Napoli. Periferie, nasce il polo tecnologico di San Giovanni
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Rammendo sociale e rammendo fisico. Si fonda su un intervento di ‘sartoria’ urbanistica ma anche e soprattutto sociologica la ricetta per le periferie presentata oggi al Sabato delle Idee da G124, il “Gruppo di lavoro sulle periferie e la città che sarà”, ideato e fondato dal senatore Renzo Piano, che sin dal suo insediamento a Palazzo Madama devolve integralmente il suo stipendio da senatore ad un gruppo di sei giovani architetti eccellenti che ogni anno vengono selezionati con un bando pubblico proprio per occuparsi dei progetti di “ricucitura” del tessuto urbano e sociale delle periferie italiane.
Una scelta non casuale quella del primo tema del Sabato delle Idee 2015 che, come hanno spiegato i fondatori della manifestazione, Marco Salvatore e Lucio d’Alessandro, “riparte simbolicamente con la sua settima edizione da uno dei luoghi simbolo (Eccellenze Campane) del rilancio economico, sociale ed urbanistico della periferia partenopea, perché è proprio nelle periferie, dove vive il 90% della popolazione urbana, che c’è l’energia umana che deve essere valorizzata per costruire le città ed il Paese del futuro”.
Ed allora ecco che, al cospetto di urbanisti, architetti, accademici, rappresentanti delle istituzioni e studenti universitari che all’Università Suor Orsola Benincasa si occupano specificamente di green economy, il giovane architetto salernitano Roberta Pastore del Gruppo G124 ha illustrato i punti salienti del progetto per “Le periferie della città che sarà”.
Un progetto molto variegato, riassunto in venti punti sintetizzati in sei azioni che miscelano rammendo sociale e rammendo fisico delle periferie: consolidamento e restauro degli edifici pubblici (non solo le abitazioni ma anche le scuole e le strutture sportive), adeguamento energetico, creazione di luoghi d’aggregazione, la funzione sociale del verde, il collegamento efficace con il trasporto pubblico e i processi partecipativi per coinvolgere gli abitanti nella riqualificazione e nella vita sociale del quartiere dove vivono. “Insomma la periferia che cambia faccia da un punto di vista urbanistico – ha spiegato Roberta Pastore – ma anche e soprattutto il cittadino che si riappropria dei suoi spazi, contribuisce alla progettazione della riqualificazione e inizia finalmente a viversi il quartiere”.
Una ricetta teorica che è già diventata un successo concreto nel complesso mondo periferico del “Librino” di Catania, uno dei quartieri periferici più “difficili” e popolati d’Italia, con oltre 80mila abitanti, progettato nel 1970 dall’architetto giapponese Kenzo Tange con un ammasso di blocchi di cemento molto simili a quelli delle Vele di Scampia.
Insomma un progetto esportabile proprio a Napoli come ha spiegato, rivolgendosi proprio sulla questione Scampia all’assessore comunale all’urbanistica, Carmine Piscopo, anche l’architetto Guendalina Salimei, fondatore di T-studio, che ha curato a Roma il progetto di riqualificazione della zona del “Corviale”.Progetti da esportare in Campania anche per rispondere al grido d’allarme sull’immobilismo e l’isolamento delle periferie napoletane lanciato da Antonella Di Nocera, già assessore alla cultura del Comune di Napoli e da anni voce e anima della cooperativa Parallelo 41 Produzione.
E all’immediato interrogativo sul tema delle risorse per avviare simili progetti ha prontamente risposto Edoardo Cosenza, assessore ai lavori pubblici della Regione Campania, con una confortante relazione in cui ha dettagliatamente illustrato l’impiego dei 2,7 miliardi di euro di finanziamenti europei a disposizione della regione Campania per i grandi progetti.
Ben 550 milioni sono destinati allo sviluppo urbano con 226 progetti già ammessi al finanziamento e due grandi progetti in rampa di lancio: il definitivo completamento dell’Ospedale del Mare di Ponticelli (che già a Febbraio aprirà i primi reparti) e la nascita del Polo Tecnologico di San Giovanni nell’area della ex Cirio.
Due primi passi in un mare di progetti da portare a termine con un unico comune denominatore: “fare presto” come ha ben chiosato il vice presidente dell’Associazione dei Costruttori Edili di Napoli, Gennaro Vitale.
Rap e jihad, il terrorismo figlio delle nostre periferie
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Nel tanto (troppo) parlare seguito alla strage di Parigi, abbiamo assistito anche al revival del suggestivo tema del rapporto tra propaganda, subculture ed islamizzazione. Si torna a parlare di rap e jihad e si torna a farlo con preoccupazione, dopo la notizia che Cherif Kouachi, qualche anno prima di imbracciare il kalashnikov che ha fatto fuori mezza redazione di Charlie Hebdo si aggirava nel sottobosco musicale parigino sognando di sfondare nell’hip-hop esattamente come L Jinny/Jihad John, rapper di West London poi tagliatore di teste per l’Is, che un po’ di notorietà l’aveva raggiunta.
E se di fama vogliamo parlare, il tedesco di origini africane Deso Dogg che dal 2013 combatte sul fronte siriano nelle file dei ribelli che sostengono il califfato, nel suo passato da infedele era stato sotto contratto con un’etichetta, aveva pubblicato 3 album e persino girato in tour con un pezzo grosso come Dmx.
Tre storie (ma potremmo raccontarne molte altre) che dovrebbero far riflettere: le vicende di questi europei attirati prima dal fascino delle rime ribelli quindi dalle sirene fondamentaliste dello Stato islamico hanno di recente guadagnato al “rap jihadista” titoli e spazio nel dibattito pubblico come mai era accaduto prima d’ora nonostante si stia parlando di una realtà presente da tempo nel reticolo delle subculture urbane.
Giornalisti di testate mainstream, come il britannico Amil Khan, seguono da anni l’evolversi del rapporto tra cultura di strada e jihad. L’ex reporter di Bbc e Channel 4, per esempio, identificava già nel 2008 alcuni tratti comuni a giovani appartenenti alle frange più radicali dell’islam urbano londinese: erano personalità borderline, avevano tutti precedenti penali per crimini comuni, sognavano di diventare “gangsta rapper” e guardavano con ammirazione ad Al Qaeda. In questo contesto, la musica, utilizzando un codice diretto e familiare ai giovani del ghetto, diventa un potente collettore per la propaganda; e paradosso della grande centrifuga globale, il califfato diventa addirittura l’orizzonte che mancava ad una certa gangsta culture di cui già erano impregnate le “crew” urbane: mescolando insieme la passione per armi, estetica e soldi facili, con “la fede” derivata dalla conversione all’Islam, in una interpretazione fai-da-te dei precetti del Profeta, finiscono per trovare posto nello stesso calderone, l’uno accanto all’altro, tanto 50 cent quanto Bin Laden.
Ma è bene non dimenticare che nella rivolta delle seconde/terze generazioni che scrivono liriche inneggianti alla sharia in inglese, francese, tedesco ed olandese, fede e musica finiscono per diventare elementi piuttosto marginali, simboli sfruttati ad uso e consumo di chi li abbraccia. La minaccia arriva da lontano ma le cause della radicalizzazione sono vicinissime: le ritroviamo nelle nostre periferie, nelle carceri e sono in larghissima parte causate da processi interni alla nostra società, dove la macabra parodia di Stato messa in piedi dagli uomini dell’Is trova terreno fertile ed orecchie pronte ad ascoltare.
Corviale Straße è una strada immaginaria che parte dalla periferia di Berlino e arriva a ridosso dell’Eur, lungo la quale prende vita un bellissimo progetto fotografico, in #mostra da domani, ore 19.00, presso lo spazio Ambrarte del nostro teatro. Partecipate all’inaugurazione! Vi aspettiamo.
Roma, sampietrini in periferia e boulevard a Tor Sapienza: il nuovo piano del Campidoglio
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Dalla pulizia delle strade alla valorizzazione dei beni archeologici. Il vicesindaco di Roma Luigi Nieri detta le linee guida di quella che sarà il suo piano per le periferie e annuncia: la prima piazza pedonale decentrata con i sampietrini tolti dalle vie ad alta percorrenza del centro di Roma «sarà realizzata in tempi rapidi, comunque entro il 2015».
Martedì intanto è previsto un incontro tra l’amministrazione comunale e i comitati degli abitanti di Tor Sapienza, il quartiere della Capitale della rivolta anti-immigrati. In quell’occasione l’assessore alla Rigenerazione Urbana Giovanni Caudo presenterà un progetto per trasformare viale Giorgio De Chirico da «autostrada» a «boulevard urbano».
«Iniziamo il processo di ascolto dei municipi per la realizzazione di 14 piazze pedonali in 14 municipi di Roma, fatta eccezione per il primo municipio, centro storico – annuncia Nieri – L’idea è realizzare piazze che siano luoghi veri e gli unici luoghi che funzionano sono quelli scelti con i cittadini. Pensiamo a vere e proprie isole pedonali con quante più funzioni possibili».
Quanto al piano per le periferie, «dobbiamo lavorare sui servizi affinchè chi ci abita non si senta più un cittadino di serie B. Dobbiamo coordinare gli interventi: dalla pulizia delle strade ai trasporti, fino a alle iniziative culturali decentrate. Serve valorizzare i siti archeologici fantastici che ci sono, ad Ostia Antica come sull’Appia, e le esperienze giovanili».
I fondi? «Li dobbiamo intercettare – risponde – Il sindaco ha detto che concentreremo i fondi sulle grandi necessità della città e le periferie sono tra queste». L’incontro di martedì tra il sindaco Ignazio Marino, il vicesindaco Nieri e l’assessore Giovanni Caudo da una parte e i comitati di Tor Sapienza non è il primo e probabilmente non sarà l’ultimo.
«A Tor Sapienza c’è uno stradone largo 60 metri e lungo circa 1,5 km, viale Giorgio De Chirico, che faceva parte di un progetto di tangenziale che non è mai stato realizzato – dice Caudo – È rimasto solo questo pezzo di autostrada in città che noi vogliamo trasformare in un un boulevard urbano.
Se si portasse a 35 metri di larghezza la strada si recupererebbero 3 ettari da utilizzare per dare un nuovo carattere a tutta la zona: una via con marciapiedi, dove passeggiare, con servizi. Si tratta di un progetto pilota per fare capire come si lavorerà anche su altre zone di Roma. Intendiamo operare in un nuovo rapporto pubblico-provato, attraendo fondi europei, mentre il Comune metterà a disposizione il suolo. Non siamo, comunque, ancora nella fase operativa».
Ancora sulle periferie come tema del giorno (piccola rassegna stampa)
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da: La memoria di Pasolini affidata a Dacia Maraini per il quarantennale della morte (link all’articolo) :
“L’Italia ha il dovere di ricordare Pasolini e di trasmettere alle nuove generazioni l’attualità del suo messaggio di ricerca e denuncia. Il collegamento con il tema che sta finalmente diventando centrale delle Periferie Urbane, rende la rilettura dei lavori di Pasolini ancora più importante e significativo”, ha detto Franceschini.
(…)
Si torna oggi a parlare di ‘periferie urbane’, temi cari a Pasolini. ”Nelle periferie, in quei luoghi ai margini delle città secondo Pasolini ‘vi abitavano gli angeli’ -ha commentato Ravera”
da: Che Fuori Tempo Che Fa, puntata 17 gennaio 2015 in diretta: gli ospiti e le interviste (link all’articolo) :
Renzo Piano: “Le città sono lo specchio delle civiltà: per costruire si dovrebbe ripartire dalle periferie. Le periferie devono essere fecondate e devono diventare città, perché sono le città di domani, le città del futuro: nelle periferie c’è l’energia vitale. Cosa lasciamo ai nostri figli? Noi abbiamo ricevuto delle città stupende e rischiamo di lasciare dei deserti affettivi.”
Rammendo delle periferie al centro del convegno di Fondazione Italcementi
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“Rammendo e rigenerazione urbana per il nuovo Rinascimento” è il titolo del convegno promosso dalla Fondazione Italcementi in programma il prossimo 24 gennaio alla Fiera di Bergamo.
“Siamo un Paese straordinario e bellissimo, ma allo stesso tempo molto fragile. È fragile il paesaggio e sono fragili le città, in particolare le periferie. Ma sono proprio le periferie la città del futuro, quella dove si concentra l’energia umana e quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. C’è bisogno di una gigantesca opera di rammendo e ci vogliono delle idee”.
(Renzo Piano)
È da queste considerazioni – e da un manifesto dell’architetto e Senatore Renzo Piano (leggi qui), che sarà presentato in anteprima in occasione del Convegno – che prende avvio l’appuntamento annuale della Fondazione Italcementi, chiamando alcuni dei protagonisti dell’impegno di analisi, progettazione e attuazione di politiche e iniziative volte a rigenerare le città e valorizzare le periferie urbane, a discutere e stimolare quella visione necessaria a innescare il nuovo Rinascimento, capace di ridefinire il tessuto delle città e di includere quelle classi sociali che attualmente vivono in modo conflittuale il processo di urbanizzazione.
Partendo dal contributo video di Renzo Piano, architetto e senatore a vita, approfondiranno il tema: Mario Cucinella, Architetto, Silvano Petrosino, Filosofo e Professore Università Cattolica, Emanuela Casti, Professore Ordinario di Geografia Università di Bergamo, Geminello Alvi, scrittore ed economista, Francesco Daveri, Economista ed editorialista del Corriere della Sera, Aldo Mazzocco, Amministratore Delegato di Beni Stabili, Giorgio Gori, Sindaco di Bergamo, Michele Molè, fondatore e direttore creativo Nemesi & Partners, progettista di Padiglione Italia, nell’ambito di un dibattito coordinato da Walter Mariotti, giornalista.
Riaccesa dalla crisi e dal mancato rinnovo del blocco degli sfratti da parte del governo, la tensione cresce soprattutto nelle città. Colpa anche della grande contraddizione tra le tante famiglie che si trovano prive di un tetto e le decine di migliaia di appartamenti pubblici non ancora assegnati ai quali si aggiungono quelli privati rimasti vuoti o invenduti. Da qui la ripresa delle occupazioni e delle proteste
Edifici sfitti e occupazioni, il paradosso italianodi LUISA GRION
ROMA – Un paese di case in proprietà, ma anche di sfratti e occupazioni abusive. L’80 per cento degli italiani è padrone delle quattro mura in cui abita, ma per chi un tetto non ce l’ha trovarne uno può diventare un incubo. La crisi economica ha visto esplodere l’emergenza abitativa, aggravata dalla mancanza decennale di una politica dell’abitare. L’ultimo corposo intervento pubblico è stato quello avviato nel dopoguerra e arrivato fino agli anni Sessanta: le cosiddette “case Fanfani”, costruite per dare una abitazione alle famiglie a basso reddito. Poi dagli anni del boom dell’edilizia privata e dei piani regolatori spregiudicati si è arrivati a quelli, attuali, dell’invenduto. Da una parte sono crollate le compravendite, dall’altra la perdita di redditi ha fatto lievitare il tasso di morosità degli inquilini. Niente blocco. Oggi un pezzo del Paese è a rischio: per la prima volta dopo oltre trent’anni la legge di Stabilità varata a fine dicembre non ha rinnovato il blocco degli sfratti per finita locazione. Un diritto riconosciuto ai nuclei familiari con determinati limiti di reddito (27mila euro lordi l’anno) e con a carico persone malate, minori o anziani. L’ultima proroga è scaduta a fine anno, fra l’esultanza di Confedilizia – l’associazione dei proprietari che chiede al governo di non scaricare sui privati il problema abitativo – e la disperazione dei sindacati degli inquilini, secondo i quali ci sono fra le 30 e le 50mila famiglie a rischio. Non esistono cifre ufficiali invece per l’altro tragico effetto dell’emergenza abitativa: quella degli immobili violati e occupati. Fenomeno che riguarda soprattutto le case popolari (stime parziali parlano di 15mila illeciti solo fra Roma e Milano), dove si entra abusivamente approfittando di una momentanea assenza del legittino inquilino o per le quali si punta ad una sanatoria (o al comodato, come avvenuto a Parma tra mille polemiche), contando sulle lentezze dei bandi comunali che ne determineranno le assegnazioni e la vendita.
I dati sugli sfratti. Sugli sfratti il Codacons tiene i conti aggiornati: “Nel 2013 sono stati 31.399, con un incremento del 7,7 per cento rispetto all’anno precedente. Negli ultimi 5 anni il totale ha raggiunto quota 332.169, di cui 288.934 per morosità. E nel 2014 il ritmo è proseguito a circa 150 sfratti al giorno”. La mancata proroga rischia devastanti effetti sociali, annunciano le associazioni degli inquilini e i comuni sono d’accordo. Ma il governo assicura di non voler tornare indietro. Palazzo Chigi snocciola gli investimenti stanziati nell’ultimo anno sul settore e messi in fila in quel Piano Casa operativo, sulla carta, dal maggio scorso, ma di fatto lì rimasto in buona parte. Si tratta di 200 milioni per un fondo di sostegno alla locazione e 266 per la morosità incolpevole destinati a chi, per via della crisi, si trova in difficoltà economiche temporanee. Più 400 milioni volti alle ristrutturazione delle case popolari. Il viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini parla di “19 provvedimenti per un totale di 2,3 miliardi” e assicura che ciò permetterà ai Comuni di cavarsela senza ricorrere al blocco.
Sfratti richiesti (*)
Sfratti eseguiti (**)
Totale
Variaz.%
Totale
Variaz.%
2007
109.446
8,55
22.468
0,85
2008
139.193
27,18
25.108
11,75
2009
116.573
-16,25
27.584
9,86
2010
111.260
-4,56
29.889
8,36
2011
123.914
11,37
28.641
-4,18
2012
126.852
2,37
29.154
1,79
2013
129.577
2,15
31.399
7,70
(*) Domande presentate all’Ufficiale Giudiziario (**) Con l’intervento dell’Ufficiale Giudiziario
fonte: Ministero Interni
Pubblico e privato poca chiarezza. Il fatto è che, sempre ammesso che i soldi entrino in tempo nelle loro casse, ed emergenza sfratti a parte, il problema abitativo resta tutto da risolvere: sia nel settore privato, dove le case restano vuote e gli affitti languono, che nel settore pubblico, dove i meccanismi di assegnazione sono poco chiari. Per Guido Piran, segretario generale del Sicet, sindacato degli inquilini, l’emergenza attuale si risolve solo rilanciando l’edilizia pubblica e ristrutturando in primis il patrimionio esistente. “Ma l’edilizia pubblica, come la sanità, costa”. La gravità attuale, assicura, “nasce dal fatto che gli affitti privati sono troppo alti e la locazione concordata non esiste più. Puntare sul taglio delle tasse a carico del locatore, la famosa cedolare secca, è stato un errore. Quella misura non ha funzionato, non ha prodotto una riduzione degli affitti”. Quanto all’edilizia pubblica, per Piran è essenziale “ridefinire la norma di alloggio sociale: oggi è equivoca. Serve una legge quadro sull’edilizia pubblica che chiarisca chi ha diritto ad usufruirne e in base a quali criteri: ora ogni Regione va per proprio conto, decide da sola anche i limiti di reddito e le iniquità sono evidenti”. E soprattutto servono più risorse: “Vanno coinvolti i privati, va studiata una politica fiscale d’appoggio, ma le cifre di cui parla il governo arrivano tardi e coprono più anni. In Europa si fa molto di più, il solo Regno Unito spende 2 miliardi di sterline l’anno”.
A Roma a caccia di morosi con un softwaredi MARIO REGGIO
ROMA – Più di 71mila appartamenti. Oltre 220mila abitanti, più dei 200mila residenti a Trieste. Quarantasettemila gestiti dall’Ater, l’ex Istituto autonomo case popolari, 23mila direttamente dal Campidoglio che ha anche il compito di esaminare le domande di assegnazione di una casa popolare ed autorizzarne l’assegnazione. Una lista d’attesa che ha raggiunto quota 30mila. Ma non basta. Tremila e 500 famiglie sono parcheggiate nei residence, con grande soddisfazione economica per i proprietari privati. Intanto, sui residence, sta indagando la Procura di Roma perché sugli appalti aveva messo le mani l’allegra compagnia di Buzzi e compagni.
E all’assessorato alle Politiche abitative del Comune di Roma, dopo le dimissioni di Daniele Ozzimo, indagato nell’inchiesta Mafia Capitale, non c’è alcuna voglia di parlare. Ma qualcosa riesce a filtrare lo stesso: “Il governo non ha ripresentato il decreto di blocco degli sfratti – dice un dirigente che chiede di restare anonimo – ma la questione riguarda solo i contratti scaduti per fine locazione, ergo sono esclusi quelli di morosità e non sono ovviamente coinvolti gli enti che gestiscono le case popolari. Per Roma parliamo di alcune migliaia di famiglie che si aggiungeranno a quelle già in lista attesa. Al momento il Comune di Roma non è in grado di gestire questa situazione drammatica. Un esempio concreto: su 10 casi segnalati dagli assistenti sociali, che riguardano soprattutto i “nuovi poveri”, solo uno viene risolto. Senza contare le famiglie che vivono nei residence, una scelta che dovrebbe essere provvisoria e che invece è diventata endemica con costi di milioni di euro per Roma Capitale”. Come uscire dall’emergenza. “L’emergenza abitativa è una condizione strutturale dal dopoguerra – rispone Daniel Modigliani, commissario straordinario dell’Ater – ma sono contrario al suo uso strumentale, mantenere l’emergenza fa comodo sia alla politica che agli utenti. Manca e servirebbe una ricognizione puntuale dei numeri e delle emergenze, per programmare una concreta politica abitativa. Faccio un esempio. La domanda di alloggi è cambiata: servono tipologie di immobili più piccole rispetto al passato, mentre sono cambiati i nuclei familiari che sono aumentati ed hanno meno componenti”.
E con l’emergenza non si ferma il mercato clandestino. Nel 2013 ottocento persone sono state denunciate per occupazione abusiva di alloggio. E ogni anno centinaia di case passano di mano in maniera abusiva, subaffittate o vendute. Negli anni passati andava di moda il passaparola, oggi con internet è cambiato tutto. È cresciuto e si è consolidato un racket che entra in azione quando una famiglia si assenta per qualche settimana. Basta un click e la casa viene venduta dopo aver sostituito la serratura. Sono lontani i tempi di Cristiana Petriacci, alias “la padrona di Testaccio”, finita poi in carcere con l’accusa di estorsione e truffa per aver gestito la compravendita di immobili dell’Ater. La signora si avvaleva di un esperto del settore, più noto come “Er tapparella”, in grado di entrare negli appartamenti vuoti passando dalla finestra o dal balcone. I numeri dell’Ater. Un po’ di storia. L’Istituto Case Popolari nasce nel 1903, sindaco di Roma il principe Prospero Colonna. Nel 1928 diventa Istituto Autonomo Case Popolari. Nel 2002 si trasforma nell’azienda territoriale edilizia residenziale pubblica del comune di Roma. La proprietà è della regione Lazio. Il suo patrimonio è valutato attorno a 10 miliardi di euro e comprende: 47.674 alloggi, 3.126 locali, 27.905 cantine, 147 terreni e 159 cartelloni. I dipendenti sono 482. Nel 2013 ha incassato 23 milioni di euro dagli affitti, mentre il 24,2 per cento degli inquilini risulta moroso. Mancano all’appello 7 milioni e 386 mila euro. Malgrado tutto, i conti dell’Ater non vanno poi così male. Dopo anni di perenne deficit, nel 2013 il conto economico ha registrato un avanzo di oltre 7 milioni di euro. “Abbiamo scoperto che i bilanci degli ultimi anni non erano mai stati approvati – afferma Claudio Rosi, direttore generale dall’ottobre del 2013 – dopo un lungo periodo di sonno profondo, l’Ater comincia a marciare”. E snocciola una serie di progetti.
L’azienda ha presentato alla Regione Lazio un programma quadriennale per la costruzione di 651 nuovi alloggi con un costo complessivo di 84 milioni di euro. E sulla manutenzione ci sono 18 gare d’appalto per 40 milioni di euro. Ma l’asso nella manica dell’Ater è la nuova piattaforma informatica per la gestione del patrimonio immobiliare che è collegata con la Guardia di Finanza. Il programma è stato “girato” a Roma Capitale, l’azienda casa della Provincia di Torino, di Trieste e Bologna. “Grazie alla piattaforma informatica – conclude Rosi – stiamo recuperando la morosità e siamo arrivati a incassare, assieme ai proventi che derivano dagli affitti e dai servizi, circa 130 milioni di euro”. E dopo anni di vacche magre sono in arrivo dalla Regione Lazio 19 milioni di euro per la manutenzione di Corviale, il serpentone sulla via Portuense.
Il caso Corviale. Il cosiddetto “serpentone” è lungo 996 metri, alto nove piani e ospita 1.200 appartamenti, dove vivono 5mila persone. “Quelli del quarto piano”, gli abusivi che si sono costruiti la casa da soli negli spazi destinati a negozi e attività artigianali, alloggiano in 124 case e dovrebbero essere 4-500, ma nessuno sa in realtà quanti siano. Una visita al quarto piano è d’obbligo. Cancelli dappertutto, panni stesi sui ballatoi, fili volanti che si collegano con le centraline. Sì, perché gli abusivi hanno fatto le cose perbene: non pagano la luce, nè ovviamente l’affitto e neanche le spese condominiali. È ora di pranzo. Si sentono tv accese. Una signora fa capolino. “Non parlo con nessuno – esordisce – fatevi gli affari vostri”. Domanda: “Sa che vogliono ristrutturare le vostre case”. Risposta: ” Da qui non se ne va via nessuno, non ci provassero e ora mi lasci in pace che devo andare lavorare”. Poi sbatte la porta.
Tor Sapienza e San Basilio. L’anello stradale che circonda Tor Sapienza si chiama via Giorgio Morandi. All’intero, il grande quadrilatero delle case popolari. Nei 504 appartamenti abitano quasi duemila persone. Poi ci sono gli abusivi, cioè gli occupanti. Lungo il cortile interno un serpente ad un piano di quelli che avrebbero dovuto essere i negozi. Ci hanno provato, ma poi Auchan e Carrefour, che sorgono a poca distanza, hanno massacrato qualsiasi attività. Ergo, i locali sono stati occupati da famiglie al limite della povertà ed immigrati e rom. Impossibile entrare in questo girone infernale. A parte il buio la risposta è sempre la stessa: “Niente domande, andate via…..”. Altro caso esemplare è quello di San Basilio. Qui la storia è diversa dalle altre. Primi anni 70. Il governo Fanfani decide di varare un robusto piano di edilizia popolare. E proprio a San Basilio sorgono come funghi i quadrilateri delle case popolari. Partono le occupazioni. Nel settembre del ’74 la questura decide lo sgombero di 150 famiglie. Un gigantesco spiegamento di poliziotti inizia le operazioni. Il quartiere scende in piazza. La polizia si ritira. L’8 settembre torna in forze. Fabrizio Ceruso, 18 anni, perde la vita colpito da un proiettile di pistola. Da tutta la città arrivano migliaia di manifestanti, la polizia ingaggia una battaglia senza esclusione di colpi, ma San Basilio non cede. Oggi è tutta un’altra storia. A San Basilio vivono 3 mila e 400 famiglie nelle case popolari più le 700 che hanno occupato gli alloggi ma hanno beneficiato della sanatoria. Oggi il verde è aumentato, campeggiano quattro murales uno dei quali dedicato a San Basilio e a Fabrizio Ceruso. Per il resto si tira avanti. “Gli spacciatori ci sono anche ai Parioli…. ognuno di noi ha i suoi problemi, come tutti…”
Alloggi occupati sul totale degli alloggi gestiti (percentuale)
2001
2003
2004
2006
2008
2011
Nord
1.4
0.4
0.9
1.5
1.8
1.3
Centro
5.1
6.0
5.1
5.5
8.3
9.7
Sud
11.0
10.0
9.9
7.4
8.6
10.4
Italia
5.5
4.9
5.0
4.4
5.5
5.9
fonte: Ufficio studi e statistica Federcasa
L’esistenza stravolta di chi subisce lo sfrattodi MARIA ELENA SCANDALIATO
MILANO – “Bisogna viverlo, per capire”. È questa la premessa che fa ogni famiglia sfrattata, prima di iniziare a raccontare la sua esperienza. Perché essere sbattuti fuori casa è anzitutto un trauma. Soprattutto per i bambini, le cui certezze – scuola, amici, quartiere – vengono polverizzate in pochi istanti da uno sconosciuto ufficiale giudiziario.
Siamo andati nel residence sociale “Aldo dice 26×1”, a Sesto San Giovanni; un enorme stabile dell’Alitalia occupato da diversi comitati per la casa, dove trovano alloggio quasi cento inquilini, di cui una trentina bambini. Si tratta di famiglie in emergenza abitativa, che hanno subito uno sfratto e che magari sono da anni nelle liste dell’Aler, in attesa di ricevere una casa popolare. Le loro storie si assomigliano molto: iniziano tutte con un affitto di sei-settecento euro al mese e un lavoro a basso reddito che all’improvviso viene meno. A quel punto diventa impossibile continuare a pagare e i debiti si accumulano per mesi. Fino all’arrivo dello sfratto, che tutti pensano di procrastinare, ma che alla fine bussa puntuale alla porta di casa, costringendo gli inquilini a prendere quel che possono e a lasciare l’alloggio immediatamente.
“Sono riuscita a raccogliere appena quattro stracci”, racconta Anila, sfrattata con suo marito e il loro bambino da un appartamento di Quarto Oggiaro. “I mobili e tutto il resto ho dovuto lasciarli lì, perché portarli via mi sarebbe costato troppo”. Stesso copione per Antigua, madre sola con due figli, entrambi minori: “Ho fatto in tempo a preparare due valigie e andar via. Nessuno mi ha proposto una soluzione alternativa. Mi sono ritrovata con i miei figli da sola, in mezzo alla strada. Una situazione che non auguro a nessuno”.
Nel 2014 Milano ha registrato oltre 13mila richieste di sfratto esecutivo: 4mila per finita locazione, il resto per morosità. A pagarne le spese sono soprattutto i bambini, i cui bisogni vengono pressoché ignorati. Ahmed è stato sfrattato a marzo e si è rivolto subito al Comune di Milano in cerca di una soluzione d’emergenza. Non tanto per sé e sua moglie, quanto per i suoi figli di nove e undici anni che il giorno dopo dovevano andare a scuola: “Mi hanno detto di arrangiarmi. Sono riuscito a pagare un albergo per una settimana, e poi sono andato alla Caritas. Alla fine un consigliere di zona mi ha suggerito di venire qui, in questo residence. È un posto occupato, ma almeno i miei figli hanno un tetto sulla testa”.
Senza Caritas e comitati i figli di Ahmed, come quelli di molte altre famiglie, sarebbero rimasti in mezzo alla strada. Non solo a marzo, ma anche nel freddo invernale. “Alle famiglie con minori vengono offerte quasi sempre delle soluzioni alternative – afferma Pierfrancesco Majorino, assessore alle Politiche Sociali del comune di Milano – sono pochissimi i casi di persone che dormono in macchina”. In effetti, una donna cui è stata proposta una soluzione alternativa l’abbiamo incontrata: si chiama Francesca e ha tre figli di sette, quattordici e sedici anni. Quando è stata sfrattata il Comune ha offerto a lei e alla sua bambina più piccola un posto in una comunità protetta, dove sono ospitate madri con minori vittime di violenza. Purtroppo, però, questa comunità si trova in un paesino della provincia di Asti, decisamente lontano da Milano. I due figli più grandi, che il comune avrebbe destinato a una struttura per adolescenti chissà dove, alla fine sono andati a stare con la nonna, a Monza. La famiglia, quindi, è divisa da più di un anno e lo resterà finché a Francesca non sarà assegnato un alloggio Aler. “È un’esperienza dura, perché gli altri bambini della comunità hanno dei problemi molto seri e mia figlia non c’entra niente con loro”, racconta Francesca. “Mangiamo solo pollo e riso, tutti i giorni. E in quel paesino non posso certo cercare lavoro. Per guadagnare qualche soldo e dare a mia figlia del cibo diverso faccio dei lavoretti per le educatrici della comunità. Stiro i loro abiti, lavo la loro auto… Cose così, per avere qualche soldo in tasca”.
Anno
Provvedimenti di sfratto emessi
Necessità locatore
Finita locazione
Morosità / Altra causa
Totale
Variaz.%
2007
674
9.236
33.959
43.869
-3,64
2008
539
10.549
41.203
52.291
19,20
2009
700
9.208
51.576
61.484
17,58
2010
900
8.495
56.269
65.664
6,80
2011
832
7.471
55.543
63.846
-2,77
2012
1.174
6.640
62.501
70.315
10,13
2013
2.659
5.424
65.302
73.385
4,37
fonte: Ministero Interni
Senza contare la distanza dagli altri figli. “Se penso che il Comune di Milano spende 4500 euro al mese per tenerci lì, mi viene da piangere. Se avessero dato a me quei soldi, avrei risolto tutti i miei problemi”. E qui scopriamo i “numeri” di questo sistema emergenziale, poco efficiente ma costosissimo. Il Comune di Milano, nel 2012, ha inserito in comunità 404 minori accompagnati dalle madri, e 844 minori soli; per farlo, ha speso ben 30 milioni e 661mila euro. Cifra che nel 2013 è salita a 32 milioni. Somme da capogiro, con le quali si sarebbe potuto fare ben altro, soprattutto per le famiglie sfrattate. Un budget che, d’altronde, lo stesso Majorino intende ridimensionare: “Abbiamo avviato il progetto della residenzialità sociale temporanea, con cui daremo a mille persone, ogni anno, uno sfogo abitativo di emergenza”. Il progetto dovrebbe partire nel 2015. Ad oggi, però, il Comune continua a spendere tra i 70 e i 90 euro al giorno solo per collocare in comunità un minore sfrattato. Cifra che raddoppia in presenza della madre.
Il flop dei centri d’emergenza di Milanodi MARIA ELENA SCANDALIATO
MILANO – L’emergenza abitativa, però, non riguarda solo gli sfrattati, ma anche i Rom sgomberati dai campi e gli occupanti colti in flagranza di reato. Lo scorso novembre, infatti, Comune e Prefettura hanno siglato un patto contro le occupazioni abusive da cui è nata una task force di pronto intervento. Tutto parte dalle segnalazioni dei cittadini, che possono chiamare il 112 per denunciare ogni tentativo di occupazione. Ricevuta la segnalazione, vengono allertate le forze dell’ordine, l’operatore sociale e l’ispettore di Aler o di MM, che sono i due enti gestori delle case popolari. Una volta sul posto, bloccati gli occupanti “in flagranza”, l’operatore sociale valuta la loro condizione: se ci sono minori o c’è una situazione di fragilità, viene offerta accoglienza presso uno dei centri di emergenza sociale del Comune. In realtà, come ammesso dagli stessi operatori sociali, sono pochissimi gli occupanti che accettano questa soluzione; la stragrande maggioranza, alla fine, si arrangia da parenti e amici, o in altro modo, perdendo ogni possibilità di avere un alloggio popolare (chi occupa, infatti, viene cancellato dalle liste per cinque anni).
I centri di emergenza sociale a Milano sono due e godono di una pessima fama: uno si trova in via Barzaghi, l’altro in via Lombroso. Si tratta di strutture della Protezione Civile adattate, con grande difficoltà, a ospitare delle famiglie che possono restare al massimo 40 giorni (prorogabili in condizioni particolari), ricevendo una branda per ogni membro di più di tre anni, l’uso di cucine comuni e l’uso di bagni comuni.
La struttura di via Barzaghi, che abbiamo visitato, può ospitare un centinaio di persone dislocate in quattro camerate. Uomini, donne e bambini dormono negli stessi ambienti, separati da “capannine” costruite dagli ospiti incastrando manici di scopa e tende da doccia, per garantire almeno un minimo di privacy. La gestione del centro è affidata alla Fondazione Progetto Arca, che nel 2013 ha stipulato una convenzione con il Comune di Milano. Nonostante la struttura si mostri già in pessime condizioni, la situazione potrebbe essere peggiore di quanto sembri. “È un luogo terribile, dov’è impossibile lavorare”, racconta uno degli operatori del centro, che ci ha contattati dopo la nostra visita.
Stando alla testimonianza in via Barzaghi gli educatori si trovano costretti a gestire non solo le decine di ospiti presenti, ma anche la portineria (il portone è rotto), i macchinari (dalle lavatrici ai forni delle cucine) e l’ingresso dei mezzi della Protezione civile, parcheggiati nel cortile della struttura. Senza contare la presenza di infiltrazioni di acqua e i servizi igienici di difficile utilizzo: “Il bagno degli uomini sarebbe privo di acqua calda, mentre le turche (non ci sono water) sono inutilizzabili per i bambini più piccoli”.
Ecco perché nessuno accetta l’alternativa dei centri di emergenza, dove si dovrebbero costruire dei percorsi di “autonomia abitativa”. Gli unici a essersi adattati sono i Rom, che pure abituati a condizioni di vita pessime non meritano certo di abitare in un luogo simile. Un luogo subìto soprattutto dai bambini, che non vengono neppure accettati nelle scuole di prossimità. Racconta ancora l’operatore che ci ha chiesto di rimanere anonimo: “Li rifiutano perché gli altri genitori non li vogliono. L’anno scorso a dicembre sono arrivati dei piccoli che sono riuscita a iscrivere a scuola solo a marzo. A novembre è arrivata una famiglia con 5 figli. Nonostante le mille telefonate e le lettere ai dirigenti scolastici, ancora non hanno un posto in nessun istituto. E pensare che ci sarebbe l’obbligo scolastico”.
Tra affitto e proprietà, il progetto Abita Giovanidi EDOARDO BIANCHI
MILANO – Nella Milano delle occupazioni e delle polemiche per le politiche di Aler, la società Aler che gestisce il patrimonio immobiliare pubblico in Lombardia, c’è anche un’esperienza positiva di cui si parla poco. Grazie ad un’idea del membro della Fondazione Cariplo, don Gino Rigoldi, da oltre due anni è nato un progetto denominato Abita Giovani che ha il fine di allocare ragazzi Under 35 in abitazioni popolari ristrutturate, di proprietà Aler. Lo scopo, è quello di rendere nuovamente abitabili residenze sfitte e in decadimento, ricreando un concetto di: vivere il quartiere sociale, intessendo una stretta connessione tra le persone che ne fanno parte.
Deguene, ingegnere civile e mamma di due bambini, racconta con entusiasmo la sua esperienza in questo progetto. Ci descrive l’iniziativa del gruppo su Facebook che le ha dato l’opportunità di ottimizzare le spese per l’appartamento. Grazie al gruppo social, ha avuto modo di chiedere suggerimenti a chi facesse già parte del programma e quindi con più esperienza in merito. La pagina web rappresenta un modo per avvicinare le persone attraverso interazioni telematiche che rendano partecipi tutti coloro che hanno aderito al progetto Abita Giovani.
Alice ci racconta come l’iniziativa funzioni e che oggi giorno, secondo la ventottenne studente di veterinaria, è uno dei programmi più interessanti per i giovani in cerca di un’appartamento. Si sofferma inoltre sui costi relativamente bassi d’affitto e come a quel prezzo sia difficile trovare un’offerta migliore nel panorama milanese. Dario, impiegato in una banca, ci spiega come l’acquisto di una casa oggi sia estremamente difficoltoso per un giovane con un reddito di fascia media, anche con possibilità di accesso a mutui agevolati. Nello specifico, sostiene che senza aiuti da parte del nucleo familiare l’investimento in immobili sia possibile solo grazie al sostegno di realtà quali quella di Abita Giovani.
Caterina, insegnante in un sobborgo di San Siro, nonostante abbia trovato attraverso questo programma una soluzione abitativa, si sofferma sulla svendita del patrimonio pubblico immobiliare in Lombardia. A tal proposito, si chiede come mai non vengano più costruiti alloggi popolari e perché quelli esistenti vengano dismessi. Ritiene inoltre i criteri di selezione dell’Housing Sociale buoni per le persone di ceto medio, ma non idonei per le famiglie meno abbienti.
I programmi per agevolare l’acquisto immobiliare sono in costante aumento a seguito del positivo esito dei programmi come Abita Giovani e di altri progetti che stanno prendendo piede a Milano. Oggi le persone in possesso di un lavoro a tempo indeterminato e con meno di 35 anni possono permettersi attraverso un contratto d’affitto con futura vendita una casa di proprietà. Resta da capire se l’organizzazione sia volta a far ripartire una città immobilizzata che presto ospiterà una manifestazione di livello mondiale come l’Expo, o se sia l’ennesimo bacino che verrà sfruttato per interessi e ritorni economici.
A Napoli fallisce uno sgombero su duedi TIZIANA COZZI
NAPOLI – Sono 2.300 gli sfratti che avrebbero diritto alla sospensiva tra Napoli e provincia. E sono ben 4 mila le occupazioni abusive in corso tra Napoli (con 1.500 alloggi di proprietà comunale) e provincia (con 2.200 alloggi dell’Istituto autonomo case popolari). Il problema casa nel capoluogo campano va avanti da sempre, ma la crisi degli ultimi anni e il conseguente impoverimento delle famiglie ha trasformato un fenomeno in un’emergenza continua. Anche il patrimonio storico napoletano paga il prezzo all’illegalità. Ci sono circa 800 posizioni irregolari nei palazzi storici. E sugli sgomberi il bilancio è cosa da poco: 60-70 all’anno nella città di Napoli sono quelli andati a buon fine su 130 tentativi finiti nel nulla. Un numero veramente esiguo rispetto al numero reale degli immobili occupati. Anche a Napoli, come a Milano, ci si può ritrovare con la casa occupata dopo un lungo periodo di assenza. Ad un’anziana signora del rione Rossetti di Fuorigrotta, quartiere periferico della città, ci sono voluti 2 anni per rientrare nella sua casa occupata da una famiglia con bambini. Ogni volta lo sgombero era impossibile per motivi di salute di uno dei componenti o perché l’occupante era incinta. La dinamica degli abusivi di rado è violenta. Chi occupa subentra illegalmente a chi va via e spesso dietro c’è un traffico di denaro. Nemmeno la camorra può dirsi estranea al fenomeno: in più di un’occasione si è adombrata la regia dei clan.
I grandi numeri, anche se inferiori a Milano, riguardano anche gli sfratti che hanno diritto alla sospensiva. Ma se nella città del Duomo si è provveduto in altri modi all’assegnazione di nuovi alloggi, all’ombra del Vesuvio il provvedimento ora negato dal governo resta l’unica speranza. “A Napoli c’è esigenza della sospensiva – spiega Gaetano Oliva, Cgil Casa Napoli – perché non c’è nient’altro che abbia messo in moto nuove assegnazioni. L’ultimo bando è del 2010 e in 4 anni hanno esaminato solo 8 mila pratiche, non si riesce nemmeno a pubblicare la graduatoria provvisoria”. L’ultima risale a 20 anni fa e su 20 mila aventi diritto, in 15 anni è stata data sistemazione a 1.500 famiglie. “Questo vuol dire che un’intera generazione è tagliata fuori – sottolinea Oliva – non avrà diritto a un bel niente. La nostra preoccupazione è che torneranno gli ufficiali giudiziari a bussare alle case, come accadde nel 2010, con il governo Berlusconi, quando in un mese si contavano a Napoli 6-7 esecuzioni di sfratto. Si buttava fuori gente che non sapeva dove andare. Il ministro Lupi risponda sui fatti e intervenga concretamente sulla nostra emergenza”.
Anche le agevolazioni per morosità incolpevole non hanno sortito grandi effetti. Su un fondo di 1 milione e 400 mila euro assegnato alla Campania, a Napoli sono ben poche le domande arrivate al Comune, per questo l’avviso pubblico è stato prorogato fino al 15 febbraio. Eppure si contano circa 2.400 morosi incolpevoli tra Napoli e provincia.
Nel 2013 sono 3.320 gli sfratti emessi di cui 1.505 a Napoli e 1.815 in provincia. L’80 per cento sono sgomberi per morosità, si tratta appunto di inquilini che non ce la fanno più a pagare, un fenomeno sempre più frequente in provincia. La crisi corrode le possibilità economiche anche dei proprietari. Accade sempre più spesso che chi possiede un solo immobile non abbia la forza economica per fare causa al suo inquilino moroso. Non tutti gli sfratti emessi nel 2014 sono stati eseguiti proprio perché il proprietario non poteva rivolgersi ad un avvocato per aprire la procedura. Così gli inquilini morosi continuano a restare in casa. Sono stati 2.684 gli sfratti esecutivi per morosità (1.382 in provincia e 1.302 in città). Quasi seimila (5.849) invece le richieste di esecuzione di sfratto, cioè quelle in cui la procedura è stata avviata e si attende solo l’arrivo degli ufficiali giudiziari.
Edifici in comodato, polemiche a Parmadi MARIA CHIARA PERRI
PARMA – La lista d’attesa per l’assegnazione di un alloggio popolare è lunga e difficile da scalare, con patrimonio di edilizia residenziale pubblica vecchio di decenni o bloccato in cantieri in costruzione. In piena emergenza abitativa: nel 2013, tra Parma e provincia, sono stati emessi dal tribunale 726 provvedimenti di sfratto, di cui 363 in città. Sono state 489 le richieste di esecuzione per morosità di affitto e spese condominiali. Più di una al giorno. D’altro canto, abbondano gli immobili privati lasciati sfitti per la crisi del mercato immobiliare. Ed ecco che anche a Parma negli ultimi anni si sono moltiplicate le occupazioni. Edifici vuoti in pieno centro storico si sono riempiti di famiglie straniere con bambini, in situazioni di estrema indigenza, supportate dai movimenti autonomi che da anni si battono per il diritto alla casa.
Proprio nelle ultime settimane la giunta 5 Stelle ha deciso di risolvere il problema di due occupazioni, in un ex cinema e in uno stabile privato, scendendo a patti con gli occupanti e con i loro sostenitori. Come? Concedendo alle famiglie uno spazio pubblico in comodato d’uso. Una soluzione che ha scatenato una marea di polemiche.
L’assessore ai Servizi sociali Laura Rossi difende la scelta, spiegando che si tratta di una soluzione temporanea d’emergenza, per fare uscire dall’illegalità famiglie disperate che solo così potranno essere prese in carico dai servizi sociali. Dall’altra, l’opposizione politica parla di “premio all’illegalità”. Una scorciatoia concessa a chi commette reati rispetto ai tanti che rispettano la legge. Il dito è puntato non tanto contro l’accoglienza ai senzatetto, ma contro la decisione di concedere parte dello stabile anche alle attività di un centro sociale pur di mettere fine all’occupazione, mentre tante altre associazioni aspettano in fila il benché minimo contributo.
Ragioni contrapposte su un problema delicato, destinato a ripresentarsi presto: altri due condomini in centro sono occupati da 13 famiglie con otto bambini, tra cui due gemelline neonate. I tecnici si sono già presentati per staccare il gas.
Ce l’hanno raccontato in lungo e in largo, come la biografia degli autori degli attentati di Parigi sia inscindibile dall’ambiente della banlieu. E del resto da qualche anno, con notevole puntualità e regolarità, che siano i saccheggi dei negozi perbene a Londra, o le manifestazioni surreali tra le villette e i fast food di Ferguson, o qualche comportamento oltre i limiti della demenza dalle nostre parti italiane, non si manca mai di collegare un certo tipo di spazi ad alcuni problemi. Il collegamento però deve essere preso molto alla lontana, non perché non esista, e non sia per certi versi diretto, ma perché ha bisogno di una serie fin troppo lunga di precisazioni e contestualizzazioni. Infatti se solo ci pensiamo un istante, la nostra testa quando evoca quelle arterie commerciali britanniche, ai parcheggi del suburbio americano, a certe nostre distese di prati spelacchiati tra palazzi razionalisti, ricostruisce spazi diversissimi, chiamandoli nello stesso modo. E dicendoci in modo piuttosto chiaro, che se hanno qualcosa indubbiamente in comune, non si tratta delle forme fisiche.
Hanno tutte la capacità di produrre quel genere di disagio che spesso sfocia, seguendo un canale o l’altro, nelle psicopatologie violente e senza sbocco non autoreferenziale. Che siano i saccheggi e gli incendi di negozi per rubacchiare stupidaggini da consumi infantili, o urlanti confuse spesso autolesionistiche manifestazioni contro tutto e contro tutti, o addirittura di innescare l’altrettanto confusa conflittualità estrema che poi sfocia nella criminalità organizzata o nelle varie forme di terrorismo, a seconda del caso che fa incontrare i disagiati con questo o quel maître à penser. Questo plasmare cervellini particolarmente fragili è un carattere delle periferie che, evidentemente non proporzionale alla distanza tra gli edifici, agli standard a parcheggio o verde, allo stato di manutenzione delle tubature, o degli spazi comuni. Ovvero tutti quegli aspetti che, attraverso processi partecipativi o meno, con assemblee nelle scuole, urla di casalinghe, riunioni pensose al centro civico, affrontano i vari cosiddetti piani per le periferie, puntualmente focalizzati nel risolvere tutto ciò che evidentemente, almeno così da solo, non produce affatto disagio.
Del resto basta a volte spostarsi di qualche centinaio di metri, nel medesimo quartiere, per scoprire che il disagio pare svaporato per miracolo, pur restando immersi nei medesimi spazi fisici, tipi di edifici, strade, verde. A volte esiste qualche indizio abbastanza chiaro almeno a indicare un percorso di riflessione: come le case in proprietà anziché in affitto, ad esempio, che secondo molto pensiero conservatore sono sinonimo di identità e stabilità, delle famiglie e degli individui. Oppure l’epoca di costruzione e tipo di occupazione dei fabbricati, o presenza o meno di attività economiche. In qualche pianterreno. Altre volte neppure un indizio labile del genere, salvo la constatazione che in un posto c’è il disagio, nell’altro no, e che di sicuro gli spazi fisici sono identici. Ma una cosa è certa: quegli spazi, da soli, non cambiano nulla. E chissà che quest’ultima traumatizzante esperienza, di pochissimi balordi psicopatici terroristi, che si sono maturati tutto il loro disadattamento nel brodo di coltura del periferia, non convinca qualcuno di importante. Non lo convinca sul serio a piantarla per sempre, ogni qual volta succede qualche manifestazione di disagio nelle periferie, ad uscirsene con la solita pensata: chiamiamo un bravo architetto!
I sindaci delle grandi città invocano il blocco di 50 mila sfratti esecutivi in metropoli con appartamenti vuoti. Il caso Roma. L’abusivismo edilizio diffuso e legalizzato senza una idea di città a misura di persona. Analisi per una via di uscita nell’intervista a Carlo Cellamare. Prima della prossima rivolta
Passate le feste, le grandi città si ritrovano con l’emergenza sfratti da affrontare visto che il governo Renzi ha scelto di non procedere all’ennesimo blocco ma l’emergenza abitativa in metropoli piene di case disabitate resta una grave anomalia da analizzare in maniera adeguata per trovare una soluzione. Ne abbiamo iniziato a parlare il 2 gennaio con l’urbanista Carlo Cellamare, docente alla facoltà di ingegneria presso l’università La Sapienza di Roma, con una panoramica delle periferie estese che, tolto il centro storico e alcuni quartieri privilegiati, sono, di fatto, la città di Roma oggi. Un problema incancrenito che è destinato ad emergere solo davanti alle improvvise reazioni rabbiose come quella scatenatasi a Tor Sapienza nel novembre del 2014, poco prima dell’affiorare, con le inchieste della magistratura, del sistema criminale diffuso nella Capitale. Torniamo al dialogo aperto con il professor Cellamare.
Il caos quotidiano delle periferie non sembra frutto del caso. Quale modello di sviluppo si è affermato, di fatto, a Roma?
«Siamo davanti ad uno sviluppo insediativo storicamente caratterizzato dalla speculazione edilizia e che non ha guardato in faccia a niente e a nessuno, né ai territori né alle persone che vi vivono. Si tratta di una espansione che non ha attrezzato le nuove aree insediate dei livelli adeguati di servizi e di urbanità, e quindi di qualità della vita. Per questo, molta parte della città si è dovuta autorganizzare per sopperire alle carenze delle politiche pubbliche. Valga da esempio, emblematico di questo sviluppo sconsiderato, l’enorme fenomeno dell’abusivismo edilizio, tra i più imponenti d’Italia, assolutamente incredibile se si considera Roma come la capitale di uno dei Paesi occidentali più ricchi al mondo; un fenomeno in calo ma mai cessato».
Si può quantificare questo abusivismo?
«Ben il 37 per cento del tessuto urbano residenziale è di origine abusiva e ben il 40 per cento della popolazione vive in aree nate come abusive! Aree “di origine abusiva” e “nate come abusive” perché i tre condoni edilizi le hanno rese ora tutte le legali (o in via di legalizzazione). Si tratta di aree legalizzate, ma che sono ben lontane da standard accettabili di urbanità; e che forse non li raggiungeranno mai perché – per come sono nate – è proprio difficile trovare il modo di inserire i servizi, le aree verdi, gli spazi pubblici, le aree commerciali, anche solo i parcheggi e i marciapiedi. Senza contare i costi esorbitanti di un loro recupero che non sono proprio disponibili alle casse pubbliche. Anche solo pensare all’organizzazione di un servizio di trasporto pubblico, in aree a così bassa densità, appare allo stesso tempo totalmente inefficiente e totalmente in perdita. Il risultato è una città col consumo di suolo tra i più alti d’Italia, ma anche – cosa ancor più grave – col consumo di suolo pro-capite tra i più alti d’Italia».
Cosa dire riguardi alle ultime amministrazioni cittadine?
«Gli anni veltroniani, come noto, e come denunciammo, da urbanisti e non solo, discutendo il cosiddetto “modello Roma”, piuttosto che recuperare le periferie, hanno acuito i problemi. Il tentativo di realizzare grandi opere attraverso la svendita di pezzi della città è stato avviato in quegli anni ed è stato fallimentare. L’amministrazione Alemanno si è poi inserita in quella strada aperta, e ha fatto precipitare la situazione, soltanto arginata in alcuni limitati casi dalle molte mobilitazioni locali. Abbiamo assistito (in linea peraltro con il mainstream mondiale di questa fase del neoliberismo avanzato) alla totale mercificazione della città, di cui è difficile recuperare le macerie che ne sono derivate e che ha approfondito il solco tra le diverse parti della città e la distanza tra le aree disagiate ed il resto della capitale».
Quali conseguenze da questa frattura della città?
«La politica delle centralità non ha riqualificato le periferie e ha favorito un orientamento alla commercializzazione. Anche dal punto di vista produttivo e del lavoro è un continuo orientamento su economie “avventizie” e non strutturali, che depredano risorse e non attivano processi socio-economici strutturali che abbiano una solida prospettiva. Analogamente il centro è diventato un distretto del turismo e del commercio dove la residenzialità è ridotta sempre più ai margini».
Con quali conseguenze per la popolazione?
«Quello che è cambiato in questi ultimi anni è proprio l’ulteriore spostamento della popolazione sia a livello territoriale (oltre Roma – ndr -vedi prima parte dell’intervista), ma anche dentro il comune di Roma. Più del 20 per cento della popolazione romana vive oggi fuori del Grande Raccordo Anulare, che inanella ormai le centralità e le polarità di riferimento a Roma. E mentre la popolazione dentro il GRA si assesta o diminuisce, aumenta quella oltre il GRA di oltre il 23 per cento negli ultimi dieci anni.
Ma quello che cambia maggiormente è il progressivo vuoto non solo politico, ma anche istituzionale che caratterizza le periferie e le aree del maggior disagio. È venuta meno la mediazione politica, ma anche la presenza istituzionale proprio nei luoghi più difficili, che non hanno più un interlocutore e si devono “barcamenare” dentro le sacche di disagio, generando quello stato di rabbia che si scarica sui capri espiatori degli immigrati o dei rom e su cui soffiano colpevolmente gli interessi politici di parte.
L’assenza delle istituzioni in queste realtà pone un serio problema strutturale, un problema di cittadinanza. L’interrogativo è, cioè, se gli abitanti di queste aree e di queste periferie possono ancora considerarsi cittadini».
«Il “progetto di rammendo” di Renzo Piano, pur originale e privo di sensazionalismi, non basta a risolvere la questione sociale. Dimenticate da tutti, perfino da urbanisti e sociologi, le diseguaglianze sono il vero motore delle rivolte». Il manifesto, 6 gennaio 2015
Cessato l’allarme, la “questione periferie” torna nel cono d’ombra dei media come fosse stata un fenomeno isolato e passeggero, un capriccio di una parte della città delusa e abbandonata. Ora c’è il “progetto di rammendo” affidato a Renzo Piano e al suo gruppo di lavoro G124, e così la politica passa volentieri la mano (meglio sarebbe dire la palla) all’architettura e all’urbanistica, rinunciando al suo ruolo guida.
È invece utile non sottovalutare quanto è successo nelle nostre periferie (e quello che potrebbe ancora accadere) ricordando le parole di una lunga intervista a Foucault («spazio, sapere e potere») a chi gli chiedeva quale fosse il ruolo dell’urbanistica e dell’architettura nella società moderna: «All’inizio del XVII secolo si smette di concepire la città come un luogo privilegiato, come un’eccezione all’interno di un territorio costituito da campi, foreste e strade. D’ora in poi le città, con i problemi che sollevano e le configurazioni particolari che assumono, servono da modelli per una razionalità di governo che verrà applicata all’insieme del territorio».
E del resto lo stesso Renzo Piano conferma come «il grande progetto del nostro Paese sia quello delle periferie: la città del futuro, la città che sarà, quella che lasceremo in eredità ai nostri figli. Sono ricche di umanità, qui si trova l’energia e qui abitano i giovani carichi di speranze e voglia di cambiare».
Tuttavia incalzato dai suoi allievi che gli chiedono se certi progetti architettonici possono rappresentare delle forze di liberazione o, al contrario, delle forze di resistenza, Foucault risponde: «La libertà è una pratica. Dunque può sempre esistere in effetti un certo numero di progetti che tendono a modificare determinate costrizioni, ad ammorbidirle, o anche ad infrangerle, ma nessuno di tali progetti, semplicemente per propria natura, può garantire che la gente sarà automaticamente più libera».
Il contributo di Renzo Piano al problema delle periferie, sia pure mosso da buoni propositi, ha il punto debole (non imputabile a lui) nell’affrontare la questione solo nella direzione dell’architettura e dell’urbanistica: «Si deve intensificare la città, costruire sul costruito, sanare le ferite aperte. Di certo non bisogna costruire nuove periferie oltre a quelle esistenti: devono diventare città ma senza espandersi a macchia d’olio, vanno ricucite e fertilizzate con strutture pubbliche.È necessario mettere un limite a questo tipo di crescita, non possiamo più permetterci altre periferie remote, anche per ragioni economiche». Su questa questione, nel procedere dell’intervista, Foucault si esprime con molta determinazione: «Penso che l’architettura (e l’urbanistica, ndr) possa produrre, e produca, degli effetti positivi quando le intenzioni liberatorie dell’architetto coincidono con la pratica reale delle persone nell’esercizio delle loro libertà».
Ora bisogna riconoscere che Renzo Piano è uno dei più bravi architetti italiani per cultura, serietà e professionalità, ma ha ragione Emanuele Picardo ad affermare su questo stesso giornale (il manifesto del 30/12/2014) che: «Affrontare la periferia solo con lo sguardo dell’architetto è un peccato originale che ne impedisce una lettura complessa e articolata».
E qui è necessario restituire di nuovo la parola a Foucault: «L’esercizio della libertà non è del tutto insensibile alla distribuzione degli spazi, ma esso può funzionare soltanto dove si dà una certa convergenza; se vi è divergenza o distorsione l’effetto prodotto è immediatamente contrario a quello ricercato». Questo è quello che è accaduto al progetto rutelliano delle «cento piazze». Alcune di esse, come a San Basilio hanno avuto un certo successo; altre, come al Quarticciolo, stanno per essere smantellate perché gli abitanti le sentono estranee e vogliono ritornare alla piazza che c’era negli anni ’50.
Dunque un progetto architettonico-urbanistico o viene concepito e realizzato direttamente (e autoritariamente) dal Principe, oppure, in epoca moderna, non può che scaturire (sia pure con l’autonomia necessaria) all’interno di una cornice politica che detta una propria visione della società, una politica intesa come mediazione di interessi in gioco, interpretazione dei bisogni, espliciti o meno, degli abitanti che quei luoghi li abitano e li attraversano quotidianamente. Se la politica delega in toto la soluzione dei problemi sociali all’architettura e all’urbanistica, il progetto che ne consegue risulta monco, affidato al libero arbitrio (ed estro) del suo Progettista che viene gravato di un compito improprio e improbo, ovvero quello di risolvere questioni sociali che non gli competono direttamente, il che facilmente degenera in opere autocelebrative che a Roma, per fare un esempio, si chiamano la “Nuvola” o lo “Stadio del nuoto” (e rimane solo da sperare che tra di esse non compaia infine anche il nuovo stadio della Roma a Tor di Valle).
È vero che il “progetto di rammendo” di Piano ha una sensibilità diversa e si rivolge ai quartieri periferici senza cercare effetti sorprendenti né sensazionalismi e utilizzando poche risorse (poco più dello stipendio di senatore a vita messo a disposizione da Piano), ma è la cornice politica che manca, ciò che a suo tempo dava senso alle geniali iniziative di Nicolini nello scenario politico impostato da Petroselli. Perché a fronte di tante demagogie populiste bisogna pur affermare e difendere l’autonomia delle scelte progettuali — architettoniche o urbanistiche — che mai debbono essere piegate al volere dei poteri dominanti quale che siano, come avveniva già nel Rinascimento.
Una delle principali condizioni che distingue le attuali periferie da quelle degli anni ’50 e ’60 è la crescita progressiva delle disuguaglianze sociali. Anche nelle prime periferie urbane, la causa del degrado nasceva dalle condizioni di povertà ma, all’epoca, c’era l’attesa e la quasi certezza che lo sviluppo e il benessere prima o poi, avrebbe raggiunto tutti gli strati sociali. Queste condizioni di povertà sono diventate ora strutturali, croniche, fisiche, esistenziali, trasformate in condizioni di miseria, senza che si abbia più la percezione che esse possano migliorare, in un quadro sociale imbarbarito dove prevale il morbo individualista del «speriamo che io me la cavo».
E al tempo stesso la questione sociale al centro di tante e famose opere letterarie dell’800 e della prima metà del ’900, da Zola a Steinbeck, da Balzac ad Hugo, come affermava qualche giorno fa Alberto Asor Rosa su La Repubblica, «non vive più nelle coscienze delle persone. La percezione e la condanna delle disuguaglianze sociali è stata respinta ai margini, non interessa». La stessa sorte capita agli urbanisti, ai sociologi, agli antropologi per i quali la questione delle disuguaglianze in quanto suddivisione della società tra chi possiede molto e chi non possiede niente, si consuma e si dissolve nella ricerca di improponibili soluzioni specialistiche.
Perfino i giovani ricercatori la aggirano: anche loro indagano casi particolari, segmentazioni sociali, quasi che questi fossero isolabili dal contesto sociale più generale. Ci si occupa di rifugiati, profughi, Rom, barboni, occupanti di case, storie isolate di vicende personali. È come se questa società si fosse fatta distratta, avesse rimosso il tema del conflitto sociale e non tenesse più in conto di quello che Stiglitz chiama il prezzo della disuguaglianza, il vero motore delle rivolte. Se il mondo diventa sempre più duale e la periferia rappresenta quel 99% di chi non possiede niente che assedia le comunità blindate di quel l’1% che possiede tutto, la soluzione può essere solo quella di cambiare direzione, e politica