli del mix tra terziario e manifatturiero. Nell’economia della conoscenza quali saranno i luoghi che disegneranno il profilo del futuro? Per scoprirlo basta seguire le tracce dei luoghi dell’innovazione e della creatività, come i fablab, i coworking, gli incubatori, i luoghi culturali come le esposizioni d’arte, co-housing, nuove residenze d’artista, luoghi di nuovo welfare. Queste attività stanno trovando una nuova casa nei tanti luoghi abbandonati disseminati per l’Italia. All’insegna della sostenibilità.

Il paese dispone di un patrimonio di oltre sei milioni di beni inutilizzati o sottoutilizzati (significa più di due volte la città di Roma) tra abitazioni ed altri immobili pubblici, parapubblici e privati, come ex fabbriche e capannoni industriali dismessi, ex-scuole, asili, oratori e opere ecclesiastiche chiuse, cinema e teatri dismessi, monasteri abbandonati, spazi di proprietà delle società di Mutuo Soccorso e delle Cooperative Case del Popolo, Cantine Sociali, colonie, spazi comunali chiusi (sedi di quartiere ed altri spazi di proprietà quali lasciti), beni confiscati alla mafia, “paesi fantasma”. E la lista dell’Italia lasciata andare a se stessa è lunghissima.

È proprio in questi luoghi marginali, in questi residui della storia che si stanno scrivendo pezzetti di futuro, fatto di innovazioni, micro-impresa e talenti creativi, accompagnata sempre dall’entusiasmo delle comunità. «Non è la grande industria, l’infrastruttura che in altre epoche cambiava i destini di un paese. Si tratta di nuove nicchie di mercato, magari piccole e locali, ma che funzionano» spiega Giovanni Campagnoli, che ha raccolto le migliori best practice sul sito www.riusiamolitalia.it. Ne emerge un’Italia in fermento, con luoghi marginali che tornano a rinascere grazie soprattutto alla spinta di giovani. Non si tratta solo di presidi sociali sul territorio ma di vere e proprie attività economiche nell’ambito del welfare, dell’educazione, del turismo, della green economy. «I giovani mettono in campo piani di sostenibilità economica con startup sociali e culturali – aggiunge Campagnoli, autore del libro Riusiamo l’Italia (edito da Il Sole 24 Ore) –. Puntano alla diversificazione delle entrate, dipendono sempre meno da enti pubblici e sono più autonomi, grazie alla raccolta fondi, alle fondazioni ex bancarie, alla partecipazione a bandi». Così ad esempio a Rovereto lo spazio giovani Smart Lab, gestito da un’associazione di promozione sociale, nei primi sei mesi di avvio ha oltre 3.200 soci, l’80% under 35, occupandosi di programmazione musicale, artistica, incubatore di imprese, spazi co-working, sale prove, culture giovanili (generando un fatturato previsto, per questo primo anno, di circa 250mila euro).

«Questi spazi sono veri e propri “beni comuni” – scrive Campagnoli nel libro – che possono rappresentare una piccola, ma significativa misura “anticiclica”, perché producono occupazione giovanile, risorse economiche, socialità, cultura, aggregazione, sviluppo locale». Campagnoli, che lavora da anni nel sociale ed è di formazione bocconiana, ha anche calcolato l’impatto sull’occupazione: l’intervento anche solo sull’1 per mille degli immobili indurrebbe la creazione di 73mila posti di lavoro, con un contributo al calo dell’occupazione del 4,8 per cento. La stima potrebbe certamente crescere laddove il pubblico agisca da facilitatore. E proprio con questa consapevolezza il Comune di Bologna ha approvato a febbraio di quest’anno il «Regolamento sulla collaborazione tra cittadini e amministrazione per la cura e la rigenerazione dei beni comuni urbani». Altri 15 Comuni lo hanno adottato e un’altra cinquantina ci stanno lavorando. Perché il problema maggiore è come risolvere alcuni ostacoli, anche burocratici, come per esempio l’assunzione di responsabilità.

Cosa succede se qualche genitore si fa male mentre sistema la scuola del figlio il sabato? Il regolamento scioglie questo e altri nodi riuscendo così a dare applicazione concreta al principio di sussidiarietà. «Di fatto il regolamento libera risorse – spiega Gregorio Arena, docente di Diritto amministrativo all’Università di Trento e presidente di Labsus, che ha lavorato due anni col Comune per il regolamento –. E permette un salto culturale per cui agli occhi dello Stato i cittadini diventano portatori di capacità, di risorse, non più oggetto di bisogni da soddisfare». E a Bologna da due anni il Comune offre gratis gli spazi abbandonati nei quartieri. Sono un centinaio di palazzi e 1.200 aree di edilizia pubblica concessi a costo zero o a bassi canoni per far ripartire l’aggregazione e l’economia.

Anche lo Stato, a livello centrale, si muove. L’anno scorso il ministero della Difesa ha annunciato la concessione gratuita di 700 tra caserme, depositi, fortificazioni, bunker, terreni e rifugi alpini. La formula prescelta dovrebbe essere la valorizzazione d’onore con una concessione gratuita per dieci anni a chi presenterà un adeguato progetto. Il ministero conferma l’intenzione di dare seguito all’annuncio, con iniziative nei primi mesi del 2015.

 

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La favola milionaria di Gianluigi: “Dal Salento agli Usa l’eolico per tutti”

A neanche 20 anni ha brevettato in Puglia le mini pale “casalinghe” sulle quali un gruppo di finanziatori americani sta investendo cinque milioni e mezzo di euro. “Da una piccola startup ai capitali stranieri, ma la produzione resterà in Italia”

La Befana, nella calza di un ragazzo salentino, ha infilato cinque milioni e mezzo di euro; e quando è ripartita, per l’America o chissà dove, invece della scopa, era a cavallo di una mini turbina eolica fatta in Puglia. Questa storia è una fiaba da raccontarci la sera per credere ancora che non è tutto perduto.
Non è tutto perduto se esistono ragazzi come Gianluigi Parrotto che, senza chiedere un euro a nessuno, si è inventato un prodotto innovativo, ci ha costruito attorno una azienda e ha avuto così successo che in un anno appena ha venduto tutto ad un misterioso gruppo americano non con l’obiettivo di diventare ricco, ma per continuare a produrre turbine – e non solo – nella sua terra: «Voglio far nascere altre startup nel Salento» dice con la sua parlantina sicura, e per un attimo dimentichi che lui stesso è nato soltanto nel 1994: ha vent’anni.

Ma chi è davvero? E come ha fatto?
«Sono nato a Poggiardo, in ospedale, ma i miei stavano a Casarano, in provincia di Lecce. Dopo il biennio di Istituto industriale, a 16 anni mi sono trasferito da solo a Brindisi perché volevo frequentare una nuova scuola di cui avevo letto meraviglie».

Parla del Majorana, dove il preside Salvatore Giuliano aveva appena iniziato la sperimentazione di libri scritti da docenti, computer e wi-fi per tutti, lezioni “rovesciate”, classi scomposte e colorate: il progetto Book in Progress. Parrotto è subito uno degli studenti migliori. L’anno seguente, la prima coincidenza: su un volo da Brindisi a Roma siede accanto a un piccolo produttore bresciano di impianti fotovoltaici.
«Proprio quel giorno a Casarano avevano iniziato l’installazione di pannelli che non mi piacevano affatto. “Possibile fare di meglio?”, gli chiedo». Una mini turbina eolica, niente di davvero speciale in fondo. «Sì, ma avevo davanti due strade: o diventavo un venditore di turbine o me ne inventavo una mia. Ho scelto la seconda».

Dopo i primi prototipi, realizzati in un capannone a Brescia, nel maggio del 2012 Parrotto presenta domanda di brevetto: la sua mini turbina ha una distanza fra albero e vele che le permette di partire anche con pochissimo vento, «arriva ad un picco di potenza di 6 kilowatt con appena 130 rotazioni al minuto».

Nel marzo del 2013 nasce la GP Renewable, le iniziali del fondatore nel nome. A dicembre il primo impianto viene installato in Puglia: «Lo abbiamo venduto sottocosto, per 13 mila euro». Già, e i soldi? Dove ha trovato Parrotto i soldi per partire? Non dai bandi pubblici, «mai partecipato»; non dagli investitori professionali in startup, i venture capitalist, «mai visti». E non dalla famiglia, anzi: sebbene il papà sia diventato socio al 10 per cento, nel frattempo aveva perso il lavoro «e oggi è un dipendente della mia società, fa l’installatore».

E qui c`è la seconda coincidenza: un altro volo, stavolta fra Brindisi e Milano.
Il compagno di viaggio stavolta è il direttore generale di una grande banca. Insomma, si innamora del progetto (e della parlantina di Parrotto) e il giovane startupper ottiene un affidamento bancario sufficiente a partire. Anche perché le sue turbine si vendono alla grande: «Un centinaio in un anno». Cosa hanno di speciale? Qui Parrotto si fa serio: «Lo ammetto. Non molto. A parte il fatto che l`azienda era guidata da un adolescente e questo ci ha aiutato a farci conoscere».

I nuovi prodotti invece saranno una bomba, dice: «Vetroresina, fibra di carbonio, titanio: il team di ingegneri che lavora al mio fianco ha fatto meraviglie, vedrete». Quando? A fine gennaio: presentazione ufficiale del nuovo gruppo, “gli americani”. Chi sono? Mistero, ma i giornali locali hanno già sparato la notizia in prima pagina cantando le lodi di quello che un tempo li chiamavano “Il Briatore dei poveri” per via degli occhiali azzurri ormai archiviati, ma che adesso merita un soprannome molto più generoso, probabilmente. Insomma, gli americani: «Un fondo di investimento, roba grossa, nomi grossi: hanno investito 5,5 milioni di euro nella creazione di una nuova società, la Air Group Italy, che ha inglobato la GP Renewable e io sarò presidente. Prenderemo capannoni industriali abbandonati a Casarano: le turbine le produrremo li. Ma non solo: vogliamo creare un polo di startup innovative in Salento. Spazi e consulenza li metteremo a disposizione gratis».

Sembra anche troppo, persino per una fiaba, e molte cose sono ancora da raccontare e chiarire.
Ma intanto giù il cappello per questo ragazzo-grande, sempre elegante, sicuro ma mai arrogante, che guarda avanti e parla come se fosse destinato a un futuro più grande quando dice: «La turbina diventerà come la lavatrice, un elettrodomestico alla portata di tutti».




Crowdfunding, alcuni ce la fanno. Casi di successo nel mondo di startup e iniziative italiane

Negli ultimi due anni, diverse iniziative italiane hanno trovato i fondi per il proprio sviluppo su piattaforme italiane e, soprattutto, straniere. Abbiamo selezionato alcuni casi di successo secondo noi particolarmente significativi.

Il crowdfunding nelle sue varie forme (equity, reward, donation), soprattutto negli ultimi due anni, si è affermato come forma di finanziamento alternativa di successo, anche per iniziative italiane.

Ecco alcuni casi di successo “italiani”, prodotti, servizi, iniziative e perfino un film e un porgetto editoriale che abbiamo selezionato in base alla eclatante differenza del risultato rispetto all’obiettivo iniziale. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, la raccolta è avvenuta attraverso piattaforme non italiane.

Chupa-Mobile

Fondata a Roma nel Febbraio 2012 da Stefano Argiolas e Paolo De Santis, ma basata a Londra, Chupamobile è il primo Marketplace dove chiunque può acquistare Applicazioni e Giochi mobile professionali, pronti per essere personalizzati e distribuiti sugli App Store. Nel 2 Q 2014 ha lanciato una campagna di equity crowdfunding su crowdcube.com dove ha raccolto £740.000 da 122 investitori, a fronte di un target iniziale di £400.000.

La Fenice

La Fenice è stata fondata da un team di imprenditori milanesi ognuno dei quali da tempo opera a vario titolo nell’industria del caffé. La loro idea è quella di creare una macchina da caffé che sfrutti il principio dell’induzione elettromagnetica per fare sia il caffé espresso che quello americano. La macchina funziona con qualunque tipo di capsula e anche con il caffé macinato, risparmiando l’80% dell’energia elettrica rispetto a una normale macchina. La loro campagna di reward crowdfunding su Kickstarter, conclusa nel giugno 2014, ha raccolto $215.000 da 565 sostenitori, a fronte di un obiettivo iniziale di $70.000.

FABtotum

FABtotum è una stampante 3D open source, che permette di produrre da soli gli oggetti desiderati a un costo accessibile. E’ stata fondata da tre ragazzi del Politecnico che hanno costruito un prototipo di macchina che stampa in 3 dimensioni. Una specie di factotum, che usa plastiche o metalli leggeri. Da una scansione si ottiene una stampata del prodotto in materiale fisico. La campagna di reward crowdfunding su Indiegogo, conclusa a Ottobre 2013, ha raccolto la bellezza di $590.000 a fronte di un obiettivo iniziale di $50.000.

Ginkgo

Ginkgo è l’ombrello dal design innovativo – personalizzabile nei colori di ogni elemento, compresa la tela – realizzato interamente in polipropilene riciclabile al 100%, nato dall’idea del designer Federico Venturi e dell’ingegnere meccanico Gianluca Savalli, studenti del Politecnico di Milano, ai quali si è poi aggiunto l’ingegnere gestionale Marco Righi. La campagna attivata su Indiegogo nel 2013 ha raccolto un totale di $ 137,255 da parte di 5223 “finanziatori”, superando i primi due goal prefissati ($ 30,000 e $ 100.000).

Vivax

Mattia Ventura, romano di ventun anni, ha avuto l’idea di un laptop case indistruttibile e in grado di resistere a ogni tipo di condizione estrema: finire in mare, precipitare da un palazzo, essere schiacciato dalle ruote di un’automobile. Lo sviluppo di Vivax è stato finanziato con una campagna di reward crowdfunding si Kickstarter che ha raccolto €53.000 da 538 sostenitori a fronte dell’obeittivo iniziale di €20.000.

Festival del giornalismo di Perugia

Il Festival del Giornalismo di Perugia è stato salvato da una piattaforma di crowdfunding. Dopo aver annunciato la chiusura per mancanza di fondi, gli organizzatori hanno avuto l’idea di reperire i finanziamenti mancanti attraverso una piattaforma di crowdfunding dedicata, e realizzata attraverso il servizio offerto da Starteed, co-fondata da Claudio Bedino. La campagna è stata un successo: in 90 giorni sono stati donati €115.420 da 749 sostenitori. Poi si sono aggiunti altri sponsor, ma la cifra è stata essenziale per permettere alla macchina di ripartire.

Intuiti

Intùiti è una sintesi di Design, Tarocchi e Psicologia della Forma. Ogni carta rappresenta uno stimolo visivo, disegnato seguendo le teorie della Gestalt, il quale riprende un archetipo dei tarocchi classici. A differenza del brainstorming, è uno strumento non violento, che spinge a mettersi in discussione: si mescola il mazzo, si pesca una carta e ci si lascia ispirare dall’immagine. All’inizio del 2013 l’ideatore Matteo Di Pascale ha lanciato una campagna su Kickstarter raccogliendo quasi €50.000 da quasi 2.000 sostenitori, a fronte dell’iniziale obiettivo di circa €12.000.

Lumina

Lùmina, progetto editoriale italiano degli autori Emanuele Tenderini e Linda Cavallini, è un fumetto disponibile in italiano, francese e inglese, a metà tra Sci-Fi e fantasy, realizzato in stile euro-manga combinando il ritmo e i codici dei cartoons nipponici con la qualità estetica dell’animazione e dei videogame. Conclusa nel Maggio 2014, la campagna su Indiegogo ha raccolto €60.000 da 1631 sostenitori, rispetto all’obiettivo iniziale di €44.000.

Io sto con la sposa

Io sto con la sposa” è un docu-film che nasce dai tre registi Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry: hanno radunato alla stazione centrale di Milano una ventina di siriani e palestinesi intenzionati a raggiungere la Svezia per chiedere asilo-politico. L’avventura è durata tre giorni, con una fermata a Marsiglia e migliaia di chilometri percorsi in smoking, elegantissimi, a bordo di macchine lussuose prese a noleggio, con il timore di non farcela. E invece l’obiettivo è stato raggiunto: i profughi arrivati a Lampedusa sono riusciti a mettere piede a Stoccolma. Il film è stato finanziato con una campagna su Indiegogo che ha raccolto €98.000 rispetto ai €75.000 previsti, grazie a 2500 sostenitori.

Hydrojacket

Hydro Jacket è una giacca resistente a vento e acqua. Qual è la novità? Che è al 100% di cotone organico ed ecosostenibile. Luca Sburlati e un gruppo di professionisti torinesi, amanti dello sport, quattro anni fa in Norvegia, scoprono capi sportivi certificati bio e senza fibre sintetiche. Unico problema: quei capi sono brutti. Decidono così di produrre una linea analoga, ma ad alto contenuto di estetica e design e fondano N2r (si legge nature). La campagna su Kickstarter, terminata nel Gennaio 2014, ha raccolto €52.000 a fronte dei €40.000 previsti inizialmente.

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La Silicon Valley italiana

Il software che viaggia su un drone per controllare gli hooligans o la app che sorveglia i traffici della camorra tra i rifiuti. Non siamo in America, ma a casa nostra. Da Catanzaro a Cagliari, da Latina a Treviso: l’innovazione nasce nelle zone più insospettabili. L’idea vincente è non spostarsi dal proprio territorio

QUALCHE mese fa Diego Fasano, un produttore di software di 41 anni, stava guidando la sua Smart e ascoltava la radio. Raccontavano la storia di un impiegato che si licenzia e va in Brasile a prendere foto aeree della foresta amazzonica. Fasano frenò di colpo. Aveva avuto un’idea. La sua azienda, la Connexxa, è nata nel duemila in una periferia di Catanzaro e da allora è cresciuta fino a fatturare 4,5 milioni l’anno. Nascosti in un open space accanto a un gommista, sopra una palestra abbandonata, i programmatori della Connexxa sviluppano soprattutto due tipi di innovazione. Producono e vendono in Italia e all’estero software medicali, per esempio cartelle mediche digitali consultabili da un iPad. E sempre più spesso, specie di recente, creano sistemi di vigilanza. Grazie a un programma della Connexxa, le porte delle torri di controllo degli aeroporti di Malpensa e Linate si aprono automaticamente se riconoscono l’iride di un occhio registrata in precedenza. A Salerno, le telecamere della Connexxa sorvegliano aree dove la camorra potrebbe versare rifiuti industriali: sono collegate a un software che analizza miliardi di dati dalle immagini e manda un segnale alle forze dell’ordine non appena nota movimenti anomali.

Ora la storia del fotografo italiano in Amazzonia aveva ispirato a Fasano un altro esperimento: montare quei sistemi di sorveglianza su un drone. Guidato dal software, la telecamera a bordo, un piccolo drone cubico largo 50 centimetri può seguire un’auto a 300 metri dal suolo, può controllare una curva di hooligans durante una partita di calcio, trovare un disperso sotto le macerie percependo il calore del corpo con dei raggi infrarossi. Le riprese rimbalzano su un iPad o su Google Glass. Fasano ha trovato una piccola società di Ravenna, una Srl a un euro per neulaureati di quelle rese possibili dal governo di Mario Monti. Hanno lavorato un po’ insieme e in giugno hanno presentato un prototipo a una fiera internazionale a Londra. Giovedì Fasano vola a Toronto per allearsi con un’azienda che vuole distribuire il drone in tutto il Nord America e in luglio ha già concluso accordi simili in Pakistan e Messico. Ma non intende spostare i suoi circa dieci programmatori da Catanzaro. E non solo per affetto verso la città d’origine. “Penso anche che per trovare da qualche altra parte dei neolaureati così bravi a scrivere codice informatico – confessa Fasano – dovrei pagarli molto di più. E altre aziende cercherebbero di portarmeli via”.

La disoccupazione giovanile in Italia supera il 42% e in Calabria è intorno al 55%, quasi un record mondiale. Numeri come questi sono anche il risultato di un sistema che non riesce più a produrre merci povere in ricerca e tecnologia a costi competitivi. Il prezzo di un giocattolo o di un pigiama sarà sempre più basso se sono fatti in Cina. Ma la Connexxa e decine di altre imprese innovative simili rivelano però un altro lato della stessa medaglia: dopo anni di crisi, disoccupazione ed erosione dei salari d’ingresso nel primo lavoro, in Italia si possono produrre beni ad alto contenuto di intelligenza a costi molto competitivi. Un bravo informatico neolaureato di Catanzaro, Roma o Cagliari potenzialmente non vale meno di uno di Palo Alto, Boston o Londra; eppure, malgrado tasse e contributi sempre elevati, costa un terzo o la metà. Silenziosamente, lontano dalle polemiche di Confindustria, sindacati e governo, centinaia di giovani ingegneri e imprenditori lo hanno capito e su questo stanno costruendo una nuova stagione di innovazione del made in Italy. È come se questo Paese iniziasse a contenere piccole dosi di Bangalore, India: un posto così impoverito ma così pieno di talento, di creatività e di cultura che gente altamente istruita accetta di lavorare per molto meno del massimo. Nel basso di gamma l’Italia costa troppo ma nell’alto di gamma, quando riesce ad arrivarci, è diventata difficile da battere. Il solo problema è che questo strato di produttori innovativi è molto sottile, benché in crescita.

Mai come adesso si stanno diffondendo centinaia di startup tecnologiche – quasi sempre di software – nei distretti più insospettabili. Il più celebre è H-Farm, l’incubatore di aziende nei pressi di Treviso che si sta rivelando un’esperienza mista di successi e sconfitte. A Cagliari un piccolo distretto di startup si è aggregato intorno a gruppi affermati come Mutui Online e Dove Conviene, un motore di ricerca di negozi sul web. A Latina, al quarto piano sopra un centro commerciale ai margini della città, Franco Petrucci stima che gli “incubatori” di startup in Italia a questo punto sono almeno 25 (un incubatore è uno spazio che aggrega imprese tecnologiche in fase di lancio o crescita iniziale). Petrucci si è reso conto che startupper e innovatori italiani non hanno niente da invidiare a nessuno, almeno per talento e creatività, un giorno al Plug and Play Tech Center a Sunnyvale qualche anno fa. Visitando quel posto, uno dei più grandi acceleratori di startup al mondo, trovò una targa al primo investitore di venture capital tecnologico del ‘900: Adriano Olivetti. Ma Petrucci non era lì per turismo. Partito da Latina come ingegnere informatico, lavorando da consulente per grandi gruppi globali aveva intravisto un buco nella rete. Mancava qualcosa che le multinazionali sarebbero state pronte a pagare caro pur di avere: un software capace di integrare tutte le funzioni e informazioni di gruppi come Johnson & Johnson o Novartis. Realizzando quel progetto, ha fondato quasi da solo e partendo da poche centinaia di euro la Decisyon. Oggi la sua azienda ha 80 dipendenti, ha attratto investimenti di “venture capital” per 50 milioni di dollari dagli Stati Uniti (impresa quasi impossibile in Italia), programma la quotazione al Nasdaq tra qualche anno, ma non muove la base produttiva da Latina. “Per un laureato di alto livello in America dovrei pagare 120mila dollari l’anno – dice Petrucci -. Qui mi costano un terzo e sono altrettanto capaci”. Come anche Fasano a Catanzaro, Petrucci a Latina ha un accordo con l’università locale per farsi segnalare i migliori studenti e metterli alla prova. Se la passano, li assume con contratti permanenti: “È fondamentale che le persone siano stabili – dice – . Chi lascia, porta via memoria storica e all’inizio chi entra è sempre dieci volte meno produttivo”. A Palo Alto il ricambio incessante dello staff è un problema, perché le offerte sono ovunque. Negli incubatori italiani invece i rapporti restano più stabili.

Esempio ne è l'”ecosistema” per startup che hanno creato fra i pini dell’Eur, a Roma, due imprenditori che si frequentano da quando le rispettive madri si incontrarono dal ginecologo alle vigilia della loro nascita 38 anni fa. Gianluca Granero e Marco Trombetti sono partiti con Translated, un sistema che usa il software per traduzioni online e ha fra i due clienti Google, Amazon, Ibm, L’Oréal. L’azienda oggi fattura 12 milioni l’anno e i due hanno deciso di reinvestire gran parte degli utili: affittano due ville di lusso dell’Eur, costruite dai palazzinari degli Anni 70 ma vuote da anni a causa della crisi, e ora là dentro ospitano poco meno di dieci startup. Ognuna sta in una stanza, fatturano centinaia di migliaia di euro ciascuna, condividono le cucina e le palestre delle due ville, si occupano di mestieri come pianificazione di viaggi, vendita di applicazioni mobili da tutto il mondo, costruzione di banche dati online.

Granero riconosce che lavorare a Roma garantisce un vantaggio di costo fondamentale sul resto d’Europa o sull’America. Ma sa che non mancano gli svantaggi: quello più concreto riguarda la carenza di investitori locali per far crescere le imprese dopo le fasi iniziali; l’handicap psicologico coinvolge invece la reputazione. “Dobbiamo risolvere l’Italian problem”, osservò un cliente americano qualche tempo fa. Intendeva dire che voleva spiegare al suo capo che con Granero e Trombetti si poteva lavorare bene, malgrado il loro passaporto. Gli risposero che non stesse a prendersi il disturbo. “Una volta che hai scremato il meglio, noi ingegneri italiani siamo i più bravi “.

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