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Il disprezzo verso le periferie, da Nuova Ostia al Front National

Per il ponte dell’Immacolata Casa Pound ha organizzato una festa di quartiere a Nuova Ostia, una delle zone più marginali e sconosciute della capitale. Nelle foto pubblicate in internet si vedono bambini sorridenti che fanno ginnastica e addobbano alberi di Natale, e sullo sfondo uno striscione dai caratteri neogotici: “Nuova Ostia rinasce dai suoi figli”. Nuova Ostia, nata all’inizio degli anni Settanta, era stato un baluardo del partito comunista a Roma: la maggior parte dei suoi abitanti ottennero le case con un’immensa occupazione organizzata dalla sezione locale nel 1972. Dal quartiere nacquero un’infinità di iniziative culturali e sociali, sempre autogestite, che andarono avanti fino ai primi anni Novanta, in assenza di qualunque appoggio istituzionale, di fatto “grazie” a quest’assenza.

Si dà spesso per scontato che l’ascesa delle destre in Europa abbia a che vedere con l’abbandono istituzionale delle periferie. Il trionfo del Front National in Francia è visto come il risultato dell’“abbandono delle classi popolari, del proletariato operaio, delle banlieue metropolitane da parte della sinistra socialista” (Alberto Burgio su il Manifesto, 8/12/2015); l’abbandono viene costantemente chiamato in causa per spiegare sia la radicalizzazione islamista che l’islamofobia; invariabilmente qualcuno risponde: quale abbandono, le periferie francesi sono piene di scuole e servizi, le rivolte distruggevano proprio queste strutture. Molti, osservando le conseguenze disastrose della deriva a destra in Francia, non esitano a tracciare apocalittici paralleli con l’Italia, e suggeriscono di rimediare “rammendando” le periferie, per riprendere l’infelice metafora di Renzo Piano.

Ma l’idea dell’abbandono è fuorviante. Qualche mese fa il giornalista francese Jack Dion ha pubblicato un librino in cui collega l’ascesa del FN all’atteggiamento della sinistra verso le classi popolari: lo battezza le mépris du peuple, il disprezzo del popolo. Al centro del suo ragionamento non ci sono le periferie e l’urbanistica; il titolo però richiama una riflessione di molti anni fa sui campi nomadi in Italia: L’urbanistica del disprezzo di Piero Brunello (1996). I campi rom sono stati in gran parte prodotto di amministrazioni di sinistra: a Roma il primo è stato istituito da Rutelli; Veltroni li ha chiamati “villaggi della solidarietà” e li ha spostati ancora più in periferia. Abbandono e disprezzo sono due cose diverse; se proviamo a ricostruire la storia di Nuova Ostia, capiamo la differenza tra questi due concetti.

All’inizio degli anni Settanta a Roma c’erano tantissimi borghetti auto-costruiti. Migliaia di famiglie italiane vivevano nelle baracche: alcune scandalosamente misere, altre dignitosamente povere. Una generazione di militanti politici, di attivisti cattolici, di ricercatori, frequentavano queste zone per alleviare le sofferenze degli abitanti, per dare voce alle loro esigenze o per creare reti di solidarietà. Franco Ferrarotti pubblicò interviste e descrizioni delle abitazioni più misere in uno dei primi libri di sociologia urbana in Italia, Roma da Capitale a periferia; Roberto Sardelli contravvenne agli ordini delle gerarchie ecclesiali trasferendosi a vivere in baracca, dove creò la Scuola 725. La “lettera al sindaco” con cui i bambini della scuola chiedevano case dignitose, restò inascoltata per qualche anno; finalmente la risposta arrivò, e dal 1972 iniziò una grande campagna di demolizioni e trasferimenti, che si concluse a metà degli anni Ottanta con le giunte “rosse” di Petroselli e Vetere.

La città – e soprattutto la sinistra della città, compresi i movimenti di lotta per la casa che avevano rappresentanti in comune – celebrò la soluzione del problema delle baracche; al posto dei tuguri dell’Acquedotto Felice si costruì il Parco degli Acquedotti: verde a perdita d’occhio per i pic-nic e lo jogging (e per la felicità dei proprietari immobiliari della zona). Ma pochi si preoccuparono di cosa succedeva nei posti in cui erano stati mandati i “baraccati”. Non c’erano più le loro case, e questo contava.

I grandi complessi di case popolari di Roma – Corviale, Laurentino 38, Torbellamonaca – nacquero dopo; vi confluirono anche ex baraccati, tra le migliaia di famiglie che provenivano da vicende del tutto diverse. L’unico quartiere composto interamente da ex abitanti dei quartieri spontanei è proprio Nuova Ostia: un complesso residenziale sul litorale, costruito abusivamente alla fine degli anni Sessanta, rimasto invenduto, dove il Pci e le associazioni del quartiere organizzarono un’enorme occupazione di case, di cui si beneficiarono milletrecento famiglie. A seguito di una vertenza, il comune assegnò le case che erano state occupate. Solo gli abitanti dell’Acquedotto Felice ebbero la fortuna di vedersi assegnare una casa; tutti gli altri furono alloggiati attentamente dai militanti della sezione locale, che assegnarono le case secondo i bisogni di ogni famiglia, provvedendo anche agli allacci dei servizi, agli spazi pubblici e a continue mobilitazioni per ottenere scuole e ospedali.

Ma il comune non aveva “abbandonato” il quartiere. Le palazzine non erano state tolte al proprietario e lasciate nelle mani del popolo. Tutt’altro: il comune prese in affitto la maggior parte degli appartamenti, pagando puntualmente al costruttore Renato Armellini la pigione – naturalmente, molto alta. Da allora e fino a oggi, ogni mese centinaia di milioni di lire, ora centinaia di migliaia di euro, piovono nelle tasche del palazzinaro, per delle case costruite senza permessi e fuori dal piano regolatore; mentre tutte le richieste degli abitanti sono sistematicamente disattese, anche per far asfaltare le strade ci sono voluti anni di manifestazioni. In Amore tossico di Claudio Caligari si ritrae piazza Gasparri come una specie di zona franca, off-limits per gli abitanti del resto di Ostia, in cui l’eroina circolava liberamente; solo l’autorganizzazione delle cosiddette “madri coraggio” di Nuova Ostia permise di creare i primi centri per tossicodipendenti.

A metà anni Novanta l’amministrazione propone di “investire” di nuovo nella zona: e parte il progetto del porto turistico di Roma, con la retorica del superare l’isolamento, del portare risorse nelle zone deprivate. Si puliscono le spiagge, si crea una passeggiata, una pista ciclabile, che rende permeabile un lato del quartiere; ma all’interno si continua a vendere e comprare le case popolari senza nessun controllo, e le reti criminali prosperano; strade e piazze diventano meno pericolose, ma le case cadono a pezzi. Nel 2009 il comune fa evacuare una palazzina pericolante, e si scopre che Armellini aveva fatto mischiare la sabbia del mare al cemento. Gli abitanti – quasi tutti muratori, quasi tutti con una lunga esperienza di autocostruzione – lo sapevano e lo dicevano da sempre.

Quest’anno, poi, con la scusa che Ostia è la porta d’entrata della mafia a Roma, l’amministrazione nominata dopo le dimissioni del presidente del Municipio (accusato di corruzione) ha colpito a casaccio, senza comprendere né il quartiere né la sua storia: hanno fatto chiudere una scuola di danza, senza dubbio abusiva (perché occupata dagli anni Settanta dal PSI, poi lasciata al vecchio custode) ma che suppliva alla mancanza di servizi culturali per i ragazzi; la chiesa, ugualmente abusiva (o occupata), è rimasta aperta. E la figlia di Armellini ha alzato l’affitto al comune, anche quando tutti i giornali hanno reso pubblico che, durante tutti questi anni, su quelle case non è mai stato pagato l’Imu. Intanto, emergono le connessioni tra i gruppi politici al governo, gli imprenditori che gestiscono le concessioni sul litorale e i narcotrafficanti. Ma l’accusa di “mafia” è invariabilmente per chi abita nel quartiere, non per chi ne trae enormi benefici.

Il disastro per le periferie non è l’abbandono. Nell’abbandono prosperano le attività criminali, ma anche autogestione e mutuo supporto. Gli spazi lasciati liberi dal controllo istituzionale permettono un certo grado di gestione collettiva del territorio, che in alcuni casi può riuscire anche a controllare, o a contenere, la diffusione della criminalità e della droga. Il disprezzo, invece, è il sistematico supporto delle istituzioni alle forze più antisociali e predatorie della città, che usano a proprio vantaggio i bisogni dei settori più deboli, e che quindi desiderano che i loro problemi non siano mai risolti.

La ricostruzione della storia di Nuova Ostia si basa su un’intervista con Giorgio Jorio, pittore e intellettuale di opposizione di Ostia, realizzata il 18 agosto 2015.

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Roma gentrificata: lungo la Casilina, tra la Certosa e Torpignattara

I-love-Torpigna-2Tor Pignattara, o Torpigna in slang neo-romanesco, è un quartiere popolarissimo sin dalle sue origini, lungamente guardato con sospetto dai romani e ignorato dai non romani. Fino a non molto tempo fa, anche a causa della sua rassegna stampa quasi del tutto presente in cronaca nera (omicidi, accoltellamenti, ritrovamenti di cadaveri e di serre di cannabis sui balconi), pochi si spingevano a esplorare questa zona incastonata tra l’Acquedotto Alessandrino e la Prenestina, confinante con il quartiere, spesso a sproposito definito “gentrificato”, del Pigneto.

Non sono moltissime le associazioni culturali, tra queste Ottavo Colle, che organizzano passeggiate alla scoperta del quartiere. Per arrivarci dobbiamo percorrere Via Prenestina e lo facciamo salendo da piazza di Porta Maggiore sul pittoresco trenino bianco e giallo della linea Roma Giardinetti – che ai semafori fischia e sembra un trenino dei bimbi. Prima, a piedi, potremmo percorrere Via del Pigneto fino in fondo per ritrovarsi in Via dell’Acqua Bullicante o fare tre fermate in più e scendere proprio a Tor Pignattara per scoprire un mondo vivace e variopinto, una mescolanza di popoli orientali (con netta predominanza di bengalesi), romani di Torpigna e alcuni lavoratori squattrinati afferenti alle cosiddette “professioni creative”, nobile stratagemma per dare una dignità a pluri-dottorati e idee per start up miseramente vanificate perché l’Italia non è certo gli USA.

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Il trenino bianco e giallo della linea Roma Giardinetti

Tor Pignattara è un quartiere popolare in attesa di una futura riqualificazione della qualità urbana che probabilmente, tra non meno di cinque anni, potrebbe portarlo a incamminarsi sulla strada della gentrification che lascerebbe sulla strada le vittime di chi non potrà più permettersi l’innalzamento degli affitti (soprattutto lavoratori stranieri). Nel frattempo è anche location di video musicali come questo dei Calcutta nell’album Mainstream, che provano a raccontare la multietnicità di una città in trasformazione, a partire dal cuore pulsante delle sue periferie, in un centro storico diventato da tempo un simulacro artefatto per turisti di bocca buona. Una multietnicità però che, ad esempio nella cucina, si coniuga bene con la persistenza di osterei di cucina romana ancora tradizionale, come nel caso dell’Osteria Bonelli, dove ordinando da una lavagna trasportabile, si possono mangiare filetti di baccalà, fiori di zucca, la gricia (per chi non la conoscesse è la carbonara senza uovo, solo con pancetta e pepe), e un buon bollito condito semplicemente. Nel raggio di poche centinaia di metri, si può mangiare vero cinese, vero bangla, vero peruviano, vero indiano, a prezzi davvero economici, e provare l’ebbrezza di essere gli unici italiani all’interno del locale.

Proprio a metà di Via Tor Pignattara c’è Spice of India, come recita l’insegna, un “bar ristorante pizzeria”, ma indiano. Il locale ha l’aspetto di un normalissimo bar-tabacchi, di indiano ci sono solo i dolci esposti nella vetrinetta del bancone, i video musicali in tv e, naturalmente, baristi e camerieri. È molto ampio, con circa venti coperti e offre a pranzo e a cena le tipiche specialità indiane: samosa, pollo tandoori, riso byriani e così via.

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Il palazzo di Via Galeazzo Alessi col murales dedicato a Pasolini

Nel mercato coperto di Via Laparelli c’è un ristorante peruviano. L’ambiente nei colori del verde e del giallo è molto gradevole, il menu è composto da piatti unici a base di carne o di pesce, con riso e patate. Sull’altro lato della Casilina, in Via Eratostene, ci sono le luci colorate e le vetrine del ristorante dal nome che è tutto un programma: Eurobangla. Un menu fotografico ci alletta con i suoi “Imboltini di carne, imboltini di verdure e imboltini di patate”.

In uno dei quartieri più pasoliniani di Roma, dove Pier Paolo Pasolini ambientò molte scene dei suoi film e racconti, non poteva mancare la street art, che sta facendo di Roma la capitale europea di questa forma d’arte urbana, con un murales dedicato proprio a lui. Ci ha pensato Nicola Verlato, pittore vicentino che lo ha realizzato in Via Galeazzo Alessi, al civico 215. Grande com’è, su un muro di un palazzo alto dodici metri e largo otto, è impossibile non notarlo. Quel muro l’ha individuato l’artista David Diavù Vecchiato, amico e collega di Nicola. David è il fondatore di MURo, il museo di Urban art del Quadraro. “Gli abitanti del quartiere – ha detto l’artista – mentre passavano e mi vedevano lavorare, hanno ribattezzato il muro la Cappella Sistina di Tor Pignattara”.

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Ma forse l’esempio che più viene citato come riqualificazione – e ripeto per chi ha letto i miei precedenti articoli o il volume Gentrification in parallelo. Quartieri tra Roma e New York, è la zona chiamata Certosa. Si trova in cima a una collinetta racchiusa tra la ferrovia Roma-Napoli, il nostro quartiere di Tor Pignattara e la Casilina. L zona rimane nascosta agli occhi dei più. Dal traffico caotico in basso, basta svoltare su Via dei Savorgnan per trovarsi in un altro mondo. L’atmosfera è quella di un paese il cui centro è Largo dei Savorgnan. Le case, in gran parte edificate in proprio dai primi abitanti, per lo più braccianti agricoli provenienti da altre regioni del Centro-Sud, in quello che era chiamato abusivismo di necessità, nascono alla spicciolata e senza servizi. Succede poi che a metà anni Novanta cinquecento famiglie ottennero case popolari in altri quartieri. Alcune delle case rimaste vuote o sfitte furono occupate da immigrati capoverdiani, altre acquistate da speculatori che creavano mini appartamenti da rivendere. Oggi gli abitanti, vecchi e nuovi, sono meno di duemila, alcuni hanno lasciato il Pigneto per sfuggire al chiasso notturno e allo spaccio. La Certosa è un set a cielo aperto: negli anni Cinquanta Luigi Zampa girò qui Ladro lui ladra lei con Alberto Sordi e Sylva Koscina; più recentemente Daniele Lucchetti ha ambientato qui La scuola e Francesca Archibugi Questione di cuore.

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Periferie: sviluppo locale, innovazione sociale e sicurezza dei territori

Ne parlano:
Augusto Pascucci (UNIAT); Alfonso Pascale (CeSLAM); Marco Corsini (Avvocato dello Stato); Tommaso Capezzone (Giornale delle periferie); Giammarco Palmieri (PresV Municipio di Roma); Esterino Montino (Sindaco di Fiumicino); Sen. Stefano Esposito (Commissario PD Ostia); Padre Fabrizio Valletti (Coop. Soc. La roccia); Pino Galeota (Corviale Domani); Guglielmo Loy (Politiche territoriali UIL); Alberto Civica (UIL Lazio); Luciano Mocci (FederLazio); Alessandro Mauriello (CeSLAM); Leonello Tronti (Università Roma 3); Eugenio De Crescenzo (AGCI); Indra Perera (CNA World Roma); Laura Bongiovanni (Isnet); Umberto Croppi (Federculture Servizi); Angelo De Nicola (UPPI Lazio); Sergio Bellucci (NetLeft); Germana Cesarano (Magliana 80); Giorgio Benvenuto (Fondazione Bruno Buozzi); Paolo Masini (MIBACT); Andrea Masala (ARCI); Giorgio De Finis (MAAM); Massimiliano Valeriani (Regione Lazio); Aurelio Mancuso (Equality Italia)
Da tempo associazioni, comitati, università, gruppi di cittadini, italiani e non, provano a fare breccia nell’agenda delle varie istituzioni, lontane dai territori, chiedendo azioni concrete contro lo stato di abbandono e di sovraffollamento delle periferie. Secondo UNHABITAT (NAZIONI UNITE) il divario urbano che si sta creando tra la città ricca e quella povera è in aumento vertiginoso: 800 milioni di persone vivono negli slums (favelas,bidonville, baraccopoli) e circondano i centri residenziali dei ricchi sempre più protetti da guardie armate. La città europea moderna nella sua progettazione è stata attenta ad evitare condizioni di emarginazione di comunità e popolazioni mettendo molta attenzione alla vita sociale pubblica, ambientale e estetica dei territori urbani. Per queste ragioni negli anni passati si è discusso tanto sul “diritto alla città” e sulle motivazioni alla base della formazione delle disuguaglianze sociali (Henri Lefebvre – Diritto alla città – 1968). Negli ultimi decenni, però, la capacità di combattere le disuguaglianze è diminuita e oggi ci troviamo di fronte all’esplosione di conflitti sociali acuiti dal mancato riconoscimento delle diversità culturali e dall’assenza di strategie e politiche delle istituzioni pubbliche. Le ricadute sociali, economiche e politiche si evidenziano in programmi di governo caratterizzati dalla propaganda che orienta l’azione politica a respingere l’ immigrazione o a chiudere le frontiere piuttosto che a studiare politiche e programmi per attenuare il disagio e la separazione sociale. C’è bisogno di ricostruire la fiducia dei cittadini nei confronti del sistema politico e dei corpi intermedi e di ricomporre il rapporto tra istituzioni (regionali, nazionali ed europee) e società locale (intesa come comunità, società civile ed ente locale di prossimità) in cui le istituzioni mettono a disposizione la prospettiva e i mezzi dell’emancipazione e la società locale riaccende le sue tensioni al cambiamento e si riorganizza per trovare la strada e vincere la sfida dello sviluppo. In Europa le città inglesi, belghe e in primis francesi pagano da tempo i prezzi di queste scelte sbagliate e come si è potuto assistere tristemente nelle banlieue parigine e nei quartieri popolari londinesi e di Bruxelles, la questione dell’odio sociale ha favorito la crescita e l’insediamento di cellule criminali del terrorismo internazionale di matrice islamica connotando le periferie come habitat naturale per persone malfamate , pericolose e soprattutto diverse, quasi sub-normali. In Italia i programmi di rigenerazione urbana sono fermi agli anni 90, con i progetti Urban e al 2002 con i Contratti di quartiere, e il Piano Città dell’ex Ministro Lupi che non è mai decollato. Ciononostante le periferie delle metropoli italiane e soprattutto romane sono in continuo cambiamento, come segnalano Ilardi e Scandurra e guardare Roma è come osservare i mutamenti a livello nazionale. “Dalle borgate dei ragazzi di vita di Pasolini ai centri sociali occupati , dai territori abbandonati ai Rave illegali al movimento Ultras, fino agli anni 2000 con le tristi aggregazioni abitative sorte intorno ai giganteschi centri commerciali, le periferie romane sono state dei laboratori culturali, macchine formidabili che producono metropoli e i suoi potenti immaginari dove sono precipitati molto spesso i simboli dell’intera comunità nazionale” (M. Ilardi, E. Scandurra – Ricominciamo dalle Periferie – 2009).
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Relazione di Alfonso Pascale (CeSLAM)



I cantieri da soli non bastano

Senza cittadini coinvolti si fallisce.
Gli urbanisti: “Pochi 500 milioni, ma segnale giusto”. Si moltiplicano le social street.
Dietro l’annuncio di Renzi di destinare 500 milioni di euro aggiuntivi per le periferie ci sono posizionamento politico (anche internazionale, altro che proclami bellicisti) e strategia comunicativa (vedi citazione del «rammendo» di Renzo Piano, ormai di moda). Nessun piano segreto e specifico. Del resto basta fare due conti. I soldi vanno alle città metropolitane (tredici già istituite, la Sardegna potrebbe aggiungere Cagliari), da spendere entro il 2016 per progetti da presentare entro la fine di quest’anno. Meno di 40 milioni per città e 13 mesi per spenderli: tempi e soldi sconsigliano interventi giganteschi. Bisogna recuperare progetti già pronti. «Non c’è cifra che basterebbe a risanare le periferie italiane – dice l’urbanista Francesco Indovina -. 500 milioni sono una goccia nel mare, ma anche pochi soldi servono se spesi bene».

Recentemente Indovina ha pubblicato sulla rivista Archivio di studi urbani e regionali (FrancoAngeli) un saggio intitolato «Il ritorno delle periferie» in cui offre un utile approccio al problema. Innanzitutto bisogna uscire dallo stereotipo «centro bello-periferie brutte». Misurare il degrado urbano ampliando il raggio del compasso sulla mappa può valere per le banlieue parigine, non per le principali città italiane «che invece si presentano sempre più a pelle di leopardo, con diversi centri e diverse periferie mischiate». Renzo Piano docet: il Giambellino, che il suo staff sta «rammendando», nasce come periferia negli Anni 30, ma ormai è semicentrale. E Stefano Boeri, architetto e docente al Politecnico cui fanno torto le eccessive celebrazioni per il «bosco verticale», ha detto di sentirsi più a disagio in piazza Cordusio che in tante periferie.

Nuova e ibrida geografia urbana, dunque, in un contesto di disuguaglianze crescenti, servizi pubblici ridotti, risorse finanziarie scarse. Il rischio che corre il governo è ridurre tutto a un’operazione di riqualificazione edilizia. Accresciuti valori immobiliari di palazzi abbelliti producono come prima conseguenza l’espulsione di una fetta della popolazione, che non può permettersi di «pagare» e si sposta altrove. «Per una periferia risanata se ne crea un’altra degradata», dice Indovina citando Harlem a New York, dove la quota di popolazione nera è calata.

La Regione Lazio ha stanziato 20 milioni per risanare il serpentone di cemento (1 chilometro, 5 mila abitanti, il 30% abusivi) del Corviale. L’Istituto nazionale di urbanistica propone di «creare una vera e propria industria della rigenerazione urbana», attingendo alle risorse private con incentivi fiscali tipo ecobonus, replicati su larga scala ed estesi alla dimensione culturale e sociale.

Ma serve quella che l’urbanista napoletano Aldo Loris Rossi chiama «visione olistica» applicata alle città. Approccio soft, processi partecipati, più servizi e socialità che cantieri. Meglio un piccolo locale riutilizzato da un’associazione di quartiere che un grande centro giovanile gestito da funzionari comunali. Non è sempre necessario guardare lontano, dai quartieri sostenibili di Friburgo ai «bandi del barrio» di Barcellona. Tralasciando le più illuminate iniziative bolognesi degli Anni 70, basta studiare la recente riappropriazione di piazzetta Capuana a Quarto Oggiaro (Milano), la ventennale esperienza di Borgo Campidoglio a Torino, le oltre 400 «social street» nate dal 2011. Gruppi nati su facebook che coniugano attività ludica e sociale, dalle feste di quartiere ai muri tinteggiati, dalla raccolta di cibo in scadenza all’assistenza agli anziani. La social street Baia del Re di Milano si segnala per l’integrazione degli immigrati. «Senza connessione tra le persone, ogni progetto di rigenerazione urbana fallisce», spiega Cristina Pasqualini, sociologa della Cattolica e autrice della prima ricerca sul tema.
E mentre si spendono soldi per periferie degradate, sarebbe il caso di non costruirne di nuove. Nel 1968, fu una grande conquista urbanistica l’obbligo di destinare ai servizi di quartiere almeno 18 metri quadri per abitante. Erano altri tempi e l’urbanistica non era morente come oggi. La Lombardia fu la prima, nel 1975, a portare lo standard a 26,5 metri quadri, seguita negli anni successivi dalle altre Regioni. Nel 2005 la Lombardia formigoniana torna indietro agli standard del 1968. Secondo i conti di Sergio Brenna, docente al Politecnico, a Porta Nuova sono diventati 16 metri quadri, monetizzando (a prezzo irrisorio) la differenza al Comune. E si rischia di peggiorare ancora nei nuovi quartieri pianificati in limine mortis dalla giunta Pisapia, in geometrica continuità con quella Moratti.
Lunga e accidentata la via italiana del rammendo, sia a destra che a sinistra.

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Come frenare le sirene maligne delle periferie

Il presidente del Consiglio sta guardando con grande temperanza alla terribile crisi che l’attacco terroristico a Parigi ha aperto. L’uso misurato delle parole, l’insistenza sulle prevenzioni e sulla costruzione di alleanze e lo sguardo che dalla politica estera sa riandare alle crisi delle nostre periferie sono indirizzi politici sensati.

Le immagini di St. Denis, dei quartieri di Bruxelles, le biografie dei terroristi, le nostre paure mentre camminiamo nelle zone meno protette delle nostre città ci evocano le periferie in senso negativo. E stentiamo ancor più a viverle come «nuovi centri», luoghi di promesse e invenzioni da esplorare, anche quando lo sono. Al contempo, proprio le promesse già in campo e gli attori positivi delle nostre periferie si confrontano davvero con territori più sofferenti, dove non vi è stata inclusione e vera cittadinanza e dove può crescere e poi esplodere una tremenda carica distruttiva.

Ben prima degli eventi parigini, i dati Istat, le nostre cronache, le esperienze diffuse di tanti esperti sul campo ci consegnano, al contempo, storie di riscatto e storie di difficoltà e frustrazione.

Ci sono migliaia e migliaia di storie di vita, spesso di giovani – in tanti le seguiamo in ogni parte d’Italia – nelle quali l’esclusione multi-dimensionale che si protrae nel tempo a un certo punto conosce un peggioramento e fa entrare in una zona di maggiore fragilità e pericolo. Per molte ragioni: il grado elevato della fatica di «stare a galla» dal punto di vista del lavoro e del reddito, il ripetersi di frustrazioni severe che offendono l’amor proprio, il mancato consolidamento, in età precoce, di uno «spazio pensante» e anche di regole interne sufficienti per dare parola alle cose, trovare una strategia per «aspirare a» e per sostenere il peso di difficoltà continue, il venire meno sia dell’accoglienza che dei limiti che può dare la comunità perché anche essa è troppo frammentata e impoverita di sapienza e di risorse.

Molte storie così si trascinano, malamente. Minano la fiducia e la coesione sociale, allontanano dalla partecipazione alla formazione, al lavoro, al progetto comune, alle regole.

Una politica troppo distante da questi territori e sciatta e burocratica nel proporre misure e azioni certo non aiuta, anzi…

Poi – in questo paesaggio – un numero minoritario ma purtroppo crescente di storie conoscono uno scarto. Vanno oltre. Prendono, per strani o futili o apparentemente secondari motivi, le vie maligne dell’esplosione folle individuale o delle bande violentemente fuori controllo o del malaffare. Sirene estreme chiamano ad andare oltre. Nascono sintomi feroci di malattie divenute croniche e poi aggravate.

Nei territori dell’esclusione, qualcosa oggi può andare – più facilmente che in passato – oltre gli ultimi argini. E siamo in tanti a pensare che già da tempo stiamo entrando in una nuova dimensione del pericolo, al quale vanno date risposte nuove.

Fa bene il presidente del Consiglio a ritornare a parlare al Paese delle nostre periferie. Perché il loro sviluppo è volano di sviluppo generale. Perché i tessuti ricostruiti della coesione sociale favoriscono crescita economica e lavoro nelle sue nuove forme. Perché la potente crisi che viviamo in questi giorni ci sta confermando che bisogna presto riprendere – proprio nelle periferie – a pensare a come migliorare scuola e formazione, dare reddito chiedendo responsabilità, trovare vie nuove per creare lavoro insieme ai nostri ragazzi. Lo si fa già in tante parti d’Italia. Lo si può fare di più e meglio se si abbandona un sistema di stereotipi e vincoli che non funziona più, se si ricreano circuiti di confronto sulle cose da fare nel concreto, se si creano regìe in ogni quartiere e città. E se si costituisce presto una vera regìa nazionale per usare più fondi ottimizzando le risorse anziché sprecarle in mille rivoli e indirizzandole verso ciò che già funziona, verso chi sa fare, controllando i risultati. Ma, per fare questo, dobbiamo riguardare a come siamo, come educhiamo i nostri ragazzi, come si discute e si impara a scuola, e anche a cosa dobbiamo tenere per sacro, a come presidiare i limite nella vita di ogni giorno, a come mettere insieme norma e accoglienza, a come ridare luoghi, lavoro e parole alle comunità, a come sostenere adesso e non domani i sogni dei nostri ragazzi di periferia.

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La bellezza per fermare il fanatismo distruttivo

Sono figlio della periferia, bisogna portarci la bellezza per fermare il fanatismo distruttivo.
“Settant’anni senza che nessuno se ne occupasse. Parlo del Giambellino, ma da lì il messaggio è universale. Al Giambellino ci sono seimila persone di venti nazionalità diverse”, integrazione e condivisione sono possibili, “sono valori”.

Lo racconta al Corriere della Sera, l’architetto e senatore a vita Renzo Piano, che sta chiudendo in questi giorni un progetto al Giambellino di Milano.

“Io sono un figlio di periferia – spiega Piano -, la periferia genovese, e le periferie sono nel mio cuore”. Sono fabbriche di desideri, dice il senatore avita, “nel bene e nel male. Sono la fonte di energia della città. Ma bisogna buttare acqua, non benzina sul fuoco, in un attimo tutto si infiamma”.

La colpa, aggiunge, è “anche nostra. Bisogna cercare le perle, smetterla di denigrare le periferie e decidersi ad amarle. Giovedì di questo parlerò al presidente Mattarella”. “La vicenda di Parigi – dice anche l’architetto che nella capitale parigina vive – è talmente grande che il silenzio è per me l’unica dimensione ammissibile”.

In un colloquio con la Stampa, Piano invita “a portare la bellezza nelle periferie per fermare il fanatismo distruttivo”. Sul nuovo Palazzo di giustizia che costruirà in una banlieue parigina, osserva: “Bisogna prendere coraggio di fertilizzare le periferie. Nel nuovo Palazzo di giustizia lavoreranno tremila magistrati, ruoteranno diecimila persone… Certamente c’era chi non voleva che fosse costruito in quella zona, e si è opposto, ma non l’ha avuta vinta. Le idee giuste vanno sempre avanti. Il cambiamento trova inevitabilmente degli oppositori, ma non c’è arte che non si alimenti del dovere di cambiare, di rappresentare il cambiamento”.

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La scoperta dell’Europa e della sua periferia

Venti anni fa usciva il film “l’Odio” di Kassovitz, film che prendeva spunto dalle rivolte nelle banlieues parigine seguite all’uccisione di un loro abitante. Quel film è stato un punto di riferimento per tutta una generazione, soprattutto per chi allora era attivo nei movimenti e negli spazi sociali delle periferie metropolitane in Italia. Quella rivolta a Parigi era qualcosa di nuovo, qualcosa in cui vedevamo forti continuità e ancor più forti discontinuità col ciclo di lotte degli anni 70/80: ribellismo pauperistico e anarcoide, lotta di classe primitiva, rivendicazione comunitaria, riot americaneggiante (più Malcolm che Martin), dialettica conflittuale centro-periferia…c’era, o ci vedevamo, un po’ di tutto questo.
Anche l’Islam c’era, ma era, o lo vedevamo come, solo uno dei collanti comunitari, testimonianza di una condizione subalterna, grammatica comune degli esclusi.
Dieci anni dopo un’altra rivolta in banlieue. Tornando trovammo una situazione meno anarchica e più organizzata, una coscienza magari non di classe ma di comunità subalterna molto forte, direi una coscienza di luogo, se la intendiamo come categoria geo-socio-culturale.
Una rivolta più organizzata, più indirizzata e con delle leadership che si confrontavano e scontravano in nome di culture politiche e indirizzi diversi. Il fondamentalismo islamico era uno di questi.
Non maggioritario e sicuramente politicamente non attrezzato a dirigere quella rivolta, ma capace di legami profondi in quella comunità, in orizzontale e in verticale, e soprattutto capace di unire, idealmente ma anche nella predicazione, quella comunità con altre comunità subalterne nelle periferie metropolitane europee.
Tra questa rivolta e la strage di Parigi ci passano altri dieci anni e la storia contemporanea: la globalizzazione, l’11 settembre, internet, i social, i drammatici errori di guerra e gli ancor più drammatici errori di dopoguerra dell’Occidente in Medio Oriente.
I protagonisti del film di Kassovitz sono i fratelli maggiori dei protagonisti della seconda rivolta e i padri degli attentatori del 13 novembre.
A scanso di equivoci: per la maggior parte sono i padri di tantissimi ragazzi per bene, di musulmani pacifici, di persone che cercano di uscire dalla subalternità banlieuesard con i percorsi che le democrazie europee mettono a disposizione. Ma sono i padri anche di quella minoranza in cui la predicazione jihadista attecchisce.
Ma qui vanno dette alcune cose per capire il fenomeno, e in questo ci aiutano le biografie degli attentatori: molti hanno in comune la piccola criminalità e il carcere, e proprio in carcere si viene in contatto con la predicazione jihadista, molto più che in moschea. Questo dato dovrebbe dirci molto sul fenomeno che abbiamo davanti, almeno nella sua incarnazione nelle metropoli europee (diverso è naturalmente il caso dell’arruolamento negli altopiani afgani o nel deserto libico). Per questi giovani l’adesione alla jihad è un sentirsi finalmente parte di qualcosa, è una giustificazione alla violenza e all’odio con cui vivono e l’estremo sacrificio è vissuto come un momento di protagonismo reale altrimenti negato dalla società in cui vivono.
C’è un secondo profilo di jihadista europeo oltre a quello sopra descritto ed è quello più evidente nelle stragi di Londra del 2005. Non più giovani subalterni ma seconde o terze generazioni integrate, colte, con profili lavorativi dignitosi o proprio di successo, fedina penale intonsa: una sorta di media borghesia dell’immigrazione. In loro non c’è una rivolta verso la società che li esclude, piuttosto un romanticismo naif, un’adesione ideale ad una comunità globale, ad un progetto mondiale e persino non transeunte. Come i giovani borghesi europei dell’800, sono pronti a partire, in nome di quell’ideale, verso la Siria o l’Iraq.
Ora il punto centrale sta proprio qui, in questo paralleo politicamente asimettrico: i giovani Europei dell’800 partivano per la Grecia o l’Italia in nome della libertà, i giovani Europei del ‘900 si rivoltavano nelle periferie in nome dell’emancipazione. E gli ideali di libertà ed emancipazione si sono concretizzati nella costruzione europea nelle forme della democrazia e dei diritti, i Paesi Europei, l’Europa stessa è stata per lunghi decenni la Patria della democrazia e dei diritti, questi erano la sua identità, il motivo per cui i tanti senza diritti e libertà venivano da noi.
Lo sono ancora?
Formalmente sì, ma sostanzialmente il modello europeo di promozione sociale è in crisi in tutti i suoi Paesi (ognuno col suo modello specifico, ognuno in crisi) da almeno 20 anni, da quando cioè Kassovitz gira il suo film ma soprattutto da quando comincia la costruzione dell’Unione Europea. Non voglio dire che quella costruzione mette in crisi quei modelli, al contrario, dico che si è cominciata quella costruzione unendo Paesi con i rispettivi modelli sociali in crisi, si sono sommate debolezze sperando che la semplice unificazione monetaria, con la sua mano invisibile, le facesse superare.
Le ha invece approfondite, così da venti anni abbiamo società in cui la ricchezza si redistribuisce verso l’alto, la forbice ricchi-poveri si allarga, la classe media scompare, i pochi che hanno accesso alle reti (globali, finanziarie, sociali, culturali, perfino dei diritti) le difendono come privilegi e chi ne è escluso, chi non ha l’accesso si sente estraneo, straniero.
Le nuove forme dell’esclusione, figlie della crisi del modello di promozione sociale europeo, producono un deficit di cittadinanza: ci si sente stranieri nel posto in cui si vive, a prescindere da dove si è nati. Quanti Italiani se ne vanno sentendosi non voluti dalla loro patria?
E se va in deficit il concetto di cittadinanza col corredo di diritti che porta con sé allora saltano i patti sociali.
E se si inceppano i meccanismi di emancipazione e di promozione sociale, allora si incrina l’edificio della democrazia.
Un edificio che ha due pilastri: libertà e emancipazione, ma quest’ultimo è quello dinamico, concreto, è la democrazia operante nelle vite di ciascuno. Se salta questo pilastro la democrazia non si riconosce più, non basta la libertà, questa è un ideale sacrosanto e irrinunciabile, ma senza emancipazione rischia di essere percepita come un lusso dai subalterni, da chi non ha accesso ai suoi benefici.
Se si vuole sconfiggere lo jihadismo in Europa, l’Europa deve lavorare su questa sua identità, deve rinnovarla, rimetterla in moto, ritrovare un modello di promozione sociale (e culturale) efficace e brandirlo come la prima delle sue forze e dei suoi tratti identitari.
Non dico che basti questo, dico però che questo è essenziale.
Non serve brandire la croce, e il Papa lo va ripetendo da molto, come vorrebbero gli imprenditori della paura, serve invece quella giustizia sociale che proprio i partiti di quegli imprenditori hanno smantellato in tutta Europa. Solo che anche questo sembra dirlo solo il Papa.
E questo è un male: le forze laiche, civili, politiche, istituzionali, sono afasiche, sanno parlare solo di guerra (e non sto dicendo che non serva anche un livello militare, magari aiutando le Kurde e i Kurdi al confine del califfato), sanno parlare solo di ipersorveglianza, di libertà in cambio di sicurezza.
Nella Roma ormai invasa dai barbari, Rutilio Namaziano scrive che “gli uomini della fede sono feroci e gli uomini del dubbio sono stanchi”, si sa come andò a finire.
Ma non è scritto che debba finire così anche stavolta, c’è stato un tempo, ed era poco tempo fa, che gli uomini del dubbio erano fieri di esserlo e su questo hanno costruito società più aperte, aperte a tutti, più ricche e libere per tutti.
È su questo per tutti (fur alle-fur ewig) che si vince la sfida.

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Riqualificare le periferie è la sfida di questo secolo

“Rivitalizzare le periferie attraverso l’azione dei giovani e del mondo dell’associazionismo è un’iniziativa positiva, che va proprio nella direzione dello sforzo che deve intraprendere il Paese per recuperare il forte ritardo nel sostegno e nella valorizzazione del contemporaneo”.

Lo ha affermato il Ministro dei beni e delle attività culturali Dario Franceschini alla presentazione dei sei progetti vincitori del bando “Culturability – spazi d’innovazione sociale” promosso dalla Fondazione Unipolis e illustrati nel corso dell’incontro “Cultura, creatività e rigenerazione urbana per promuovere sviluppo sostenibile” insieme a Virginio Merola, sindaco della Città Metropolitana di Bologna, Pierluigi Sacco, economista della cultura IULM, e Pierluigi Stefanini, Presidente del Gruppo Unipol e di Unipolis.
“Un’azione – ha continuato il Ministro Franceschini – che può e deve essere legata, come dimostrano i progetti presentati oggi, alla riqualificazione delle periferie delle nostre città. Per questo nel riformare il ministero ho fortemente voluto una nuova Direzione Generale per l’arte e l’architettura contemporanea e le periferie urbane, che a breve varerà un bando da 3 milioni di euro per cofinanziare progetti culturali promossi dai comuni nelle periferie. Allo stesso modo, nel decidere la destinazione delle risorse europee del Piano Obiettivo Nazionale si è deciso di prevedere una quota di 114 milioni di euro per il sostegno alle industrie creative del Mezzogiorno. Dopo aver vinto nel secolo scorso la grande sfida della preservazione dei centri storici delle nostre città, le periferie sono la grande sfida di questo secolo: siamo chiamati a riqualificare i luoghi in cui vive, lavora e sogna la gran parte della popolazione del Paese e in questo l’arte contemporanea può essere determinante”.

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Roma è diventata la sua periferia

Nella “lettera alla città” del cardinal Vallini, una descrizione autentica di una metropoli dove, alla vigilia del Giubileo, si sperimenta una grave crisi antropologica. A cominciare dalle scelte urbanistiche.
La lettera alla città del vicario del papa a Roma, cardinal Agostino Vallini, è un documento drammatico, lontanissimo da ogni felpato linguaggio curiale. Il testo è stato reso nota il 5 novembre, giorno dell’apertura del processo a Mafia Capitale, una data che segna la presa di coscienza inevitabile di un male che cova da tempo dentro un tessuto sociale lontano dal fascino irresistibile di un centro storico che «si sta progressivamente svuotando di abitanti residenti e si trasforma in centro della politica e in distretto turistico».
Ecco allora la nuova definizione della città: «Roma sta diventando la sua periferia». I numeri sono quelli che indicano da tempo gli urbanisti migliori come risultato di certe scelte del mercato immobiliare che hanno provocato una lenta e inesorabile espulsione dei residenti:«Il 23% della popolazione vive oggi al di fuori del Grande Raccordo Anulare e in queste aree l’incremento degli abitanti negli ultimi 10 anni è stato del 26%».
Lo scenario della vita quotidiana è man mano occupato da un nuovo sviluppo insediativo caratteristico degli ultimi quindici-venti anni con le grandi polarità commerciali e dell’intrattenimento: «sono presenti più di 28 grandi centri commerciali nel territorio cittadino e altri sono in costruzione».
La realtà descritta sembra rispecchiare, a volte, le immagini di una certa recente cinematografia, non solo nera, dove il fatto cristiano sembra eclissato: «La corruzione, l’impoverimento urbanistico e ambientale, la crisi economica hanno investito pesantemente lo spazio fisico, l’identità collettiva e la coesione sociale». Ed è in tale contesto che «aumentano le povertà, non solo materiali, che alimentano nuovi e profondi squilibri».
Il peso della diseguaglianza crescente ha portato ad accentuare le «differenze tra i quartieri centrali e le periferie, allargato la fascia dei poveri e degli ‘invisibili’. Il ceto medio ne è uscito indebolito, si sono alzati steccati tra ambienti sociali diversi, scoraggiando quella ‘mescolanza’ virtuosa necessaria per far crescere la coesione di una città e la pratica quotidiana del dialogo e del riconoscimento reciproco».
L’intenzione della Chiesa non è quella di condannare, afferma la lettera di Vallini, ma quella di chi si fa ogni giorno «compagno di strada di tutti gli uomini di buona volontà». Eppure per trovare assieme una via di uscita bisogna partire da un’analisi realistica dei “mali di Roma” che non possono essere solo organizzativi perché alla radice esiste «una profonda crisi antropologica ed etica. In tanti sembra smarrito l’orizzonte comune dell’esperienza umana». La descrizione usa immagini efficaci del vivere giornaliero dove «troppe persone si incrociano per strada si guardano con diffidenza, quasi siano alieni provenienti da pianeti diversi».
Fuori da ogni trionfalismo in questa Roma del 2015, il giubileo della Misericordia non chiede nuove scenografie da grande evento. La grande opera che invita a compiere la lettera alla città è quello di «agire concretamente affinché Roma diventi sempre più abitabile e felice e tutti possiamo «“sentirci a casa” all’interno della città che ci contiene e ci unisce».

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La profezia autoavverante di una periferia immanente

“nei luoghi sconfinati dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica, ricomincia per migliaia di volte, con ponti e labirinti, cantieri e sterri, dietro mareggiate di grattacieli, che coprono interi orizzonti”.
Una delle domande ricorrenti, probabilmente ossessionanti, per chi cerca nell’arte le risposte capitali è di certo “Chi è un artista?“, una bella mano di sopraffino artigianato arriva a lambire la facoltà di produrre arte? E se l’arte fosse la visione? L’intuizione semi istintiva prima del movimento effettivo di un società verso una direzione? La facoltà, come un cane, di sentire il terremoto arrivare grazie ai suoi sensi, che gli permettono di captare gli impercettibili smottamenti nella pancia della terra?

Ma nei rifiuti del mondo, nasce un nuovo mondo: nascono leggi nuove dove non c’è più legge; nasce un nuovo onore dove onore è il disonore…

Pier Paolo Pasolini come Balzac, come Hugo, e poi semplicemente alla maniera di Pasolini ha fiutato con spirito a tratti partecipativo a tratti scientifico l’immenso potenziale della periferia. Certo, vi era una fascinazione verso i vinti, quelli vinti davvero attraverso i quali si sperimenta l’abisso, ma non si esaurisce con il banale assioma che vorrebbe l’avventura e la vita vera soltanto fra le macerie, lontana dai colletti bianchi: quello sarebbe mero classismo e stucchevole melodramma. Nessuna Madre Courage, nessun moralismo, nessun migliore e nessun peggiore.

Nascono potenze e nobiltà, feroci, nei mucchi di tuguri, nei luoghi sconfinati dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica, ricomincia per migliaia di volte, con ponti e labirinti, cantieri e sterri, dietro mareggiate di grattacieli, che coprono interi orizzonti.

L’analisi poetica di un paesaggio straniante, la disamina del covo di delinquenza a buon mercato e di violenza feroce. Ed ecco l’intuizione dell’artista, quello vero, la facoltà di intuire la deriva sociale di un fenomeno che gli ingenui della city credevano arginato nei palazzoni ad alveare: l’avanzamento selvaggio della periferia, con tutto il corollario di significati che il senso della periferia raccoglie. Non più rurale, non più villaggio chiuso ma familiare e neppure città, piuttosto una sorta di augeiano non luogo ripetibile modularmente a Ostia quanto a Cinisello Balsamo. Una Rivoluzione Industriale accolta dagli italiani ma non regolata, dove selvaggiamente prolifera la legge di nessuno che diventa legge di periferia. Una terza società creduta detrito accidentale contenibile in aree dove vigono leggi e architetture del paesaggio che solo gli autoctoni possono comprendere. Una riserva di disagio isolata.

Dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia…

Oggi un altro artista, secondo il medesimo approccio pasoliniano, ha colto la questione, si tratta di Renzo Piano che da anni si concentra proprio sulla revisione del concetto di periferia partendo dal corretto assunto dell’inevitabilità del suo avanzare: “Dobbiamo smettere di costruire periferie. Ormai le nostre città sono piene di questi luoghi dove il centro non è più centro, e la campagna non è ancora campagna. Invece di continuare ad espanderli così, dobbiamo intensificare i nostri centri urbani, fecondando e fertilizzando le periferie. Ovunque ci sono grandi buchi neri da recuperare e trasformare, in modo che questi sobborghi diventino luoghi di civiltà, e non solo posti dove si va a dormire. Capisco che con i centri storci era più facile, perché sono fotogenici, ma anche i sobborghi hanno la loro bellezza. La bellezza dei desideri di milioni di esseri umani che li abitano, e dobbiamo aiutarli a realizzare.”

Una città come Parigi, oggi, conta 6 milioni di abitanti, di questi soltanto 600.000 vivono in centro. E’ quindi corretto dire che il 90% dei parigini è gente di periferia. Ecco perché Pasolini andava ascoltato e forse tutelato come un qualche bene prezioso; Pasolini non è riconosciuto come un genio per la sua fine tragica dai risvolti epici che incorniciano una morte a bastonate su una spiaggia della peggio periferia di Ostia. Di gente finita così, ahinoi, sono piene le tombe; Pasolini aveva intuito quale sarebbe stato il futuro del 90% del mondo occidentale e se ne occupava con scientifica e minuziosa indagine. L’obolo che paga ogni Cassandra del proprio tempo è ben quello di aver restituito un futuro prossimo tanto sgradevole quanto inevitabile. Sostituire alla speranza un spietata consapevolezza è un di quelle cose che le persone non ti perdonano mai e non pochi, ne siamo certi, di quella morte violenta hanno detto “Se l’è cercata“. Il dramma è che in questa considerazione da bar risiede un briciolo di tragica verità: Pasolini aveva fiutato l’invadenza e l’incedere della periferia nei futuri decenni di questo Paese e, probabilmente, anche nella sua fine umana.

dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica.

Talmente nemica che si muore a bastonate.

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