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Come ripensare le città ritrovando un’unica identità urbana

Il «rammendo delle periferie», secondo la suggestiva formula coniata da Renzo Piano, pare sia opera pubblica destinata a divenire punto programmatico del governo Renzi. Ed è dalla probabilità d’una sua concreta attuazione che viene il decisivo interesse nazionale di questa impresa, al cui fondo credo ci sia il voler riconoscere a quelle stesse periferie il rango d’inedite e autonome città storiche. Un riconoscimento che appare del tutto fondato, visto che la grande maggioranza degli uomini (il trend è infatti planetario) vive oggi in periferie urbane. Ma che male si adatta, fino a essere errore, all’ultramillenario quanto indissolubile e meraviglioso insieme di vere città storiche e di vero paesaggio storico che fanno dell’Italia un unicum nel mondo intero, un insieme in cui le periferie sono quasi sempre infelice o infelicissima presenza; non storica, bensì, per dirla con Alexandre Kojéve, «post-storica». Per quale ragione un grande architetto nato in Italia commette l’errore di non considerare il nostro Paese in primis per la sua facies storica? Perché il suo non è un errore, bensì la semplice presa d’atto, più o meno inconsapevole, del completo fallimento delle politiche urbanistiche finora adottate nel Paese. Un fallimento originato dalla distinzione – sempre presente nei piani regolatori, ancor più, dopo il 1972, dal passaggio alle Regioni delle competenze in materia urbanistica – tra un centro storico rigido e immodificabile e una periferia (post-storica) al contrario flessibile e modificabile; correlando infine il tutto con un’integrazione di funzioni più o meno variamente articolate, ma sempre studiate in modo da far salvo il principio che la flessibilità della moderna periferia post-storica possa compensare la rigidità del centro storico. Tutto ciò con il risultato d’aver creato una crescita metastatica delle periferie intorno ai centri storici, portando infine il tutto a un comune degrado. Il degrado oggi sotto gli occhi di tutti.
Prima però credo vada sottolineato come la crescita metastatica delle periferie rispetto ai centri storici sia avvenuta in Italia soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, cioè proprio nel momento stesso dell’avvento anche da noi della cosiddetta scienza urbanistica, la stessa che diceva d’avere in mano le carte per creare «l’uomo nuovo della Cité radieuse».
Evidentemente perché non erano in grado di capire, gli urbanisti di allora, che l’uomo nuovo era una balla di Le Corbusier e non la sola dell’architetto francese; il suo «modulor» di 2 metri e 40 d’altezza è infatti stabulario e del tutto funzionale «all’uomo nuovo» della speculazione edilizia, non certo all’uomo nuovo d’un nuovo ordine democratico. Balla passata in cavalleria perché mezzo secolo fa il ritardo culturale del Paese era immenso, ma con ancora dei tratti d’ingenuità, cioè non ancora completamente incanaglito verso furto e arroganza come ormai è oggi; e balla perciò fatta ingenuamente propria dalle Regioni, almeno nei primi tempi della loro istituzione, nel 1970; le stesse Regioni che al posto della Cité radieuse ci hanno ammannito nel vero, e direi inevitabilmente, le periferie di cui sopra.

Le ragioni del degrado delle periferie
Tutto ciò premesso, proviamo a cercare le ragioni per le quali un problema di tale evidenza e di così decisiva importanza per il futuro stesso dell’Italia e delle sue giovani generazioni è venuto lievitando in oltre mezzo secolo senza che mai lo si sia, se non risolto, almeno affrontato. Ragioni che sono numerosissime e che provo qui a citare in ordine sparso, ovviamente saltandone per sintesi alcune.
Prima ragione, è il gravissimo ritardo culturale in cui vive oggi il Paese e di cui ho appena detto. Quello soprattutto attestato dalla nostra classe politica che, proprio in causa della sua impreparazione, sempre più è andata scartando dai suoi «doveri» (Mazzini) la realizzazione di tutto quanto fosse complesso da elaborare sul piano delle scelte rispetto a ciò che è pubblico. Quindi mai si è preoccupata di predisporre razionali, coerenti e moderne politiche industriali, agricole, energetiche e quant’altro, come di mettere a punto piani a lungo termine su temi civili e sociali fondamentali quali istruzione, ricerca scientifica, ambiente, giustizia, fisco, sanità, pensioni, mobilità viaria e ferrotranviaria, urbanistica, salvaguardia del patrimonio storico e artistico, eccetera, per invece promuovere e autorizzare la politica economica più semplice, stupida, dannosa e redditizia che c’è: la speculazione edilizia. Ciò per assicurare il lavoro alla popolazione italiana (ma un lavoro, oltretutto infinitamente meno dannoso sul piano socio-economico e ambientale, è anche spostare le pietre da una riva all’altra d’un torrente, come Keynes ci ha insegnato), dove il far lavorare la popolazione fuori da un qualsiasi disegno razionale e coerente per il futuro del Paese ha reso la nostra classe politica compartecipe, non solo della devastazione dell’ultramillenario paesaggio urbano, agricolo e naturale del Paese, ma anche della cementificazione dei suoli, quindi della loro impermeabilizzazione, perciò principale responsabile, sempre la nostra classe politica, anche del dissesto idrogeologico del Paese, quello che sta producendo disastri ambientali con cadenza
sempre più ravvicinata nel tempo e sempre più diffusa sul territorio.
Seconda ragione, la sostanziale incompetenza della nostra università a formare i quadri amministrativi (dai soprintendenti, ai funzionari regionali e comunali) che dovrebbero risolvere – in via tecnica – l’immenso problema organizzativo, giuridico, tecnico-scientifico, urbanistico, viario e architettonico del rapporto tra città storica, periferia e territorio. Noto è che la recente introduzione di nuclei di valutazione della produzione scientifica dei docenti incardinati nelle nostre università ha evidenziato come molti di loro, specie quelli afferenti alle sedi di provincia, abbiano presentato titoli bibliografici dichiarati da quegli stessi nuclei di valutazione irricevibili, perfino articoli sulla cronaca locale del «Resto del Carlino» o sul bollettino della Comunità montana. Mentre, per restare al tema della tutela del patrimonio storico e artistico, sono stati di recente attivati corsi universitari di restauro dei beni culturali affidandone la direzione a docenti che non hanno mai toccato un’opera d’arte in vita loro, né hanno una bibliografia di specie, tanto da essere stati bocciati agli ultimi concorsi da professore ordinario. Da ciò l’evidente impossibilità che un’istituzione universitaria di tale modestissimo livello possa formare persone in grado di dar risposta al decisivo quesito sotteso al nostro vivere in un Paese, come è l’Italia, colmo fino all’inverosimile di storia: quale sia il senso della presenza del passato nel mondo d’oggi.
Terza ragione, a ribadire quanto appena detto, l’insensato numero dei circa 250.000 laureati in architettura e urbanistica (più o meno uno per kmq sul totale dei 301.340 kmq del territorio italiano, togliendo laghi, fiumi e inabitabili monti e valli) prodotti fino a oggi dall’università italiana. Oltretutto, architetti e urbanisti in gran parte formati secondo il principio di Bruno Zevi, per il quale il «nuovo» costruito non deve avere rapporto alcuno con il «vecchio». Una posizione illustrata nel Manifesto dell’architettura organica del 1945, testo fondativo d’una nuova scuola d’architettura, di cui Zevi era magna pars, che trovava forma e funzione nell’ambiente naturale, appunto l’architettura organica teorizzata dall’architetto statunitense Frank Lloyd Wright. Sfuggiva evidentemente a Zevi e ai suoi che, in Italia, la natura non è il luogo mistico di un Walt Whitman o di un Thoreau, bensì è un «ambiente culturale» indisgiungibile da un’ultramillenaria e infinitamente ramificata storia di sedimentazioni di civiltà. Quindi Zevi e i suoi non si resero conto di come, in Italia, da sempre si fosse costruita un’architettura che, per appartenere alla natura, quindi essere organica, mai aveva avuto bisogno di far scorrere al proprio interno una cascata d’acqua, come la «Casa Kaufmann» di Wright, peraltro edificio semi-inabitabile perché troppo umido; e si può andare, per l’architettura «naturalmente organica» italiana, dai Templi di Tivoli all’intera Venezia, a tutte le città storiche che ornano, intatte fino a qualche decennio fa, i profili delle nostre colline in forma di umanissime concrezioni nello stesso colore della terra su cui poggiano per aver da lì tratto i loro materiali da costruzione. Mai dimenticando, però, di là da questo esiziale errore culturale di Zevi e dei suoi, i tentativi svolti da alcuni architetti del secondo dopoguerra per recuperare un rapporto con le preesistenze storiche, come fecero Gustavo Giovannoni, Giuseppe Pagano, Roberto Pane, Ludovico Quaroni, Mario Ridolfi o Saverio Muratori, per dirne alcuni.
Ciò a conferma di come l’aggressione al paesaggio e alle città storiche avvenuta in Italia nell’ultimo mezzo secolo non possa essere attribuita solo alla terribile miscela tra impreparazione culturale, ignoranza della Storia e volontà di potenza soi-disant creativa dei molti, troppi architetti. Decisiva è stata infatti anche la corresponsabilità d’una insaziabile speculazione edilizia, d’una classe politica troppo spesso ignorante e corrotta, ovvero arrogante e dirigista, e di masse popolari ingenuamente persuase che il comfort piccolo-borghese dei condomini equivalesse al bello.
Quarta ragione, la generale e bovina osservanza alla «istanza storica» (1952) della Teoria del restauro di Brandi. Una posizione per molti versi fondata, quando si tratta d’una lacuna d’un dipinto. Assai più problematica da difendere quando si parli di architettura. Un errore fu infatti la rigida posizione presa da Brandi, sia nell’assurda condanna (ex post) della ricostruzione tal quale del campanile di San Marco realizzata nel 1912 al seguito dell’improvviso crollo dell’originale, sia nella rigida, quanto di nuovo assurda, opposizione al rifare uguale il cinquecentesco ponte di Santa Trinità di Bartolomeo Ammannati, fatto brillare nel 1944 dall’esercito nazista in ritirata da Firenze. Per fortuna campanile e ponte furono ricostruiti tal quali, ma quello stesso principio ideologicamente storicista è stato invece fatto valere per la ricostruzione delle città e dei paesi distrutti da calamità naturali. Al posto di rimetterne in piedi tal quali case e cose, così da restituire a quelle comunità ferite e umiliate almeno il ricordo della loro così brutalmente perduta identità storica, la consueta miscela di soprintendenti, architetti, urbanisti, restauratori e politici (i soliti formati nelle nostre università) ha provveduto alla costruzione di edifici «nuovi», perciò in pace con la «Storia».
Dalle mortuarie casette tutte uguali del dopo-Vajont, alla tanto ideologica quanto velleitaria (e anche un poco fessa) «nuova Gibellina», alla ricostruzione in squallidi condomini, ossia in villette geometrili, tanto dell’Irpinia quanto delle zone tra Umbria e Marche, fino alle sciagurate new towns dell’Aquila e al criminale abbandono a se stessa della città storica – lasciata, dopo il terremoto del 1999, a sciogliersi alla pioggia, al vento, alla neve e al sole –, le istituzioni (soprintendenze, università, assessorati regionali e comunali ecc.), nella loro incapacità e incompetenza, hanno preferito dibattere per anni su temi tanto ideologici quanto privi di veri fondamenti culturali («com’era, dov’era, ma non com’era, lo facciamo stilistico, no post-moderno», e così via farneticando), perché nel vero del tutto impreparate a dare risposte rapide, razionali e coerenti ai cittadini circa un problema ormai endemico in Italia, le distruzioni e le morti provocate, lo ripeto, dalle catastrofi ambientali, d’origine idrogeologica o sismica.
Quinta ragione, la completa farraginosità del quadro legislativo che oggi governa l’urbanistica in Italia. Quello generato dall’ingresso nel 1970 delle Regioni nella politica nazionale. Regioni avviate in grande ritardo rispetto al 1948 della Costituzione che già le prevedeva, quindi non create sulla spinta morale e civile di quegli anni (e qui si torna alla «Costituzione inattuata» di Piero Calamandrei: come sarebbero state le Regioni se varate subito dopo il 1948, sotto il diretto patrocinio dei padri costituenti?). Bensì Regioni avviate sull’onda del cosiddetto «Sessantotto», il movimento che allora in molti credemmo una rivoluzione, mentre era solo l’ultimo sussulto agonico della civiltà occidentale definitivamente vinta dal pop planetario della società post-storica di massa. Quindi Regioni in un primo momento determinate a creare un (sessantottesco) «regno di utopia», vale a dire un nuovo e, appunto, rivoluzionario modello di democrazia diretta, antitetica a quella dello Stato centrale, che in breve si è però rivelato una vana promessa cui si era del tutto incapaci di dare concretezza organizzativa e culturale. Ed è questo un passaggio delicatissimo per il generale tema della tutela del patrimonio storico, artistico e del paesaggio italiano, come del futuro stesso del Paese, passaggio che vede le Regioni assumere una posizione di raddoppio dello Stato centrale, con la delega data loro, nel 1972, della potestà legislativa in materia urbanistica e, nel 1977, in materia ambientale; pensando, sempre le Regioni, di correggere inefficienze e errori dello Stato con il varo d’un rilevante numero di iniziative di decentramento, spesso formalizzate in specifiche leggi.
Una stagione tra utopia, demagogia, dilettantismo e improvvisazione durata una decina d’anni, passando poi, le stesse Regioni, a promulgare leggi in difesa dei ben più fruttuosi e concretissimi interessi clientelari di speculazione edilizia e piccoli proprietari, fin quasi rasentando la demenza, come la legge della regione Liguria che avrebbe consentito di costruire fino a tre metri dalle rive dei torrenti, legge di qualche mese fa e non varata solo in grazia (si fa per dire) della recente e ennesima e disastrosa alluvione. Mai dimenticando però alcuni esempi virtuosi, come i recenti piani paesistici della Puglia e della Toscana, quest’ultimo per molti versi eroico, a onore di chi l’ha così pervicacemente voluto, Anna Marson.
Infine – ma di ragioni per spiegare il completo fallimento della costruzione delle nuove periferie in Italia ce ne sarebbero molte altre – aver fatto le Regioni verbo ideologico della suddetta rigidità dei centri storici rispetto alle periferie, nel nome d’una puerile idea di conservazione a oltranza dell’esistente. L’idea inverata nella politica fatta solo di vincoli e divieti di cui può essere simbolo l’Emilia-Romagna dei primi anni Settanta, politica il cui principale effetto è stato d’aver museificato i centri storici ottenendo la fuga della gran parte dei residenti. Basti, per dire in concreto del fallimento di quella politica, che dagli inizi degli anni Settanta si è avuta nei centri storici italiani una diminuzione di circa il 60% di abitanti e attività produttive. La stessa che passa al 100% nelle molte migliaia di piccoli comuni ormai in via di abbandono in tutt’Italia. Uno spreco di risorse umane ed economiche: basti il problema immobiliare, che grida davvero la vendetta di Dio.

Un’idea di Cavour: le grandi regioni
Soluzioni? Prima cosa, abolire subito le attuali Regioni, portandole a numeri sensati e razionali, ad esempio mutuandone le dimensioni da quelle degli Stati pre-unitari; e sarebbero le stesse che con grande lungimiranza volevano istituire Cavour e Cattaneo al momento stesso dell’Unità d’Italia, ben capendo le difficoltà strutturali nel realizzare quell’Unità, le stesse ancora oggi sotto gli occhi di tutti, peraltro. Secondo, riaffidare allo Stato centrale il compito sia di indicare le linee guida delle politiche urbanistiche, sia di provvedere al coordinamento della loro messa in opera, sia infine di sovrintendere alla verifica dei loro risultati applicativi. Tutto ciò sempre conservando per sé (lo Stato) un ampio potere di censura. Dopodiché, resettare (di nuovo lo Stato) l’attuale quadro legislativo relativo a tutela del patrimonio storico e artistico, ambiente, paesaggio e urbanistica, semplificandolo radicalmente e finalizzandolo a essere un unico strumento organizzativo, così – tra l’altro – da poter favorire con facilità una armonica ricongiunzione tra città storica e periferia, e di questa con ambiente e paesaggio.
Favorire come? Facendo tornare nelle città – a partire dai centri storici – le attività lavorative oggi in genere confinate nelle estreme periferie, quando non disperse senza alcun senso nelle campagne, quindi facendo tornare dentro le città industrie, opifici e quant’altro dia concreta occupazione a operai, impiegati e dirigenti. Il che porterebbe a ridisegnare un rapporto armonico tra nuovo e vecchio costruito, e di questo con il paesaggio, aprendo in tal modo – soprattutto ai giovani – immensi spazi creativi progettuali, con la formazione di molte migliaia di posti di lavoro. Ridisegnare quel rapporto significherebbe, infatti, riprogettare le periferie ponendone le funzioni abitative e i servizi in diretto rapporto con i centri storici; ma al tempo stesso riprogettare i centri storici facendo dei vincoli non più, come è oggi, sempre meno sopportabili provvedimenti solo in negativo, ma trasformandoli in indicazioni in positivo per la progettazione di un nuovo compatibile per forme, tipologie, materiali e quant’altro con l’esistente storico. Quel nuovo costruito che va comunque realizzato per non far morire il «vecchio» patrimonio edilizio italiano di troppo storicismo. Si tratterebbe poi di:
– restituire alla coltivazione il terreno agricolo oggi occupato dai capannoni industriali (dismessi e non) così anche riconsegnando alle città i loro confini, ovvero il loro contesto paesaggistico;
– poter esercitare i cittadini un controllo diretto e immediato sulle emissioni inquinanti di opifici attivi sotto il loro naso;
– far abitare le persone vicino ai luoghi di lavoro, perciò riportando i consumi alimentari, vestiari, eccetera, nei «negozi di quartiere», così come favorendo la creazione di servizi culturali e civili, quali biblioteche, cinema e teatri;
– riportare gli uffici pubblici nelle città, dalle scuole primarie e secondarie, all’università, agli uffici comunali;
– ridurre drasticamente il traffico veicolare privato;
– smettere di dare la solita, ideologica e demagogica e quasi sempre fallita in partenza destinazione museale all’immenso patrimonio immobiliare demaniale di palazzi storici, rocche, caserme, ospedali obsoleti, mercati coperti dismessi, eccetera, progettandone un riuso di concreta utilità sociale;
– perciò favorendo un riuso che inizi dall’insediare in quelle stesse caserme, rocche ecc., le predette attività lavorative, ovvero trasformando le solite rocche, caserme, eccetera, in unità abitative.
Per fare un solo esempio – pur se poco trendy rispetto alle attuali politiche talebane di tutela – una delle principali ragioni della conservazione del Palazzo Ducale di Mantova viene dal suo essere stato ininterrottamente abitato. Dai Gonzaga, che lo fondano, e lo abitano fino al Settecento con i loro famigli o le loro truppe, per poi divenire residenza teresiana, fino a quando, dopo l’Unità, viene occupato dagli «sfollati», tanto che, come mi raccontava tempo fa una «vecchia» soprintendente di Mantova, Giuliana Algeri, prima di diventare negli anni Venti del Novecento l’attuale (e deserto) museo, vi vivevano circa 3.000 persone.

Tornare a una “cultura vissuta”
Obiettivo di questa possibile e auspicabile azione di tutela attiva delle città e del paesaggio – tutela, ribadisco, finalmente non museificante – è il ritorno delle città (centri storici e riconnesse periferie) e dei paesaggi a luoghi di vita, quindi luoghi di relazioni civili, sociali e economiche. Il ritorno a una «cultura vissuta» aperta in mille diversi ambiti di pubblica utilità. Ambiti tutti da progettare e che sono formativi, ambientali, giuridici (si pensi al delicatissimo tema della legittimità degli espropri), economici, fiscali, sociologici, agricoli, idrogeologici, infrastrutturali, storico-artistici, eccetera, fino alla grande sfida d’una azione architettonica e ingegnerile orientata a un riuso compatibile dell’esistente storico, quindi alla ricerca scientifica nella domotica, nelle energie rinnovabili, nei sistemi di trasporto leggero (vettori, loro fonti energetiche e vie di transito) per raccordare rapidamente i piccoli paesi in via d’estinzione con i luoghi di lavoro delle città, così da ovviarne lo spopolamento, fino alla conservazione preventiva e programmata del patrimonio artistico in rapporto all’ambiente, in primis la prevenzione del patrimonio monumentale, o più semplicemente edilizio, dal rischio sismico e da quello idrogeologico.
Sarà questa la ratio sottesa ai rammendi di Renzo Piano e alle future politiche di sviluppo territoriale del governo Renzi? Dar corpo a un grande «progetto nazionale» mirato a realizzare un coerente e razionale riassetto del territorio italiano attraverso una sua de-cementificazione? Un progetto cioè mirato alla fondazione d’una nuova e inedita «ecologia culturale»? Sarà perciò il contrario d’un maquillage estetizzante teso a mascherare ultradecennali e gravissimi errori progettuali, culturali e politici, economici e sociali, errori di cui oggi sono vittime soprattutto le giovani generazioni, come lo saranno ancor più le future, quando nulla dovesse cambiare?
Lo scopriremo. Tenendo però già adesso conto di due cose. Una, l’illuminata decisione di Brunello Cucinelli d’acquistare un piccolo e abbandonato paese storico dell’Umbria, Solomeo, facendone la sede della propria industria, con il risultato che gli operai tornano alla sera malvolentieri a rinchiudersi nei condomini di Perugia, dove perlopiù abitano. L’altra, che se i rammendi di Renzo Piano fossero rivolti solo a mascherare gli errori di cui sopra, sarebbero l’ennesima bugia raccontata agli italiani. Bugia dalle gambe corte, anzi cortissime, perché si risolverebbe nell’applicare alberi e alberelli a vecchi e nuovi condomini speculativi, magari verticali piuttosto che orizzontali, a dipingere di verde i container o i viadotti dismessi, a decorare la facciate in cemento con stecche di legno «ecologico» e così via. Si risolverebbe, cioè, nella definitiva resa del Paese alla speculazione edilizia. Ricordiamolo, industria in gran parte nelle mani di camorra, ‘ndrangheta, sacra corona e mafia. Nel Nord Italia, nel Centro Italia, nel Sud Italia e nelle isole.
Bruno Zanardi insegna Teoria e tecnica del restauro all’Università di Urbino «Carlo Bo». Questo suo saggio, che pubblichiamo per gentile concessione del Mulino, la rivista di cultura e di politica diretta da Michele Salvati, fa parte del dibattito intitolato «Abuso di territorio?».

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La Rivoluzione artistica delle periferie

Nell’immaginario comune, la periferia è quella parte della città meno importante, che non merita attenzione.

Ed è proprio questo il motivo della “rivoluzione delle periferie”: crearsi un’identità, una buona fama, riqualificare il quartiere e i suoi spazi attirando l’attenzione di un vasto pubblico e specialmente dei suoi abitanti.

Infatti attorno a noi, le periferie stanno cambiando.

Siamo stati testimoni della rinascita del quartiere Tormarancia, grazie al progetto Big City Life, che ha trasformato i lotti in “musei a cielo aperto” chiamando artisti di tutto il mondo a realizzare le opere di Street Art che troviamo sulle facciate dei palazzi.

Progetto analogo è avvenuto al Trullo (tra via Portuense e la Magliana), dove però i finanziatori sono gli abitanti stessi del quartiere.

Quelli che una mattina si sono svegliati ignari e hanno trovato un’esplosione di colori aprendo la finestra.

Opera del gruppo dei Pittori Anonimi del Trullo, che con i loro mezzi, la notte dipingono e rallegrano gli spazi comuni del quartiere al grido di “Non cambiamo quartiere, cambiamo il quartiere!”.

Questo gruppo, coinvolgendo studenti, bambini e ragazzi, ha avuto subito un notevo successo e supporto dagli abitanti del quartiere che hanno istituito nel bar del mercato rionale un salvadanaio per raccogliere fondi destinati al materiale per dipingere: vernici, pennelli, pennarelli. Per informazioni sul loro operato: pagina Facebook “Pittori Anonimi der Trullo”.

I Pittori hanno subito trovato una collaborazione con i Poeti der Trullo (www.poetidertrullo.it), un gruppo di sette ragazzi in anonimato che manifesta le proprie riflessioni ed emozioni sulla vita e sulla città attraverso una poesia calata nell’ambiente: scritta in dialetto romano.

E così questi due gruppi (sostenuti anche da Poesie Pop Corn, Solo e il Municipio XI) hanno dato vita ad un evento che ha richiamato molta attenzione anche fuori dal Trullo: il Festival Internazionale di Poesia di Strada.

Sviluppatosi il 16, 17 e 18 Ottobre attorno via del Trullo e al CSO Ricomincio dal Faro (di cui si possono trovare gli eventi sulla sua pagina Facebook “Cso Ricomincio dal Faro”), l’evento aveva come tema “i Viandanti” e organizzava attorno a questo argomento installazioni, reading poetici e laboratori.

Era inoltre possibile vedere all’opera famosi Street Artist, accompagnati da poeti provenienti da tutta Italia, realizzare nel quartiere murales monumentali basati sulle poesie e sulla libertà di espressione.

L’emblema di quest’unione tra poesia e pittura è un coloratissimo murales realizzato da Solo: la Nina. E’ una ragazza che piange la scomparsa dell’arte dal Trullo. Accanto alla figura, una poesia: “Poeti e pittori non so stati vinti,

so vivi’n colori, frammenti, dipinti.”

E’ la dedica con cui i poeti consolano la Nina: l’arte non sparirà.

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Un profilo di “sindaco delle periferie”

Elezioni di primavera: identikit di un sindaco.
Su Ignazio Marino cala il sipario. Dopo le sue dimissioni verrà nominato un commissario dal quale si pretenderanno miracoli, visto che la città è chiamata a grandi sfide. Ma i miracoli non sono di questo mondo e anche il più volenteroso tra i servitori dello Stato non potrà fare granché. Sarà già tanto se riuscirà a tenere a galla la barca per evitare che affondi nello sconforto generale. Una sana gestione dell’ordinaria amministrazione sarebbe grasso che cola. Bisognerà attendere l’esito delle prossime elezioni comunali per comprendere come i romani intendano risollevarsi dal degrado in cui sono precipitati. Le profferte non mancano.

Un minuto dopo dell’annuncio delle dimissioni di Marino è partito il toto-nomi. A destra come a sinistra. I big della politica hanno provveduto, ciascuno, a tracciare il profilo del candidato ideale. Lo ha fatto Renzi, lo ha fatto Berlusconi, lo hanno fatto tutti gli altri. Non vale solo per Roma. Sono in gioco poltrone delicatissime: Milano, Napoli, Bologna, Torino. Sarebbe consigliabile una riflessione a largo spettro che non tenesse conto delle contingenze determinate dai duelli quotidiani, ormai tutti mediatici, tra i litigiosi capi e capetti di partito. Sarebbe meglio interrogarsi non su chi ma sul come debba essere il sindaco di una grande città del terzo millennio.

Dopo il tramonto degli “uomini della provvidenza” va facendosi strada, nel teatrino della politica, l’idea di evocare una nuova divinità pagana: il manager. Quando la si smetterà di scambiare il governo di una comunità con la gestione di un’impresa non sarà mai troppo tardi. Se si è stati bravi capi d’azienda non è detto che si sarà dei buoni sindaci, pur avendone tutte le intenzioni. Non esiste alcuna formula matematica che legittimi questa equazione. La complessità dell’organizzazione comunale non è in alcun modo paragonabile a quella di una fabbrica. Nel primo caso bisogna tenere conto degli stati d’animo, del “sentire” della popolazione, oltre che dei numeri di bilancio e dei mezzi idonei ad assicurare il funzionamento della “macchina”; nel secondo si è chiamati a governare processi mediante una pianificazione preordinata. Nel primo caso si persegue il benessere di una comunità; nel secondo si guarda alla profittabilità dell’impresa.

I sindaci che verranno potranno riuscire nel compito soltanto se sapranno interpretare i bisogni profondi dei cittadini amministrati, armonizzandone gli interessi disomogenei, talvolta confliggenti, nell’ambito di un’idea di sviluppo coerente dell’insieme. Se partecipassimo al gioco de “l’uomo giusto al posto giusto”, opteremmo per un profilo di “sindaco delle periferie” perché quei pezzi di territorio, stracolmi d’umanità separata, saranno il vero banco di prova per ogni aspirante al buon governo. Gli agglomerati che cingono i centri storici, nati con la rivoluzione industriale, sono qualcosa di più di luoghi fisici degradati, di quartieri dormitorio, di residenzialità massificata: sono luoghi dell’anima. Esiste una dimensione periferica dell’esistenza individuale e collettiva che si allontana, inesorabilmente, dai ritmi pulsanti del nucleo vitale della grande città. Gli agglomerati dell’extra moenia non godono di forza propria, ma sopravvivono per effetto della capacità di attrazione gravitazionale dei centri intorno ai quali ruotano. Quanto più è avvertita la forza centripeta dei nuclei, tanto migliore è la qualità di vita dei suoi corpi satellitari. La città che smette di attrarre abbandona le periferie al proprio destino. E gli effetti di questa perdita si trasformano nei disagi, nei disservizi, nelle inefficienze e nelle tristi storie di ordinaria miseria di cui la cronaca ci inonda.

Bisogna pur dirselo: il buio che avvolge le periferie italiane è il frutto avvelenato di quella insensata fuga dell’idea di “progresso” dallo spirito coinvolgente e partecipato della “civitas”. Un sindaco questo lo deve sapere.

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Così la burocrazia ha frenato il piano del governo sulle periferie

Equazioni, codicilli e bilancini.
Come possono, i Comuni, chiedere i fondi del progetto -sponsorizzato da Renzo Piano – contro il degrado delle periferie? Semplicissimo: basta risolvere formule da astrofisici, passare attraverso un comitato di valutazione costruito con criteri da equilibristi e sperare di finire nella «griglia» giusta.
Il ministro dei Beni culturali Dario Franceschini l’aveva salutata come «una svolta attesa da anni». E come non essere d’accordo con lui? Per la prima volta un governo italiano aveva deciso di investire qualche soldino nel «rammendo» delle periferie, secondo la definizione dell’architetto e senatore a vita Renzo Piano, che era stato il motore dell’iniziativa. Duecento milioni spalmati in tre anni non erano granché, ma almeno si poteva cominciare a ragionare sui massacri umani e ambientali che certi piani regolatori sconsiderati, alleati dell’abusivismo, hanno perpetrato in tutte le città italiane dal dopoguerra, trasformando il Paese della bellezza in un luogo dell’Orrore. Ma come sempre accade in Italia, le buone idee devono fare i conti con la burocrazia, capace di complicare la vita anche alle cose più elementari pur di giustificare la propria esistenza in vita. Ed eccone un fulgido esempio.
COMITATO DA MANUALE (CENCELLI)
La norma che aveva stanziato i soldi, approvata a dicembre dello scorso anno, già poteva far capire la piega che avrebbe preso la cosa. La valutazione dei progetti, infatti, sarebbe stata affidata a un comitato di tredici persone: scelti con la logica apparente di non far torto a nessuno. Due rappresentanti del Dipartimento Pari opportunità di palazzo Chigi, due del ministero delle Infrastrutture, due del Tesoro, due dei Beni culturali, uno degli Affari regionali, uno del Cipe, uno dell’Agenzia del Demanio. E potevano mancare un rappresentante della Conferenza delle regioni e uno dell’Associazione dei comuni, tanto per vigilare che ci fosse parità di trattamento fra le 20 Regioni e gli ottomila campanili? Già. Anche se la vera sorpresa è stata la decisione di affidare la presidenza di un comitato che deve valutare i progetti per le periferie urbane alle Pari opportunità.
LE EQUAZIONI PER STABILIRE IL DEGRADO
Il bello, però, è nel decreto della presidenza del Consiglio che dovrebbe far partire l’operazione, appena messo a punto. Per farlo sono stati necessari ben nove mesi. E il parto ha prodotto un autentico capolavoro: il bando per aggiudicarsi i primi milioni previsti per il prossimo anno. Pochi soldi, come detto. Anche se era difficile aspettarsi briciole così piccole: il limite massimo finanziabile per ciascun progetto è di due milioni. Ma è il modo in cui dovrebbero essere distribuite che lascia letteralmente sbalorditi. I soldi vanno alle aree urbane degradate? Bene, si tratta soltanto di stabilire quando un’area è degradata. E come si fa? Ma con una formula matematica, ovvio. Serve a ricavare un indice che se risulta pari o superiore a uno, allora è la conferma: il degrado sociale esiste. Eccola:

IDS ZFU=0,40X(DIS(i)-DISNAZ)+0,30X(OCCNAZ-OCC(i))+0,15X(GIOV(i)-GIOVNAZ)+0,15X(SCOLNAZ –SCOL(i))

Dove per DIS, OCC, GIOV e SCOL si intendono rispettivamente i tassi di disoccupazione, occupazione, concentrazione giovanile e scolarizzazione.
E il degrado ambientale? Niente paura, c’è una formula anche per calcolare l’indice di disagio edilizio: IDE= ((Erp+ERm)/Tot ER)/0,168 Dove ERp sono gli edifici in pessimo stato, ERm sono quelli mediocri e Tot ER sono tutti.
E ALLA FINE, UNA BELLA GRIGLIA
Verificato che anche questo indice sia uguale o superiore a uno, è fatta. Si può partecipare al bando, e per non incorrere in errori o favoritismi, il comitato ha a disposizione per valutare una griglia di punteggi per ogni aspetto del progetto nonché un’altra serie di formule matematiche per stabilire se l’intervento è tempestivo, adatto effettivamente a migliorare il decoro urbano e capace di attirare finanziamenti. Ma queste ve le risparmiamo. I commenti di Renzo Piano si possono solo immaginare.

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Il buco nero delle periferie

In 40 anni dieci piani nazionali (fallimentari): almeno tre miliardi spesi a vuoto.
Da Catania a Milano, viaggio nelle periferie italiane
È dagli anni ’70 che si prova ad aggredire il degrado urbano, di recuperare le periferie, di strutturare modelli di rigenerazione urbana. Con ingenti risorse spese. E scarsi risultati ottenuti. Dal 1978, con il lancio dei primi piani di recupero urbano fino all’ultimo piano di lotta al degrado sociale e culturale delle periferie, il cui bando sta per uscire in «Gazzetta», abbiamo visto almeno dieci piani nazionali che avevano come obiettivo la riqualificazione urbana. Eppure le periferie continuano a esistere, anzi crescono con una velocità che supera ogni capacità di gestione, programmazione e spesa. A Milano come a Roma, a Palermo come a Padova, la decrescita economica e il flusso migratorio non fa che acutizzare un problema che quasi 40 anni di tentativi non hanno risolto.

Il primo tentativo, fatto con i piani di recupero lanciati nel 1978 (con la legge 457 sull’edilizia residenziale pubblica) di iniziativa pubblica o privata, ha subito evidenziato due limiti che si è cercato di superare nei successivi strumenti complessi: cioè la impossibilità di fare varianti al piano regolatore e la distinzione netta tra operatore pubblico e privato.

I programmi integrati di intervento – previsti dalla legge 179/2002 per «riqualificare il tessuto urbanistico, edilizio e ambientale» – rappresentano il primo vero passo avanti per l’intervento su scala urbana, perché aprono all’integrazione di diverse funzioni, residenziali e non residenziali, all’interno del progetto e anche all’integrazione di risorse pubbliche e private. Ma si infrangono nelle aule dei tribunali amministrativi per via delle frequenti impugnazioni (almeno i programmi più importanti).

E saltiamo subito ai Pru, i Piani di recupero urbano del 1993 (introdotti dal decreto legge 398). È il vero inizio della stagione dei cosiddetti programmi complessi, con la regia saldamente incardinata nel Cer, il Comitato per l’edilizia residenziale dell’allora ministero dei Lavori pubblici. Furono avviati con un grande bando nazionale predisposto nel 1994. E sancivano il “matrimonio” tra pubblico e privato, con il concorso di risorse miste da far convergere su un vasto progetto. Ma erano anche molto complicati e – soprattutto, come si è capito ben presto – richiedevano una forte mano pubblica, anche a livello territoriale e locale. Si è cercato di semplificare le procedure attraverso il ricorso alla conferenza di servizi e all’accordo di programma (strumenti nel frattempo creati nel 1990) per superare le difformità rispetto ai piani regolatori comunali.

La Finanziaria del 1997 regala i Contratti di quartiere, che hanno visto anche una seconda edizione nel 2000. Ma rappresentano un passo indietro rispetto ai piani precedenti perché un possono introdurre varianti urbanistiche e il finanziamento è vincolato solo a certe tipologie di intervento. Una novità interessante è l’apertura alle associazioni no profit sul territorio, attraverso gli enti locali, per riqualificare il territorio. I contratti di quartiere fanno subito emergere dei limiti nell’attuazione, che si manifesteranno anche nei successivi piani. Hanno coinvolto in tutto su 195 comuni per quasi 1,3 miliardi di fondi pubblici stanziati, di cui 824 statali. Ebbene, in base all’ultimo aggiornamento disponibile (maggio 2014) sono stati erogati quasi 487,3 milioni. La corte dei conti ne ha stigmatizzato la gestione «insoddisfacente, non solo perché esso è stato tardivo, ma anche perché parziale, in conseguenza di una carente trasmissione di dati al Ministero delle infrastrutture in particolare da parte di alcune Regioni». Inoltre i magistrati lamentano un «assenza di un monitoraggio concomitante con la gestione ha precluso possibili interventi correttivi, sostitutivi, di revoca o semplicemente di sollecito dell’esecuzione delle opere». Conclusione? «La conoscenza parziale dei risultati conseguiti, solo in parte motivata dal mancato completamento degli interventi, è risultata non adeguata a consentire una valutazione dell’efficacia ed efficienza della gestione».

Nuovo tentativo con i Prusst (Programmi di riqualificazione urbana e sviluppo sostenibile sul territorio), avviati nel 1998 con il decreto del ministero dei Lavori pubblici n.1169. Il target si alza perché il piano punta a realizzare infrastrutture, riqualificare ampie aree industriali, vaste aree periferiche ma anche del centro città. Nella sua filosofia, è un primo vero “piano città” di ampio respiro. Ma anche i Prusst danno lavoro ai magistrati della Corte dei Conti. Nel 2006 arriva la “pagella”: anche in questo caso, i risultati sono scarsi ed emergono limiti evidenti. «I risultati ottenuti dagli organismi proponenti non possono, quindi, ritenersi soddisfacenti, nonostante la massiccia partecipazione e il diffuso interesse all’utilizzo di questo strumento», si legge nella valutazione della Corte dei Conti. Complessivamente i Prusst prevedevano uno stanziamento di 339,5 milioni ma, dall’analisi condotta su un campione monitorato dalla Corte dei Conti (che vale 44,8 milioni) emerge uan spesa di solo il 22% rispetto al totale finanziato.
Dall’Europa, nel 1994 arrivano i piani Urban (con una seconda edizione nel 2000), dedicati ai contesti fortemente degradati nelle strutture e con grave disagio sociale. Ne hanno beneficiato molte città del Mezzogiorno, che hanno passato una selezione dei un bando europeo.

Visti in prospettiva, tutti questi piani rivelano un grosso limite: l’estrema lunghezza dei tempi attuativi. Cui corrisponde l’estrema incertezza dei finanziamenti. Un cocktail che ha un unico effetto certo: quello di far evaporare i soggetti privati interessati al finanziamento e alla gestione. A questo si aggiunge la sperimentata inadeguatezza della macchina amministrativa. Del tutto trascurata, poi, la fase del monitoraggio.

Dopo questi grandi piani c’è una parabola discendente, anche perché nel frattempo il vento cambia. Dal 2008 la crisi finanziaria comincia in Italia a far sentire i suoi effetti sull’economia reale. I valori immobiliari cominciano a scendere e così pure le risorse statali e regionali da investire sul territorio. I privati invece si concentrano – comprensibilmente – su progetti di elevato valore immobiliare, localizzati non certo nelle periferie degradate.

La “legge obiettivo delle città” che il governo Berlusconi ha annunciato nel 2004 non vedrà mai la luce. Nel giugno del 1998 nasce un piano per il social housing che resta inattuato in larga parte. Anche il successivo piano proposto dall’ex ministro Maurizio Lupi resta ancora inattuato nella sua parte più incisiva: la riqualificazione del patrimonio di edilizia residenziale per quasi 500 milioni di euro.

L’ultimo piano dedicato alle città, è quello omonimo lanciato dal governo Monti nel 2012. Grandi aspettative alimentate dal governo che ha parlato di 4,4 miliardi di risorse per riqualificare le città. Piovono una montagna di candidature (457 proposte). Ma la montagna partorisce il topolino: il tutto si riduce – dopo una incredibile dilazione di tempi (in larga parte dovuta a un inedito percorso attuativo per i progetti) – a una manciata di opere pubbliche senza alcun filo conduttore.

Oggi nuovo punto a capo. Si torna a parlare di periferie. I requisiti molto ampi dei progetti lasciano prevedere un’altra pioggia di progetti provenienti da città di ogni ordine e grado. Il tutto per conquistare una somma compresa tra 500mila euro e 2 milioni.

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Bando sulle periferie

IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI SULLA PROPOSTA DEL
MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI DI CONCERTO CON
IL MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
E CON
IL MINISTRO DEI BENI E DELLE ATTIVITA’ CULTURALI E DEL
TURISMO
VISTA la legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)”;
VISTO, in particolare, l’articolo 1, comma 431, della citata legge n. 190 del 2014, che ha previsto che “Al fine della predisposizione del Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate, di seguito denominato «Piano», i comuni elaborano progetti di riqualificazione costituiti da un insieme coordinato di interventi diretti alla riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale, nonché al miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale ed ambientale. Entro il 30 novembre 2015, i comuni interessati trasmettono i progetti di cui al precedente periodo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, secondo le modalità e la procedura stabilite con apposito bando, approvato con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze e con il Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo, previa intesa in sede di Conferenza unificata”;
VISTO, altresì, l’articolo 1, comma 432, della predetta legge n. 190 del 2014, che ha stabilito che “Con il decreto di cui al comma 431 sono definite, in particolare:
a) la costituzione e il funzionamento, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, di un Comitato per la valutazione dei progetti di riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate, di seguito denominato «Comitato», composto da due rappresentanti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di cui uno con funzioni di presidente, del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, del Ministero dell’economia e delle finanze e del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, nonché da un rappresentante della Conferenza delle regioni e delle province autonome, dei Dipartimenti della Presidenza del Consiglio dei Ministri per gli affari regionali, le autonomie e lo sport e per la programmazione e il coordinamento della politica economica,
dell’Agenzia del demanio e dell’Associazione nazionale dei comuni italiani. Ai componenti del Comitato non è corrisposto alcun emolumento, indennità o rimborso di spese; il Comitato opera avvalendosi del supporto tecnico delle competenti strutture del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
b) la documentazione che i comuni interessati debbono allegare ai progetti, comprendente, tra l’altro, una relazione degli interventi corredata da tavole illustrative ed elaborati tecnico- economici e dal cronoprogramma attuativo degli stessi;
c) la procedura per la presentazione dei progetti;
d) i criteri di valutazione dei progetti da parte del Comitato, tra i quali: 1) la riduzione di fenomeni di marginalizzazione e degrado sociale;
2) il miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale ed ambientale, anche mediante interventi di ristrutturazione edilizia, con particolare riferimento allo sviluppo dei servizi sociali ed educativi e alla promozione delle attività culturali, didattiche e sportive;
3) la tempestiva esecutività degli interventi;
4) la capacità di coinvolgimento di soggetti e finanziamenti pubblici e privati e di attivazione di un effetto moltiplicatore del finanziamento pubblico nei confronti degli investimenti privati.”;
VISTO che, ai sensi del predetto articolo 1, comma 433, della medesima legge n. 190 del 2014:
a) i progetti da inserire nel Piano sono selezionati sulla base dell’istruttoria svolta dal Comitato, in coerenza con i criteri di cui al comma 432, con indicazioni di priorità;
b) i progetti da inserire nel Piano, ai fini della stipulazione di convenzioni o accordi di programma con i comuni promotori dei progetti medesimi, sono individuati con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri;
c) tali convenzioni o accordi definiscono i soggetti partecipanti alla realizzazione dei progetti, le risorse finanziarie, ivi incluse quelle a valere sul Fondo di cui al comma 434 e i tempi di attuazione dei progetti medesimi, nonché i criteri per la revoca dei finanziamenti in caso di inerzia realizzativa;
d) i soggetti che sottoscrivono le convenzioni o gli accordi di programma si impegnano a fornire alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti i dati e le informazioni necessarie all’espletamento della attività di monitoraggio degli interventi;
e) l’insieme delle convenzioni e degli accordi stipulati costituisce il Piano;
VISTO che l’articolo 1, comma 434, della citata legge n.190 del 2014, stabilisce che per l’attuazione degli interventi di cui ai commi da 431 a 433, a decorrere dall’esercizio finanziario 2015 e fino al 31 dicembre 2017, è istituito, nello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze, un fondo denominato ”Somme da trasferire alla Presidenza del Consiglio dei Ministri per la costituzione del Fondo per l’attuazione del Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate” e che, a tal fine, è autorizzata la spesa di 50 milioni di euro per l’anno 2015 e di 75 milioni di euro per ciascuno degli anni 2016 e 2017;
CONSIDERATO che, a tali fini, è stato istituito nel centro di responsabilità “8 – Pari opportunità” del bilancio della Presidenza del Consiglio dei Ministri un apposito capitolo di spesa denominato “Fondo per l’attuazione del Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate”;
CONSIDERATA, pertanto, la necessità di dare attuazione ai predetti commi da 431 a 434 del richiamato articolo 1 della citata legge n. 190 del 2014;
VISTA la nota n. _____ del _____ con la quale il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ha trasmesso la relativa proposta;
ACQUISITA l’intesa in sede di Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, nella seduta del ________;
VISTO il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 23 aprile 2015, con il quale al Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, prof. Claudio De Vincenti, è stata delegata la firma di decreti, atti e provvedimenti di competenza del Presidente del Consiglio dei Ministri;
DECRETA: Art. 1
Approvazione del bando
1. Ai sensi dell’articolo 1, comma 431, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, è approvato il bando allegato, con il quale sono definite: le modalità e la procedura di presentazione dei progetti, la documentazione che i comuni interessati debbono allegare ai progetti, i criteri di selezione dei progetti da parte del Comitato.
2. Il bando allegato costituisce parte integrante del presente decreto.
Art. 2
Istituzione e funzionamento del Comitato
1. Ai sensi dell’articolo 1, comma 432, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri è istituito un Comitato per la valutazione dei progetti di riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate, di cui ai commi da 431 a 434 della citata legge n. 190 del 2014.
2.
Il Comitato è composto da:
a) due rappresentanti del Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei Ministri, di cui uno con funzioni di presidente. In caso di impedimento o assenza del presidente, le relative funzioni sono svolte dall’altro rappresentante della Presidenza del Consiglio dei Ministri;
b) due rappresentanti del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti;
c) due rappresentanti del Ministero dell’economia e delle finanze;
d) due rappresentanti del Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo;
e) un rappresentante della Conferenza delle regioni e delle province autonome;
f) un rappresentante del Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri per gli affari regionali, le autonomie e lo sport;
g) un rappresentante del Dipartimento della Presidenza del Consiglio dei Ministri per la programmazione e il coordinamento della politica economica;
h) un rappresentante dell’Agenzia del demanio;
i) un rappresentante dell’Associazione nazionale dei comuni italiani.
3. La nomina dei componenti del Comitato avviene dopo il termine ultimo di presentazione dei progetti. Per ciascuno dei componenti effettivi può essere designato un componente supplente. Si

applicano le speciali disposizioni in materia di incompatibilità e inconferibilità degli incarichi.
4. Il Comitato ha sede presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le pari
opportunità.
5. Il Comitato viene convocato dal suo presidente e opera con la presenza di tutti i suoi componenti. Il presidente convoca la prima seduta entro trenta giorni dalla scadenza del termine per la presentazione delle domande. Nella prima seduta sono definite le modalità operative di funzionamento del Comitato stesso, nonché gli ulteriori criteri di valutazione dei progetti.
6. Le decisioni sulle valutazioni sono espresse, di regola, all’unanimità. Ove questa non sia raggiunta, l’assenso è espresso dalla maggioranza dei membri.
7. Il Comitato dura in carica fino al completo espletamento della procedura di valutazione dei progetti.
8. Ai fini delle attività connesse alla valutazione dei progetti, il Comitato si avvale del supporto di una segreteria tecnica, che opera presso il Dipartimento per le pari opportunità, composta da personale della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, in un numero di componenti non superiore a dieci unità, senza ricorrere a modalità di distacco o comando comunque denominate. Il personale del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti mantiene la dipendenza funzionale e il trattamento economico complessivo percepito dall’Amministrazione di appartenenza.
9. I componenti del Comitato e della segreteria tecnica sono individuati con decreto del Segretario generale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, su designazione delle amministrazioni o degli enti interessati.
10. Per attività di supporto e di assistenza gestionale alle attività successive alla valutazione dei progetti, il Dipartimento per le pari opportunità può stipulare convenzioni ed accordi con enti pubblici e privati, nell’ambito delle disponibilità finanziarie esistenti.
11. Ai componenti del Comitato e della segreteria tecnica non è corrisposto alcun emolumento, indennità o rimborso di spese.
Art. 3
Modalità di individuazione dei progetti

1. Con uno o più decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri sono individuati i progetti ai fini della stipulazione di convenzioni o accordi di programma con i soggetti promotori dei progetti medesimi.
2. Tali convenzioni o accordi di programma definiscono i soggetti partecipanti alla realizzazione dei progetti, l’ammontare complessivo delle risorse finanziarie, ivi incluse quelle a valere sul Fondo di cui all’articolo 1, comma 434, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, e i tempi di attuazione dei progetti medesimi, nonché i criteri e le modalità per la revoca dei finanziamenti in caso di inerzia realizzativa.
3. Con le medesime convenzioni o accordi di programma vengono definite le modalità necessarie all’espletamento della attività di monitoraggio degli interventi, ai sensi dell’articolo 1, comma 433, della legge n. 190 del 2014
4. La mancata stipula delle convenzioni o degli accordi di programma, per cause imputabili ai soggetti promotori dei progetti, comporta l’esclusione del progetto e l’individuazione di altro progetto beneficiario secondo il punteggio ottenuto e compatibilmente con le risorse disponibili.
5. Ai sensi dell’articolo 1, comma 433 della citata legge n. 190 del 2014, l’insieme delle convenzioni o degli accordi di programma stipulati costituisce il Piano.
Art. 4
Finanziabilità degli interventi
1. Le convenzioni o gli accordi di programma, contenenti gli interventi, costituenti il Piano sono finanziati, in ordine di punteggio decrescente ottenuto, fino al limite di capienza annuale delle risorse finanziarie disponibili per ciascun esercizio finanziario 2015, 2016 e 2017. Ai fini del computo delle risorse disponibili per ciascun anno si tiene conto delle risorse finanziarie indicate nel cronoprogramma per ciascun anno, al netto delle risorse provenienti da enti pubblici o privati, e nei limiti delle somme indicate per ciascun anno nel quadro economico, entrambi allegati al progetto. Non sono ammesse richieste di finanziamento aggiuntive.
2. Le convenzioni e gli accordi di programma determinano le modalità e gli adempimenti amministrativi necessari per l’erogazione delle singole quote di finanziamento del progetto, in coerenza con il quadro economico presentato. In ogni caso, non possono essere erogate quote di finanziamento prima dell’avvio dell’esecuzione degli interventi o dell’attivazione dei servizi.
Il presente decreto e l’allegato bando sono sottoposti alla registrazione dei competenti organi di controllo e sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale della Repubblica italiana.
Roma, ………………..
IL SOTTOSEGRETARIO DI STATO
ALLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI
IL MINISTRO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI
IL MINISTRO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE
IL MINISTRO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO




Cronache di Frontiera su Sky

La docu-serie che racconta le periferie italiane in presa diretta.
Ci sono frontiere che non si trovano ai confini tra gli stati. Sono nelle nostre città, in quelle periferie dove convivono culture e povertà diverse, dove si mescolano storie di immigrati, di nuovi e vecchi italiani. Sky TG24HD ha scelto di raccontare questa realtà che vive sottotraccia, in cui tradizioni, credenze e religioni differenti coesistono con difficoltà, con “Cronache di frontiera”, un documento con un linguaggio nuovo, in onda in quattro puntate dal 30 settembre tutti i mercoledì alle 21.10 su Sky TG24HD (canali 100 e 500 di Sky) e in chiaro, visibile a tutti, sul Canale 27 del digitale terrestre. “Cronache di Frontiera” sarà disponibile anche su Sky On Demand.

Basato sul format originale inglese Benefits Street e prodotto in Italia da FremantleMedia, “Cronache di frontiera” è una narrazione in presa diretta, senza alcuna intermediazione giornalistica o documentaristica, della vita in una periferia romana, particolare per le sue peculiarità, ma in realtà uguale per tensioni sociali e paure a quella di molte altre città italiane. Una fotografia, che mostra le mille sfaccettature e i sentimenti contrastanti di chi si trova a vivere e affrontare realtà estreme, spesso al limite della legalità, dove non esistono buoni o cattivi.

Persone dal futuro incerto, del quale non conoscono ancora i contorni. E da qui nascono le paure e la rabbia, ma anche la speranza e la
voglia di reinventarsi un’esistenza in un paese sconosciuto, un desiderio di riscatto che entra in contrasto con chi si vede sottratte le proprie poche sicurezze.

“In “Cronache di Frontiera” – spiega Andrea Scrosati, Executive Vice President di Sky Italia, responsabile di intrattenimento, Cinema, News e Canali Partner – il racconto della realtà, che è l’essenza e la missione più pura del giornalismo, si fonde con un linguaggio visivo innovativo, quasi cinematografico, costruendo il solco di una nuova narrazione, capace di coinvolgere anche quella generazione che cerca
un’informazione distante anni luce dai salotti e dai dibattiti, che parli la lingua delle immagini e della realtà che ci circonda”.

La docu-serie è stata girata all’interno del VI Municipio, che comprende un insieme di quartieri (Tor Bella Monaca, Torre Angela, Torre Maura, Giardinetti, Torrespaccata), i cui nomi riempiono le cronache dei giornali per l’elevato numero di reati commessi. Una zona in cui tutti i giorni si combatte per la sopravvivenza, tra case popolari occupate abusivamente e la vicinanza di alcuni insediamenti Rom.

Un’area vasta e popolosa, abitata per un terzo da extracomunitari: 74 etnie diverse costrette a una convivenza non semplice. Un luogo in cui ogni giorno si vive uno scontro di culture e religioni, ma anche dove è possibile trovare la solidarietà tra la gente bisognosa. C’è chi, come Regina, cerca di sfamare la sua famiglia numerosa con ogni mezzo lecito, e chi, come Jonas, vive da anni occupando un locale pubblico e lotta per non essere cacciato. O ancora chi, come Agostino, combatte contro una concorrenza spietata per non chiudere la propria attività. E ci sono le nuove generazioni, con le storie di Tangir, Memhet e Mattia, alla ricerca dell’integrazione e di un futuro migliore.

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Illuminiamo le periferie con la Cultura

In questa calda estate a Roma in modo del tutto spontaneo delle associazioni come Artenova, diretta da Gino Ariuso, hanno organizzato I VIAGGI DELL’ARTE, un’offerta di teatro, musica e più in generale di spettacolo dal vivo, composita e policentrica per una fruizione efficace nel territorio dei Municipi XI e XIV della Capitale. Altre due associazione TAMTAM e Spinaceto Cultura, hanno organizzato a Spinaceto nel territorio del IX Municipio degli incontri culturali sul Film d’autore di Alfred Hichocok.

Esperienze diverse non coordinate che hanno visto un pubblico periferico attento e partecipato. Segnaliamo la disponibilità di Giorgio Albertazzi che alla Magliana e alla Torresina Municipi XI e XIV partecipa invertendo il percorso culturale. Un maestro dell’Arte Giorgio Albertazzi va in periferia ad incontrare le persone con un messaggio di cultura.

Inoltre portare la musica classica con l’ esibizione di due maestri “ Duo Mephisto” con pianoforte a Coda con musiche ritenute erroneamente difficili al pubblico più vasto e popolare altra dimostrazione di domanda di cultura.

Altra esperienza, fatta all’estrema periferia di Roma, Spinaceto Municipio IX, la proiezione di due film muti “ Il giardino del piacere” e il “Pensionante” del maestro del cinema Alfred Hitchcock con una partecipazione molto numerosa rispetto ai film più classici sonori del maestro come “La finestra sul Cortile” e Psyco”.

Esperienze diverse, non coordinate sui territori dei Municipi IX, XI, XIV, alcune con il contributo dell’Estate Romana, altre in modo spontaneo e sperimentale. Il territorio metropolitano di Roma è 14 volte quello della città di Milano, ma queste esperienze ci raccontano centralità diverse della città Eterna, con un desiderio di cultura che se organizzato può portare sviluppo, occupazione e riqualificazione del territorio.

Corviale, Trullo – Montecucco, Magliana, Spinaceto, Torresina, luoghi che per molti non ne conoscono l’esistenza, e/o diventano noti per episodi di criminalità, ma con una domanda di cultura da parte delle persone che vi abitano. Un esperienza, portata in modo sperimentale e senza organizzazione, ha dimostrato che con la “cultura si mangia” intellettualmente e materialmente.

Illuminare le periferie con la cultura, è un modo semplice ed efficace che può avere molte declinazioni, usando anche la tecnologia digitale, con strumenti messi a disposizione dei vari servizi pubblici per la qualificazione dei territori e per l’integrazione sociale tra le diverse culture.

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Piano degli interventi per il Giubileo – Deliberazione n. 274 della Giunta Capitolina

Delibera Giubileo

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Link: Deliberazione n. 274

 




Comunicato Stampa – Associazioni romane per il Giubileo della misericordia – Una ripresa positiva delle relazioni tra le parti sociali e l’Amministrazione di Roma Capitale

Chiarezza di intenti espressa dalla giunta di Roma Capitale, guidata dal sindaco Marino, che ha presentato il piano di interventi per il Giubileo alle parti sociali – organizzazioni datoriali e rappresentanze sindacali.

Alla riunione erano presenti: il vicesindaco Causi, l’assessore ai Lavori Pubblici Pucci, l’assessore alla Legalità Sabella, l’assessore alle Politiche Sociali Danese, l’assessore all’Ambiente Marino, l’assessore alle Attività Produttive Leonori.

Il programma non prevede grandi opere ma un’azione coerente di manutenzione straordinaria e di riassetto che riguarderà essenzialmente tre settori:

a) Lavori Pubblici: sistemazione e ampliamento dei percorsi pedonali tra le basiliche e i luoghi giubilari

b) Decoro e  Verde: messa in cura delle ville, dei percorsi giubilari e della via Franchigena

c) Trasporti e Viabilità: acquisto in perfezionamento di 700 nuovi bus di cui subito 200, e un accordo con le F.S. per la riattivazione della linea S.Pietro-Vigna Clara in disuso con la creazione di un nuova linea in ferro.

Complessivamente sono previsti 131 progetti da attivare nel 2015, le risorse economiche in campo subito potranno essere costituite da un residuo di spesa  del bilancio 2015 di 60/70 milioni e da maggiori risorse per 50 milioni provenienti dall’accordo con il MEF tramite l’allentamento del patto di stabilità.

Il sindaco Marino inoltre conferma che il 27 agosto ci sarà un Consiglio dei ministri dedicato a Roma Capitale in cui saranno esaminati diversi temi tra cui anche una dotazione di risorse più complessiva per l’evento giubilare, una eventuale deroga  per lo svolgimento delle gare di appalto, un’azione di coordinamento con l’ANAC tramite l’attivazione di vigilanza su sei aree di intervento.

Bene l’esordio del vicesindaco Causi, degli assessori Sabella e Pucci che hanno chiarito gli aspetti finanziari, procedurali e operativi dei principali interventi (per gli approfondimenti si rimanda alle testate corviale.comromainpiazza.it).

Eugenio De Crescenzo

Eugenio De Crescenzo, Agci Lazio

Oltre a esprimere soddisfazione per una ripresa positiva delle relazioni tra le parti sociali e l’Amministrazione di Roma Capitale e apprezzare l’intento di attivare una manutenzione straordinaria alla Città in occasione di un evento di tale importanza, Eugenio De Crescenzo (Agci Lazio, Associazione generale cooperative Italiane), con il suo intervento, si è fatto portavoce del Manifesto dei cittadini e Associazionismo per il Giubileo-prendiamoci cura della nostra Città, affermando che il Giubileo non solo è rivolto ai pellegrini ma, è necessario intenderlo anche rivolto ai romani, ai cittadini.

Per questa ragione ventisette tra le maggiori Associazioni scendono in campo desiderose di metterci la faccia, dando risposte alle necessità, ai bisogni, al disagio sociale a una migliore qualità della vita, specialmente nelle periferie, attivando processi di “rigenerazione urbana”. La presenza di tanti visitatori inciderà sulla qualità e la quantità dei servizi pubblici – trasporti, sanità, e rifiuti per citarne alcuni – che già sono in grande sofferenza. Queste presenze, se non gestite in uno spirito di condivisione con i residenti romani, rischiano di entrare in rotta di collisione con una comunità cittadina esasperata.

Roma da sempre città dell’accoglienza e dell’ospitalità non può permetterselo e non merita questo. Dobbiamo uscire da una situazione difensiva, subalterna e di rassegnazione: è tempo di ricostruire un tessuto partecipativo e l’immagine della capitale d’Italia. Questa è un’occasione che non ci può scivolare addosso: la nuova stagione etica e morale si coniuga edificando mattone su mattone un duraturo “patto di comunità”.

Su questo tema abbiamo proposte e progetti fattibili inseriti in una visione di città da trasformare e rivendicheremo una partecipazione diretta del mondo dell’associazionismo e delle decine di migliaia di cittadini che rappresentano: è necessario un serio e partecipato piano per Roma e i romani metropolitani che incontrano il Giubileo e hanno necessità di sostantivi come consapevolezza, responsabilizzazione, programmazione, collaborazione tra tutti i soggetti in campo, evitando di rimanere nei propri giardini pensando al proprio piccolo o grande interesse.

Noi ci siamo, e non solo per i grandi appuntamenti. Siamo a fianco del disagio, dell’emarginazione, con le nostre proposte culturali, contro la corruzione e il degrado, a difesa dei cittadini-utenti, degli ultimi, dei deboli, di chi afferma la tutela dei diritti, di chi ama la propria città e non accetta il degrado culturale e l’abbandono.

Associazioni per il Giubileo

seguono documenti collegati

Delibera n° 274 della Giunta Capitolina, approvazione del “Piano degli interventi per il Giubileo” 

ACLI, ARCI, AGCI, ASSOUTENTI ROMA E LAZIO TRASPORTI, AZIONE CIVILE, CARTEINREGOLA, CENTRO ASTALLI, CESV, CILAP, CITTADINANZA ATTIVA, CALMA, COMUNITÀ VII MUNICIPIO, CILD, CORVIALE DOMANI, CASA DIRITTI SOCIALI, FORUM TERZO SETTORE LAZIO, FEDIM, FISH, MODEM, RYDER, UNIAT, UISP, UPTER, ZERO WASTE LAZIO, KONSUMER ITALIA

COMUNICATO STAMPA
Roma. Un gruppo di oltre 27 associazioni e coordinamenti del non profit, dopo aver pubblicato il manifesto “Ci prendiamo cura della nostra città” oggi ha risposto all’appello di Alessandro Gassman, confermando la propria presenza a fianco delle migliaia di cittadini che si sono mobilitati, e ha presentato la proprie proposte/rischieste per un Giubileo che parli ai cittadini di Roma.

Ci prendiamo cura della nostra città

Ci prendiamo cura della nostra cittàManifesto dei cittadini e dell’associazionismo per il Giubileo…

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Un Giubileo che parli ai cittadini romani

Un Giubileo che parli ai cittadini romaniIl nostro obiettivo è recuperare un ritardo nei confronti della comunità cittadina, recuperando un’inspiegabile assenza che la vedrà coinvolta direttamente. Noi ci siamo. Come ogni giorno insieme a tante altre…

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Ramazzatori di tutta Roma uniamoci!

Ramazzatori di tutta Roma uniamoci!Lettera aperta ad Alessandro Gassman, Massimo Wertmuller, Luca Barbarossa, Gigi Proietti, Carlo Verdone e ai tanti artisti e intellettuali e operatori dell’informazione che hanno lanciato l’appello per il risveglio civico…

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