1

Il caso Giambellino, la nuova etica delle periferie

Il Comune ha presentato un progetto impegnativo, ma i 4 mila abitanti del quartiere meriterebbero qualcosa di più: l‘impianto urbanistico del 1938 è esausto: bisognerebbe avere il coraggio di cancellarlo e di andare oltre il make-up stilistico di Maurizio De Caro shadow 2 3 2 Una nuova stagione per l’architettura sociale. Da oltre trent’anni il problema più spinoso nel restyling delle nostre città sono le famigerate periferie. Nate per insediare classi deboli nelle condizioni di passaggio dall’economia rurale a quella urbana, sono diventate, in mancanza decennale di manutenzione, monumenti desueti di una cultura dell’abitare ai limiti della dignità. Nonostante questa consolidata valutazione culturale, estetica e urbanistica, Milano ha sempre fatto un’enorme fatica a sostituire «pezzi di se stessa» altamente degradati, come se dovesse mantenere una memoria negativa di un’idea abitativa da neorealismo (e in effetti molti film sono stati girati in quei cortili). Le cause sono molte, e non soltanto economiche, ma anche di natura ideologica, concettuale o di semplice sottovalutazione del problema. Il quartiere Giambellino ad esempio non è un quartiere, è un mondo a parte; dai tardi anni 50 è stato abitato e attraversato dal Cerutti a Vallanzasca, dai fondatori delle Brigate Rosse a Battisti (Lucio), Berlusconi, Abatantuono e Gaber. Eliminate le contaminazioni romantiche potremmo considerarlo come possibile momento di elaborazione di una nuova etica urbana. La sfida è entusiasmante, il Comune ha presentato un progetto impegnativo e articolato, mentre Renzo Piano elaborava le sue pregnanti riflessioni col G124 (Giambellino 124). Ma ci permettiamo di far osservare che questi 4.000 abitanti meriterebbero qualcosa di più di un quartiere nuovo. L’impianto urbanistico del 1938 è a dir poco esausto, bisogna avere il coraggio politico di cancellarlo, andando oltre il make-up stilistico presentato recentemente. Un ambito urbano che è sempre stato rimosso dalle amministrazioni, un’enclave sociale marginale, addirittura misterioso, leggendario nella sua complessità umana. Guardare al Giambellino del futuro è come ricominciare a tessere la trama nuova della città, piuttosto che rammendarla, darne una visione originale e compatibile con le nuove esigenze abitative. Quel pezzo di passato può avere un cuore digitale e deve ambire a una luminosità progettuale come a dimostrare che là dove c’erano «gli ultimi» può nascere e consolidarsi un’idea nuova di residenzialità esente da retorica pauperista. Uno dei luoghi deputati a veder crescere la Milano del terzo millennio, più umana e contemporanea, perché finalmente la periferia possa diventare semplicemente città. Proviamoci.] Il caso Giambellino
La nuova etica delle periferie
Il Comune ha presentato un progetto impegnativo, ma i 4 mila abitanti del quartiere meriterebbero qualcosa di più: l‘impianto urbanistico del 1938 è esausto: bisognerebbe avere il coraggio di cancellarlo e di andare oltre il make-up stilistico.

Una nuova stagione per l’architettura sociale. Da oltre trent’anni il problema più spinoso nel restyling delle nostre città sono le famigerate periferie. Nate per insediare classi deboli nelle condizioni di passaggio dall’economia rurale a quella urbana, sono diventate, in mancanza decennale di manutenzione, monumenti desueti di una cultura dell’abitare ai limiti della dignità. Nonostante questa consolidata valutazione culturale, estetica e urbanistica, Milano ha sempre fatto un’enorme fatica a sostituire «pezzi di se stessa» altamente degradati, come se dovesse mantenere una memoria negativa di un’idea abitativa da neorealismo (e in effetti molti film sono stati girati in quei cortili). Le cause sono molte, e non soltanto economiche, ma anche di natura ideologica, concettuale o di semplice sottovalutazione del problema.

Il quartiere Giambellino ad esempio non è un quartiere, è un mondo a parte; dai tardi anni 50 è stato abitato e attraversato dal Cerutti a Vallanzasca, dai fondatori delle Brigate Rosse a Battisti (Lucio), Berlusconi, Abatantuono e Gaber. Eliminate le contaminazioni romantiche potremmo considerarlo come possibile momento di elaborazione di una nuova etica urbana. La sfida è entusiasmante, il Comune ha presentato un progetto impegnativo e articolato, mentre Renzo Piano elaborava le sue pregnanti riflessioni col G124 (Giambellino 124). Ma ci permettiamo di far osservare che questi 4.000 abitanti meriterebbero qualcosa di più di un quartiere nuovo. L’impianto urbanistico del 1938 è a dir poco esausto, bisogna avere il coraggio politico di cancellarlo, andando oltre il make-up stilistico presentato recentemente.

Un ambito urbano che è sempre stato rimosso dalle amministrazioni, un’enclave sociale marginale, addirittura misterioso, leggendario nella sua complessità umana. Guardare al Giambellino del futuro è come ricominciare a tessere la trama nuova della città, piuttosto che rammendarla, darne una visione originale e compatibile con le nuove esigenze abitative. Quel pezzo di passato può avere un cuore digitale e deve ambire a una luminosità progettuale come a dimostrare che là dove c’erano «gli ultimi» può nascere e consolidarsi un’idea nuova di residenzialità esente da retorica pauperista. Uno dei luoghi deputati a veder crescere la Milano del terzo millennio, più umana e contemporanea, perché finalmente la periferia possa diventare semplicemente città. Proviamoci.

link all’articolo




Dall’Unione Europea 36 milioni per lo sviluppo delle periferie

I fondi serviranno a promuovere qualità dell’abitare, mobilità dolce e informatizzazione dei quartieri. In via Pianell e De Lemene nasce l’hub dell’emergenza abitativa.
Trentasei milioni di euro per lo sviluppo urbano sostenibile delle periferie milanese: sono i fondi stanziati dalla Unione europea che Milano si è aggiudicata, come altre città metropolitane. Il fondo (Pon Metro) servirà a promuovere la qualità dell’abitare, la mobilità dolce, la valorizzazione sociale degli spazi e l’informatizzazione. Per fare qualche esempio, rientra nel pacchetto la creazione di una pista ciclabile da piazza Sempione a piazza Firenze, l’ampliamento della rete di stazioni di bike sharing, l’installazione di pali della luce «intelligenti» (utili anche per la ricarica delle auto elettriche o di pc e cellulari), ma anche le azioni di contrasto alla povertà abitativa, i servizi per l’inclusione dei senza dimora, la creazione di quartieri web (con tecnologie per la trasparenza e il controllo a favore degli inquilini delle case popolari).
Ad illustrare l’acquisizione dei fondi europei gli assessori Benelli, Majorino, Tajani e Maran. «È la prima volta che fondi europei arrivano direttamente ai comuni metropolitani senza passare dalle Regioni – ha spiegato Daniela Benelli -. Questi comuni vengono identificati come territori chiave per la crescita e lo sviluppo. Abbiamo deciso di destinare queste risorse ai quartieri periferici lasciando una eredità importante alla città e alla prossima amministrazione».

La fetta più consistente del fondo va al capitolo «Abitare»: 10 milioni e 265 mila euro. Verranno ristrutturatiti gli stabili di via Pianell e De Lemene oggi inutilizzati: il primo sarà l’hub dell’emergenza abitativa con residenze transitorie per famiglie sfrattate e in situazioni di disagio. Il secondo ad uso residenziale. Così le portinerie vuote degli stabili Erp comunali saranno restituite all’uso degli inquilini. Un altro esempio, per il capitolo «innovazione e agenda digital», sarà la ristrutturazione di uno spazio pubblico di 1.000 metri quadrati al Lorenteggio, dotato di beni e tecnologie: «Un luogo fisico di inclusione sociale», ha aggiunto Cristina Tajani. I fondi saranno destinati così alla riqualificazione di spazi in disuso, che saranno riassegnati per attività sociali, culturali, di accoglienza e inclusione. «L’azione sarà rivolta a chi vive in condizioni di grave emarginazione, come i senzatetto e le persone con disabilità motoria e sensoriale e gli anziani – ha concluso Pierfrancesco Majorino -. Nel programma c’è anche la ristrutturazione di appartamenti confiscati alla mafia, per l’avvio di sperimentazioni di avvio all’autonomia. Ma vogliamo anche adeguare alloggi comunali perché siano pienamente accessibili e dotati degli apparecchi che consentano libertà di movimento e una vita più autonoma»

link all’articolo




Lupi(Ap): commissione d’inchiesta alla Camera sulle periferie

Proposta in discussione a giugno, previsto un anno di lavori.
Una commissione parlamentare d’inchiesta sullo stato delle periferie nelle città italiane. La proposte è di Maurizio Lupi, capogruppo di Area popolare alla Camera, che l’ha presentata al Gratosoglio, quartiere popolare di Milano simbolo della ricostruzione del Dopoguerra e oggi in gran parte restrutturato.

“Parigi e Bruxelles hanno dimostrato come i terroristi non vengono da fuori, purtroppo sono figli degli immigrati di prima e seconda generazione che sono diventati cittadini francesi o belgi e hanno vissuto in quelle periferie abbandonate. L’Italia non può permettersi questo lusso, deve investire in sicurezza, in prevenzione, in collegamento tra servizi segreti dei diversi Stati, ma deve anzitutto investire nella riqualificazione delle nostre periferie per evitare che le periferie milanesi, quelle di Palermo o di Napoli diventino delle banlieue o delle Molenbeek italiane”.

Autore della proposta, che sarà esaminata a giugno dall’assemblea di Montecitorio, è anche Andrea Causin, deputato di Area popolare secondo il quale la commissione dovrà concentrarsi su tre obiettivi: “Una forte azione di monitoraggio nei quartieri a prevelenza islamica, una forte mappatura del degrado, ma anche alcune idee da suggerire al Parlamento e al governo per poter agire sul versante della sicurezza e dell’integrazione”.

Se la proposta verrà accolta dalla Camera senza modifiche la commissione sarà composta da venti membri e avrà un anno di tempo per concludere i lavori.

link all’articolo




No alla fiscalità di vantaggio per incentivare gli interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate

DDL Consumo suolo, la commissione Bilancio: “Sopprimere il principio sulla fiscalità di vantaggio”.
La commissione Bilancio della Camera ha dato ieri un parere favorevole, con alcune condizioni, in merito al nuovo testo del progetto di legge recante “Contenimento del consumo e riuso del suolo edificato”.

Il parere recepisce le richieste di modifica formulate dal Governo a nome del viceministro Luigi Casero. Tra queste, “sopprimere il principio e criterio direttivo di cui alla lettera c-bis)” all’articolo 5, comma 1 (che prevede una delega legislativa in materia di interventi di rigenerazione delle aree urbanizzate degradate) volto ad introdurre misure tali da determinare per un congruo periodo una fiscalità di vantaggio per incentivare gli interventi di rigenerazione. La soppressione di tale principio si rende necessaria in quanto “l’attuazione di tale previsione potrebbe richiedere lo stanziamento di risorse con conseguente difficoltà o impossibilità, qualora esse non fossero preventivamente reperite, di esercitare la delega”.

Inoltre, il Governo chiede la soppressione del comma 3 all’articolo 5 “poiché tale disposizione, introducendo un obbligo per i comuni di deliberare, per gli interventi sul patrimonio edilizio esistente, costi di costruzione inferiori a quelli previsti per le nuove costruzioni laddove la normativa vigente prevede in tal senso una mera facoltà, appare suscettibile di determinare minori entrate per i medesimi comuni”.

Per quanto riguarda l’articolo 4, comma 3, che prevede un censimento comunale degli edifici sfitti, non utilizzati o abbandonati esistenti e la pubblicazione delle relative informazioni in forma aggregata e costantemente aggiornate sui siti web istituzionali dei comuni interessati, “appare necessario inserire un’apposita clausola di invarianza finanziaria”.

Il Governo ha inoltre chiarito che l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e il Consiglio per la ricerca in agricoltura e per l’analisi dell’economia agraria (CREA) “possono svolgere gli adempimenti di cui all’articolo 3, comma 7, relativi al monitoraggio sulla riduzione del consumo del suolo, con le risorse disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”.

link all’articolo




Fare tanto con poco in luoghi marginali

E’ il messaggio del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura 2016
Il tema svelato da Tam associati: «Taking care – Progettare per il bene comune»

Il Padiglione Italia alla 15a Biennale di Architettura di Venezia parlerà della capacità dell’architettura di saper creare bellezza e di operare per il bene comune in luoghi marginali, nonostante la scarsità di risorse. Un’assenza di mezzi che spesso – come alcuni esempi italiani di rigenerazione ci insegnano – viene bilanciata dalle energie del luogo, da associazioni, da cittadini attaccati al loro territorio e pronti ad agire, se interpellati. Energie capaci di sostenere le idee e di facilitarne la realizzazione.

Un messaggio rivolto non solo agli architetti interessati ad operare per il bene comune, ma anche ai committenti e ai decisori politici. È quanto è emerso dalla presentazione dei contenuti dell’allestimento curato da Tam Associati all’interno del Padiglione che rappresenterà l’Italia alla Biennale.
Qual è la buona architettura e in che modo questa può fare il bene della comunità, è il tema al quale dare risposta. Un tema non scontato se per buona architettura, come ha affermato Massimo Lepore (curatore dell’allestimento insieme a Simone Sfriso e a Raul Pantaleo), intendiamo quella capace di creare bellezza e armonia intorno a sé, tanto da generare condivisione, appropriazione e rispetto del luogo.

«La cura dei luoghi è attenzione agli individui», ha ricordato ancora l’architetto Lepore. Dunque è soprattutto una responsabilità dei decisori politici, è obbligo della politica affrontare i problemi delle periferie, promuovere l’inclusione e la lotta alla marginalità. E se si dimostra che si possono ottenere risultati anche con poco, impegnando piccole risorse, allora si dimostra anche che le azioni sono possibili e che non ci sono alibi per iniziare ad agire.
I progetti in mostra e la creazione di dispositivi mobili sostenuti dal crowdfunding

In mostra ci saranno progetti realizzati che sono stati in grado di trasformare i luoghi a vantaggio delle comunità. Progetti di piccola scala ma ricchi di energia. Saranno venti gli studi italiani che parteciperanno, pronti ad evidenziare molteplici approcci, varietà di attori, pluralità di obiettivi dei lavori svolti. La selezione spazia in campi come l’abitare, il lavoro, la salute, l’istruzione, la cultura e valorizza il rapporto tra una committenza variegata (pubblica, privata, associativa, civica) e un’architettura parte attiva nel processo di partecipazione e condivisione.
20 progetti di studi italiani all’interno del Padiglione Italia

Non si conoscono i nomi dei partecipanti, non sono stati svelati. Così come restano avvolti nel mistero i nomi dei progettisti chiamati a progettare cinque dispositivi mobili insieme ad associazioni nazionali impegnate nel contrasto alla marginalità in aree periferiche del nostro Paese.

Saranno realizzati 5 artefatti personalizzati in un lavoro congiunto tra progettisti e associazioni, che porteranno – in un progetto complessivo di sussidiarietà sociale -, qualità, bellezza e diritti laddove manchino o risultino limitati.

Per la realizzazione dei dispositivi all’apertura della Biennale sarà attivata un’azione di crowdfunding, in modo da ottenere altre risorse oltre a quelle messe in campo dagli sponsor.

La selezione dei progetti spazia in campi come l’abitare, il lavoro, la salute, l’istruzione, la cultura e valorizza il rapporto tra una committenza variegata (pubblica, privata, associativa, civica) e un’architettura parte attiva nel processo di partecipazione e condivisione.

L’allestimento di Taking care avviene inoltre all’insegna del ‘low-cost’, privilegiando la riduzione del superfluo e la creazione di valore aggiunto, ottimizzando costi, efficienza e riuso.
Le domande da cui è partita la scelta dei progetti del Padiglione Italia

In cosa risiede il valore sociale dell’architettura?
Quali sono i parametri che permettono di definire un’opera di architettura come esemplare?
Perché una comunità dovrebbe riconoscersi nel lavoro dei suoi architetti?
Come può l’architettura contribuire a creare un bene comune che tutti utilizzano e di cui tutti si appropriano?
In che modo parlare di architettura laddove i mezzi sono limitati?
Le periferie sono sempre più periferie dei diritti: come può l’architettura promuovere l’inclusione e la lotta alla marginalità?

PADIGLIONE ITALIA
Biennale di Architettura 2016

28 maggio – 27 novembre 2016
Tese delle Vergini, Arsenale 30122 Venezia.

Sito ufficiale del Padiglione Italia 2016: www.takingcare.it

link all’articolo




Periferie degradate: ecco il bando da 500 milioni di euro

Si potrà partecipare solo con progetti definitivi. La priorità ai progetti cantierabili e cofinanziati

Con due mesi di ritardo dalla scadenza del 31 gennaio, il Bando da 500 milioni di euro per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie prende forma, anche se non stabilisce ancora la data entro la quale si dovranno inviare le domande.

Lo schema di bando definisce però i soggetti proponenti, la tipologia d’interventi ammessi, i requisiti e i criteri di valutazione.

Bando periferie: requisiti di ammissibilità

La bozza del bando chiarisce che potranno partecipare soltanto le città metropolitane e i comuni capoluoghi di provincia.

Si specifica che gli interventi dovranno riguardare le aree urbane caratterizzate da situazioni di marginalità economica e sociale, degrado edilizio e carenza di servizi e non dovranno consumare altro suolo.

Per velocizzare la realizzazione degli interventi potranno partecipare al bando solo progetti definitivi o esecutivi, conformi agli strumenti urbanistici vigenti.
Lo schema di bando precisa che ogni progetto potrà ricevere un finanziamento massimo di 18 milioni di euro.

Gli interventi potranno riguardare uno o più delle seguenti categorie:
– progetti di miglioramento della qualità del decoro urbano;
– progetti di manutenzione, riuso e rifunzionalizzazione di aree pubbliche e di strutture edilizie esistenti, per finalità d’interesse pubblico;
– progetti volti all’accrescimento della sicurezza territoriale e della capacità di resilienza urbana;
– progetti per il potenziamento delle prestazioni e dei servizi di scala urbana, tra i quali lo sviluppo di pratiche del terzo settore e del servizio civile, per l’inclusione sociale e la realizzazione di nuovi modelli di welfare metropolitano e urbano;
– progetti per la mobilità sostenibile e l’adeguamento delle infrastrutture destinate ai servizi sociali e culturali, educativi e didattici, nonché alle attività culturali ed educative promosse da soggetti pubblici e privati.

Bando periferie: i criteri di valutazione dei progetti

Nella valutazione dei progetti si stabiliscono delle priorità, assegnando un punteggio a seconda dei criteri valorizzati nel progetto.
Se tutto dovesse rimanere come definito nella bozza di bando, verrebbero assegnati 25 punti ai progetti di tempestiva esecuzione.

Stesso punteggio per i progetti che prevedono un cofinanziamento, ovvero che siano in grado di “attivare sinergie tra finanziamenti pubblici e privati, laddove il contributo finanziario di questi sia pari almeno al 25% dell’importo complessivo necessario alla realizzazione del progetto”.

Sarabbero premiati, con 20 punti, anche i progetti che tengano conto “fattibilità economica e finanziaria” e quegli interventi di “qualità e innovatività sotto il profilo organizzativo, gestionale, ecologico ambientale e architettonico”.

Infine previsti 10 punti ai progetti capaci di “innescare un processo di rivitalizzazione economica, sociale e culturale del contesto urbano di riferimento”.

Bando periferie: documentazione da allegare
Dopo la pubblicazione ufficiale del bando, le candidature dovranno essere inviate per posta elettronica alla casella Pec “programma.periferieurbane@pec.governo.it”.

Alle domande dovranno essere allegati i seguenti documenti:
– una relazione generale, nella quale siano illustrati la tipologia e le caratteristiche del progetto
il costo complessivo del progetto, il piano finanziario, i tempi di esecuzione, ecc;
– il cronoprogramma;
– una scheda relativa ai soggetti pubblici e privati cofinanziatori del progetto;
– le delibere di approvazione del progetto;
– una dichiarazione del RUP relativa alla conformità degli interventi proposti con gli strumenti di pianificazione urbanistica.

Inoltre sarà necessario allegare la documentazione cartografica (planimetrie e disegni tecnici in scala), e, nel caso di progetti in aree vincolate, le relative autorizzazioni.

Se tutto dovesse essere confermato, entro il 31 maggio 2016 la presidenza del Consiglio approverà i progetti da inserire nel Programma; successivamente saranno stipulate le convenzioni o gli accordi di programma con gli enti promotori dei progetti.

Bando periferie

Link all’articolo




Italia tra periferie e riscatto

Biennale Architettura: il Padiglione Italia della prossima mostra di Venezia si intitola “Taking care”. Gli ideatori: progettare per il bene comune riduce esclusione e marginalità.
Architettura come servizio alla comunità, attenzione agli individui, attenzione agli spazi, ai luoghi e alle risorse. Ecco la spinta propulsiva che ha portato alla creazione del Padiglione Italia dal titolo: «Taking care», sottotitolo, Progettare per il bene comune, che sarà aperto per la 15. Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, presentata (lunedì 4 aprile) a Roma. «Un’architettura che faccia la differenza» è il proposito di TaMassociati, il team curatoriale dell’edizione 2016 del Padiglione, composto da Massimo Lepore, Raul Pantaleo e Simone Sfriso. «Un’architettura partecipata e intelligente, in grado di scardinare gli status quo e di immaginare un futuro migliore». Un progetto proposto alla Biennale Architettura 2016 con l’intenzione di radicarsi e riprodursi al di fuori di essa, per generare una nuova consapevolezza civica. Un’architettura al servizio del bene comune sociale, baluardo contro le frontiere create da marginalità ed esclusione.
Un progetto molto apprezzato dal Ministro Dario Franceschini, ospite alla presentazione assieme al presidente della Biennale Venezia Paolo Baratta. E proprio il Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo ha sottolineato quanto questo procedere per il bene comune debba interessare soprattutto le periferie, in quanto rappresentano «la vera sfida del XXI secolo, luoghi in cui vive lavora e sogna la grande maggioranza degli abitanti delle nostre città. Organizzare questi spazi, connetterli ai grandi flussi metropolitani rispettandone le identità, restituire loro bellezza e armonia è il grande ruolo che gioca l’architettura in questo contesto». Politiche perciò, volte a sostenere processi virtuosi di riqualificazione.
Il tema di Biennale Architettura 2016 è stato scelto dal Direttore artistico Alejandro Aravena, proprio perché indagasse la necessità di comprendere in un unico insieme, l’architettura con la qualità della vita delle persone. E infatti il presidente Baratta avverte: «Abbiamo temuto che l’architettura rischiasse di non avere altre alternative, oltre a quella della realizzazione di interventi spettacolari o di bricolage. Questa Biennale vuol dirci che l’architettura è partecipe di una grande finalità: dar forma allo spazio comune».
All’interno del Padiglione Italia, venti progetti di studi italiani in cui si evidenziano differenti approcci. La selezione spazia in campi come l’abitare, il lavoro, la salute, l’istruzione, la cultura e valorizza il rapporto con la committenza, pubblica o privata, associativa o civica. Nel percorso espositivo, una rassegna di scatti fotografici e cinque progetti inediti realizzati in un lavoro congiunto tra progettisti e associazioni nazionali impegnate nel contrasto alla marginalità in aree periferiche del Paese.

Link all’articolo




Oggi Gesù abita nelle periferie

Esce il libro di Andrea Riccardi.
Nel volume lo storico esplora la nuova frontiera della Chiesa nel mondo globale
Vivere il Vangelo tra la gente dei quartieri degradati, l’impegno indicato dal Papa.
Pubblichiamo un estratto dal saggio dello storico Andrea Riccardi «Periferie. Crisi e novità per la Chiesa» (Jaca Book), che esce giovedì 7 aprile. Un viaggio nelle realtà marginali che si richiama agli appelli di Papa Francesco.

La condizione umana è cambiata rapidamente nel XX secolo: ai primi del Novecento solo un decimo degli abitanti del mondo viveva nelle città, soprattutto nel Nord America e in Europa, mentre nel 2030 si prevede che quasi il 60% della popolazione mondiale sarà urbana. Il pianeta è una realtà ormai urbanizzata: nel secolo scorso si è avviata la grande svolta, che ha invertito il rapporto tra città e campagne. Nel 2007, in pieno processo di globalizzazione, per la prima volta nella storia umana, gli abitanti delle città hanno superato quelli delle campagne: il mondo è divenuto essenzialmente urbano. Ma tutto questo è avvenuto in modo molto particolare: gran parte della popolazione delle città vive ormai nelle periferie. Paolo Sellari osserva che le città del Terzo Mondo tendono a riprodurre la dialettica centro-periferia che in larga parte caratterizza ancora oggi il mondo socio-economico, non solo nei centri urbani ma in interi Paesi.

La periferia caratterizza in profondità il mondo contemporaneo con agglomerati che si addensano attorno alle città. Infatti il processo di urbanizzazione globale induce un fenomeno caratteristico della città contemporanea: la cosiddetta slumizzazione. Nel 2003, il 71,9% della popolazione dell’Africa subsahariana vive negli slum. Questa è la condizione urbana più diffusa nel continente: quella di periferico. A livello mondiale gli abitanti degli slum accolgono oggi il 31,6% della popolazione. È un popolo enorme. Un mondo che non ha voce, ma riceve costanti messaggi da un centro («mediatico»), che attrae verso standard di vita peraltro non praticabili. I periferici sono un popolo di «esclusi», che vengono continuamente sollecitati e messi a contatto con modelli non raggiungibili.

I problemi concreti posti dal rapido cambiamento della condizione di vita della popolazione mondiale sono numerosi: da quelli inerenti agli approvvigionamenti alimentari, a quelli della diminuzione o dell’inquinamento delle risorse idriche, alla difficoltà dei trasporti urbani (inadeguati o estremamente carenti in alcune città), agli ovvi, ma drammatici, problemi del lavoro. La realtà umana e sociale della città del XXI secolo è fortemente diversa da quella della città novecentesca. La presenza di grossi agglomerati di proletariato (quindi di periferici) nella città novecentesca spesso era in rapporto dialettico o conflittuale con il «centro» attraverso la realtà della lotta politica e sindacale, ma in fondo si ritrovava — pur in contrapposizione — all’interno di un orizzonte comune. Attraverso lo scontro e la politicizzazione delle aspirazioni della periferia, si veniva a creare un processo integrativo.

Oggi è molto diverso. Le periferie, che sono molto più integrate da un punto di vista di comunicazione rispetto a quelle del secolo scorso, sono invece distaccate e non rappresentate da un punto di vista sociale e politico. Qui spesso le reti sociali sono scadenti o assenti. Il controllo sugli spazi urbani periferici risulta complesso e difficile, tanto che vaste aree — specie nelle megalopoli — finiscono sotto il dominio di mafie e di cartelli internazionali o nazionali del crimine.

La città del XXI secolo è sempre meno una comunità di destino. Anzi, mentre una parte di essa viene assorbita nei flussi globali e procede sulla via dell’internazionalizzazione, un’altra resta ai margini e fuori dai circuiti di integrazione, se non sprofonda in una condizione di isolamento. Sono i quartieri abbandonati dove spesso le persone vivono per l’intera esistenza e dove forse i figli faranno la stessa vita dei genitori. L’universo delle megalopoli si è strutturato in modo che molto spazio abitato diventi luogo di esclusione. La megalopoli produce costantemente periferie urbane e periferizzazioni umane. Di fronte a questa realtà, specie nel Sud del mondo, lo Stato e le istituzioni sovente rinunciano ad un controllo reale di questi spazi. Diventa un mondo perduto, in cui i drammi umani e sociali si annodano con reti criminose e ribellismi endemici, nel quadro di una cultura della sopravvivenza.

Il cristianesimo — su impulso di papa Bergoglio — ha la possibilità di comprendere in modo nuovo la condizione umana e urbana del XXI secolo. Certo questo processo richiede profondi cambiamenti. Non è più possibile affrontarlo con la mappatura territoriale, tipica di altre età, fortemente influenzata dal mondo delle campagne, che divideva lo spazio in circoscrizioni predefinite. L’idea stessa di territorio come habitat esclusivo dell’uomo e della donna è rimessa in discussione dalla mobilità umana e dai trasporti, oltre che dalle comunicazioni via internet. Il sistema pastorale si rivela inadeguato.

Dopo il Vaticano II, sulla scorta del rinnovamento dell’eccelesiologia, si è molto insistito sulla dimensione della Chiesa locale, ma è stato un rinnovamento a metà. La Chiesa locale, a sua volta, ha spesso una visione centralistica che non dà spazio alle periferie. Non basta dividere le diocesi e rendere il centro più prossimo alle periferie. Occorre suscitare nuove realtà cristiane nelle periferie, accettandone la storia e la configurazione. Non tutto può essere programmato dal centro. E la diversità delle esperienze cristiane sullo stesso territorio non significa competitività. Il vero punto focale è quello di un cristianesimo inserito nella cultura e nella realtà urbana, soprattutto, delle periferie.

Papa Francesco, parlando ai superiori generali delle comunità religiose, ha fatto un’importante affermazione: «Io sono convinto di una cosa: i grandi cambiamenti della storia si sono realizzati quando la realtà è stata vista non dal centro, ma dalla periferia. È una questione ermeneutica: si comprende la realtà solamente se la si guarda dalla periferia, e non se il nostro sguardo è posto in un centro equidistante da tutto».

La «chiave ermeneutica» di Franceso non è un progetto di riforma della Chiesa attraverso strutture più decentrate. È una proposta che va recepita e realizzata con costruttività, inaugurando o continuando percorsi nelle periferie e con una visione dal basso. Bisogna infatti chiedersi che cosa significa vivere il Vangelo in un mondo urbano globale così cambiato, anzi vorrei dire in una «civiltà» per tanti aspetti nuova, come quella introdotta dalla globalizzazione. Per compiere questa operazione così importante, che rappresenta un passaggio storico, occorre dislocarsi nelle periferie come vissuto cristiano e come punto di partenza per un’intelligenza della realtà. Non si tratta di una posizione ideologica, ma di ripensare una storia che può e deve ricominciare da queste posizioni e di maturare una visione in questi ambienti.

Il tema delle periferie e quello della città globale segnano un passaggio fondamentale da una concezione ecclesiastica della Chiesa e della pastorale, che faticosamente e con contraddizioni ha provato a recepire il Concilio Vaticano II, a una concezione di Chiesa di popolo. Non si tratta certo di sottovalutare il ministero sacerdotale, ma di non concentrare in esso tutta la responsabilità pastorale (come si fa generalmente, nonostante i tanti discorsi di segno contrario e quelli ricorrenti contro il clericalismo). Si deve far emergere un popolo che, nella sua complessità e interezza, sia capace di comunicare il Vangelo, di viverlo nelle periferie delle città, di dar origine a percorsi cristiani diversi, anche se convergenti nell’unica grande famiglia della Chiesa.

link all’articolo




Le periferie d’Europa e la profezia (inascoltata) del Papa

Da Molenbeek e Saint Denis, le periferie delle capitali europee sono associate al terrorismo. Ma Francesco aveva avvertito: nessuna ’intelligence’ ci salverà se abbandoniamo una parte della società. Il degrado facilita la manipolazione da parte di organizzazioni criminali. La necessità di abbattere le barriere dell’egoismo per costruire legami solidali e comunità aperte.
Le periferie, tema chiave del magistero di papa Francesco, sono tornate di stringente attualità nel corso dell’ultimo anno e mezzo, da quando cioè una serie di attentati terroristici sanguinosi e drammatici, ha devastato due grandi capitali europee – Parigi e Bruxelles – e le indagini condotte dalle forze dall’ordine hanno portato a ricercare gli autori delle stragi nelle periferie delle stesse città colpite. In particolare di Bruxelles abbiamo imparato a conoscere il quartiere di Molenbeek, della capitale francese è tornato più volte il nome dell’area di Saint Denis, piena banlieue, già centro negli anni passati di proteste e scontri. Entrambe le zone, come molte altre in vari Paesi europei, sono segnate da una forte concentrazione di immigrati di nuova o vecchia generazione, dove un crescente disagio sociale fatto di disoccupazione, degrado ambientale e sociale, assenza di politiche per l’integrazione, si è sommato a fattori endogeni quali resistenze culturali, fondamentalismi, rifiuto del concetto di cittadinanza, un collasso crescente della legalità.
Secondo il parere convergente di molti osservatori e studiosi, è in contesti come questi che è cresciuto un islam settario, più ideologia politica totalizzante che fede religiosa, più simile a una forma di sfogo anti-sistema criminale e violento che a una lettura tradizionalista del Corano. Francesco, da parte sua, ha parlato fin dal principio del suo pontificato, delle periferie sociali, urbanistiche, degli scartati, e poi delle periferie esistenziali, avvertendo per tempo il nostro mondo – che forse non l’ha saputo ascoltare – di come le periferie del mondo non fossero solo quelle di Paesi africani o asiatici, ma di quanto anzi erano vicino a noi, bastava sollevare lo sguardo verso i confini delle nostre città.
E’ allora da rileggere per la sua clamorosa attualità e preveggenza uno dei passaggi forse più difficili da assorbire per un lettore europeo del documento «Evangelii gaudium», nel quale il papa a pochi mesi dalla sua elezione, tracciava un programma per il pontificato. Francesco affrontava il tema della violenza in rapporto a temi come l’urbanizzazione e l’integrazione: «Quando la società – locale, nazionale o mondiale – abbandona nella periferia una parte di sé, non vi saranno programmi politici, né forze dell’ordine o di intelligence – spiegava – che possano assicurare illimitatamente la tranquillità. Ciò non accade soltanto perché l’inequità provoca la reazione violenta di quanti sono esclusi dal sistema, bensì perché il sistema sociale ed economico è ingiusto alla radice».
«Come il bene tende a comunicarsi – aggiungeva – così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende ad espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire. Se ogni azione ha delle conseguenze, un male annidato nelle strutture di una società contiene sempre un potenziale di dissoluzione e di morte». Difficile non vedere la precisione dell’analisi che forse poteva apparire troppo forte e dura, ma oggi ci accorgiamo corrisponde in modo fin troppo preciso alla realtà. Non per caso, allora, Francesco, da Scampia a Napoli, a Manila, a Ciudad Juarez, a Castelnuovo di Porto frequenta le periferie, incontra le persone e distingue fra terroristi e vittime, scegliendo di umanizzare e non di criminalizzare i territori e coloro che ci vivono.
Importante poi come il tema periferia veniva affrontato anche nell’enciclica «Laudato sì», sotto il profilo del rapporto fra condizione umana e ambiente circostante, fra qualità della vita, modelli di comportamento e valori condivisi. «…E’ provato inoltre – affermava il pontefice – che l’estrema penuria che si vive in alcuni ambienti privi di armonia, ampiezza e possibilità d’integrazione, facilita il sorgere di comportamenti disumani e la manipolazione delle persone da parte di organizzazioni criminali. Per gli abitanti di quartieri periferici molto precari, l’esperienza quotidiana di passare dall’affollamento all’anonimato sociale che si vive nelle grandi città, può provocare una sensazione di sradicamento che favorisce comportamenti antisociali e violenza». «Tuttavia – aggiungeva – mi preme ribadire che l’amore è più forte. Tante persone, in queste condizioni, sono capaci di tessere legami di appartenenza e di convivenza che trasformano l’affollamento in un’esperienza comunitaria in cui si infrangono le pareti dell’io e si superano le barriere dell’egoismo. Questa esperienza di salvezza comunitaria è ciò che spesso suscita reazioni creative per migliorare un edificio o un quartiere».
Insomma la risposta era in una comunità virtuosa e non chiusa, nella costruzione di legami solidali. Anche per questo il papa indicava alla Chiesa la strada delle periferie, cioè dell’uscita verso gli altri e il mondo, anche se, aggiungeva, occorre farlo in modo non casuale. Allo stesso tempo, spiegava Francesco, la periferia è alla base stessa dell’esperienza cristiana: «Tutto il cammino della nostra redenzione – afferma Bergoglio in un altro brano di Evangelii Gaudium – è segnato dai poveri. Questa salvezza è giunta a noi attraverso il ’sì’ di una umile ragazza di un piccolo paese sperduto nella periferia di un grande impero».

link all’articolo




Abitare è un gesto politico e le città si cambiano raccontandole diversamente

Via Padova, Giambellino, Quarto Oggiaro: per lo scrittore e architetto milanese Gianni Biondillo i “quartieri difficili” di Milano non sono paragonabili ai quartieri ghetto del Belgio e della Francia: «Abbiamo fatto le cose all’italiana, paradossalmente è per questo che ci salviamo».

Architetto, narratore, nato e cresciuto a Quarto Oggiaro, tra gli organizzatori di Sentieri Metropolitani, un programma di camminate di riscoperta cittadina, Gianni Biondillo è probabilmente la persona migliore, a Milano, con cui discutere di periferie e il salotto di casa sua, una vecchia casa di ringhiera all’inizio di via Padova, è il luogo perfetto per cominciare.

«Le case di ringhiera servivano per garantire la massima resa in un minimo spazio», ci racconta, «ma anche per cercare, sotto la spinta di un’idea architettonica positivista, di gestire l’igiene cittadina in un contesto di massiccio aumento della popolazione. Poi, un po’ per questioni di estrazione sociale, un po’ per condizioni tipologiche dell’edificio si erano create in quegli edifici delle aggregazioni sociali e dei sistemi di comunità molto interessanti.

Non c’era dietro un ragionamento di architettura sociale o un tentativo di costruire un nuovo tessuto sociale inclusivo per i nuovi abitanti di Milano che ci venivano a vivere quindi?
No, non credo proprio. E infatti, quegli stessi edifici, oggi abitati da classi sociali diverse, non hanno portato alla stessa dinamica di inclusività sociale. Tutt’altro: i cortili si sono svuotati dei bambini che ci giocavano, le porte sono blindate, è tutto pulitissimo, perfetto, e nessuno sta più sui ballatoi, perché ormai quelli che erano piccoli bilocali si sono trasformati, per fusione tra loro, in loft enormi con l’aria condizionata. Questo dimostra come la tipologia di una abitazione non sia sufficiente a innescare dinamiche inclusive di comunità.

Da quanto vivi in via Padova? Come mai hai scelto questo quartiere?
La mia scelta di abitare in via Padova è stata una scelta politica. Ci siamo trasferiti qui quando De Corato aveva istituito il coprifuoco, nel 2010, in seguito a una storia di omicidio che, così come ce lo avevano raccontato, aveva visto protagonisti due immigrati che abitavano in via Padova, salvo poi risultare che né la vittima né l’assassino abitavano qui. Avevano bisogno di fare del terrorismo psicologico, avevano bisogno di una storia da raccontare per stigmatizzare questo quartiere. È stato per quello che in quel momento abbiamo deciso di venire a vivere qui. E oggi che sono passati ormai sei anni sono contentissimo della scelta.

Perché?
Perché non è affatto vero che questo è un quartiere pericoloso, per prima cosa. E poi perché è un quartiere vivo, dinamico, ricco. Guarda solo questo cortile, è ricchissimo: c’è una famiglia albanese, una srilanchese qua sotto, una peruviana, una cubana, più in là ci sono anche delle prostitute ucraine. Questo quartiere è perfetto per la gentrificazione e in effetti sta accadendo, il processo si è innescato, perché Via Padova è un luogo che ha una qualità urbana altissima.

Hai parlato di gentrificazione, una parola molto usata negli ultimi anni, che dinamica identifica?
La gentrificazione è una dinamica tipica delle metropoli e seppur sia una parola abusata, in realtà la dinamica che le soggiace è complessa. Coinvolge quartieri che per ragioni storiche o topografiche non sono appetibili per le fasce sociali più ricche, ma che a un certo punto si trasformano. Succede che, a causa dei prezzi bassi, arriva nel quartiere una nuova tipologia di persone con spazi mentali differenti, artisti, intellettuali, studenti. A quel punto la gentrificazione è partita, i prezzi cominciano piano piano a salire, il quartiere diventa attrattivo, vitale e dinamico, attira attività commerciali e, nel giro di un po’ di anni, passa dall’essere iperpopolare all’essere esclusivo. Questo è quello che è successo a Brera negli anni Sessanta, ma anche, più recentemente, all’Isola.

Perché via Padova, come altre periferie di Milano, è considerata da tanti come un posto pericoloso, una cosiddetta “periferia a rischio”?
C’entra l’ignoranza, ma anche il racconto che ne fai. Pensa che sono andato qualche mese fa a Londra, nei quartieri più etnici, quelli che si celebrano per i mercati di cianfrusaglie, di vestiti a poco prezzo, di street food. Mi sono guardato intorno e ho pensato: “Ma questa è via Padova”. È un po’ ridicolo pensare che le stesse tipologie di luoghi, a Londra li consideriamo attraenti e particolari, mentre qui a Milano li consideriamo pericolosi.

E qual è la differenza?
Come la racconti.

Ovvero?
Prima di tutto permettimi di dire che, quando si parla di periferie, io metto mano alla pistola.

Perché?
Perché le periferie non esistono e perché ognuno di questi luoghi ha una sua storia specifica, un suo sviluppo, un suo modo di essere che li rendono non paragonabili tra loro. Non si può confrontare via Padova con il Giambellino, o il Giambellino con Quarto Oggiaro. Hanno distanze differenti, hanno origini diverse e abitanti diversi. Chi le considera tutte uguali evidentemente non è mai uscito dal suo quartierino borghese e pensa che, appena fuori dal centro storico, sia un grande Hic sunt leones, popolato da mostri con tre teste e sei braccia. È gente che va a fare shopping milionario in via Montenapoleone, senza sapere che un secolo fa era la zona più malfamata di Milano. La cosa di cui possiamo ridere è che i nipoti di questa gente probabilmente compreranno proprio queste case, una volta che la gentrificazione sarà completata.

Che storia ha questo quartiere?
Via Padova ha sempre avuto come vocazione l’accoglienza della gente che arrivava in città. Prima degli immigrati stranieri di oggi e prima ancora di quelli meridionali degli anni Cinquanta, quelli che venivano da Est, soprattutto dal Veneto, la regione più povera d’Italia alla fine dell’Ottocento, si fermavano qui in via Padova. Era la strada che portava alla dogana di porta Venezia. Sempre su questa via, ma in fondo, a Cascina Gobba, c’era la cosiddetta Corte d’America, un cortile dove ci si ritrovava per prepararsi a emigrare in America.

Poi cosa è successo?
Negli anni successivi, anche le altre ondate di migranti sono state accolte da questa via, che ha mantenuto una vitalità molto forte e che, soprattutto in questi ultimi anni, non è affatto un posto pericoloso. È una via dove la sera la gente cammina, mentre nel centro storico, la sera, non ci cammina nessuno.

Perché in centro non ci abita più nessuno?
Perché c’è stato un cambio di funzione, ma soprattutto un mare di investimenti da parte di banche che hanno comprato migliaia di immobili.

Qual è la specificità di via Padova?
Via Padova è lunga 4 chilometri e mezzo, non si può pensare che sia un quartiere omogeno. E infatti è un quartiere fatto a macchie, perché la nuova immigrazione è arrivata in maniera maculare.

Cosa significa?
Le prime ondate di immigrazione erano state gestite politicamente da una città che aveva molti più soldi e aveva costruito appartamenti, servizi. Certo, con tutti i problemi del caso, visto che spesso erano quartieri difficili come Quarto Oggiaro, quello dove sono cresciuto io, ma pur essendo “quartieri dormitorio” costruiti per accogliere i lavoratori delle fabbriche, in fondo hanno retto.

Perché?
Perché tutti avevano una casa, in fondo. Tutti sono riusciti ad andare a scuola, hanno avuto accesso ai servizi. E c’era un tessuto sociale.

Cosa è cambiato ora?
All’epoca c’erano le sedi di partito, le case del popolo, gli oratori che erano dei presidi territoriali impressionanti — e la Chiesa, bisogna dirlo, è tuttora un’istituzione che si sobbarca molti degli sforzi di accoglienza — e poi le fabbriche, che sapevano costruire un tessuto sociale. Tutto ciò è sparito ora.

E quindi?
E quindi la nuova immigrazione, quella degli ultimi vent’anni, non è stata gestita per niente dalla politica, che ha lasciato che il mercato risolvesse il problema. Ma il mercato non ha il dovere, come la politica, di essere etico, il mercato cerca il profitto e quindi i nuovi arrivati si sono stabiliti in città a macchie, senza un ordine o un disegno preciso. E infatti questa nuova immigrazione non si è vista nei palazzi, non è stata una variazione topologica, è stata una variazione antropologica: sono cambiate le facce, i sapori, i colori, non i palazzi. L’ultimo cambiamento topografico di Milano, quello che ha coinvolto quartieri e palazzi, ha origini completamente diverse, private, commerciali e di investimento. E infatti tutte le nuove case che abbiamo costruito negli ultimi anni sono quelle che hanno ridisegnato lo skyline del centro, come il Bosco Verticale, case che costano più di 10mila euro al metro quadro, stiamo costruendo grattacieli. E i soldi vengono dalla Russia, dai paesi del Golfo, dalla Cina.

Eppure negli ultimi mesi quartieri-ghetto come Molenbeek a Bruxelles si sono rivelati essere molto pericolosi…
Io faccio di cognome Biondillo e sono figlio di un campano e di una siciliana, quindi il classico figlio del boom economico. Sono nato a Milano da due genitori che sono venuti a Milano, che si sono conosciuti a Milano e sono milanese fino al midollo, e quando vedo che i compagni di classe stranieri delle mie figlie vengono identificati come immigrati di seconda generazione mi viene da ridere. È come se io venissi definito come meridionale di seconda generazione. È ridicolo. E così capisci che spesso i ghetti sono definizioni, parole, racconti. I ghetti iniziano nella testa. Il problema è che a un certo punto diventano reali e generano quello che abbiamo visto a Bruxelles, o qualche anno fa a Parigi.

I nostri quartieri “difficili” sono paragonabili a quelli? Secondo c’è il rischio che via Padova diventi la Molenbeek italiana?
No, per niente. Sono contesti decisamente diversi. Ed è proprio la macularità che ci “salva” da quella situazione.

Ovvero?
La nuova immigrazione in Italia non ha avuto una gestione politica dal punto di vista dell’emergenza abitativa. E quindi si è infilata dove le è capitato. A macchie. Non ha formato quartieri ghetto, anche se ha generato tantissime situazioni di degrado sociale. Quindi, proprio per questa capacità tutta italiana di fare le cose a caso, senza programmare e senza pensare al lungo periodo, ci siamo ritrovati con una situazione molto meno esplosiva di quella francese o di quella belga. In quei paesi la struttura centralista è molto forte e il centro comanda per davvero, i quartieri sono etnicizzati — c’è il quartiere dei filippini, quello dei maghrebini, quello dei pakistani — è una vera e propria ghettizzazione.

E a Milano?
A Milano, dove questa cosa non è successa se non in Paolo Sarpi, i quartieri sono veramente multiculturali. E basta fare un giro in via Padova, per esempio, per notare facce di tutti i paesi: indiani, maghrebini, africani, cinesi, slavi, russi, sudamericani e così via. Perché ti faccio questo discorso? Perché è vero che non abbiamo il mix sociale, ma abbiamo il mix etnico e in un momento come questo io credo che sia un bene, perchè stiamo mettendo le basi di una società più meticcia, più dinamica, e in fondo più sana. Non è un caso che siano proprio i quartieri monoetnici, i ghetti come Molenbeek a Bruxelles, quelli dove cresce il disagio sociale e, con lui, i giovani terroristi. In un pezzo che scrissi una decina di anni fa, raccolto in Metropoli per principianti, affrontavo il tema delle cosiddette periferie in fiamme, che all’epoca erano le banlieue parigine. All’epoca in molti mi chiedevano di intervenire sull’argomento e chiedevano quasi tutti se avremmo dovuto aspettarcele anche qui da noi quelle rivolte. Io rispondevo e rispondo ancora che no, che quelli che incendiavano le banlieue francesi erano quelli che vengono chiamati impropriamente immigrati di “seconda generazione”, e che spesso addirittura di terza.

Perché impropriamente?
Perché quelli erano francesi come io sono milanese. Avevano passaporti francesi, erano nati sul suolo francese, avevano frequentato le scuole francesi e che in quel momento dalla Francia non ricevevano nulla, neppure il riconoscimento linguistico di essere cittadini. E se i loro genitori o i loro nonni questa cosa l’avevana accettata, questi ragazzi non la accettavano più e protestavano.

Cosa è cambiato da allora?
In realtà molto poco. E infatti gli attentatori di Parigi e di Bruxelles non erano siriani o iracheni o sauditi. Erano di Molenbeek, erano di Bruxelles. È gente che non è cresciuta in moschea, ma in strada, nei bar, a fumare canne, bere birre e giocare alla playstation. Sono dei disadattati. Questi ragazzi quando le banlieue scoppiavano erano bambini, ora sono cresciuti e non li abbiamo saputi includere nella società e questa è la reazione. Purtroppo si è verificato quello che dicevo all’epoca: se saremo bravi sapremo gestire il cambiamento, scrivevo, se non lo saremo il cambiamento ci gestirà. In Francia e in Belgio è andata così, per noi è stato meno traumatico proprio per quel modo all’italiana — che René Ferretti direbbe alla cazzo di cane — con cui facciamo tutto in questo paese e che, almeno in questo caso, ci ha riparato dalla ghettizzazione etnica. Certo, probabilmente abbiamo creato una ghettizzazione sociale, di classe, ma, almeno per ora, è una aggregazione meno esplosiva. Non possiamo escludere che lo sarà tra qualche anno, ma non ora.

All’inizio dell’intervista hai detto che le periferie non esistono. Che cosa intendi dire?
Che quando parliamo di via Padova o del Giambellino, anche se abbiamo in mente il Cerutti Gino di Gaber, non stiamo parlando di periferie di Milano. La metropoli milanese ormai non è più quella del Comune, quella nata dall’allargamento degli anni Venti. La metropoli di Milano parte da Novara e arriva a Bergamo, ma anche a Lugano e a Genova. Ormai è un’area metropolitana che è extra cittadina, ma anche extra provincia, extra regione e extra nazione. In un certo senso anche Courmayeur è un quartiere di Milano, non si chiama Nolo, ma Curma. Come Santa, per Santa Margherita. Questa metropoli che abitiamo ha 6 milioni abitanti e se stiamo ancora qui a dire che Giambellino o Lambrate sono in periferia io mi lancio per terra e mi sbellico dalle risate. Questi quartieri sono nel centro più assoluto della città. E quando Renzo Piano, persona che stimo e conosco, fa un discorso intelligente come quello del rammendo delle periferie, ma lo fa sul Giambellino, a me fa tenerezza. Mi fa tenerezza perché il Giambellino è sì un quartiere popolare, ha sì le sue criticità, ma ha una identità talmente forte che è quello che ha meno problemi. I quartieri problematici di Milano sono il continuum di villette monofamiliari della Brianza o nelle aree residenziali dell’hinterland milanese, è lì che devi costruire una nuova narrazione perché è quella che è la nuova fabbrica dell’infelicità.

Cosa credi che si debba fare praticamente per cambiare?
Nel 2009 ho fatto con Michele Molina il giro delle tangenziali di Milano. Bene, quelle non sono più tangenziali. Quelle formano la circonvallazione più esterna della città. È quella l’unità di misura che dobbiamo avere in mente, perché la città consolidata arriva fino a lì. Dobbiamo lavorare su questa scala dimensionale, favorire la mobilità veloce pubblica e la mobilità dolce privata (piedi e bicicletta), ma soprattutto abbattere l’uso della macchina e della mobilità privata. A tutti i costi, perché è quella che ci sta uccidendo tutti. Il centro di Milano è una città piccolissima, si può attraversare a piedi. E poi, ripeto, la chiave è tutta nelle narrazioni. E ci sta aiutando anche il web. Paradossalmente anche Facebook, dove si moltiplicano le pagine “identitarie” dei quartieri di Milano, come Sentieri Metropolitani, Milano Sparita, o anche come l’ultima arrivata Yolo in Nolo, e che ha lanciato una nuova etichetta per questo quartiere, un’etichetta che funziona e che sta girando, ma che soprattutto sta dando una nuova narrazione a questa area. Una narrazione che nasce virtuale su internet, ma che si fa fisica, che esce in strada, negli eventi, nelle gallerie, nei mercati. È anche così che si cambiano i quartieri.

link all’articolo