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Periferie, centrifughe di energia

Centrifuga è il titolo di una prossima antologia, in uscita in settembre: tanti autori per ragazzi e non solo con racconti che mostrano come le periferie abbiano molto da dire al centro, molto da aggiungere e insegnare.

Centrifuga, un’immagine che non solo evoca mescolanza ma “fuga del centro”. E ancora, suscita anche l’idea di motore di forze vive che possono diffondersi e modificare, creare nuova energia. In questi giorni si parla molto di periferie. Se ne parla a proposito degli investimenti del governo, ma anche spesso a proposito proprio di quelle buone idee e pratiche che le periferie portano. Il bell’articolo di Renzo Piano sul Sole 24 ore di Domenica 29 maggio parla esattamente di periferie come “crogioli di energia, libertà passione e persino pensiero”. “Difendo la periferia anche perché è un concentrato di energia, qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare”, scrive Renzo Piano.

Mi capitò -un paio di anni fa- di far parte della giuria del premio del Comune di Roma al miglior tema della maturità che quell’anno aveva tra le tracce proprio una frase di Renzo Piano sulle periferie. E scrissi qui, a proposito del valore dei libri e della lettura che “per avere fiducia nei ragazzi che leggono basterebbe leggere i temi di maturità degli studenti romani. Ragazzi preparati e lettori (grazie alla scuola!) che hanno piena consapevolezza dei mali responsabili del degrado, dell’ignoranza, dell’indifferenza”.

Mi capita spesso, come editrice per ragazzi, di frequentare le scuole, le biblioteche, le librerie di periferia. E capita che – come abbiamo visto grazie al progetto di Roma che Legge promosso dal forum del libro – a Tor Bella Monaca, a Borgata Finocchio, a Boccea avvengano miracoli. Reti tra scuole e biblioteche pubbliche, coinvolgimento di cittadini e di amministrazioni. Senza lamenti ma con forza ed energia nascono biblioteche innovative nelle scuole (senza alcuna normativa per ora che le regolamenti, anche se ben speriamo nella attenzione del bando del Miur che forse apre a delle possibilità) mentre nel centro di Roma una scuola con un bellissimo locale per la biblioteca fatica a realizzarla: impedimenti burocratici, scarsa volontà di chi la deve gestire. E uno pensa: ma come? Qui sarebbe molto più facile!

Evidentemente mancano motivazioni e determinazione. Quelle che ci sono a c’è a San Giuseppe Jato, dove è nata una biblioteca scolastica aperta al territorio in un luogo apparentemente vuoto di tutto, tra l’altro bellissima. Eh sì, perché – come ci ricorda Renzo Piano – le periferie possono essere belle e possono avere “spazio per piantare nuove piante”.

Periferica nella sua centralità è Lampedusa, dove ragazze e ragazzi autogestiscono una biblioteca di pubblica lettura, non appena grazie a Ibby Italia hanno avuto la possibilità di capire cosa fosse una biblioteca. Leggete che bello il racconto che fa di questo Fabio Stassi, che è stato l’autore adottato per il Salone del Libro ed è stato ospite di quella biblioteca.

Periferica è Isola del Piano, nelle Marche, dove in un bene sottratto alla mafia si costruiscono progetti di formazione ed educazione alla lettura e dove da poco si è festeggiato.

Periferica è la bella biblioteca da poco inaugurata a Roma, la Collina della Pace. Periferica
è la libreria Centostorie, che ha solo libri e giochi di qualità. E che li vende, a Centocelle.

Periferica è la libreria premiata dal premio intitolato a Gianna e Roberto Denti promosso dalla rivista Andersen e dall’Associazione Italiana Editori, la Libreria Controvento, con Filomena Grimaldi, libraia che dopo oltre dieci anni di esperienza in varie librerie italiane, è tornata nel suo paese, a Telese Terme “perché dove ci sono persone devono esserci libri”.

Ecco ditemi o no se tutto questo (e molto altro ancora che vi invito a scoprire, nelle periferie delle nostre città e del nostro paese) non sono meravigliose centrifughe?

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Questo spot di Carlo Verdone e Franco Carraro dimostra che Roma non è cambiata negli ultimi 20 anni

“Ricucire le periferie”, “rilanciare le periferie”, “le periferie luoghi da cui ripartire”. Tutti i candidati a sindaco di Roma hanno usato questi slogan durante i loro tour per la città. Da Giachetti a Marchini, da Meloni a Fassina fino a Raggi, il ruolo delle periferie in campagna elettorale è dominante. Perché i quartieri dimenticati, habitat dei cittadini che vivono ai margini della Capitale, restano comunque un invitante bacino di voti se si è capaci di incanalare il malcontento a forza di promesse di rinascita e riqualificazione.

Per questo fa un certo effetto rivedere uno spot del 1989 dell’allora candidato sindaco di Roma Franco Carraro in quota Partito socialista. Lui e Carlo Verdone passeggiano nel quartiere romano di Vigne Nuove dove, dieci anni prima, il regista ha girato alcune scene del suo primo film “Un sacco bello”. Verdone fa notare a Carraro come persista il degrado del quartiere e chiede cosa si potrebbe fare per riqualificare zone come quelle. Carraro spiega il problema delle periferie e le possibili misure: “Penso che questo sia uno dei grandi nodi della città, con periferie che in realtà sono lager. Eppure gli spazi ci sono, non ci vorrebbe molto a creare una piazza, luoghi di ritrovo, impianti sportivi. Queste zone potrebbero essere sistemate. In questo modo la gente vivrebbe meglio qui e intaserebbe meno il centro”.

Parole che oggi ci suonano come familiari dato che, se si butta un occhio allo stato in cui versano le periferie romane, di miglioramenti se ne sono visti ben pochi. Carraro, allora ministro del Turismo nel Governo De Mita, venne scelto sindaco dopo il “patto del camper” stretto tra i leader del Psi e della Dc, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani. La sua amministrazione fu sconvolta da arresti eclatanti tra i membri della giunta. La sua esperienza terminò con le dimissioni dei consiglieri di opposizione e la nomina di un commissario. La storia che si ripete.

Al termine dello spot Carraro e Verdone si salutano sperando che fra ulteriori dieci anni la situazione sarà migliorata. A distanza di quasi trent’anni il loro auspicio non sembra essersi realizzato.

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Il sociologo: «Periferie abbandonate producono egoismi»

«Una vicenda inaudita, che mi indigna. Ma purtroppo non mi meraviglia». Fabrizio Battistelli, docente di Sociologia alla Sapienza, le periferie romane le ha studiate a lungo. E dunque non si sorprende per il disinteresse complice degli automobilisti che, alla Magliana, hanno ignorato la disperata richiesta di aiuto di Sara Pietrantonio, uccisa col fuoco dall’ex.

Professor Battistelli, perché non si meraviglia?
Non posso non pensare all’imbarbarimento delle nostre città. Una serie di fattori, il primo dei quali l’estensione stessa delle metropoli come Roma, sta facendo perdere la dimensione della convivenza tra le persone. Un’involuzione che si è già verificata nelle città non europee, ma ormai è un modello globale: la città come luogo di estraneità. Luoghi in cui viene meno la reciprocità, che ancora nei centri medi e piccoli fa ritenere a ciascuno di noi di poter avere già incontrato l’altro o di poterlo incontrare. Sto parlando della base dello scambio della socialità: condividere assieme una situazione comune.

Intende dire: succede a questa ragazza, ma potrebbe succedere anche a me, a mia moglie, a mia figlia?
Esatto. Una reazione primordiale dell’individuo, che è oggi spesso è totalmente soffocata, una luce che è in ognuno di noi, ma che ormai tende a spegnersi per colpa dell’isolamento, dell’alienazione e della paura. Era evidente che di trattava di un’assoluta emergenza: una persona fragile che chiede aiuto alle 3 di notte. Le reazioni di chi assiste a un episodio del genere possono essere diverse. C’è quella altruistica: è di chi decide di intervenire, anche mettendo in conto una percentuale di pericolo, per un beneficio grande per l’altro. Oppure c’è la reazione normale di chi prende il telefono e fa il 113.

Qui non si è verificata nemmeno quest’ultima.
Per una mancanza tipica di questo tempo – e di questo spazio, l’Italia – di cultura delle istituzioni, preposte alla sicurezza di tutti e di ciascuno. Consapevolezza che, devo dire, esiste più in altre società, quelle che nutrono più fiducia nelle istituzioni, che hanno più senso civico.

Siamo tutti costantemente connessi, sempre col cellulare in mano, ma nessuno ha pensato di chiamare la Polizia. Gli automobilisti, individuati, hanno detto che non avevano capito.
Non c’era possibilità di fraintendere. Non si trattava di una rissa tra extracomunitari o di un regolamento di conti. Nemmeno lo sforzo di fare una segnalazione anonima alle forze dell’ordine…

Come si è potuto arrivare a una tale chiusura a riccio?
Le città storicamente sono nate perché le persone hanno deciso di vivere assieme, proprio per difendersi dai pericoli esterni. Oggi però il deserto, che una volta veniva chiuso fuori dalle mura, si è trasferito dentro. È un processo di tutte le grandi città. Colpa di uno scarso capitale sociale, di una insufficiente fiducia reciproca che caratterizza un Paese come l’Italia. Anche la moltiplicazione delle differenze non ha aiutato l’omogeneità di condominio e di quartiere che esisteva fino a 30 anni.

Gestire le differenze è un’operazione complessa: scontiamo l’assenza di politiche di integrazione?
È proprio così. A tutto questo dobbiamo aggiungere amministrazioni che negli anni sono state sempre più lontane, sempre più inefficienti e ciniche… La Chiesa, presente fin dall’inizio nelle borgate e nei quartieri poveri, già nel 1974 aveva fatto la sua diagnosi sui «mali di Roma». Precoce ma lucida. Troppi sindaci invece hanno ignorato il tema della coesione sociale. E questa è una responsabilità che interpella chi si candida a governare Roma Capitale. Fatiche di Ercole.

Le responsabilità dei comportamenti però sono individuali: non si può criminalizzare un quartiere…
Questo è evidente, perché assieme agli automobilisti ‘indifferenti’ ci sono anche le persone che si fermano e pensano all’altro. Però non sono quelle che più spesso girano alle 3 di notte…

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Periferie di Roma: sono fatte di persone, non solo di edilizia

Ripartire dalle persone, riavvicinare cittadini e istituzioni, uscire dall’emergenza e cominciare a pianificare: così si può fare la rigenerazione urbana.

Le periferie di Roma hanno preso la parola con il convegno “Periferie: adesso parliamo noi”: è stata l’occasione di parlare della rigenerazione urbana. Tra tanti temi, tutti sono d’accordo su un punto di partenza: le persone.
Quando si parla di periferie si tende sempre a concentrarsi sulle loro condizioni fisiche. Il degrado, che condiziona le vite dei cittadini, è la prima cosa che balza agli occhi. Per questo oggi, quando si dice la parola “periferie”, si pensa subito a interventi di natura edilizia, urbanistica, architettonica.

Ma c’è anche chi nelle periferie ci vive. Le persone, con le loro vite, il loro lavoro, le loro storie. Uno dei temi ricorrenti dell’incontro “Periferie: adesso parliamo noi”, organizzato dal Coordinamento periferie (che mette insieme comitati di Corviale, Statuario, Tor Bella Monaca, Torpignattara, Torrespaccata) il 26 maggio scorso con l’obiettivo di comunicare sette richieste a chi governerà in futuro la capitale, è stato proprio questo. Sì, perché per parlare di periferie, bisogna conoscere le persone che ci vivono. E capirle.

Periferia, un concetto ambiguo

Una ricerca dell’Università Roma Tre, presentata dal professor Pasquale De Muro, ad esempio, ci mostra dei dati preoccupanti rispetto ai livelli di istruzione di chi vive in periferia, livelli che sono comparabili a quelli dei Paesi a medio reddito. Il tasso di abbandono scolastico è altissimo, e ci sono persone che lavorano poco, male, con guadagnano scarso e hanno un livello di istruzione bassissimo, spesso al di sotto della scuola secondaria. E quindi poche possibilità di trovare un lavoro migliore.

«Tranne alcune piccole cose, per risolvere questo problema non c’è nessuna iniziativa», commenta De Muro. «Non possiamo andare da nessuna parte, se non risolviamo questi aspetti».
Oggi però non è semplice parlare di “periferie”, e il rischio è anche quello di essere fuorvianti. A Roma esistono infatti tante periferie diverse, ha ricordato Carlo Cellamare, urbanista dell’Università La Sapienza. Ci sono diverse periferie – anche l’Olgiata, ad esempio, lo è -, ci sono anche periferie benestanti. Il maggiore sviluppo di Roma oggi è fuori del Grande raccordo anulare, dove abita il 23% della popolazione. «Sta cambiando il modo di intendere le città», riflette il professore della Sapienza. «Anche la dicotomia centro-periferia non può essere intesa nello stesso modo. Quello che accomuna oggi tutte le periferie è la distanza delle istituzioni e della politica».

Le periferie di Roma sono piene di risorse

Ma le periferie oggi sono anche i luoghi dove nascono i fiori dal cemento. «Sono i luoghi dove c’è il fermento, dove ci sono le iniziative, la mobilitazione, le produzioni culturali. Sono un po’ un laboratorio sociale», ha spiegato Cellamare. «A Tor Bellamonaca abbiamo una grande produzione di musica, il rap». Anche questo fa pensare al punto da cui siamo partiti: per lavorare sulle periferie occorre lavorare sulle persone. «Non ha senso intervenire solo fisicamente, se non si lavora su un altro terreno», riflette il professore della Sapienza.

«Piazza Castano è una delle poche piazze pubbliche a Tor Bella Monaca. Spesso ciò che è pubblico diventa territorio di nessuno. Ma poi i cittadini hanno iniziato a rimetterla a nuovo». È una delle tante forme di riappropriazione della città e di mobilitazione che accomunano le diverse periferie di Roma. Un altro esempio è il Cubo Libro, sempre a Tor Bella Monaca, un edificio occupato dove un gruppo di cittadini ha messo su una biblioteca pubblica, con le donazioni degli abitanti del quartiere. «Questo tipo di realtà sono in rete in tutta Roma e organizzano anche il prestito interbibliotecario», ha raccontato. E poi ci sono le aree verdi, che sono state prese in carico da alcune associazioni, mentre altre si fanno carico del problema della casa.
Di tutto questo dovrà tenere conto chi governerà Roma. «Le amministrazioni dovrebbero fare un’alleanza con la città, con i cittadini», auspica Cellamare, «avvicinare l’istituzione ai cittadini. E risolvere il problema del lavoro. Il contrasto a problemi come lo spaccio lo facciamo portando il lavoro, energia forte per rilanciare le periferie».

Dall’emergenza alla pianificazione

Di queste persone, che ogni giorno lavorano insieme, e in silenzio, per migliorare la vita delle periferie di Roma in cui vivono, ce n’erano molte all’incontro del 26 maggio. Una di queste è Caterina. Fa parte di un’associazione di genitori delle scuole di Piazza Cardinali, L’albero di Gelsi, fatta da genitori dei bambini delle scuole riunite accanto a Piazza Cardinali. All’incontro rappresentava il comitato di quartiere di Torpignattara. Il suo intervento, molto sentito, ha messo l’accento sul grave problema che contraddistingue le politiche che riguardano le periferie. Sono politiche di emergenza, e mai di pianificazione. La non pianificazione è urbanistica: Torpignattara è uno spazio teoricamente tutelato, a livello paesaggistico e archeologico, ma, non essendoci pianificazione, è vittima dei costruttori. Non c’è una pianificazione della mediazione culturale, nonostante ci siano moltissime comunità diverse. Non c’è pianificazione dei servizi di sopravvivenza, come trasporti e nettezza urbana. «Questo provoca una tensione latente, che sfocia nella tensione culturale, la non corretta pianificazione di questi servizi è un colpo al cuore della società interculturale” è l’opinione del comitato di quartiere. E poi non c’è pianificazione del servizi culturali: non ci sono cinema, biblioteche, nemmeno una piazza al centro del quartiere. Infine, non c’è pianificazione dei servizi di sviluppo economico, con la quantità delle serrande chiuse che evidenzia la perdita di identità del un intero comparto produttivo.

Per rigenerare le periferie di Roma, e con esse tutta la città, occorre passare dall’emergenza alla pianificazione. Occorre pensare alle persone. E, una volta per tutte, ascoltarle. Il Coordinamento delle periferie ha diffuso un documento con sei richieste ai candidati sindaco. Le periferie aspettano le risposte.

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Rigenerare le periferie: sei proposte ai candidati sindaco

Un coordinamento di quattro grandi periferie chiede un Accordo di programma. Che comincia con la riorganizzazione dell’Amministrazione.

Sei proposte per i candidati sindaco, perché finalmente anche a Roma si avviino percorsi per rigenerare le periferie, ridando ai cittadini quella qualità di vita di cui hanno bisogno, occorre avere un modello di sviluppo condiviso e partecipato, ma servono anche strumenti e strutture in grado in realizzare quanto serve per raggiungere gli obiettivi. Ieri, durante il convegno CANTIERE APERTO. Periferie: adesso parliamo noi, è stato presentato il documento che redatto dal Coordinamento Periferie di Corviale, Statuario Tobellamonaca, Torpignattara e Torrespaccata. Contiene sei proposte ai candidati sindaco, che sono state elaborate durante un lungo lavoro di incontri, ricerca, dibattito cui hanno partecipato associazioni, gruppi, singoli cittadini delle periferie citate.

Il coordinamento chiede di fare alcune scelte precise, perché il problema delle periferie non si affronta con le ruspe, ma appunto in una prospettiva di rigenerazione, che tra l’altro valorizzi le risorse – umane, culturali, ambientali – che in questi quartiere ci sono, anche se sottovalutate o trascurate.

Un’Amministrazione meno rigida e più efficace

Fra i primi punti è indicata la necessità di riformare l’organizzazione l’Amministrazione comunale, sostituendo l’Assessorato alle periferie con un Assessorato per la rigenerazione urbana e ridefinendo l’organigramma dando spazio a Dipartimenti trasversali. L’Amministrazione è infatti troppo rigida e settorializzata, tanto da apparire inadeguata a qualunque politica che voglia essere innovativa.

Il primo passo per definire un piano per rigenerare le periferie, secondo Pino Galeota, è di «mettere tutti attorno ad un tavolo, insieme all’Amministrazione, Asl, scuole, trasporti… L’obiettivo è arrivare ad un Accordo di programma, con un responsabile di progetto e uno stato di avanzamento dei lavori opportunamente monitorato». L’alibi per non intervenire seriamente sulle periferie è sempre la mancanza di fondi, ma «non è vero che non ci sono risorse. Bisogna imparare a usare meglio quelle europee, ma anche a coinvolgere le aziende e soprattutto il privato sociale. E poi c’è il ruolo delle municipalizzate, da mettere a punto e valorizzare».

Luca Lo Bianco ha indicato una serie di fattori che sono di ostacolo ad una strategia che punti a rigenerare le periferie: tra l’altro, il fatto che negli ultimi anni l’idea di un forte decentramento è stato accantonata e che si punta alla rivisitazione delle società di servizio pubblico con riforme che prevedono la dismissione, cosa poi nei fatti impossibile… «Se si realizzasse un vero decentramento sui Municipi, anche il dibattito sulle periferie si sposterebbe», perché «al cosiddetto centro rimangono alcune politiche, integrate tra loro, ma tutto il resto si fa sui territori». Ed è evidente che questo implica una ridefinizione della macchina comunale. Tra l’altro, occorre usare di più strumenti nuovi come gli Uffici di scopo, organizzati attorno ad obiettivi ben delineati, raggiunti i quali si sciolgono». Tutto questo implica anche un «ragionamento con i sindacati, che riguardi la ridefinizione del senso del lavoro pubblico e affronti i temi delle funzioni, ma anche quello, molto concreto, degli orari di lavoro, e quindi di apertura al pubblico».
Processi complessi, ma non impossibili. Che andrebbero sviluppati, secondo torrespaccataAlfredo Fioritto, creando le condizioni per una vera «partecipazione alle scelte, a qualunque livello». D’altra parte, i cambiamenti sono già in atto e incidono fortemente sulla governace. La legge del 2014 sulle città metropolitane ha abolito le provincie, sostituite dalla Conferenza metropolitana (quella di Roma comprende 120 comuni) e ha istituito un Consiglio metropolitano e un sindaco eletti dai cittadini. Se questa è la strada, secondo Fioritto, «è evidente che anche l’Assessorato alle Periferie non ha più senso» e che bisogna ragionare in termini completamente diversi, perché cambia l’idea stessa di centro e di periferia.

Sei proposte per rigenerare le periferie

Le sei richieste sono frutto di un lungo lavoro di dibattito e approfondimento, che ha coinvolto associazioni, movimenti, singoli cittadini, università e centri di ricerca. Ecco una sintesi delle richieste:

Promuovere un forum dedicato alle periferie e quindi alla Rigenerazione Urbana entro la seconda decade di luglio.

L’abolizione dell’Assessorato alle Periferie e la costituzione dell’Assessorato per la Rigenerazione Urbana, attraverso la realizzazione di una effettiva interdisciplinarietà, che abbia funzioni e poteri di riconosciuto coordinamento.

La definizione di un nuovo organigramma dell’Amministrazione, che dia funzioni e poteri a Dipartimenti responsabili, che dovranno collaborare con chi verrà incaricato di coordinare i progetti individuati.

L’attivazione di sperimentazioni nelle cinque Periferie, congiuntamente con tutti i soggetti pubblici e privati interessati, che entro un anno definiscano contenuti, scelte e procedure per avviare le attuazioni. Il cosiddetto stato avanzamento lavori dovrà avere tempi, modalità e responsabilità note e forme di comunicazione partecipate. Va individuato un Responsabile del progetto, che abbia le competenze per coordinarlo e per seguire il suo iter amministrativo e interistituzionale.

La definizione di un modello di sviluppo delle periferie, che renda protagonisti i cittadini, le presenze territoriali e che preveda le necessarie connessioni con l’Area metropolitana, con la Regione Lazio e la governance nazionale, oltre che con i settori produttivi pubblici e privati.

La sottoscrizione di un Accordo di Programma o altro atto similare, che renda procedibile il progetto condiviso tra tutti i soggetti pubblici e privati interessati.

Il coordinamento chiede inoltre che, nella fase di transizione, a fronte delle problematiche sulla sicurezza e la legalità nei grandi agglomerati periferici, si pensi ad una presenza continua di Ater-Regione e del Comune di Roma sui territori.

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La città invisibile

Tutto sommato non è passato molto tempo da quando autorevoli pensatori profetizzavano la fine delle città. Grazie alla rivoluzione digitale, con la globalizzazione che accorciava le distanze e connetteva tutti, ci spiegavano, ognuno avrebbe potuto vivere, lavorare, socializzare, senza muoversi dalla sua tenda nel deserto o dal suo sperduto eremo in montagna. E forse non avremmo più nemmeno sentito il bisogno di viaggiare, frequentando quotidianamente, attraverso internet, le persone e i luoghi più lontani, con il semplice ausilio di una webcam e di un microfono.

La storia è andata in un’altra direzione. E non solo perché un cittadino romano e un aborigeno australiano, su internet, non avevano poi molto da dirsi, come notava già Corrado Guzzanti in un memorabile sketch. L’evoluzione tecnologica ha semmai aumentato la centralità delle città, facendone gli epicentri della competizione economica globale: la sfida tra sistemi urbani si è fatta sempre più dura. Coltivare e attrarre capitale umano, intercettare flussi commerciali e finanziari, garantire una moderna rete di servizi sono divenuti obiettivi strategici di tutte le principali metropoli occidentali. La gerarchia delle città è cambiata. Alcune, a tutto questo, hanno pagato un prezzo altissimo – come la Detroit raccontata dal nostro Sergio Pilu nel numero 2 di Left Wing («Mercato») – altre, invece, ne hanno saputo trarre le risorse per crescere e modernizzarsi. Erano e restano, in ogni caso, il simbolo della società occidentale e delle sue contraddizioni, come ci hanno brutalmente ricordato i nuovi terroristi che dalle Torri gemelle di New York all’aeroporto di Bruxelles, passando per Madrid, Londra, Parigi, Istanbul, per sfidare l’occidente ne hanno colpito le capitali, spargendo sangue nei luoghi della nostra quotidianità.

Così ancora una volta la città è diventata il luogo della paura. Nulla di nuovo. Come scrive in questo numero Marco Filoni, la città, sia essa «immaginaria, antica o moderna, ha nella paura un dispositivo del suo funzionamento e della sua realizzazione». Se non fosse che questa volta il nemico non viene da fuori, ce l’abbiamo in cantina, e spaventa per questo molto di più: «È il nemico che non si vede e che alimenta il sospetto, il senso di persecuzione, a essere una minaccia per la città perché rimette in causa le sue strutture e architetture».

È proprio questo che oltre a spaventare ferisce di più la coscienza dell’occidente: i nuovi terroristi non vengono da fuori – nonostante populisti a caccia di facili consensi vorrebbero raccontarla così – ma sono figli delle nostre città, dei suoi nuovi conflitti e delle sue crescenti esclusioni. Perché non è cresciuta la distanza solo tra le città che ce l’hanno fatta e quelle che sono rimaste indietro. Anche all’interno dei centri che si contendono la leadership globale si è squarciato il tessuto della coesione: centri storici tirati a lucido, quartieri bene dedicati al business e al turismo, convivono, sempre meno serenamente, con periferie degradate e veri e propri quartieri ghetto abbandonati a se stessi.

Non è successo per caso: abbiamo raccontato nel numero che abbiamo dedicato al «mercato» le ragioni della crisi, misurando i danni dell’egemonia di un pensiero di destra che tanti guasti ha prodotto anche a sinistra. La scomparsa della parola «eguaglianza» dal nostro vocabolario, la rottura del nesso tra soggettività politica e lavoro, la conseguente auto-esclusione di un numero crescente di persone dai processi di rappresentanza. Nelle città dell’era fordista il rifiuto dell’ingiustizia individuale trovava luoghi in cui aggregarsi, come la fabbrica – dalla quale non a caso ci siamo messi in viaggio col nostro numero zero – e qui trovava, o si costruiva, gli strumenti per una battaglia di emancipazione collettiva, che era anche una scuola di democrazia.

Dopo la lunga stagione dell’egemonia liberista, con partiti, sindacati, associazioni e movimenti ridotti all’ombra di quel che furono, le città sono divenute terreno di coltura ideale per quel mix di esclusione e paura che alimenta populismi e spinte disgregatrici. E che ha finito per offrire nuovi soldati all’esercito del terrore.

Non è un caso se la città nasce intorno ai suoi luoghi pubblici. Paul Zanker cominciava il suo celebre saggio su Pompei spiegando che lo spazio pubblico è sempre stato un palcoscenico che la società si crea secondo le esigenze dell’epoca: «Non importa se siano stati interessi politici, sociali o economici a determinare le decisioni, numerose e tra loro indipendenti, che hanno preceduto le singole realizzazioni: l’immagine urbana che ne risulta offre in ogni caso allo storico l’autorappresentazione autentica di una società. In quanto palcoscenico e spazio della vita quotidiana, infatti, gli edifici pubblici, le piazze, le strade, i monumenti, così come le case e le necropoli con le rispettive decorazioni figurate, sono nel loro insieme un elemento sostanziale dell’autorealizzazione di chi in quello spazio vive. Proprio perché tali immagini urbane vengono a formarsi attraverso un complesso intreccio di singole decisioni, alla cui base sono anche interessi contrastanti, esse ci dicono molto sull’autocoscienza di una società».

Nelle ex borgate romane cresciute negli anni in cui si affermava l’egemonia liberista, per incontrare una piazza bisogna prima incrociare cento strade. Ognuna di quelle piazze è dunque un punto di riferimento per più di diecimila persone. Semplicemente, lo spazio pubblico non serviva più, contava solo la soddisfazione dell’interesse privato. Alle piazze si sostituiva il giardino della villetta unifamiliare, tipico modello abitativo di quei nuovi quartieri spesso abusivi che si moltiplicavano consumando suolo e disperdendo risorse collettive, ma creando rendita individuale.

Le nuove periferie sono figlie di un modello diverso, ma pagano anch’esse il costo dell’accrescersi della diseguaglianza: più povere, con servizi di qualità inferiore, spesso scollegate dai centri produttivi dove si crea lavoro. Nuovi luoghi di emarginazione e solitudine. Non per niente, come ha notato Papa Francesco, la solitudine è la cifra di questa modernità.

D’altra parte, se il mondo di oggi è guasto, è perché la politica ha smesso di fare il suo mestiere, lasciando il campo ad altri poteri. E questo è tanto più vero per quanto riguarda il tema a cui dedichiamo questo numero: quando più ci sarebbe stato bisogno di lei, la politica ha lasciato il dibattito sulla città ai sociologi e agli urbanisti. E forse questo è il segno più grande del suo fallimento, perché la politica nasce nella polis e dalla polis, invece, ha finito per auto-ostracizzarsi. Il risultato è che è rimasta solo l’urbs – la città nella sua forma urbana – ed è scomparsa la civitas, la comunità umana che ne costituisce la ragione e l’anima. In questo senso sì, ahinoi, hanno finito per avere ragione i profeti che ne annunciavano la scomparsa. Ma non sarebbe giusto rassegnarsi a quest’esito, perché nelle nostre città, in quelle periferie dimenticate, ci sono i problemi ma anche i germi della rigenerazione. «Ci sono frammenti di città felici che continuamente prendono forma e svaniscono, nascoste nelle città infelici», come scriveva Italo Calvino nelle Città invisibili. È nelle faglie aperte dai nuovi conflitti che può sprigionarsi una forza, un’energia nuova che ha però bisogno che la politica torni a incanalarla e a disciplinarla. E in fondo è questa la sfida che ci siamo proposti, il filo rosso che ha tenuto insieme la costruzione della piccola città ideale di Left Wing: l’idea che ancora e nonostante tutto sia possibile immaginare una città, una modernità e una politica che non siano solo una somma di angosciate solitudini.

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Jorit Agoch. Il volto che cambia le periferie di Napoli e del mondo

“Da piccolo sono cresciuto in una realtà periferica, tra i binari di Quarto. A questo devo la nascita della mia arte”

Periferia, uno spazio racchiuso da una linea chiusa: insieme delle zone di una città al di fuori del suo centro storico. Il concetto di periferia circoscrive uno spazio urbano, ma anche una comunità, un’etnia. Le persone che vivono in questi ambienti sono quasi considerate come emarginati, vivono nella periferia del mondo, lontano dalle dinamiche del mondo contemporaneo. Oltre alle persone esiste un’arte spesso considerata ai margini di quella ufficiale: il graffitismo. È prima di tutto un movimento spontaneo, che nasce dalla strada, in cui giovani talenti realizzano le loro opere d’arte in spazi urbani improvvisati. La conseguenza è la nascita di un museo a cielo aperto.

Jorit Agoch rientra in questa categoria. Ragazzo della periferia di Napoli, che ha fatto del suo talento e della sua arte ‘periferica’ un linguaggio unico e distintivo. Fedele alle sue origini, opera a volto coperto, cosa quasi naturale per la sua attività. Prima di arrivare alla realizzazione dei suoi volti, ha iniziato, come tutti gli altri, con scritte e immagini di relative dimensioni negli angoli della sua città. Travolto dalla sua passione decide di iscriversi all’Accademia di Belle arti di Napoli, che gli ha dato modo di completarsi stilisticamente. Questo periodo di formazione gli ha consentito di dilatare lo sguardo verso la realtà, verso il mondo figurativo. Jorit ha concluso i suoi studi con il massimo dei risultati e ha approfondito il mondo della pittura ad olio su tela. Questa sarà solo una breve parentesi, perché la tecnica che l’artista predilige è la bomboletta.

La sua arte cresce e si evolve fino a trovare nel volto la maggiore resa espressiva. Il volto costituisce il mezzo ideale per la trasmissione del messaggio di Jorit: alla base c’è l’umanità che accomuna tutti gli individui. Il mondo contemporaneo divide le persone per etnie, classi sociali e provenienza geografica. Ma, se ci si sofferma ad osservare il volto, ecco che ogni forma di gerarchia viene azzerata e le persone sono unite dal loro essere umani.

Jorit cerca l’umanità in ogni parte del mondo. Trascorre molto tempo in Africa e porta con se un grande bagaglio culturale. Il concetto di fratellanza si sedimenta nei pensieri e nei sentimenti dell’artista, tanto da costituirne in maniera essenziale il linguaggio. Le strisce rosse che riporta sui suoi volti sono un altro elemento che egli porta con se dall’Africa e trasferisce nelle sue opere.

Le strisce costituiscono l’interpretazione in chiave figurativa delle cicatrici che i giovani africani recano sul volto. Queste sono nate dai riti d’iniziazione che si compivano nelle diverse tribù del continente e sono differenti nelle diverse comunità di provenienza. Il volto rappresenta l’umanità, ma il marchio del luogo d’origine è un qualcosa che ogni persona porta con se per tutta la vita.

Periferia può anche essere interpretata come uno spazio del mondo, che viene contestato non tanto per la sua collocazione, ma anche per l’essere etichettato come zona a rischio.

Forcella è un quartiere presente nel cuore della città, della storia di Napoli e della tradizione. È qui che Jorit ha realizzato il suo San Gennaro, che s’inserisce perfettamente, come se fosse stato sempre li, nella struttura urbanistica del quartiere e nel cuore dei suoi cittadini. San Gennaro è il patrono della città, la figura a cui si rivolge la maggior parte della devozione dei cittadini napoletani e non a caso esso non è lontano dalla Cappella del Tesoro di San Gennaro. Il volto sembra volgere verso i turisti il suo sguardo intenso, incoraggiando il passaggio nel quartiere, andando oltre i pregiudizi e i fatti di cronaca. In questo caso l’arte è canale di comunicazione, per promuovere alla conoscenza e allo stesso tempo è interprete dello spirito del luogo.

Attraverso il graffitismo di Jorit si pùo leggere l’evoluzione di questo tipo di arte. Combinato alla tecnica e al supporto tipico di questo linguaggio, c’è uno stile realistico, volto alla promozione del concetto di umanità. L’artista si pone così come un ponte tra i due mondi, quello della strada e quello dell’arte ufficiale.

L’umanità è al centro dei suoi interessi e determina l’unità tra le persone, consentendo di andare oltre la gerarchia dell’arte e del mondo. Andare oltre la periferia attraverso un unico volto, che rappresenti il cittadino del mondo.

INFORMAZIONI UTILI

Jorit Agoch: http://www.jorit.it/index.html

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Le periferie sostenibili immaginate dal MIT

Aree verdi, orti suburbani e mezzi di trasporto avveniristici come l’Hyperloop di Elon Musk per le periferie sostenibili del futuro.
Quando parliamo di città i riflettori sono sempre puntati sul centro urbano, anche se in realtà la maggior parte delle persone risiede nelle periferie. E’ quindi in queste aree decentrate che bisognerebbe investire per innalzare la qualità della vita degli abitanti e per influire positivamente sull’impatto ambientale.
Si è discusso di questo nella conferenza ‘The Future of Suburbia’ organizzata e ospitata dal Center for Advanced Urbanistica (CAU) della Scuola di Architettura e Pianificazione del MIT (Massachussets Information Technology). L’evento ha riunito studiosi e professionisti provenienti da ambiti diversi che hanno condiviso punti di vista sulle tendenze evolutive e di sviluppo delle periferie e sul contributo che architetti, progettisti e urbanisti possono dare per rendere gli spazi più sostenibili.

“Le domande che ci siamo rivolti”, dice Alan Berger, professore di architettura del paesaggio e progettazione urbana, e co-direttore del CAU “, sono state: Come può l’ambiente suburbano operare in modo olistico? E come possiamo gestire in modo sinergico lo sviluppo urbano e suburbano e in modo che ci sia uno scambio delle risorse ambientali? ”
La maggiorparte della popolazione si concentrerà nelle perifierie

Pianificatori e urbanisti spesso operano con il presupposto che la maggiorparte della crescita demografica si verificherà nelle città, anche se il 70% delle persone negli Stati Uniti vive in periferia. E anche secondo le Nazioni Unite entro il 2050 soltanto 1 persona su 8 vivrà nel centro urbano, mentre i restanti vivrà nella periferia urbana.

Un fenomeno dettato sia da motivazioni economiche sia dalla volontà di vivere in abitazioni più grandi, in aree più tranquille e attorniate da spazio verde. Non a caso sono perlopiù le giovani coppie con bambini ad optare per la periferia.

“Progettate in modo intelligente le periferie possono diventare un banco di prova per la produzione di energia rinnovabile, cibo e socialità.”- ha riferito Berger.

Verde e orti

Prima di tutto, il verde. Le aree periferiche hanno spazi estesi dove la vegetazione può proliferare. Joan Nassauer, docente di architettura del paesaggio presso l’Università del Michigan, ha condiviso la sua ricerca incentrata sull’importanza delle aree verdi e come queste possano contribuire alla lotta contro il cambiamento climatico. Le periferie dovrebbero trasformarsi in veri e propri polmoni verdi. E non solo, oltre a giardini dovrebbero prevedere orti, dove poter coltivare frutta e verdura a km zero per gli abitanti e anche per coloro che risiedono in centro città.

Trasporti veloci e sostenibili

Altra tematica principe, quella dei trasporti. Uno dei problemi più evidenti delle aree suburbane è che sono spesso mal collegate al centro urbano. E che l’eccessivo utilizzo di mezzi privati finisce per provocare alti tassi di inquinamento. Knut Sauer, vice presidente di Hyperloop Technologies, una delle società che sta lavorando in modo indipendente allo sviluppo dei prototipi del mezzo teorizzato da Elon Musk, ha illustrato gli sforzi che l’azienda sta sostenendo per trasformare radicalmente la mobilità.

Hyperloop è un supertreno che coniuga alle potenzialità della levitazione magnetica i vantaggi di tubi a vuoto in cui far scorrere le capsule, e permette di raggiungere un’accelerazione massima di 1g (quella di una macchina da corsa), sfruttando principalmente l’energia fotovoltaica. Attualmente l’azienda è impegnata nella costruzione di una pista sperimentale di 8 km per Hyperloop nella Quay Valley, una futura comunità “verde” tra Los Angeles e San Francisco, interamente alimentata a energia solare. Ma il prototipo potrebbe essere applicato ovunque, per collegare centri urbani alle periferie.

Tutte le proposte e i risultati emersi dal convegno saranno pubblicati nel 2017 in un volume scientifico ‘Infinite Suburbia’, 1200 pagine frutto di un lavoro di due anni di collaborazione fra 52 professionisti, una ventina di ricercatori e 10 partner istituzionali.

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Bando periferie degradate, saranno ammessi anche i progetti preliminari

Accolte le modifiche Anci; i Comuni dovranno approvare il progetto definitivo entro 60 giorni dalla convenzione.
Via libera a progetti preliminari e studi di fattibilità per candidarsi al bando da 500 milioni di euro per la riqualificazione urbana nelle periferie degradate.

La modifica al precedente schema di bando, che ammetteva la presentazione solo di progetti definitivi, arriva dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci), nel corso della Conferenza Unificata del 14 aprile scorso.

Bando periferie degradate: ok a progetti preliminari
La nuova bozza del bando, approvata dalla Conferenza Unificata, ridefinisce alcune delle procedure e dei requisiti di presentazione dei progetti per la riqualificazione urbana nelle periferie.

Una delle novità più rilevanti riguarda l’apertura nei confronti di stadi progettuali non definitivi; infatti lo schema di bando prevede la possibilità di presentare anche uno studio di fattibilità o progetto preliminare.

In tal caso però prescrive che i soggetti proponenti s’impegnino ad approvare, entro 60 giorni dalla sottoscrizione della convenzione o dell’accordo di programma, il relativo progetto definitivo o esecutivo.

Il Presidente Anci, Piero Fassino, ha dichiarato a margine dei lavori: “L’Associazione ha registrato positivamente l’accoglimento degli emendamenti discussi in sede tecnica per cui sarà possibile la partecipazione al bando con la presentazione solo di uno studio di fattibilità e non del solo progetto esecutivo”.

Bando periferie: 3 mesi per presentare i progetti e per valutarli
Lo schema di bando precisa che i soggetti proponenti “dovranno presentare i progetti entro 90 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale”.

In sede di Conferenza Unificata si sono anche stabiliti “tempi certi per la conclusione della procedura di valutazione”. In particolare, sono previsti 90 giorni (circa 3 mesi) dalla scadenza del termine per la presentazione dei progetti per la conclusione del procedimento di valutazione.

Previsti invece 30 giorni per la sottoscrizione delle convenzioni e/o accordi di programma.

Riqualificazione periferie degradate: la altre modifiche Anci
Un altro emendamento Anci accolto riguarda la possibilità per le amministrazioni di richiedere il 10% del finanziamento eventualmente assegnato al momento della firma della convenzione e/o accordo di programma: ciò consentirà di coprire anche i costi di avvio dell’intervento infrastrutturale dei soggetti proponenti.

Infine un’altra questione sollevata da Anci riguarda il conflitto tra città metropolitane e capoluoghi di Provincia.

A tal proposito Fassino ha dichiarato: “Al governo abbiamo chiesto che si espliciti la possibilità di partecipazione anche per le città capoluogo di Regione”; adesso infatti il testo prevede solo la partecipazione delle Città metropolitane e dei capoluoghi di Provincia.

“Se la possibilità di ricevere il finanziamento restasse solo alle Città metropolitane”, ha spiegato il presidente Anci, “si verificherebbe una ingerenza legislativamente e costituzionalmente illegittima perché la Città metropolitana non può decidere un intervento sul territorio di un capoluogo di Regione, prerogativa questa della giunta e del Consiglio del capoluogo stesso”.

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ANCI e ACRI siglano accordo su riqualificazione urbana e sicurezza delle periferie

Promuovere tutte le azioni che possano essere di impulso e di supporto alla completa attuazione del “Programma nazionale di interventi per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle Città metropolitane e dei Comuni capoluogo”, istituito dalla Legge di Stabilità 2016 . È questa la principale finalità dell’Accordo siglato dall’Anci, l’Associazione dei comuni italiani, e dall’Acri, l’associazione che rappresenta le Fondazioni di origine bancaria, che verrà perseguita supportando centralmente la definizione del Programma e, localmente, l’elaborazione di progettualità coerenti con gli obiettivi del Programma stesso.

L’Accordo “intende favorire e sostenere la migliore attuazione del Programma nazionale promuovendo attivamente la realizzazione di situazioni di contesto istituzionale, amministrativo e finanziario, che assicurino il più efficiente ed efficace utilizzo delle risorse pubbliche attivate, la massima integrazione con le iniziative già programmate, il miglior raggiungimento degli obiettivi e fini indicati dalla legge, nonché l’attivazione di risorse private aggiuntive”.

Per garantire la realizzazione degli obiettivi generali stabiliti “ANCI e ACRI si adopereranno per chiedere alla Presidenza del Consiglio il massimo coinvolgimento nelle fasi del Programma, in relazione alla necessità di informare e sensibilizzare i rispettivi associati per il migliore dispiegamento di ogni iniziativa finalizzata a realizzare nei territori processi strutturali di rigenerazione urbana ed effettivo innalzamento del livello di sicurezza delle comunità”.

«L’obiettivo che ci prefiggiamo con la sigla di questo Accordo – afferma Piero Fassino, Presidente ANCI – è quello di sviluppare appieno le potenzialità del Programma nazionale, coordinando al meglio la presentazione dei progetti locali che possano favorire sia l’attivazione e il coinvolgimento di risorse private, a partire da quelle delle Fondazioni di origine bancaria, che la collaborazione con il terzo settore nella elaborazione di progetti di recupero e riqualificazione urbana».

«Questo Protocollo – dice Giuseppe Guzzetti, presidente Acri – è coerente con la previsione della Mozione finale del Congresso Acri di Lucca del 2015, che prevedeva di pervenire a un’intesa con l’Anci che consenta alle Fondazioni di realizzare, in un contesto di sussidiarietà e di rispetto dei ruoli, rapporti di carattere strategico con gli enti del territorio al fine di condividere e ottimizzare, in particolare, iniziative che perseguono obiettivi di coesione e inclusione sociale».

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