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Realtà delle periferie romane: Colle Salario, “la piccola New York” in crisi

Ci sono periferie e periferie, come ci sono topi e topi: i topi di città e i topi di campagna della favola di Esopo e i topi di Tor Bella Monaca, dove Virginia Raggi è andata a vedere come i bambini imparano l’aritmetica non col pallottoliere ma contando i topi che razzolano nel pattume del degrado.

Si può discutere su quanto sia ormai improprio parlare di periferie, ora che le città si sono talmente allargate da formare un unicum con le appendici urbane più distanti dal centro storico. Parliamo di Colle Salario, quartiere dall’estrazione sociale più eterogenea, dove i problemi si presentano all’ordine del giorno come in ogni tessuto urbano, dove non mancano gli incapienti supportati dalla parrocchia, ma dove l’iniziativa dei privati cittadini riesce a mantenere una situazione quanto più decorosa dell’abitato interno ed esterno e far giocare i suoi bambini coi topi di peluche.

Qui il verde lussureggiante della vegetazione – dai pini ai salici piangenti, ai folti cespugli di oleandri che dal bianco esplodono nelle gradazioni più vivide del rosa e del rosso – mitiga il rigore verticale del cemento per l’ alto grado di umidità esalante dal Tevere di sotto che gli fa da corona e sentinella.

La piccola New York

Questo nucleo abitativo, sorto sopra Fidene da una trentina di anni, col suo skyline di grattacieli non può non attirare l’attenzione di chi si trova a circolare a nord est del raccordo. E, non a caso, l’orgoglio popolare dei suoi primi residenti volle denominarlo abbastanza pomposamente “la piccola New York”.

Oggi, il Colle è luogo di continuo smistamento del traffico proveniente dall’anulare verso i quartieri limitrofi del Nuovo Salario, Talenti, Nomentano, Monte Sacro, Prati Fiscali e, considerato lo sviluppo demografico registrato negli ultimi decenni, si è visto accrescere di numerose attività appartenenti ad ogni categoria commerciale nonché dei servizi sociali più strettamente necessari.

Tempo di crisi

Gli anni della crisi, però, si fanno sentire e ad oggi tante sono le saracinesche di negozi che si sono abbassate non potendo più sostenere l’onerosità dei canoni d’affitto. Ha chiuso già da alcuni anni per fallimento lo storico supermercato “Sidis” rimpiazzato dal mastodontico “Castoro” che, alla base del Colle, costringe gli abitanti più anziani senza automobile a un assai faticoso saliscendi dall’autobus (che passa ogni venti minuti se va bene) o ad inerpicarsi in salita con il carrello della spesa.

Fasti e nefasti dell’edilizia pubblica e privata

Il quartiere nacque per la maggior parte come monopolio immobiliare dell’IACP (Istituto Autonomo Case Popolari), poi trasformato in ATER (Azienda Territoriale Edilizia Residenziale), con a fianco iniziative di Enti e Gruppi immobiliari privati che vanno a coprire l’ area soprastante di Via Monte Giberto fino al “Parco delle Sabine”, ampio territorio in mano ad una sfrenata speculazione edilizia pronta a cavalcare le necessità dei più giovani nuclei familiari in cerca di soluzioni abitative.
periferie
Veduta parziale del Parco delle Sabine

Va detto che l’ATER sta presentando negli ultimi anni tutte le sue criticità per una gestione non esattamente oculata, con il rischio sempre alle porte di fallimento per i miliardi di debiti contratti nei confronti del Comune. Attualmente l’Azienda è sotto commissariamento, laddove l’unica soluzione di salvataggio appare quella del taglio dei costi di gestione – già da anni ai minimi storici a nocumento degli inquilini regolarmente paganti – rivoluzionando altresì i sistemi di assegnazione degli alloggi in un “bando unico” onde contrastare il fenomeno ormai diffuso delle occupazioni abusive, effetto della endemica lentezza nelle assegnazioni.

Il Comune, da parte sua, ha lasciato i marciapiedi del quartiere pressoché impraticabili, pieni di crepe o avvallamenti causati dalle radici degli alberi, provocando in tal modo facili cadute con conseguenze anche gravi e continue cause legali a scopo risarcitorio.

Terreno fertile per la politica: pre-elezioni con panini e porchetta

Alle ultime consultazioni elettorali per la nomina della nuova giunta municipale, Colle Salario ha visto susseguirsi un andazzo di personaggi della politica, a cominciare – e ci sembra utile l’annotazione postuma – dall’entourage di Alfio Marchini. Il bell’Alfio (che non si è fatto ammirare di persona, né con l’utilitaria di lavoro e né, bontà sua, con la sua Ferrari grigia), si era premurato di disporre per gli abitanti del Colle una merenda a base di pane e porchetta. Ci risulta che in molti hanno… abboccato, ma il bel ferrarista non ce l’ha fatta.

Anche il giovane Paolo Marchionne (presidente uscente Pd del III Municipio- ex IV, cui appartengono Colle Salario-Fidene), si è dato da fare in vista della tornata elettorale del 5 giugno per l’apertura del cavalcavia ferroviario che da Fidene porta a Villa Spada e i cui lavori, iniziati nel 2013, erano rimasti bloccati per pastoie tecniche e burocratiche. Già prima dell’apertura del cavalcavia, venne effettuata la sua… inaugurazione nell’autunno 2015 alla presenza del ex sindaco Marino (sic!).

Ma anche Marchionne si è visto surclassare dall’avanzata dei Pentastellati nella persona della giovane Roberta Capoccioni, la quale già viene fatta bersaglio di critiche per una certa propensione al gusto della “parentopoli” nelle nomine della nuova Giunta. Ma se gli amici degli amici e i parenti dei parenti sono bravissimi, allora… “Fiat Giunta Tua”.

Non va sottaciuta una nuova e particolare presenza nel quartiere, quella di Casa Pound, insediata a Colle Salario ad inizio 2016 dopo aver vinto un bando di concorso Ater: blindato – ci dicono – il giorno dell’inaugurazione della nuova sede a un tiro di schioppo dalla palestra popolare, regno dell’occupazione “rossa”. Ma il forzato connubio pare non abbia destato problemi di sorta, secondo le dichiarazioni dei responsabili tartarugati di volersi mantenere come “alternativa politica”. Mutatis mutandis, la loro azione nel quartiere si sta muovendo nel campo sociale con l’offerta agli inquilini Ater di assistenza legale gratuita per la soluzione dei loro problemi. Pare che si siano anche adoperati come volontari muniti di ramazza per la pulizia dei giardini nel limitrofo Parco delle Sabine sopra citato. Considerati certi loro pregressi di esecrante estremismo politico, non si sa quanti proseliti riescano a fare sul Colle, ma sicuramente tutti coloro che non si sentono protetti nel decadimento di un patrimonio immobiliare pubblico, unica ricchezza popolare.

Ci si augura che il nuovo Sindaco di Roma riesca dal Campidoglio a mantenere un vigile e costante controllo sulle neo- governance municipali, finora affidate alle cricche di quanti hanno fatto il bello e il cattivo tempo.

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Le periferie al centro, per far ripartire Roma

Paolo Berdini sarà il prossimo assessore all’Urbanistica di Roma. Un tecnico, con una storia a sinistra, scelto da Virginia Raggi in uno dei ruoli chiame per la sua amministrazione. Un nome di alto profilo per uno dei compiti più complicati per il rilancio della capitale. Come per il neosindaco di Milano Beppe Sala, la parola chiave è per il suo assessorato sarà “periferie”: da lì si deve ripartire. A differenza del primo sindaco di Milano, però, Berdini dell’argomento si occupa da tutta una vita. “Ma va bene, l’importante è rimettere al centro le periferie”. Se la Città eterna è arrivata a questo scempio, la colpa è’ dell’”ubriacatura da mattone facile”, che ha espanso le città all’inverosimile, distruggendo le strutture sociali e il welfare di prossimità. Come fermare questa deriva?

“Questa congiuntura economica aiuta un po’ a raggiungere l’obiettivo di bloccare quest’espansione urbanistica – risponde – costata anni di emarginazione sociale. Non sono contro il fatto che le città cambino: le città nell’Ottocento e nella prima metà del Novecento sono cambiate dando però un servizio ai cittadini. Oggi noi stiamo costruendo periferie devastanti dove non c’è più alcun servizio, né alcun senso comunità. Credo sia un grande obiettivo risanre le periferie. E risanaree le periferie significa non far più crescere le città”.

È sempre stato un avversario del Piano regolatore che ha visto la luce nel 2008. Ci spiega perché?

“Perché il piano era basato su ubriacatura da mattone facile che ci veniva dagli Stati Uniti e dalle politiche liberiste. Gli Usa sono stati il faro di queste politiche da indebitamento delle famiglie per comprarsi un’altra casa. Dal 2008, guarda caso l’anno dell’approvazione del piano regolatore di Roma, questa finzione è crollata e con essa queste politiche scellerate. Tutto questo è legato alla più grave crisi del sistema capitalistico, più grave anche della crisi del ’29. Dunque bisogna pensare che quel piano scellerato pensato sull’efferscenza del mattone sia arrivato alla consunzione per sua stessa natura, se posso dire. Qui c’è un ragionamento a mio avviso molto interessante di come ricostruiamo le basi non solo di Roma, ma del sistema produttivo dell’Italia intera disancorandolo dalla speculazione immobilare”.

Il tema delle periferie è centrale, non solo a Roma, ma anche a Milano, stando alle parole del neosindaco Sala. Perché si insiste così tanto?

“Il tema è centrale e sono contento che lo dica anche Sala. Forse poteva avere il coraggio di dire che costruire la sede di Expo in espansione rispetto ad una città che ha già problemi urbanistici è stato un grande errore. Però va bene, oggi rimettiamo al centro le periferie. Sono centrali perché è lì che si concentra la sofferneza sociale. Con questa visione della città e delle periferie stiamo disarticolando la struttura della società che prima teneva un po’ tutti attraverso le forme del welfare. Mi sembra che rimettere al centro le periferie sia uno strardinario elemento che può aiutare un’evoluzione culturale del sistema Italia”.

Concretamente come intende agire per affrontare i problemi delle periferie romane?

“Il cardine del ragionamento è che bisogna accorciare le distanze tra centro e periferia. Accorciare le distanze in senso metaforico, avvicinandole ad esempio attraverso sistemi di trasporto su rotaia che a Milano esistono in grande quantità e sono molto efficienti ma a Roma non esistono. Dopodiché bisogna fare blocco per ricostruire il welfare urbano. Non possiamo non fare niente in periferia perché non abbiamo soldi. I soldi vanno tolti, come dice la campagna Sbilanciamoci, da altre poste di bilancio che non servono a nulla. Bisogna investire su inclusione sociale e cultura per i giovani”.

L’elemento centrale nella campagna elettorale è stato il tema delle Olimpiadi. È evidente che se dovessero farsi avranno un impatto significativo anche sul piano urbanistico. Si è già dichiarato contrario al villaggio per gli atleti a Tor Vergata e ora si vedrà se proeseguire con la candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024. Che valutazione fa di questa partita? Come pensa di gestire impatto urbanistico?

“Bella domanda. Intanto diciamo che il nuovo sindaco Virginia Raggi aveva detto con molta nettezza che avrebbe ridiscusso la partecipazione di Roma. Dopodiché se si facessero, ci sono modelli postivi da seguire. Si prenda Barcellona ’92: hanno costruito una serie di impianti in periferia che sono rimasti alla città. Non è la stessa esperienza di Torino dove abbiamo costruito cattendrali in montagna che adesso dobbiamo demolire. A Barcellona si è costruito dentro la città. Si è pensato di fare del bene alla città e non di costruire case agli atleti. È un cambio di ottica, di prospettiva. Le Olimpiadi possono esere accettate, ma a patto che protino beneficio in periferia e non a chi ha guadagnato mettendo in ginocchio il 90% della popolazione mondiale”.

Quindi un’altra Olimpiade è possibile non esiste solo il no pregiudiziale.

“C’è un referendum in atto, per questo ne parlo con molta prudenza. Il segretario del partito radicale sta raccogliendo le firme. La democrazia è anche questa, ma se l’esito al referendum sarà favorevole, allora la realizzazione va impostata così. Quella spesa pubblica deve migliorare la vita dei romani”.

Una curiosità: come si è avvicinato al M5S e a Raggi, lei, che ha una storia di sinistra?

“L’incontro con i Cinque Stelle è cominciato tre anni fa quando mi hanno chiesto di scrivere delle leggi per il Parlamento. Ho conosciuto questi ragazzi con meno di 30 anni che hanno a cuore la città pubblica e hanno una visione di città in controtendenza con l’idea che tutto è mercato. I quattro giovani consiglieri comunali del Movimento a Roma hanno impostato un’azione micidiale con cui hanno cui svelato tutta Mafia Capitale in anticipo: da lì ho inizato a collaborare con loro. Tra questi c’è anche Virginia Raggi. È avvenuto in questo frangente l’incontro, nel merito delle questioni al di là dello schieramento. È una problema di merito e lì non hanno sbagliato una mossa”.

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La risposta è nel vento

“Chiacchierare, farsi raccontare, capire, ascoltare i mormorii della gente” suggerisce Marco Ciancia ne “L’idraulico di Giolitti e il consenso perduto” sul Corriere di oggi.
Contemporaneamente sullo stesso giornale Serena Danna ci informa che “Dei 13 mila link ad articoli della Bbc che vengono condivisi in un mese su Twitter ne vengono aperti…meno della metà” e che “Non esistono…strumenti scientifici per capire se un lettore “della carta” abbia letto…l’articolo”.
Se mettiamo insieme le due argomentazioni troviamo forse una risposta a quello che ci si domanda oggi di fronte ai risultati elettorali.
Abbiamo ancora un ascolto in corso tra la politica e la gente?
La rete può creare canali di contatto tra i cittadini e le istituzioni?
Se non troviamo una risposta a queste domande non riusciremo neanche a spiegarci che cosa è avvenuto nelle ultime elezioni.
Se le periferie hanno decretato la sconfitta di chi le ha governate negli ultimi anni vuol dire che nessuno tra i politici e gli amministratori è stato in grado di parlare con il popolo delle periferie.
Tanto cianciare di rigenerazione urbana non ha prodotto un solo risultato concreto per la qualità della vita nei territori.
Tanti convegni non hanno generato un solo posto di lavoro tra le masse giovanili urbane in cerca di occupazione.
Tante inchieste e reportage non hanno aperto nessun cantiere di riqualificazione, di mobilità, di sicurezza.
Bastava andare a sentire gli umori di chi in periferia lotta per mantenere un minimo di decoro e di vivibilità nel totale abbandono delle istituzioni pubbliche.
Bastava ascoltare le associazioni che da anni operano in questi territori offrendo servizi sociali, culturali, sportivi, sanitari in sostituzione della latitanza delle amministrazioni.
Quanti asili, biblioteche, consultori, teatri, centri sociali sono stati definanziati se non chiusi?
La risposta è semplice e sta nel farsi le domande giuste.




Il piano periferie di Renzi: prestiti ai condomini

Un fondo pubblico per ristrutturarli. I soldi restituiti a rate in bolletta.
Tornare ai fasti di Petroselli – il sindaco comunista che diede una casa a molti romani a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta – è impossibile. Altri tempi, altri numeri. Fu lui a volere Tor Bella Monaca, il quartiere che oggi simboleggia il degrado di Roma e che allora apparve come un sogno realizzato. I numeri bulgari conquistati lì dai Cinque Stelle e in altri quartieri popolari delle grandi città hanno però messo in allarme il governo. Oggi stesso al ministero del Tesoro ci sarà una riunione di Padoan con la sua squadra per analizzare i risultati e iniziare a ragionare seriamente della prossima legge di Stabilità. C’è da scommettere che le ragioni di chi punta a nuovi sgravi alle famiglie rispetto a quelli promessi alle imprese (Renzi è il primo a pensarla così) avranno più orecchie attente di qualche giorno fa. La tentazione di far prevalere scelte di impatto mediatico su quelle capaci di cambiare in profondità la struttura dell’economia italiana sarà sempre più forte. In ogni caso, a meno di andare allo scontro con la Commissione europea, per il governo non sarà facile far quadrare i conti. Come dimostra la discussione sul prestito pensionistico, oggi le ipotesi più gettonate sono le meno costose per il bilancio pubblico. Oppure deve trattarsi di misure capaci di stimolare la domanda interna: la più avanzata, già valutata tecnicamente da Tesoro e Palazzo Chigi prima delle elezioni, riguarda proprio la cura delle grandi periferie.

Il punto di partenza è uno sconto fiscale in vigore. Oggi chi vuole ristrutturare il condominio o installare pannelli solari può contare su un bonus piuttosto forte: del 55 per cento nel primo caso, addirittura del 65 nel secondo. Tutte le spese sostenute fino al limite dei 96 mila euro sono detraibili per ben dieci anni. Di qui il boom dei lavori negli appartamenti e nelle palazzine. Ma per quanto lo sconto sia alto, chi deve mandare avanti una famiglia con meno di mille euro al mese non è in grado di sostenere alcuna spesa straordinaria. L’idea è quella di applicare il meccanismo su larga scala per chi ha un reddito molto basso, soprattutto al di sotto degli ottomila euro all’anno, la soglia sotto la quale non si paga nemmeno l’Irpef.

Immaginate una grande palazzina in cattive condizioni, i cui condomini siano d’accordo per ritinteggiare le scale, la facciata, e magari anche risparmiare sulle bollette con l’installazione di pannelli fotovoltaici. L’amministratore si rivolge ad un fondo pubblico, il quale si incarica di sostenere le spese in vece dei singoli proprietari. Al fondo andrà il vantaggio fiscale che oggi è riconosciuto a ciascun privato. Il pagamento dei lavori veri e propri avverrebbe attraverso la bolletta energetica dei condomini, la quale beneficerebbe in ogni caso di una riduzione dei costi per via dei pannelli fotovoltaici. Il piano è già stato studiato con l’Enea, e prevede il coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti, presso la quale verrebbe costituito il fondo. I dettagli sono ancora da mettere a punto: potrebbe essere costituito presso Cdp immobiliare, o ad hoc. «In ogni caso sarà uno strumento virtuoso dai costi contenuti per lo Stato», dice il viceministro Enrico Morando. «Il vantaggio può essere esponenziale: per il settore edilizio, per quello dell’energia, e di sostegno alla ripresa dei prezzi immobiliari. Vivere in un appartamento in una palazzina ristrutturata e resa più efficiente è un vantaggio anzitutto per chi li possiede». Per risolvere i problemi di Tor Bella Monaca o delle Vallette non basta certo la tinteggiatura dei palazzi. Le periferie non sono tutte uguali: più si scende a Sud, più è facile che sommino degrado urbano a degrado sociale. Altri strumenti nel frattempo stanno prendendo il via, come il fondo per la povertà educativa finanziato con il sostegno delle Fondazioni bancarie. Piccoli passi per ritrovare il consenso perduto.

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Torino e Roma, la politica nelle periferie

La campagna elettorale appena conclusa sarà ricordata per una parola: periferie. Cerchiamo di capire quanto sono importanti.

In questa campagna elettorale, la parola più utilizzata – a volte correttamente, a volte a sproposito – è stata periferie. Proprio nelle periferie il peso degli elettori si è rivelato decisivo per cambiare gli equilibri politici delle principali città italiane, soprattutto Roma e Torino. Ci sono due mappe molto interessanti realizzate da You Trend, dalle quali partiremo nella nostra analisi.
Virginia Raggi (wikimedia.org)

Virginia Raggi (wikimedia.org)
Roma, un monte innevato.

La prima, quella forse più ovvia dato il risultato finale, sembra un monte, dove le periferie rappresentano le pendici che salgono verso una punta innevata. Le “scure” periferie hanno votato la candidata del Movimento 5 Stelle, Virginia Raggi, per oltre il 60% (e anche fino al 79%). Al centro, invece, il divario con Roberto Giachetti, candidato del Partito Democratico, è stato più stretto ma comunque a vantaggio della Raggi, che ha trionfato al ballottaggio con il 67,15%. Oramai, purtroppo, constatiamo una scarsa affluenza alle urne. Roma ha di poco superato il 50% (per la precisione 50,15%), e in diverse municipalità si è scesi ampiamente sotto, come ad esempio nella 15, che ha toccato il 44,46%.
Le due Torino.

Diverso il discorso di Torino che, per certi aspetti, appare ancora più illuminante. Nella mappa di You Trend la città appare spaccata in due. Le periferie hanno votato per la pentastellata Chiara Appendino (c’è anche una mappa realizzata da Sky, ancora più dettagliata). A queste zone si aggiungono anche quartieri più “giovani” e multiculturali come Borgo Rossini e Vanchiglietta. Al contrario, zone come La Crocetta, San Salvario e in generale il centro e la collina hanno scelto il sindaco uscente PD, Piero Fassino.
Il dato dell’astensione, comunque migliore della Capitale, è pesante. Sebbene sia uniforme in tutte le zone della città, quasi un cittadino su due non è andato a votare (54,41% è l’affluenza finale). A poco valgono le indignazioni e gli attacchi verso chi non vota: sono cittadini anche quelli che non votano, e se quelli che non votano sono in tanti significa che c’è un problema politico, non ci vuole molto a capirlo. Per lo stesso motivo, considerare “voti di serie B” quelli del «centrodestra che ha votato 5 stelle» significa non voler ascoltare l’elettorato.
Chiara Appendino (chiaraappendino.it)

Chiara Appendino (chiaraappendino.it)
Le periferie hanno votato un po’ di più.

Sempre per restare attaccati ai numeri, emerge come nei quartieri in cui si è votato di più si siano imposte Raggi e Appendino. A Roma, dove Virginia Raggi ha prevalso ovunque, nelle municipalità 1 e 2 l’affluenza media è stata del 48,2%, qui la nuova sindaca ha ottenuto meno consensi. Nelle municipalità 6 e 10, dove ha stravinto, l’affluenza è stata del 49,83%.

Molto più interessante, invece, il dato di Torino. L’unica circoscrizione in cui Fassino ha vinto (superando il 59% dei consensi), cioè la 1 (Torino Centro), è anche quella dove si è votato di meno, con un’affluenza del 51,2%. In tutte le altre, dove Chiara Appendino ha prevalso con un picco del 64,76% nella Circoscrizione 5, l’affluenza è stata sempre superiore al 52%, con una media del 54,6%. Dove si è votato di più, si è scelto di mandare a casa Fassino. In generale, sono state le periferie ad alzare l’affluenza, premendo per il cambio di rotta, pur mantenendo una fiacca corsa alle urne.
Quanto contano le periferie.

Almeno nelle grandi città, si registra la netta risalita dell’importanza politica delle periferie. Eppure non è un concetto nuovo. Basta guardare le cronache degli ultimi anni per capire che le periferie sono il luogo in cui si misura la forza istituzionale di una città, quando non addirittura dello Stato.

Qualche anno fa, Torino visse una sorta di pogrom contro alcuni nomadi in zona Vallette, scaturito da un’aggressione poi rivelatasi inventata. Negli scorsi giorni, invece, in zona Falchera sono state sgomberate alcune famiglie in emergenza abitativa che occupavano appartamenti vuoti. Emergenza ancora più forte a Roma, dove sono frequenti gli sgomberi e la città è salita alla ribalta delle cronache, negli ultimi anni, per gli scontri “tra poveri”, cioè tra abitanti delle periferie – fortemente provati da crisi e disoccupazione – e stranieri (come, ad esempio, i fatti di Tor Sapienza).

Si tratta di zone dove il conflitto sociale è acuito dalle difficoltà economiche. Qui la politica deve (doveva) intervenire al più presto, la sua assenza (ricordata da Diego Novelli) ha contribuito ad allargare il divario tra “poveri” e “ricchi”, fino a registrare addirittura differenze di salute. Lo studio del professor Giuseppe Costa, epidemiologo dell’Università di Torino, pubblicato sul «Venerdì» di Repubblica, ha evidenziato un divario nell’aspettativa di vita: più bassa alle Vallette (77,8 anni), più alta in collina (82,1).ù
La retorica dell’aiuto.

Il rischio, ora, è che la “riscoperta” delle periferie, citate da tutti i candidati nelle città più grandi (anche Sala, appena eletto sindaco di Milano con il centrosinistra, ne ha parlato), diventi lo studio di un fenomeno folkloristico, nella stucchevole logica delle «periferie che vanno aiutate». Ebbene no, le periferie delle grandi città non vanno «aiutate», vanno «incluse», quindi coinvolte in politiche di integrazione, sviluppo e riqualificazione. Dove, precisiamo, riqualificazione non può coincidere soltanto con la costruzione di nuovi centri commerciali e grandi stradoni. Vanno sostenute le iniziative culturali, senza “imporle” dal centro, perché le energie ci sono, vanno bensì ascoltate. Basti pensare – tanto per fare due esempi torinesi – a Barriera di Milano o a Mirafiori, dove le iniziative sono variegate e stimolanti.

Il rapporto con le periferie, per Virginia Raggi, Chiara Appendino e tutti gli altri, sarà la vera sfida. Chi perderà le periferie, lo abbiamo visto, perderà la città, allontanando i cittadini dalla politica e dalle istituzioni. Qui si gioca il futuro delle metropoli e non è una scoperta di due giorni fa.

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Geografia commossa della periferia

La pulizia autorganizzata di palazzi e aree verdi, la biblioteca autogestita, il centro sociale El Chè(ntro) e lo spazio culturale Cubolibro (foto). Bisognerebbe ripensare la periferia romana, a cominciare da Tor Bella Monaca – di cui molti si sono “occupati” improvvisamente in questi giorni per “analizzare” i risultati elettorali -, fuori dagli stereotipi e dai luoghi comuni.
A dir la verità, a me non è mai piaciuta molto la periferia romana, ma penso che sia un dovere civile, soprattutto per chi lavora in un’università romana, occuparsene.

La periferia romana è una città vasta, faticosa, complicata e non propriamente “bella”. A tratti repulsiva. In particolare se confrontata con il centro storico che, come si sa, una sua bellezza ce l’ha, anche se è un luogo non meno complicato e per altri versi problematico. Ho imparato però col tempo a conoscerla e penso anche che sia un importante terreno di lavoro e di coinvolgimento, soprattutto per chi si occupa di ricerca e vive in questa città. L’Università non può essere un luogo autoreferenziale e in sé concluso, ma si deve impegnare nella propria città, nel proprio territorio, a servizio della propria città e degli abitanti che ci vivono. A Roma l’Università si occupa troppo poco di Roma. Ed è spesso una ricerca “dalla distanza”, fatta sui dati statistici, sulle mappe, su informazioni indirette.

Per fare una buona ricerca bisogna invece andare sul campo. Sul campo si capiscono molte più cose. Seguendo la vita quotidiana, parlando con le persone, incontrando chi vi svolge attività e servizi, conoscendo i conflitti, studiando le pratiche urbane, partecipando delle situazioni vissute si può conoscere molto meglio la realtà e si può accedere anche all’invisibile, a quelle dimensioni immateriali e simboliche che non si vedono a occhio nudo, ma solo partecipando della vita quotidiana, e che spesso sono i fatti più rilevanti, anche per un urbanista, anche per fare una buona progettazione o riqualificazione (ormai sempre attenti a non usare termini che diventano mode o slogan, come l’incipiente “rigenerazione urbana” o la “smart city”). Bisogna costruire un rapporto empatico col territorio e con gli abitanti, anche se questo non significa lasciarsi “annebbiare la vista”, ma mantenere sempre uno sguardo attento e critico. E così camminare è un modo per conoscere, per praticare un luogo, per esplorare, per fare esperienza, per entrare nella dimensione dei vissuti. Con una certa soddisfazione ho sentito dire recentemente a un mio tesista: “Effettivamente, ho fatto la mia tesi con i piedi …”.

Per governare una città bisogna conoscerla, ma conoscerla dal di dentro. E questo vale anche per lo studio e la ricerca. Da alcuni anni, sto cercando di conoscere e partecipare la periferia romana, con tutte le sue ambiguità e contraddizioni.

Ho conosciuto la periferia abusiva, anzi ormai la periferia “ex-abusiva”, anche se della città abusiva ne rimangono tutti i caratteri, così emblematica della realtà romana, una realtà con mille ambiguità e contraddizioni. Ho studiato le “centralità”, i centri commerciali e i nuovi quartieri esplosi a partire dalle amministrazioni di centro-sinistra Rutelli e Veltroni.

Ho conosciuto altre periferie, ma alla fine ho pensato che bisognava conoscere le realtà più problematiche e così sono andato a Tor Bella Monaca. Non ringrazierò mai abbastanza i nostri dottorandi che studiano e ci fanno conoscere dal di dentro tante realtà diverse della città (in questo caso non ringrazierò mai abbastanza Francesco Montillo che ci ha fatto conoscere Tor Bella Monaca e i suoi abitanti).

Tor Bella Monaca è un quartiere di circa 30-35.000 abitanti e, per il suo carattere di edilizia economica e popolare, costituisce quindi una concentrazione quasi massiva del disagio sociale e del disagio abitativo: mancanza di lavoro, bassi redditi, economia illegale, spaccio della droga, alta concentrazione di persone agli arresti domiciliari, la più alta concentrazione di persone con disabilità a Roma, elevato abbandono scolastico, degrado fisico degli edifici, carenza di aree verdi attrezzate a fronte di una grande disponibilità di spazi verdi , ecc. Alla ghettizzazione corrisponde anche un’immagine stereotipata, molto diffusa in tutta la città, ma a cui fa da contraltare, come è ovvio che sia, una realtà molto più complessa, articolata e ricca, che si rilegge nella quotidianità della vita ordinaria e che gli stessi abitanti tentano di restituire a se stessi e alla città. D’altra parte, oltre agli innegabili problemi, è anche un luogo molto vitale, ricco di iniziative, di protagonismo sociale, di potenzialità e risorse, di produzione culturale (in particolare nel campo della musica) che in genere dall’esterno non vengono minimamente percepite.

Per evidenziare la complessità della situazione e la problematicità dei vissuti quotidiani, basti pensare alla difficoltà di vivere gli spazi pubblici, sebbene presenti all’interno del quartiere. Lo spazio pubblico è il luogo conteso dagli abitanti allo spaccio, rappresenta il luogo della lotta quotidiana con la droga. Per questo è spesso un luogo non piacevole, da evitare; e contemporaneamente il luogo da riconquistare.

Tor Bella Monaca è il quartiere “pubblico” meno “pubblico” che abbia mai conosciuto. La percezione della distanza delle istituzioni e dell’amministrazione pubblica non è così forte altrove come qui. La percentuale di occupazioni, la mancanza di manutenzione, la pulizia autogestita (e non “pubblica”), le morosità e la deregulation a tratti totale, la mancanza di presidi, la mancanza di interlocutori a cui rivolgersi o che ti rispondano, la mancata riassegnazione delle case lasciate libere fanno di questo posto l’emblema dell’assenza del “pubblico”. Se non ci fossero gli edifici a testimoniare che il “pubblico” c’è, o ci sarebbe, o una volta c’è stato.

Tanto più sono luoghi disertati dalla politica, che ha lasciato il campo delle periferie ormai da molti anni ed è venuta meno alla sua funzione fondamentale di mediazione tra i territori e i luoghi della decisione, del governo.

In questa situazione emergono con forza, purtroppo, la rabbia, il senso di abbandono, la necessità di autorganizzarsi. Si struttura, come d’altronde in tanti altre parti di Roma, la città fai-da-te, con tutti i pro e contro che questo comporta, perché questo significa conflitti, fatica di vivere, messa in crisi della solidarietà. Se, da una parte, vediamo processi di riappropriazione, dall’altra la legge del più forte rischia di essere sempre sull’orizzonte di vita delle persone.

Allo stesso tempo, frequentando questi quartieri ed in particolare Tor Bella Monaca, ho conosciuto alcune realtà che io ritengo eccezionali, smentendo radicalmente quell’immagine così negativa ed omologante che spesso se ne ha o che i giornali o altri mass media o molti politici hanno convenienza a mostrare.

A Tor Bella Monaca, nonostante la maggior parte degli abitanti (eccetto i morosi, ovviamente) pagano con l’affitto una quota destinata alla pulizia delle scale e alla manutenzione degli spazi comuni, la manutenzione e la pulizia delle scale non viene fatta. Ed è già questo un fatto grave. Gli abitanti si sono quindi organizzati per provvedere in autonomia (nonostante se ne parli male, si tenti di trasmettere l’immagine generalizzata di persone violente e “degradate”). Generalmente le famiglie si organizzano per scale, si autotassano (per quello che possono), raccolgono i soldi e li utilizzano per pagare una persona (possibilmente della stessa scala; almeno è un’economia che va a vantaggio degli abitanti) che provveda alla pulizia della scala. Ancor più complicato è autorganizzarsi per provvedere alla manutenzione degli spazi comuni ed in particolare delle aree verdi. Però, nonostante tutte le difficoltà, ci riescono. E così scopri che una torre con 75-77 appartamenti (ben 75-77!) si riesce ad organizzare e tiene in condizioni esemplari la propria area verde. Uno sforzo non indifferente e un’impresa eccezionale.

Non meno eccezionale è l’impegno dell’associazione Tor Più Bella nella zona di via Santa Rita da Cascia o di un gruppo di abitanti particolarmente agguerriti nella zona di via San Biagio Platani. In entrambi i casi (ma non sono gli unici) gli abitanti fanno una battaglia quotidiana per mantenere la qualità e curare e rendere fruibile a tutti alcuni spazi condominiali, gli spazi pertinenziali, alcune aree verdi e persino i parchetti vicini, abbandonati dal Comune, dal servizio giardini e dagli altri soggetti istituzionali che dovrebbero occuparsene. Si tratta di una battaglia quotidiana perché significa fronteggiare quotidianamente lo spaccio della droga che tende a colonizzare e a degradare lo spazio comune (distruggere i lampioni, eliminare le luci, rovinare i portoni per lasciare passanti gli accessi, ecc.) per poter svolgere liberamente i propri traffici illeciti. È una battaglia quotidiana (e gli abitanti utilizzano espressioni proprie di uno stato di guerra) e spesso assume forme molto violente, dove in gioco è l’incolumità delle persone.

Se l’espressione non suonasse troppo romantica, apologetica o altisonante, non esiterei a considerare queste persone “eroi della vita quotidiana”, e a cui varrebbe la pena consegnare “medaglie al valor civile”, per l’enorme lavoro di ricostruzione di condizioni di socialità e di spazi di servizio per il territorio e le comunità locali. Mentre spesso si tratta di persone considerate “fastidiose” e “pericolose” per le istituzioni, per la loro capacità critica e per la denuncia delle disfunzioni, e per questo paradossalmente poste sotto controllo dalla Polizia. Chi dovrebbe essere aiutato è controllato.

Così scopriamo che a Tor Bella Monaca c’è una dei licei scientifici migliori di Roma, con un enorme bacino di utenza nella periferia orientale, con una dotazione di laboratori e attrezzature da fare invidia a un liceo della “città borghese”, con un preside, uno staff e un gruppo di professori molto impegnati e di qualità. La scuola, nella periferia romana, è il primo vero (se non l’unico) presidio di “pubblico”.

Analogamente c’è un grande lavoro del locale sindacato Asia, con Maria Vittoria e molte altre persone molto impegnate, con una presenza fondamentale sul territorio, rispetto alla quale le istituzioni pubbliche non reggono minimamente il confronto. Si occupano del problema della casa, delle assegnazioni, di scoraggiare occupazioni abusive fatte solo per interesse e per traffici a favore del mercato nero e di sostenere invece chi ne ha effettivamente bisogno (segnalando anche all’Ater e al Comune quando le case risultano vuote o inutilizzate, ma non vengono riassegnate). Un lavoro quotidiano molto oneroso.

Così come bisogna segnalare il lavoro del centro sociale El Chè(ntro), ma soprattutto di Claudia e del Cubolibro (leggi anche Il cubo magico di Tor bella Monaca). In tutto il quartiere di Tor Bella Monaca (30-35.00 abitanti, con la presenza del Municipio e di altre strutture pubbliche), un quartiere appunto tutto “pubblico”, non esiste la biblioteca comunale. Un gruppo di persone, soprattutto giovani, ha pensato bene quindi di mettere in piedi una biblioteca “pubblica”, anche se fatta da “privati”, raccogliendo donazioni, anche dagli stessi abitanti. Fornisce libri e sostiene i bambini nelle attività extrascolastiche. Ovviamente potrebbe essere considerato “irregolare”, ma è l’unico servizio “pubblico” di questo tipo. E così si scopre che a Roma esiste una rete di biblioteche autorganizzate (con proprio sito, ecc.), e che addirittura svolgono il prestito interbibliotecario. Si tratta di prospettive eccezionali, soprattutto se confrontate con l’assenza del “pubblico”.

Eppure, poiché si tratta di realtà un po’ “irregolari”, vengono perseguiti o controllate o tenute sotto pressione (sull’onda delle recenti disposizioni del Commissario al Comune). È veramente una situazione paradossale. Piuttosto che sostenute per il servizio che svolgono, spesso sostitutivo delle assenze pubbliche, vengono perseguite.

Tutte queste realtà sono spesso invece presidio di civiltà e di solidarietà.

Forse bisognerebbe ripensare totalmente la periferia romana, il cuore della città, fuori dagli stereotipi e dai luoghi comuni, da una conoscenza generica e preconcetta. Forse bisognerebbe guardare con occhi diversi a questo mondo della periferia romana, così articolato e complesso, soprattutto dal suo interno. E scoprire una quantità di risorse, impegno e progettualità che è la sua potenzialità di riscatto e la reale prospettiva di cambiamento.

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I piedi sulla periferia d’Italia

Quasi adatti a garantire il giusto risultato

Quasi adatti a star seduti dentro un’auto accessoriata standard

Quasi adatti a scuole con i crocefissi ai muri

Quasi adatti a discoteche come gabbie

Quasi adatti a innamorarsi di un’animale a pelo corto

Quasi adatti a rinunciare alle proprie fantasie

Tre allegri ragazzi morti(1)

Otto romanzi non sono poca cosa, penso, quasi a giustificare ogni storia narrata, “storie (di periferia) che non andavano scritte”, dissero più volte da queste parti, anche un paio di avvocati mentre mi volevano querelare, anni fa.

Fuori piove. L’acqua sul vetro della finestra crea miriadi di gocce, le une uguali alle altre, le une sulle altre, a formare una marea, come i volti degli operai, identici tra mille e mille e mille altri volti, oggi tutti cassintegrati. Osservo dalla finestra i tetti dei palazzi rossi: in verità si chiamano Case Rosse, questo il nome dato loro dagli architetti che le hanno prima pensate, poi studiate e infine sollevate su questa terra ex-contadina, di nome Friuli, oggi del tutto cementificata. E così è avvenuto in ogni zona contadina del Nord della nazione.(2)

Sto scrivendo da Pordenone, una delle città che ha vissuto sulla pelle la vasta trasformazione industriale degli anni Sessanta e Settanta, passando da paese arretrato di poco più di diecimila agricoltori a zona ultra-industriale da sessantamila operai.

Quegli otto romanzi tengono dentro anche tale sviluppo (che non è progresso, come ribadirebbe un certo Poeta di nome PPP); quindi lo sviluppo della “periferia dell’anima”, dove oggi voglio tornare. Dopo molto.

Piove. Indosso il giubbotto scuro, leggero, alzo il cappuccio. Esco. Sotto il cielo color dei denti.

Cammino lungo la via delle Case Rosse.

È uno stradone che pare arrivare ai confini della città, del mondo, di questo mondo grigio cemento. Ai lati due file di palazzoni popolari dal colore scuro della terra bruciata, scrostato, con infinite piccole finestre tutte esattamente allineate. Da alcune spuntano occhi, volti, qualche mezzo busto di donna intenta a osservare questo pomeriggio piovoso che va a finire. Il cielo è sempre più basso, sembra impegnato a divorare il mondo, una punizione di un Dio troppo alto e lontano per farsi vedere: per esistere. Mi chiedo cosa avevano in testa gli architetti quando hanno concepito una galera così perfetta, così lineare, così ripetitiva. Per centinaia di metri identica. Le Case Rosse di Pordenone, e a maggior ragione le Vele a Scampia, il Corviale a Roma, Quarto Oggiaro a Milano, le zone limitrofe al Lingotto a Torino, tali vastissimi mostri di cemento, se li guardi dal basso sembrano mangiarti, la loro voce ti chiama e dice: «Vieni, entra, dormi, esci, lavora, spaccia, vivi, sopravvivi, poi torna, entra, dormi, oggi, domani, per sempre».

Dai palazzoni al capannone industriale dove costruire metallo, dai palazzoni alla piazza dove spacciare eroina, dai palazzoni alla strada dove perdersi, dall’alba al tramonto, andata e ritorno, andata e ritorno, andata e ritorno. Giorno e notte. Per una vita intera. Ecco la vita del Non-Più-Popolo-Italiano.(3)

Mi siedo sulla panchina di legno al centro del piccolo parco giochi. Due altalene. Diciotto alberi che puntano il cielo basso coi loro rami spogli. Una casetta colorata di giallo e rosso per i bambini, e una bicicletta rosa senza il copertone appoggiata alla parete, immobile da settimane.

La periferia del Nordest ha una sua Voce, una sua Storia. Ex “locomotiva d’Italia”(4) ha visto oltre all’ingovernabile sviluppo economico, industriale e urbanistico anche l’esplosione di un malessere sociale, generazionale, altrettanto ingovernabile, e raramente narrato, ancora tutto da comprendere. Due intere generazioni di figli di operai, tra gli anni Settanta e Ottanta, sono state abbandonate a loro stesse, colpevoli i repentini cambiamenti di stili di vita nelle famiglie e nella società, le nuove velocità richieste dal lavoro seriale, i nuovi bisogni economici, colpevole quello stravolgimento sociale che ha portato un mondo contadino e arcaico a diventare industriale e iper-produttivo in un quinquennio (dal 1960 al 1965), e così i figli di quel sistema, persi nelle inedite e profonde periferie, hanno trovato nella diffusione dell’eroina il baratro dove crollare, dove scomparire, dove dichiarare guerra a un universo mai accettato. Questa voce, che ha i tratti di un vero Urlo salito dalle viscere della “mia periferia”, prende vigore proprio nella disperazione portata dalla Ricchezza del lavoro(5); a differenza delle enormi periferie metropolitane, governate da regole del tutto opposte. Tra Friuli e Veneto, bisogna cominciare a dirlo, a scriverlo, una certa ricchezza operaia ha portato degrado, lo sviluppo industriale ha portato degrado, il benessere dell’omologazione ha portato degrado, un degrado figlio della solitudine, dell’abbandono. Come altro potevano crescere decine di migliaia di adolescenti rimasti Orfani di padri e madri ancora vivi, ma scomparsi dentro gli innumerevoli stomaci delle fabbriche. Donne e uomini spariti in vita, donne e uomini consumati a trent’anni, donne e uomini senza tempo per altro che non fosse produzione di ferro, legno, plastica, vetro, asfalto, cemento: lavatrici, automobili, televisori, frigoriferi, strade, palazzi, etc. Dove tre intere classi dirigenti di Democristiani (con la complicità del Partico Comunista Italiano e dei Sindacati) pensavano di aver risolto col Lavoro seriale secoli di povertà contadina. E invece quello stesso Lavoro ha creato nuove povertà, nuove emarginazioni, all’interno delle famiglie stesse, nella rottura prima intima e poi sociale del rapporto tra padri e figli, appunto esplosa negli anni Settanta e Ottanta, e non ancora sanata.(6)

Esco dal piccolo parco. Torno sotto le migliaia di finestre popolari e mi chiedo perché la periferia, ogni Periferia Occidentale, è stata pensata in questo modo. Perché a un certo punto gli architetti hanno dimenticato il senso della vita, il senso stesso dell’essere umano, i bisogni di chi abita quegli appartamenti di pochi metri quadrati. Perché avete costruito tutto questo? Vorrei chiedere a uno qualsiasi di quegli architetti, ingegneri, industriali, dopo averli costretti a vivere per tre, quattro decenni dentro quelle gabbie per animali umani. Esseri ammaestrati, abituati, schiacciati, perché è stato sacrificato tutto al cemento, al ferro, alla ruggine, alle fauci dello Sviluppo? E perché nessuno ha mai reagito? Tutto pare essersi realizzato in virtù della metafora del canarino: vivo in gabbia, morto al vento. Gli italiani: un popolo di piccoli animali fragili.

Dopo diverse centinaia di metri i palazzoni popolari si interrompono. Lasciano spazio a qualche campo sopravvissuto e a seguire ecco una delle migliaia di zone industriali che hanno invaso l’intera pianura padana, da est a ovest, da Trieste a Torino.

Mi perdo con lo sguardo tra i primi capannoni che incontro. Sotto la pioggia sembrano ancora più violenti, ancora più grandi. Potrei contarli, uno per uno, servirebbero ore. Camminare aiuta a vedere, ma anche a immaginare e sentire: le voci di migliaia di operai che qui hanno consumato i propri corpi, tutti i giorni, nei decenni trascorsi. Ogni dieci capannoni grigi ce n’è uno colorato. Non so perché, non ne comprendo il motivo. Forse in giro c’è qualche architetto ancora più sciocco dei suoi colleghi, che vuole lasciare la propria traccia, come i cani quando pisciano per segnare il territorio. Uno è identico a una scatola da regalo, colorato di rosa con enormi pois bianchi. L’insegna indica lavasecco industriale. Più avanti ce n’è uno giallo a strisce orizzontali viola. Sarà a duecento metri, ma quel colore è così potente che pure da qui sembra pronto a inglobarti. Non vedo l’insegna, ma appeso sopra c’è un elicottero. Forse vende testate nucleari. Sulla mia destra, giusto in fondo a una strada, se ne staglia uno super tecnologico, tutto blu elettrico, con lunghi finestroni neri e una scritta enorme, bianca, che corre tutto intorno al capannone e urla: arti grafiche. Si vede che sono attenti al particolare. Dall’altra parte della strada, in mezzo a cinque mostri quadrati, si innalza il più bello di tutti. Il più sontuoso. È lunghissimo, per metà di cemento levigato, grigio chiaro, e per metà di mattonelle lucide viola, verdi, gialle, nere, blu scure che sembrano cambiare colore a seconda della luce. Il padrone deve avere speso un capitale per quei colori. L’entrata è di legno, e ci sono alberi altissimi. Si capisce bene che pure il giardino è curatissimo, quasi fosse quello di una villa. Anche i parcheggi sono “di design”: pensiline nere opache, lineari, parto del solito architetto piscione. Produzione Arredi, dice l’insegna sopra la torre triangolare che sovrasta il tetto. Il padrone sarà un discendente dei faraoni, mi dico, senza nemmeno sorridere più.

Oltre la prima via se ne aprono altre, grigie, più grigie, desolate, più desolate. Sono le parallele periferiche dei centri industriali, quelle delle innumerevoli fabbriche fallite, chiuse, delocalizzate.(7) Le strade di un’Italia che al momento non conosce alcun Futuro, perché il domani sta in quell’abbandono lì, che è lo stesso abbandono di Dio. Non erano tutti devoti gli industriali alla Chiesa, alla Religione, a Dio? Ecco: ne hanno imitato la scomparsa.

E i poveri diavoli se ne restano qui, a terra, su questo fango geografico chiamato Italia.

Note

(1). Tre allegri ragazzi morti, rock band pordenonese, oggi la più importante del panorama indie, testi e musiche di Davide Toffolo, tra i migliori fumettisti italiani. Il loro immaginario artistico per anni ha narrato la città di questo racconto: Pordenone.

(2). L’Italia del Nord, soprattutto nelle regioni Friuli, Veneto, Lombardia, Piemonte, dagli anni Sessanta a oggi, ha subìto la più vasta e incontrollata e delinquenziale cementificazione in Europa, tanto da superare il 12% di suolo distrutto, irrecuperabile. Ancora oggi oltre 500 chilometri quadrati all’anno vengono consumati per l’espansione edilizia (dati riscontrabili nelle indagini dell’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale).

(3). Gli italiani non sono mai diventati “popolo”, come l’Italia non è mai diventata “nazione”. Tuttavia tra gli anni Sessanta e Settanta l’ondata di industrializzazione diffusa ha avuto come risultato la creazione di un mondo operaio composto da venti milioni di persone, guidate dalle stesse abitudini e dai medesimi interessi, divenendo il primo e unico “popolo” del Paese. Con il crollo della produzione e la perdita delle grandi industrie parrebbe oggi la povertà la nuova omologatrice delle masse e dei consumi (oltre la televisione e i social network: discorso altro e non centrale in questa sede).

(4). Locomotiva d’Italia, definizione coniata per tre regioni (Friuli-Veneto-Trentino) dove negli anni Novanta e principio del Duemila la disoccupazione si attestava attorno al 2% e una provincia come quella di Treviso vantava un export in miliardi equivalente a quello dell’intera Grecia. Il Nordest, per un decennio, è stata la zona col capitale privato più alto d’Europa.

(5). Si consiglia in merito la lettura del “romanzo industriale” Works di Vitaliano Trevisan, Einaudi 2016. Uno dei più lucidi ritratti del Nordest dagli anni Settanta al Duemila e di cosa è stato il lavoro in queste regioni.

(6). Per approfondire la “questione industriale italiana” e i suoi effetti si legga la prestigiosa Antologia “Fabbrica di Carta”, curatori Giuseppe Bigatti e Giuseppe Lupo, Laterza, 2013. Per un approfondimento ulteriore, soprattutto rispetto alla mutazione antropologica dell’Italia degli anni Sessanta, si consiglia “Petrolio” di Pier Paolo Pasolini, Mondadori, 1992, e “La ricchezza della povertà” di David Maria Turoldo, Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2010.

(7). Il fenomeno delle delocalizzazioni aziendali, in Italia, dal 2007 a oggi, anni della crisi economica, ha comportato la perdita occupazionale per 1.800.000 lavoratori. Ciò che colpisce è che oltre il 70% delle industrie che hanno delocalizzato le proprie produzioni, dal colosso Fiat alla piccola Omsa (tanto per citare due casi estremi per dimensioni) erano in attivo, guadagnavano e avevano i conti economici a posto. La delocalizzazione in Italia è stata il maggior fattore di crollo del sistema industriale e della conseguente esplosione della crisi economica e sociale. Le responsabilità della classe industriale sono ancora tutte da narrare.

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Sprawl. L’urbanizzazione e il problema delle periferie

Il fenomeno dell’urbanizzazione costituisce uno dei motivi di studio della storia contemporanea, ma anche uno dei problemi di più difficile soluzione; al contrario delle città del passato, che si sono sempre estese con andamento concentrico, oggi, quelle contemporanee, con la rivoluzione dei trasporti e delle tecnologie digitali, hanno preso a svilupparsi casualmente e disordinatamente (sprawl), generando l’urbanizzazione di vaste aree, dove zone agricole sono state riconvertite in insediamenti civili e produttivi, e dando origine al problema delle periferie.

A livello globale, un numero sempre più alto di persone preferisce vivere nelle aree urbane, piuttosto che in quelle rurali. Nel 2014, la popolazione mondiale residente nei centri urbani è stata pari al 54%, rispetto al 30% del 1950. Si calcola che per il 2050, la percentuale salirà fino al 66%. Oggi, le regioni più urbanizzate sono l’America Latina, in particolare i Caraibi (80%) e l’Europa (73%). Al contrario, Africa e Asia restano prevalentemente rurali, con l’urbanizzazione delle loro popolazioni compresa fra il 40 e il 48%.

Mentre la popolazione rurale del mondo, dal 1950 ad oggi, è cresciuta lentamente, la popolazione urbana, per contro, è aumentata rapidamente, passando da 746 milioni nel 1950, a 3.900 milioni nel 2014. Con la continua crescita demografica, l’urbanizzazione dovrebbe raggiungere, entro il 2050, 2,5 miliardi di persone. Quasi la metà degli abitanti delle città di tutto il mondo risiede in piccoli insediamenti, con meno di 500.000 abitanti, mentre solo uno su otto vive in 28 mega-città con più di 10 milioni di abitanti ciascuna.
Tokyo è la città più grande del mondo, con 38 milioni di abitanti, seguita da Delhi con 25 milioni, Shanghai con 23 milioni, Città del Messico, Mumbai e San Paolo, con circa 21 milioni di abitanti ciascuna. Entro il prossimo quindicennio, il mondo dovrebbe avere 41 mega-città; si prevede che nel 2030 Tokyo diventi la città più grande del mondo, con 37 milioni di abitanti, seguita “a ruota” da Delhi, dove la popolazione è destinata a salire fino a 36 milioni di abitanti. Considerando che diversi decenni fa la maggior parte dei grandi agglomerati urbani si trovava nelle regioni più sviluppate, oggi, invece, esse si concentrano nel Sud del mondo, con numerosi agglomerati a più rapida crescita (quelli di medie dimensioni, con 500.000 e fino a 1 milione di abitanti) situati in Asia e in Africa.

Le città sono importanti fattori di sviluppo, di miglioramento del livello di benessere e di riduzione della povertà, perché favoriscono livelli più alti di alfabetizzazione e di educazione, migliori condizioni di assistenza sanitaria e di accesso ai servizi sociali e maggiori opportunità di accesso al mercato del lavoro, di inclusione sociale e di partecipazione culturale e politica. Tuttavia, la crescita urbana, rapida e non pianificata, minaccia ora la sostenibilità dei migliorati livelli di vita conseguiti, se non saranno potenziate le infrastrutture necessarie o se non verranno attuate politiche che garantiscano vantaggi equamente condivisi della vita cittadina siano equamente condivisi. Oggi, infatti, nonostante questi vantaggi offerti dalle città siano indubbiamente maggiori rispetto al passato, le aree urbane sono caratterizzate da forti disuguaglianze, in quanto sono cresciuti i poveri “urbanizzati”, che vivono in condizioni molto al di sotto degli standard di una vita degna di essere vissuta. Nella stragrande maggioranza delle città, la rapida espansione urbana non regolata ha portato con sé il fenomeno della “periferia”, divenuto sinonimo di esclusione e devianza sociale, inquinamento, degrado ambientale e livelli di spesa pubblica insostenibili.

I governi dovranno impegnarsi ad attuare politiche idonee a garantire che il fenomeno della crescita continua dell’urbanizzazione diventi sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale, secondo le direttive emerse dalla Conferenza di Rio del 2012 (”Il futuro che vogliamo”); la Conferenza ha infatti riconosciuto che le città possono “aprire la strada” verso società sostenibili, sia socialmente ed economicamente, che ecologicamente, a patto che i problemi della loro espansione siano risolti secondo un approccio olistico, che abbracci cioè tutti contemporaneamente le criticità, in modo da tener conto degli esiti di tutte le loro reciproche relazioni; tutto ciò, in considerazione del fatto che un’urbanizzazione sostenibile richiede innanzitutto che, con l’espansione delle città, si potenzino di continuo le infrastrutture necessarie per i servizi igienico-sanitari, energia, trasporti, informazione e comunicazione; occorre, inoltre, che siano garantite pari opportunità di accesso ai servizi, che sia ridotto il numero di persone che vivono in condizioni degradate negli slum, che siano preservate le risorse naturali all’interno della città e delle zone circostanti e che siano realizzate politiche diversificate di pianificazione e gestione della distribuzione spaziale delle popolazioni residenti.

Per l’attuazione di queste politiche,lo scoglio maggiore da rimuovere è costituito dal fenomeno delle “periferie”. Come si è detto, esse sono nate con l’espansione casuale e disordinata delle città, originando, come viene osservato nell’”Editoriale” del n. 4/2016 di “Limes”, totalmente dedicato al problema, “pezzi di non città e di non campagna, nei quali si celebra l’impotenza dell’architettura nel forgiare l’abitato”. Battezzare, perciò, in senso urbano la nostra epoca è limitativo; più appropriato forse sarebbe definirla periferia, o suburban, “con il polisemico vocabolo inglese che nella sua sfera semantica include tanto i sobborghi di linde villette a schiera che punteggiano il paesaggio nordamericano quanto le favelas brasiliane, le villas miseria bonaerensi, gli slums terzomondiali, i casermoni nostrani”.

Tra l’altro, le difficoltà che si incontrano già nella definizione del fenomeno problema è dovuto al fatto che il sostantivo periferia “è lemma passpartout, di cui in un recente convegno del Massachusetts Institute of Technology sono state censite almeno duecento diverse, talvolta contraddittorie accezioni”. Le polemiche fra gli addetti ai lavori per la soluzione del problema della periferia sono perciò inevitabili, col risultato di portare solo all’elaborazione di progetti che “si pretendono scientifici, di scarsa pregnanza euristica. Rivelatori di un complesso di inferiorità nei confronti delle ‘scienze dure’, che induce a scimmiottarle”. A fronte dell’inconcludenza delle progettazioni che di continuo vengono formulate, di maggiore interesse sarebbe, invece, la riflessione sull’approccio politico da riservare alla soluzione del problema della “grande suburbanizzazione”, che sta investendo il mondo intero; un approccio, cioè, che sia meno interessato alle definizioni formali e alle soluzioni tecniche e più alla natura del metodo col quale tentare di definire quale dovrebbe essere la formula di governo più appropriata delle “sconfinate megalopoli in crescita incontrollata”.

Da quest’ultimo punto di vista, almeno con riferimento all’esperienza delle dinamica urbana sperimentata in Italia, si dovrebbe tener conto che nelle megalopoli la distinzione tra centro e periferia tende a svanire, perché, secondo Luca Molinari, docente di architettura contemporanea (“La periferia dopo la periferia”, in “Limes”, n. 4/2016), negli stessi luoghi urbanizzati, negli stessi quartieri e negli stessi caseggiati possono essere vissute entrambe le condizioni, proprie sia del centro che della periferia. La distinzione tra centro e periferia ha perso di significato anche per via delle modalità con cui sinora gli interventi pubblici sono stati effettuati, senza una metodologia che consentisse di rilevare la vera natura del problema da risolvere; è prevalsa una pianificazione dell’attività d’intervento che ha privilegiato talvolta il punto di vista del centro e talaltra quello della periferia, sulla base di una improbabile apertura democratica alle istanze provenienti dagli insediamenti periferici; il risultato, in mancanza di una precisa strategia d’intervento complessiva (olistica) è stato quello di determinare una perdita di identità del centro e la creazione di una moltitudine di insediamenti periferici alla ricerca di un’identità urbana.

Inoltre, il metodo privilegiato, sempre parziale, ha determinato il fallimento dello sforzo di ridurre il fenomeno della suburbanizzazione attraverso le numerose “politiche di welfare, attivate nel secondo dopoguerra da entrambi gli schieramenti ideologici”, con le quali è stato plasmato lo stile di vita urbano degli ultimi decenni. La causa del fallimento è da ricondursi principalmente, oltre che ai limiti del modello d’intervento, alla “crisi gestionale che ha colpito le amministrazioni pubbliche e la quasi impossibilità di elaborare modelli urbani capaci di competere con un idea stratificata di centro storico”; fatti, questi, che hanno decretato l’insuccesso sul piano culturale e su quello politico della strategia adottata.

Ciò che, in particolare, non è stato colto come causa del fenomeno della periferia urbana è stata la sua natura di esito della dinamica casuale e disordinata delle città, senza che si sia tenuto conto del fatto, a parere di Molinari, che i luoghi oggi considerati periferia sono diventati “la città vera, per dimensioni, consumo di suolo e presenza di una popolazione che da almeno tre generazioni ha colonizzato e trasformato questi luoghi dotandoli di storie, toponomastica e centralità”, che spesso si manca di riconoscere. Che fare allora? Come affrontare il fenomeno dello “sprawl”, cioè dell’espansione disordinata dei centri urbani?
Secondo molti urbanisti, l’assenza di una pianificazione strategica che avesse colto tutte le criticità dell’espansione urbana, in termini di un’area tanto vasta da comprendere tutte le localizzazioni insediative gemmate disordinatamente dal centro storico originario, è stata la causa principale del fallimento degli interventi riparatori. Conferire potere e centralità a un governo d’area vasta sulla dinamica del sistema insediativo urbano doveva costituire la condizione essenziale per ridurre gli sprechi e l’inefficacia degli interventi realizzati e la via maestra per acquisire il disegno futuro complessivo che si intendeva assicurare alla città, tenuto conto delle specifiche condizioni che concorrevano a caratterizzarla.

L’ostacolo all’adozione di una visione di area vasta per la soluzioni dei problemi delle conurbazioni è stato il prevalere dell’“egoismo localistico”; per contrastarlo efficacemente occorreva adottare un piano insediativo in grado di recepire le domande emergenti dalle criticità sociali, economiche e ambientali vissute da chi abitava/operava nelle singole aree vaste; in altri termini, doveva trattarsi di un piano insediativo conforme ad una visione condivisa del futuro delle singole città, desiderabile dai residenti. E’ questo un limite che occorrerà superare, se si vuole che, almeno in Italia, il riordino degli enti locali possa consentire ai responsabili del governo delle città di valersi delle capacità collettive dei territori urbani, attraverso il coordinamento dell’azione delle istituzioni, delle imprese e dei cittadini; mentre è destinata a sicuro insuccesso qualsiasi azione attuata senza una visione che integri, in termini unitari, le risposte, sul piano istituzionale, politico, sociale, economico e ambientale, alle domande dei territori investiti dallo sprawl urbano.

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Le periferie diventano centro con l’animazione sociale

Occorre ripensare le comunità, in un’epoca in cui il 69% della popolazione vive nelle città.
Il sommovimento a cui abbiamo assistito nel concetto di CENTRO/PERIFERIE, cioè di quel segno tracciato quale confine del dato territoriale, una sembianza di avviso, un avvicinamento al limite e la certezza di una differenza in un omogeneo normato, si è trasformato in un filo d’arianna nel labirinto delle relazioni tra:
– Prodotto e consumo
– Conoscenza ed esclusione
– Connessione e sconnessione.
Davanti a questo gomitolo è forte la tentazione di tirare un filo, un filo qualsiasi a caso: non ci troviamo a confrontarci quindi con aree vocate negli spazi urbani ma, al contrario, con sovrapposizioni di senso e di funzioni: non centralità carismatiche, ma policentrismi dinamici.
La città industriale con attorno il proprio agro prevedeva gerarchie territoriali certe, tramite l’identificazione di quartieri che di fatto rappresentavano la demarcazione sia delle funzioni, sia delle classi sociali. La successiva pressione demografica, che in seguito si è sviluppata, ha provocato lo scardinamento delle scansioni. Dai dati rileviamo che i territori urbani sembrano destinati a triplicarsi, infatti rappresentano: nella UE il 75%, in Giappone il 93%, negli USA l’81%, in Cina il 54%, in Italia il 69%, in Francia il 79%.
È lecito quindi chiedersi: stiamo entrando in una era periferica?
Affinare gli strumenti di analisi
Se ciò fosse vero, avremmo bisogno di una analisi dei conflitti di potere che si addensano in una area così rappresentativa a crescita spesso incontrollata.
Quindi l’affinamento degli strumenti di analisi per analizzare e capire il contesto in svolgimento è la premessa per poter capire e affrontare un fenomeno complesso nei luoghi ove si stringono e vivono la maggior parte degli umani, forse ancora non convintamente o consapevolmente cittadini. In particolare tra gli altri sicuramente:
– Un censimento umano fisico e catastale
– La inviduazione degli elementi maggiormente contraddittori
– Le disuguaglianze critiche
– La composizione dei poteri materiali e immateriali
– I livelli di bassa pressione istituzionale
– La quantità e la qualità delle azioni informali
– La contrazione degli spazi collettivi.
A significare un cambiamento strategico nella gestione degli spazi metropolitani va segnalato un nuovo modello d’ invasione, e gli agenti sono i Fondi Sovrani che tramite la finaziarizzazione delle ricchezze scavalcano i confini e si impossessano di parti delle città caratterizzandone qualità e uso (Londra e in parte Parigi).

Riscoprire la Civitas
La ricerca che quindi auspichiamo è il ritrovamento della Civitas intesa come Comunità Consapevole.
Anche una delle organizzazioni geopolitiche più strutturate, coma la Chiesa, con una storia fortemente accentrante, ha attuato recentemente un ribaltamento della propria centralità, intanto scegliendo un Papa che che si è definito come «proveniente dalla fine del mondo…» ed in seguito affermando nella enciclica Evangelii Gaudium l’urgenza di «uscire dalle proprie comodità e raggiungere tutte le periferie»… Periferie geografiche ed esistenziali. Viene ripreso il concetto che lì dove tutto iniziò, la Giudea, era periferia del mondo, facendo nascere l’idea che forse la “realtà” si vede meglio guardandola dalla periferia.
È evidente che gli spazi che controlliamo, quelli assimilati, non ci trasmettono dubbi, sono le nuove emergenze o stratificazioni che provocano dubbi, che aprono a nuove realtà. Quindi la chiave delle conoscenza e della scoperta può produrre la parola appartenenza, un’appartenenza conquistata, un’intelligenza collettiva che si sprigiona creando personalità, quello che i latini chiamavano deus loci.
Anche la segregazione o la specializzazione provocano la creazione di una personalità, ma il loro contrasto può essere organizzato con una scelta dal centro? La disuguaglianze fisiche e psicologiche possono essere affrontate senza scendere sul terreno?
Valorizzare le identità nel decentramento
Noi crediamo di no! Crediamo che non sia possibile. Ad esempio l’ipotesi avanzata in Francia della Metropole du Grand Paris, macroregione da 7 milioni di abitanti, ci appare una azione di un razionalismo sconfortante e non per la vastità della progettazione ma per la governace direttiva.
Invece, la faticosa definizione delle identità agite nel decentramento, nell’autonomia, in un equilibrio in continuo aggiornamento tra le comunità abitanti, intercalati da interventi macro e micro di riqualificazione (trasporti/mobilità, rifiuti/ambiente, cultura/partecipazione), rappresentano quel complesso di scelte che possono produrre una identità attiva.
È probabile che in Italia ci sia una finestra specifica per sperimentare queste mutazioni territoriali, attraverso scelte a vantaggio, possibili solo per delle nostre specificità : non siamo mai stati un vero impero, non ci siamo mai sentiti una vera nazione. In questo spazio di mancanze trovano possibilità i grandi interventi informali che si sono realizzati nelle città. L’obbiettivo dei prossimi anni potrebbe essere quello di digerire e integrare l’informale.

Così si vince l’anticittà
L’architetto Boeri parla di città-anticittà, attraverso la creazione di una dinamica bipolare ove per anticittà si identifica il degrado delle infrastrutture, dei servizi, degli edifici, la perdita degli scambi sociali e culturali, la sicurezza, «l’appartenenza allo spazio urbano come bene pubblico».
Nel trattare quindi la trasformazione che il concetto di periferia ha avuto dal novecento possiamo immaginare che sia utile rilevare:
– La densità degli spazi.
– La varietà dei comportamenti culturali presenti nelle comunità.
Di fatto nelle città italiane le periferie si insinuano nel tessuto stabilizzato sovrapponendosi e intrecciandosi (Roma, Napoli, Genova, Milano).
L’attenzione principale va portata verso la qualità della condizione urbana, quindi intensità degli scambi tra comunità, gruppi e popolazioni in una cornice “certa”, attraverso alcuni principi che permetto lo svolgimento della rigenerazione:
– Il contenimento della separatezza
– La modalità e il metodo di esprimersi attraverso la partecipazione
– La credibilità dell’ organismo istituzione nel coagulare la concentrazione delle esigenze in proposte e progetti.
Ad esempio sul piano operativo è della massima importanza valutare gli spazi vuoti presenti nel tessuto urbano, e dei locali o delle infrastrutture inutilizzate per la qualità urbana.
La difesa delle iniziative informali nate, anche attraverso le valutazioni collettive di vantaggio.
Le iniziative di conoscenza e contaminazione culturale con altri territori urbani – ad esempio esiste a Roma una ricchezza incredibile luoghi e di circuiti – presidi sociali, culturali, ambientali, teatri, biblioteche.
La centralizzazione delle organizzazioni di livello superiore e generale devono diventare la premessa per la conoscenza culturale dei territori attraverso gli strumenti principali della socializzazione come lo sport, la scuola, la mobilità.

La rigenerazione chiede animazione sociale
Il senso di appartenenza, punto cruciale della civitas, non si costruisce dall’oggi al domani, ma con piccoli passi che permettano di far percepire, che il proprio destino personale è legato a quello collettivo. È questo il motivo per cui è inutile pensare di lasciare in mano la rigenerazione urbana ai tecnici, ma solo a scelte politiche mirate, in un orizzonte medio periodo (10 anni) in cui potranno avere effetti di sostanziale cambiamento che favoriscano la trasformazione compartecipata dello spazio, insomma un effetto murales.
La conformazione ad arcipelago di Roma è una eredità di caos che può favorire la rigenerazione, se partiamo dall’idea che la spinta primaria della rigenerazione urbana è “l’animazione sociale”.
Noto che, nell’intervista rilasciata dal Ministro Franceschini a “Limes” sul numero dedicato alle periferie, la rigenerazione urbana viene identificata come una «grande occasione architettonica e urbanistica», non una grande opportunità sociale.
Per questo sposiamo l’idea degli operatori culturali, di un Assessorato all’Ascolto, per attuare un’azione professionale, articolata, diffusa, che si prefigga di dar voce agli aggregati territoriali, che con modalità codificate sappiano interloquire ed ispirare scelte di comune accordo con le comunità attive dei cittadini, oltre alla proposta dell’Auditorium di Municipio in cui possa essere veicolata la programmazione dei grandi attrattori cittadini dando vita ad una distribuzione culturale decentrata e quale riferimento delle iniziative delle comunità territoriali.
Il progetto presentato per il Giubileo per i Romani della creazione dei Presidi sociali, culturali e ambientali sui territori quali spazi aperti di partecipazione e di proposta.
Concludo con una nota positiva per l’argomento periferie, che sembra aver raggiunto una centralità nella comunicazione: la Biennale di architettura di Venezia di Alejandro Aravena, un cileno, anche lui uomo di periferia, che ha organizzato la rassegna partendo da una domanda: come si misura l’architettura che contribuisce con i propri mezzi a ridurre le disuguaglianze, a mitigare le sofferenze è i disagi?
Ci sembra una buona domanda.

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Bando per la riqualificazione urbana

Bando per la presentazione di progetti per la predisposizione del Programma straordinario di intervento per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie delle citta’ metropolitane e dei
comuni capoluogo di provincia.

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