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Periferie, l’innovazione nasce dalla cittadinanza attiva

Dal riciclo all’energia, il valore della socialità nell’economia circolare.
Scomporre e ricomporre le parole, scavare nel loro riapparire nel presente storico dell’attualità dell’inattualità, ci rammenta che il denominare, svela carsici percorsi sociali ed economici di derive storiche altro dallo storytelling ipermoderno. «Cooperativa», sembrava parola sepolta nell’epoca della Connectography (Parag Khanna) che disegna il mondo come nodi di reti hard e soft di logistica, finanza, città spettacolo. Altro che cooperare, l’attualità, è connettersi ai flussi! Se poi denominiamo la cooperativa con la parola antica «comunità», evocando nell’epoca delle community e dei social il massimo dell’inattualità, occorre capire senso e significato attuale della voglia di prossimità nell’epoca della simultaneità.
Come si diceva nel fine secolo, il delinearsi della globalizzazione rimandava all’adagio più globale-più locale, dispiegato oggi nel paradigma Flussi-Luoghi. Che interroga, di fronte all’imperativo connettersi e fare community nella simultaneità, sul cosa resta del locale, del territorio, della prossimità. Le cooperative di comunità vengono avanti e sono nate nel margine territoriale, ma interrogano il centro. Riscoprono il cooperare là dove, dissolta e disgregata «la comunità si fa inoperosa». Nei comuni polvere, nelle aree interne, dove partendo dalla scomparsa dei luoghi di aggregazione e di incontro, si ricostruiscono tracce di comunità. Tema non solo del margine territoriale, basta pensare alle marginalità urbane per capire quanto sia urgente il tema dello spazio pubblico, e dell’essere in comune nelle periferie che si fanno banlieue. Anche le esperienze europee di cooperative di comunità le vedono operare in una sussidiarietà top down ai margini della crisi del welfare state.

La vera questione è interrogarsi se da questa vibratilità del margine di esperienze di welfare di comunità, di rigenerazione e rianimazione di aree a rischio di spaesamento, ove si coopera per fare “comunità che viene” ci sono tracce utili nel loro disegnare smart land, a contaminare il nostro progettare smart city nei nodi di reti urbane. Avendo chiaro, che non c’è smart city innervata dall’innovazione tecnologica, senza social city cooperante. Con la cittadinanza attiva mobilitata nell’economia circolare del riciclo, nella domotica per l’energia, nel car e bike sharing per la mobilità, nel recupero di periferie e spazi pubblici, nell’accoglienza, nell’inclusione e nella sicurezza. L’elenco potrebbe continuare delineando la società circolare che viene avanti solo attraverso una cittadinanza cooperante. Ma l’innovazione dall’alto, da sola, non produce cittadinanza attiva. Questa si aggrega dal basso nella “voglia di comunità”. Anche nelle città spettacolo, nelle aree metropolitane, dove la prossimità del fare cooperative di comunità incontra la simultaneità del fare coworking o fablab per sfuggire alla gig-economy dei lavoretti. Il fare accoglienza ed inclusione incontra i grandi numeri delle migrazioni e dei profughi. Il fare comitati di cittadini si evolve nel cooperare per fare comunità di quartiere ridisegnando spazi e forme di convivenza. Il torrente della storia fa riemergere due parole antiche, usiamole e pratichiamole. Nelle aree interne dell’Appennino devastate dal terremoto, dove la voglia di comunità dei senza casa e senza paese si fa dolore e nelle città metropolitane in divenire, come a Bologna, dove nei quartieri è stato promosso un progetto di sviluppo di comunità per delineare la smart city che verrà.

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Serve una rivoluzione digitale

Per anni abbiamo detto che il PIL non è l’unica unità di misura del benessere.
Ora scopriamo che la società di pubbliche relazioni Portland insieme a Facebook ha compilato un ranking delle nazioni in base al loro soft power ossia l’appeal culturale (una volta si sarebbe detto il trend) che riescono ad avere nel pianeta globalizzato.
Il primo paese è risultato – merito di BBC, Beatles, Oxford, Shakespeare, James Bond, Premier League – la Gran Bretagna e ultimo, incredibile a dirsi, la Cina nonostante la sua enorme potenza economica e politica.
E l’Italia? solo dodicesima nonostante le sue tante bellezze, la cucina, la moda, la Ferrari e così via.
Leggiamo l’analisi di Marino Niola in “La storia non basta se non è social” sulla Repubblica del 22 luglio:
“Per avere soft power bisogna investire in soft culture…la nostra è rimasta sostanzialmente una hard culture, fatta di luoghi fisici e oggetti materiali. E molto meno di relazioni, di innovazioni, di start up, di reti social…la rivoluzione digitale…ha cambiato…le categorie di spazio e di tempo. Oggi per costruire la reputazione di un paese…una buona idea che diventa virale può valere più di una cattedrale…il web…fa schizzare a mille l’immagine di un popolo”
Concludiamo con Habermas: la “percezione definisce la realtà”




Il condominio di strada

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Ovvero la reinvenzione di comunità che si autoregolano

Il Progetto Condominio di Strada promosso da UNIAT e UPPI segna una discontinuità nel modo di fare rappresentanza nel campo dell’abitare. Da una tutela dei diritti dei proprietari di immobili e degli inquilini, esercitati individualmente, si passa alla rappresentanza e tutela dei cittadini che intendono espletare i diritti e i doveri nel campo dell’abitare, sia come individui che come formazioni sociali e comunità di persone. E le due Associazioni predispongono un’offerta efficiente, ordinata ed economica di servizi per supportare la capacità dei cittadini di autoregolarsi per gestire una serie di problematiche che riguardano la loro vita quotidiana, il condominio, il fronte strada e le aree pubbliche adiacenti ai caseggiati.

L’associazionismo nel settore dei servizi per la casa si sviluppa dopo la prima guerra mondiale coi programmi iniziali di edilizia popolare volti ad agevolare la proprietà familiare della casa. Nelle grandi città esistevano già le prime associazioni di proprietari di immobili. Quella di Milano è fondata nel 1893 e raccoglie tra i suoi membri i principali esponenti del notabilato locale, giocando un ruolo determinante nelle dinamiche politiche cittadine. Agisce anche a livello nazionale come gruppo di pressione nell’ambito della Federazione delle associazioni dei proprietari di case. Il soffocamento dell’associazione operato dal regime fascista, che la ingloba nelle proprie strutture corporative, trasformandola prima nell’Associazione fascista della proprietà edilizia (1928) e successivamente nel Sindacato fascista dei proprietari di fabbricati (1934), testimonia il peso raggiunto negli anni da questo sodalizio.

Nel secondo dopoguerra, la Federazione risorge come Confedilizia (1945). A Bologna nasce nel 1948 l’Associazione sindacale dei piccoli proprietari immobiliari per iniziativa di un gruppo di lavoratori e di pensionati, cui presto si uniscono giovani carichi di entusiasmo, che abitano nei quartieri di Levante e di S. Viola. Un fermento associativo e un’atmosfera da “sottosuolo” sociale che rimbalzano nell’Assemblea costituente. La quale ne recepisce le istanze nell’art. 47 della Costituzione:  “…(La Repubblica) favorisce l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione…”. È il frutto di una comunanza di interessi tra gli inquilini delle classi inferiori e i grandi proprietari, i primi desiderosi di acquistare una casa propria, i secondi per disfarsi di un patrimonio non più remunerativo per la tassazione più elevata e il blocco dei canoni. Anche quando, negli anni settanta, nasceranno dai movimenti e dalle consulte per la casa le attuali associazioni di inquilini, il sistema della rappresentanza resterà rigidamente ancorato ad un approccio di tipo “sindacale”, teso cioè a presidiare esclusivamente l’evoluzione delle politiche per la casa e la gestione dei rapporti contrattuali tra proprietari e inquilini. L’offerta di ulteriori servizi richiesti dai cittadini, nell’ambito del settore privato dei servizi per la casa, si svilupperà sulla base di modelli costosi e non aperti alla partecipazione e alla condivisione.

In tale contesto, l’iniziativa di UPPI e UNIAT ha l’ambizione di superare tali limiti offrendo un modello di servizi efficiente, sicuro, meno costoso, soprattutto aperto alla partecipazione dei residenti per la gestione delle strade delle città, riorganizzando le regole di civile convivenza aldilà del tornaconto personale e del mutuo vantaggio.

La libertà di ciascuno di noi non è solo limitata da quella altrui, è anche costruita grazie a quella degli altri. Per essere libero di vivere devo poter comprare del pane e mi serve anche un panettiere che lo produca. Questa evidenza, troppo trascurata, s’impone ancora in modo più impellente con la globalizzazione e con la crescita dell’interdipendenza degli uomini in un pianeta di dimensioni limitate. E poiché la libertà di ognuno si costruisce grazie a quella altrui, ogni persona deve partecipare alla costruzione della libertà degli altri.

Se si accetta sul piano etico l’esistenza di un legame inscindibile tra diritti e doveri, si può ritenere che il diritto alle libertà individuali ha come corrispettivo il dovere di fraternità, cioè l’attenzione consapevole di un individuo nei confronti delle libertà individuali dell’altro, con l’intenzione altrettanto consapevole di difenderle e accrescerle. In tale ottica, la fraternità si potrebbe definire come il dovere della libertà.

Sia le libertà individuali che la fraternità acquisiscono il loro pieno valore e la loro piena utilità solo se associati ad una introspezione personale da parte dell’individuo. Con la riflessione l’individuo autodetermina, in modo pragmatico, sia i limiti delle proprie libertà individuali che i limiti del dovere di fraternità che gli è proprio, bilanciandoli. Da tale equilibrio nasce la responsabilità, la cui natura ed entità ciascun individuo autodetermina liberamente, confrontandole coi punti di vista degli altri. E dal confronto continuo e sistematico tra le persone e i gruppi sulla natura e l’entità della responsabilità che gli individui assumono personalmente scaturisce un probabile sistema di riduzione delle ingiustizie e delle disuguaglianze in modo pragmatico, cioè fondato sull’analisi delle situazioni di fatto. Il dovere di fraternità è, dunque, accompagnato sempre da un percorso razionale di introspezione individuale e collettivo e – senza necessariamente attendersi atti di reciprocità e senza far leva sui sentimenti e sulle emozioni – produce beni relazionali, responsabilità individuale e giustizia sociale.

Le democrazie contemporanee riconoscono e tutelano il diritto fondamentale dei cittadini a disporre di una casa non come un diritto a se stante ma in modo strettamente collegato alla tutela di altri diritti umani. Nell’art. 2 della Costituzione italiana si riconoscono i diritti umani, sia quelli che si esercitano individualmente, sia quelli che si realizzano nella socievolezza, cioè nelle relazioni interpersonali, fondate sul reciproco riconoscimento dei rispettivi bisogni, e nelle formazioni sociali dove gli individui sviluppano la propria personalità. E nel medesimo articolo sono prescritti i doveri di solidarietà politica, sociale ed economica, come elementi imprescindibili dai diritti, necessari entrambi a garantire la convivenza civile.

La collocazione del principio di solidarietà in tale contesto non è privo di significato. Esso è inserito in connessione con il principio personalista: lo sviluppo di ogni singola persona è il fine ultimo dell’organizzazione sociale. E tuttavia l’attuazione di tale principio va ottenuta non solo mediante i diritti dell’individuo, considerato in quanto singola persona o formazione sociale, ma anche mediante i doveri di solidarietà, dei quali “la Repubblica… richiede l’adempimento”. In altre parole, le persone sono destinate a completarsi e perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca e doverosa solidarietà.

Va, inoltre, considerata la qualificazione che connota la solidarietà nella Costituzione. Non è solo politica e sociale ma anche economica. E anche questa caratterizzazione non è priva di conseguenze nell’assetto sociale del Paese. Nell’economia di mercato, qual è quella esistente in Italia, la Costituzione prescrive i doveri di solidarietà economica. Sicché, la competizione, che caratterizza l’economia di mercato, e la solidarietà economica non sono posti in alternativa, bensì in modo complementare: l’economia deve essere competitiva e, al tempo stesso, solidale. Il principio di solidarietà nella nostra Carta costituzionale non è, dunque, assimilabile al “principio di restituzione” o “principio filantropico”, che vige negli Stati Uniti; non è obbligazione morale, ma si inscrive nei doveri di cittadinanza. In Italia la solidarietà è un dovere, il cui adempimento va conseguito mediante ordinamenti e regole. L’idea che la sorregge è che tutte le persone godono di un nucleo di diritti fondamentali ed è un dovere basilare della società (istituzioni, società civile e singoli cittadini) rispettare e sostenere tali diritti. Per poter espletare tale dovere, anche le comunità di cittadini devono darsi ordinamenti e regole e svolgere attività di interesse generale.

Individuare nel condominio una comunità di persone che amplia in modo autonomo e condiviso il ventaglio  dei propri compiti e servizi d’interesse collettivo significa abbandonare sia la visione individualista che quella statalista del diritto alla casa e favorire un approccio relazionale, collaborativo, fraternizzante, di vicinato, di comunità. Si tratta di promuovere tra i proprietari di immobili e gli inquilini la capacità di esercitare il diritto di autoregolazione e autorganizzazione per la gestione di una serie di problematiche che riguardano i condomini, il fronte strada e le aree pubbliche adiacenti ai caseggiati in cui essi vivono senza attendere che tale diritto sia concesso dallo Stato.  Un diritto siffatto è da sempre appartenuto agli individui e alle comunità di persone e adesso occorre rivitalizzarlo in forme nuove e con nuovi contenuti.

Il condominio e la legge

La parola condominio deriva dal latino medievale condominium (con = insieme e dominium = possesso) che significa: “diritto di possesso esercitato insieme con altri”.  Il condominio è una forma di comunione forzosa, necessaria e permanente, cioè imposta dalla legge al verificarsi di determinati presupposti: il primo è che vi siano due o più unità immobiliari nello stesso edificio; l’altro presupposto è la necessaria correlazione tra diritto di proprietà esclusiva e diritti (e obblighi) sulle parti comuni. Il principio generale che informa le norme sul condominio è quello di solidarietà, garantito dall’articolo 2 della Costituzione, che impone un costante equilibrio tra i diritti inviolabili dell’uomo (compresa la libertà economica e la tutela della proprietà privata), sia come singolo sia nelle formazioni sociali, e i doveri inderogabili di solidarietà (compresi i doveri reciproci dei partecipanti alla comunione).

Il condominio ha un inquadramento giuridico molto particolare. Può nascere anche senza un formale atto costitutivo. Appena il costruttore proprietario vende a terzi una porzione di fabbricato suscettibile di uso autonomo, si profila una situazione di condominio. Si tratta, dunque, di uno stato di diritto dipendente da uno stato di fatto puramente naturale, che non scaturisce dalla volontà dei partecipanti ma dalla situazione dei luoghi.

È significativo che quando fu approvato il Codice Civile venisse respinta la proposta del relatore Rossi della Commissione di studio per il progetto del terzo libro di introdurre una disposizione di questo tipo: “A ciascuno dei condomini spetta il diritto di proprietà sulla quota rispettiva, mentre alla collettività dei condomini spetta il diritto di proprietà sull’intero fabbricato. La collettività dei condomini si considera ente distinto dalle persone dei singoli condomini”. La bocciatura di questa norma fece mancare nella legislazione un esplicito legame del condominio alla proprietà collettiva. Non c’è dunque la possibilità di assimilare questa forma di possedere ai domini collettivi, i cui enti, benché non siano proprietari dei beni comuni, sono rappresentanti della collettività e titolari di poteri amministrativi. In Italia esiste una lunga tradizione di questi enti riguardanti i terreni coltivati e i boschi, le cui reliquie si conservano ancora oggi in quasi tutte le regioni. In base alla normativa vigente, il condominio sembrerebbe estraneo a questa forma di possesso.

Anche in occasione del dibattito sulla riforma del condominio del 2012 è riaffiorato il confronto tra la tesi collettivista (la proprietà condominiale intesa come proprietà collettiva) e quella individualista (rigorosamente ancorata alle prerogative proprietarie dei singoli condomini) ed è stata confermata la scelta di non configurare il condominio come un ente autonomo di gestione, nonostante il favore accordato dalla giurisprudenza a questa soluzione. Molte pronunce della Cassazione individuano, infatti, nel condominio un tertium genus, non identificabile né con la persona fisica né con la persona giuridica,  quanto piuttosto con la collettività organizzata, con la persona giuridica collettiva. Ma nel dibattito parlamentare è stato affermato senza mezzi termini che la proprietà condominiale non è assimilabile alla proprietà collettiva. E il motivo è che la proprietà condominiale viene ancora ritenuta una modalità di possedere non finalizzata all’interesse generale. È questa anche la ragione addotta per non conferire al condominio una personalità giuridica.

In breve, la maggioranza del Parlamento non ha voluto fare aperture in questo senso e riconoscere, dunque, al condominio la funzione di espletare compiti e attività di interesse collettivo così come avviene in altri paesi occidentali. Negli Stati Uniti, 57 milioni di americani vivono in comunità autoregolate, in gran parte dei casi organizzate come grandi condomini. La loro legge è un regolamento contrattuale, approvato da tutti. Da noi, invece, il baricentro della vita condominiale non è il regolamento stabilito in modo condiviso dai condomini ma un complesso di norme calate dall’alto che riguardano aspetti minuti della vita delle persone. Un’impostazione che risente dell’epoca (statalismo e accentramento) in cui questa fu concepita e varata per la prima volta (1935 e 1942) e che il timido e neghittoso legislatore del 2012 non se l’è sentita di innovare favorendo l’autonoma capacità dei privati di operare nell’interesse collettivo.

A distanza ormai di due anni dall’entrata in vigore della “riformicchia”, le controversie nei condomini sono cresciute e il contrasto alla morosità, alimentata anche dalla crisi economica, non produce effetti perché mancano competenze adeguate nel dirimere le liti. Per non incorrere in responsabilità introdotte dirigisticamente dal legislatore, gli amministratori sono diventati più rapidi nell’avviare le azioni di recupero del credito nei confronti dei condomini morosi. Con la conseguenza di aggiungere l’aggravio delle spese legali ai bilanci familiari già in condizioni di estrema difficoltà.  C’è poi un ritardo enorme nella digitalizzazione del rapporto tra condòmini e condominio: poche realtà dispongono di un sito internet e rarissimi sono i casi in cui i condòmini possono accedere direttamente, con funzioni di mera consultazione, all’home banking del conto corrente condominiale, cosa che permetterebbe maggiore trasparenza e maggiore partecipazione alla vita del condominio.  Sono tutti problemi che si possono affrontare seriamente solo organizzando un modello efficiente e condiviso di servizi che vada oltre le mere prescrizioni normative.

Prove di sussidiarietà orizzontale

Tra le azioni urgenti per il rilancio dell’edilizia, cui è dedicato il decreto “Sblocca Italia”, figura un articolo rubricato “Misure di agevolazione della partecipazione delle comunità locali in materia di tutela e valorizzazione del territorio”. Si tratta di una norma con la quale si consente ai comuni di affidare a cittadini singoli o associati determinati interventi aventi ad oggetto la cura di aree ed edifici pubblici.  Questi soggetti  beneficiano di alcuni sgravi fiscali inerenti le attività da essi realizzate. Gli interventi possono riguardare la pulizia, la manutenzione, l’abbellimento di aree verdi, piazze, strade ovvero interventi di decoro urbano, di recupero e riuso, con finalità di interesse generale, di aree e beni immobili inutilizzati, e in genere la valorizzazione di una limitata zona del territorio urbano o extraurbano. I benefici fiscali sono concessi prioritariamente a comunità di cittadini costituite in forme associative stabili e giuridicamente riconosciute. È facoltà dei comuni allargare l’elenco ad altri interventi realizzati dalle comunità di cittadini ritenute di interesse generale.

Questa norma fa seguito ad un’altra disposizione del 2013 che prevede la possibilità per i comuni di affidare la gestione di aree verdi o di determinati edifici di origine rurale ai cittadini residenti nei relativi comprensori mediante procedure di evidenza pubblica, in forma ristretta, senza pubblicazione del bando di gara. Condizione per la partecipazione a tali procedure, tuttavia, era la costituzione da parte dei cittadini di un consorzio del comprensorio che raggiungesse almeno i due terzi della proprietà della corrispondente lottizzazione. Pur commendevole nella finalità, la norma in questione sembra subire i limiti di un approccio segnatamente urbanistico che finisce per restringerne sensibilmente l’applicazione concreta.

Da questo punto di vista, lo “Sblocca Italia” compie una scelta diversa che apre ad una serie diversificata di formazioni sociali, sebbene non rinunci ad incentivare il ricorso, da parte delle comunità di cittadini, a “forme associative stabili e giuridicamente riconosciute”, cui viene accordata priorità nel riconoscimento delle agevolazioni fiscali. Tale scelta sembra riprendere quella contenuta in una norma del 2008 che si riferiva a “gruppi di cittadini organizzati”, i quali, secondo tale norma, possono presentare microprogetti di arredo urbano e di realizzazione di opere di interesse locale senz’oneri per l’ente, ottenendo così una detrazione dall’imposta sul reddito delle spese da essi sostenute.

L’insieme di queste norme costituisce un’indicazione per le amministrazioni comunali rispetto ad una diversa politica di valorizzazione per via partecipativa degli spazi pubblici e uno strumento normativo utile a fornire supporto ad iniziative di questa natura. Prende finalmente corpo quel principio di sussidiarietà orizzontale previsto dall’art. 118, ultimo comma della nostra Costituzione. E l’orientamento sembra essere quello di riconoscere prioritariamente soggetti privati di natura associativa che svolgono attività e interventi di interesse generale.

Su questa scia, anche il condominio può diventare un soggetto capace di andare oltre quanto previsto dalle norme vigenti e assolvere una serie di compiti di interesse collettivo a beneficio dei proprietari di case, degli inquilini e in generale delle comunità locali.

L’idea che dovrebbe guidare tali iniziative è l’innovazione nel suo significato più ampio che non comprende solo la tecnologia e va ben oltre il risultato dell’attività di ricerca. L’innovazione è tale perché viene attuata e trova corrispondenza nella pratica produttiva. Essa non riguarda solo la sfera tecnologica ma tutte le fasi del processo produttivo, nonché il contesto interno ed esterno nel quale si realizza e coinvolge anche gruppi di attività come la formazione professionale, i servizi tecnici di supporto, la consulenza. L’ulteriore elemento che caratterizza attualmente l’innovazione è la consapevolezza che l’evento ideativo e la sua trasformazione in innovazione non proviene soltanto dal mondo della ricerca e della sperimentazione. L’innovazione non è dunque solo un fatto tecnico, un metodo rigido che determina il successo di un’idea, di un’intuizione, di una proposta, è piuttosto il frutto di un’attitudine mentale, di una predisposizione psicologica che va alimentata con la ricerca, il confronto, lo scambio di più punti di vista.

L’innovazione diventa innovazione sociale, cioè un nuovo modo di organizzare l’attività umana, dove le potenzialità della vita vengono messe all’opera in un impegno di natura etica. Si tratta di quella innovazione che vuole rispondere a bisogni emergenti delle persone attraverso nuovi schemi di azione e nuove forme di collaborazione tra diversi soggetti. E descrive l’intero processo attraverso il quale vengono individuate nuove risposte ai bisogni sociali con l’obiettivo di migliorare il benessere collettivo.

Il Progetto “Condominio di Strada” come innovazione sociale

Lo Sportello di Strada

La realizzazione del Progetto Condominio di Strada è un’innovazione sociale perché presuppone un mutamento di mentalità e di abitudini negli individui, nella società civile e nella pubblica amministrazione; un mutamento di comportamenti che si può ottenere gradualmente solo con la creazione di fiducia, la condivisione, la formazione e la sperimentazione di nuovi servizi. La prima azione da avviare è quella di razionalizzare la presenza di amministratori competenti di condominio. L’amministratore è scelto dalle assemblee condominiali. Se più assemblee condominiali si raccordano tra loro,  ci potrà essere un solo amministratore al servizio di una via o di un quartiere, inteso come insieme di abitazioni e infrastrutture costituenti l’unità minima di urbanizzazione. Un amministratore che abbia competenze pluridisciplinari: non solo  nell’ambito tecnico-giuridico, per poter acquisire la natura fattuale dei problemi pratici e poi interpretare e applicare le norme, ma anche in quello della mediazione culturale, della mediazione di comunità e della negoziazione per poter prevenire e risolvere le divergenze tra condomini di diversa cultura e formazione, etnia, età e per fornire servizi primari e complementari agli edifici in modo corretto, trasparente, puntuale ed economico. Un amministratore che interpreti il proprio ruolo come conciliatore, negoziatore e animatore sociale per assumersi la responsabilità nella mediazione dei conflitti e individuare nuove opportunità da proporre ai condomini volte a contrastare i pregiudizi, le diffidenze, l’isolamento e il disagio abitativo, a risolvere le divergenze senza necessariamente ricorrere al giudice, a ridurre i costi di qualsiasi tipo, a puntare al risultato al di là del mero ordine contabile e a migliorare la sicurezza e la qualità della vita degli individui e delle famiglie. Un amministratore che sappia collegarsi con il contesto sociale e amministrativo in cui svolge la sua attività. Si tratta di conoscere l’articolazione decentrata della pubblica amministrazione, della rete associativa del Terzo Settore, dei servizi erogati dalle organizzazioni di categoria, dei servizi di prossimità resi disponibili dalla autorità preposte all’ordine pubblico e alla sicurezza.

Tali competenze scientifiche e tecniche e capacità psico-attitudinali si acquisiscono sia con un’adeguata formazione che con una pratica riflessiva, inserita in processi di autoapprendimento collettivo promossi da UPPI e UNIAT impegnati a sviluppare modelli di servizi di alto livello. In questo modo si potrà stabilire un rapporto quotidiano, diretto, faccia a faccia, fondato sulla fiducia e la stima professionale, tra i cittadini residenti e coloro che sono nominati dalle assemblee condominiali non solo per amministrare quanto previsto dalle normative ma anche per badare ad altre esigenze.

La partecipazione alla costituzione di Smart community

L’ufficio dell’amministratore diventa così uno Sportello di Strada, collegato ad una équipe di specialisti,  dove chiedere chiarimenti sui problemi condominiali, ottenere la lettura dei riparti millesimali, far confluire la domanda di nuovi servizi ed essere protagonisti, in quanto cittadini residenti organizzati, alla costituzione di smart community mediante la piena e congiunta utilizzazione dell’intelligenza connettiva, la capacità creativa, la risorsa partecipativa e il legame solidale comunitario.  La dotazione di un sito internet permette di accompagnare processi partecipativi, di elaborare e diffondere prontuari per facilitare la comunicazione e vademecum per favorire la civile convivenza e l’interculturalità, di semplificare norme e procedure,  di rendere trasparenti i contratti di manutenzione e dei processi di affidamento, di curare l’albo dei fornitori dei servizi: artigiani, imprese, ditte; tutte del quartiere per ottenere una riduzione dei costi e dei tempi d’intervento. Lo Sportello di Strada cura anche la connessione ai servizi digitali informatici, internet e radio televisivi degli immobili migliorando la capacità ricettiva e riducendo i costi.

La creazione di attività innovative

Diventando il centro di aggregazione e di confluenza dei bisogni dei cittadini che non trovano risposte efficaci da parte dei servizi erogati dal pubblico o dal mercato – così com’è organizzato attualmente – o che addirittura non trovano alcuna risposta, lo Sportello di strada potrà favorire la nascita di attività innovative o di rafforzare e riorganizzare attività già presenti nel territorio:

  1. servizi agli anziani non autosufficienti (ricerca badanti, creazione di orti sociali, ecc.);
  2. servizi all’infanzia (ricerca baby-sitter, allestimento di asili nido – Tagesmutter gestiti da una mamma nel proprio appartamento, creazione di agrinidi, ecc.);
  3. servizi educativi (accompagnamento e ritiro dalla scuola e dai luoghi delle attività sportive, insegnamento lingua italiana agli immigrati, ripetizioni per studenti in difficoltà, percorsi di educazione-formazione-lavoro di minori in difficoltà presso fattorie sociali, ecc.);
  4. servizi per le persone svantaggiate (inserimento socio-lavorativo e attività terapeutico-riabilitative in fattorie sociali, ecc.);
  5. organizzazione della banca del tempo tra volontari ed eventuali operatori a contratto;
  6. servizi comuni di lavanderia e stireria in aree condominiali, per ridurre le spese e i costi ecologici;
  7. creazione di spazi condominiali attrezzati per il gioco dei bambini, per la produzione fai da te (falegnameria, ceramica, conserve, ecc.), per l’organizzazione di concerti e spettacoli;
  8. servizi per i nostri «amici a quattro zampe» (dog-sitter, gestione di aree ludiche per cani all’interno di aree verdi pubbliche, private o collettive, ecc.).

L’inverdimento del grigio urbano bonificato

Molti comuni hanno già predisposto dei regolamenti per fruire delle aree verdi. Le iniziative si possono sviluppare anche in aree private per iniziativa dei proprietari o di affittuari. La stessa cosa vale per gli orti sociali che possono nascere in aree verdi pubbliche, private o collettive. Si tratta di favorire la nascita di vere e proprie imprese di servizi per fare in modo che i cittadini ricevano servizi efficienti a costi contenuti non solo in aree aperte ma anche all’interno delle proprie abitazioni, terrazzi o sui tetti. Catturando CO2 e le emissioni nocive nell’aria, gli orti sui tetti delle case non fanno solo bene all’ambiente e al benessere psicofisico delle persone coinvolte, ma favoriscono anche la biodiversità animale, in quanto gli uccelli possono tornare a nidificare tra i giardini pensili. Inoltre, essi hanno un effetto isolante perché assorbono i rumori del traffico e d’estate riducono il calore di diversi gradi, apportando risparmi notevoli sulle bollette energetiche. Con una legge recente anche lo Stato italiano sta supportando gli orti sui tetti: essi sono stati, infatti, inclusi nella lista degli interventi di riqualificazione energetica per i quali è prevista una detrazione fiscale del 65%. L’attività dei tetti “verdi” viene studiata con grande interesse anche nelle Università italiane. È il caso del Centro Studi Agricoltura Urbana e Biodiversità dell’Università di Bologna che, recentemente, ha pubblicato la ricerca Exploring the production capacity of rooftop gardens in urban agriculture con la quale si è stabilito come più di due terzi degli ortaggi consumati dai bolognesi potrebbero arrivare dai tetti della città. Se tutto lo spazio disponibile nelle case e nei palazzi fosse impiegato per la creazione di orti urbani, infatti, si potrebbero produrre circa 12.500 tonnellate di ortaggi. Lo studio, per la sua importanza, è stato pubblicato anche dalla rivista Science and Evironment Policy della Direzione Generale Ambiente della Commissione Europea.

Anche l’Università del Molise, in collaborazione con l’Associazione italiana verde pensile, è impegnata su tali progetti come a Corviale, un grande condominio pubblico lungo un chilometro che guarda all’Agro Romano. Un progetto di bonifica del grigio (del cemento) da ricoprire con il verde dell’orto senza terra ma in serra idroponica, per l’assorbimento di calore, polveri sottili e acque piovane. L’idea portante – creata da Stefano Panunzi e la sua équipe scientifica – è che “gli alloggi dovranno implementare terminali di sistemi produttivi/riproduttivi alimentati direttamente dai cicli di consumo e di scarto ospitati quotidianamente dall’edificio. Le infrastrutture fisiche, quelle impiantistiche, gli involucri e i vuoti occupabili e inutilizzati, dovranno essere messi a sistema fra di loro per attuare ecosistemi primari e secondari basati sull’economia circolare a km zero, alla scala del condominio residenziale e delle sue aggregazioni di isolato e distretto locale. Il conseguente minor aggravio delle infrastrutture urbane centrali dovrà generare immediate compensazioni fiscali e semplificazioni procedurali autorizzative e certificatorie. La diffusione e l’efficientamento dell’ecosistema digitale nell’ecosistema urbano dovranno incidere concretamente nel più generale ecosistema spazio-temporale quotidiano dell’abitante, aumentando la sua dotazione e la disponibilità di spazio e di tempo per l’affermazione dei propri diritti nel lavoro tradizionale e innovativo e nell’accesso alle risorse relazionali pregiate (salute, istruzione, cultura)”.

La costruzione di reti di economia civile

La creazione di orti sociali sollecita la nascita di farmer market e di gruppi di acquisto solidali (Gas) in collaborazione con produttori agricoli locali. Anche in questo caso si tratta di collegarsi alle reti solidali che stanno nascendo per inserire il condominio di strada nei loro sistemi con l’accortezza di creare sinergie coi negozi specializzati del fresco e del bio. Occorre diffondere e favorire lo spirito di collaborazione e di reciprocità, evitando che le iniziative muoiano per via di una competizione spinta.  Tra le reti solidali da incoraggiare ci sono anche quelle tra agricolture civili e ristorazione collettiva, mediante la sperimentazione di nuovi modelli di welfare nell’ambito del gusto riflessivo, per usare la felice espressione coniata, alcuni anni fa, da Elena Battaglini rileggendo e connettendo la lezione sociologica di Antony Giddens con quella della tradizione gastronomica mediterranea; un gusto rivolto al futuro, potremmo anche dire; un gusto dinamico, inteso come la dimensione corporea, sensoriale e cognitiva dell’individuo capace di scegliere (o di rifiutare) modalità, luoghi e prodotti di consumo nella mutevolezza dell’agire quotidiano; di interagire con il “rischio costruito”, esprimendo con la propria scelta la fiducia (o la sfiducia) in un’azienda produttrice; di associare le sensazioni concesse dall’esperienza della relazione con un alimento o una bevanda alle motivazioni ideali che possono indurre a sostenere determinati progetti imprenditoriali socialmente responsabili.

Altro settore d’intervento riguarda la creatività, a partire dal graffitismo che ha assunto il carattere di una vera e propria produzione artistica (arte di strada) per decorare le pareti di palazzi o muri di cinta. Nell’ambito della memorialistica della Resistenza, si va diffondendo l’uso di incidere sui mattoni dei marciapiedi  delle loro abitazioni il nome dei martiri; un uso che si può collegare ai percorsi storici presenti nei quartieri.

Un altro campo di attività è la creazione di reti per:

  1. gli interventi urgenti di manutenzione domestica;
  2. la gestione dei rifiuti;
  3. l’organizzazione del riciclo e del riuso dei beni domestici non utilizzati;
  4. la pianificazione di soluzioni di efficienza energetica per gli immobili.

Un ulteriore ambito di attività è l’intermediazione immobiliare mediante la creazione di servizi di assistenza centralizzata per contratti di locazione,  di servizi di notariato per rogiti, mutui e usufrutto e di una banca dati a sostegno di compravendite e locazione in affitto, per utenti pubblici e privati.

Un nuovo ambito d’iniziativa è la tutela dei cittadini e delle imprese che vengono vessati dalle banche e dalla pubblica amministrazione finanziaria e hanno bisogno di aiuto. Si tratta di favorire l’educazione finanziaria delle imprese e delle famiglie per la tutela da ogni forma di sopruso da parte di operatori speculativi e di promuovere solidarietà verso le vittime del reato di usura.

Infine, lo Sportello di Strada potrà sperimentare forme di gestione concordata con l’amministrazione comunale della messa in posa e rifacimento delle opere infrastrutturali: gas, luce, acqua, telefono, asfaltatura strade, rifacimento marciapiedi e riqualificazione delle aree verdi e sportive.

Le forme originarie dell’abitare nel Mediterraneo

Il Condominio di Strada è un progetto che si può considerare come reinvenzione di una tradizione. Infatti, le forme dell’abitare nel Mediterraneo, dall’antichità fino alle soglie della società industriale, hanno sempre avuto un carattere collettivo. In quest’area del mondo non si vive mai in un luogo da soli, ma in gruppo, quali che siano le dimensioni e la ricchezza di quest’ultimo. Un migliaio di uomini che vivano poveramente del lavoro della terra e dello scambio dei suoi prodotti è sufficiente, nel Mediterraneo, a costituire una città. Anche un borgo modesto si presenta come un microcosmo urbano, nel quale tutta la vita sociale è organizzata in funzione del gruppo.

Sono rimasti disperatamente vuoti i villaggi di colonizzazione creati con la riforma agraria nel cuore della Sicilia e della Basilicata interna al fine di strappare i contadini dalle agro-città, simbolo della forza d’inerzia del latifondo, e di legarli alle terre loro distribuite. Non basta una casa in mezzo ai campi per fare un podere.

La moderna urbanistica è nata nel Mediterraneo, nella Grecia del V secolo, con Ippodamo da Mileto, inventore delle piante a scacchiera. Sia i greci che i romani portavano dovunque arrivavano il proprio modello urbanistico. Lo spazio pubblico della città, dove l’uomo è tenuto ad apparire, fruisce di una duplice definizione. L’una lo differenzia rispetto alla casa, luogo del riposo e del sonno, ma spazio chiuso, privato, femminile, difeso e da difendere; l’altra rispetto al “paese piatto”, al “paese vuoto” della campagna, spazio aperto, ma luogo del lavoro e della natura. Esso si impone come lo spazio dell’azione senza lavoro: luogo del rituale e della festa, del gesto e dello spettacolo, dei piaceri e dei giochi.

Il vero centro sociale è situato nella piazza dove sfocia tutta la circolazione confusa e caotica delle viuzze. Una piazza per ogni quartiere, per ogni comunità etnica o religiosa; una piazza per ogni funzione, dal mercato al culto, all’assemblea; una piazza dalle dimensioni di una strada – un “corso” – lungo la quale si allineano le case dei ricchi e le botteghe di lusso e dove sfilano processioni e cortei; a ogni piazza, infine, la sua coloritura, aristocratica o popolare. Anche nel più piccolo borgo, è sempre sufficiente uno spazio, anche di modeste proporzioni, vicino alla chiesa o al municipio, con un caffè e qualche albero e un po’ d’ombra, perché gli uomini vi si ritrovino tra loro e diano vita alla piazza.

Scrive il grande storico Fernand Braudel: “Molto più che al clima, alla geologia e al rilievo il Mediterraneo deve la propria unità a una rete di città e di borghi precocemente costituita e notevolmente tenace: è intorno ad essa che si è formato lo spazio mediterraneo, che ne è animato e ne riceve vita. Non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città, che è appena sufficiente ad alimentare”. Attraverso le città si proietta sul territorio un modello di organizzazione sociale e attraverso le reti di città e di borghi i mercati si ampliano e, coi mercati, l’idea stessa di vicinato supera ogni frontiera.

L’idea di vicinato ha a che fare con la reciprocità. Nel senso comune “avere rapporti di buon vicinato” significa stabilire una reciprocità di diritti e doveri tra persone che abitano terre o case contigue. Lo attesta la consuetudine millenaria della prestarella o aiutarella, molto diffusa nelle comunità rurali. Nel poema Le Opere e i Giorni, Esiodo esorta gli agricoltori a coltivare i doveri di vicinato: “Fatti ben misurare dal vicino ciò che ti occorre, e restituiscigli la stessa misura e anche di più, se lo puoi, avendone in futuro ancora bisogno, tu lo ritrovi pronto”.

La parola territorio deriva dal latino terrae torus, “letto di terra”, e originariamente stava a significare quella porzione di terra della quale gli antichi popoli si appropriavano, attraverso la delimitazione di confini. L’espressione latina fines regere, “tracciare il confine”, voleva dire porre la regola (da regere, “mantenere”) dell’appartenenza (da appartenere, “far parte di”) ad una comunità umana di una porzione dei terreni allora disponibili; voleva dire, in altri termini, che su quello spazio di terra si instaurava il primo rapporto giuridico di appartenenza collettiva della terra stessa ad una comunità umana. Dunque, nella storia di Roma l’istituto della proprietà collettiva ha preceduto quello della proprietà privata.

Nell’antica Roma esisteva l’insula che era un caseggiato di quattro o cinque piani, divisi in tanti appartamenti, piccoli e grandi. Un epigramma di Marziale dedicato a Novio (I, LXXXVI) ci dice quanto fosse difficile incontrarsi coi vicini di casa in un condominio antico, ieri come oggi, anche se si abitava nell’appartamento accanto: “È mio vicino e con la mano / Si può toccare Novio dalle mie finestre. / Chi non mi invidia e non mi reputa / beato ad ogni ora, potendo io / godere di un compagno così intimo? / Ma per me è lontano quanto Terenziano / che ora amministra Siene sul Nilo. / Non riesco a cenarci e nemmeno a vederlo, /  non posso sentirlo, in tutta Roma non c’è / chi mi sia così distante e così accanto. / C’è da emigrare più lontano io o lui. /  Vicino o coinquilino sia di Novio, / chiunque non ha voglia di vedere Novio” (Traduzione di Miro Gabriele). Anche nelle città antiche c’erano, dunque, gli stessi problemi di oggi: sovraffollamento, incomunicabilità, invisibilità in mezzo alla massa. E i problemi si risolvevano dotandosi di regole comuni.

È con il risorgere delle città in epoca medievale, dopo la decadenza dell’impero romano, che il condominio incomincia a chiamarsi con questo nome. Lo storico Carlo M. Cipolla racconta una vicenda accaduta nella Firenze del ‘600 che ci fa comprendere il peso delle clausole contrattuali tra proprietari e conduttori e delle regole condominiali nel determinare le condizioni igienico-sanitarie delle città. A Firenze, come altrove, per la raccolta dei rifiuti gli edifici d’abitazione disponevano in genere di pozzi neri. I “votapozzi”, dietro compenso, si occupavano di vuotare i pozzi neri e le cantine quando la cosa era necessaria. Il contenuto veniva suddiviso in due parti: quello buono per concimare veniva venduto ai contadini e agli ortolani; quello non buono per i campi coltivati, detto “acquastrone”, veniva gettato nell’Arno. Ma ad un certo punto i proprietari e i contadini si resero conto che era possibile far a meno dell’intermediazione dei votapozzi. Il contadino stesso incominciò a vuotare il pozzo nero o la cantina: così il proprietario risparmiava la spesa del votapozzi e il contadino in compenso della sua fatica si teneva la materia buona per concimare senza dover sborsare soldi e gettava nel fiume l’acquastrone. Maggiormente apprezzati erano i pozzi dei quartieri più poveri, dove le materie fecali non erano inondate dall’acqua e quindi conservavano una maggiore percentuale di azoto. Tuttavia, venne a mancare l’alta professionalità dei votapozzi e l’acquastrone buttato in malo modo nell’Arno incominciò a creare forti malumori tra gli “ecologi” del tempo. E presto arrivarono molte segnalazioni all’Amministrazione. La quale si vide costretta a decretare che i pozzi e le cantine dovevano essere vuotati  solo dai votapozzi. E questi vennero impegnati,  sotto pene gravissime per ogni contravvenzione, a portare i rifiuti ad appositi scaricatori e buche fuori le mura della città. I votapozzi andavano pagati dai proprietari ma costoro si erano abituati, grazie all’opera dei contadini, ad essere sgravati della spesa della vuotatura dei pozzi neri e delle cantine. Quando entrò in vigore la nuova normativa, molti proprietari presero il vezzo di includere nei contratti di locazione che la spesa  per il vuotamento dei pozzi fosse a carico dell’affittuario. Molti degli inquilini però erano poveri e non avevano i mezzi per pagare questa spesa. E così incominciarono a lasciare i pozzi neri e le cantine ricolmi di liquami. Presto il cattivo odore allarmò le autorità cittadine. Le quali, dopo molti sopralluoghi, si resero conto che l’obbligo di svuotare i pozzi, fino a quando sarebbe stato oneroso, molti lo avrebbero disatteso. E decisero, pertanto, di levare gli scaricatori e di lasciare liberi i proprietari e gli affittuari di concordare coi contadini il vuotamento dei pozzi. Il rischio della peste fu così evitato. La pratica durerà fino all’Ottocento, quando l’arrivo dei concimi chimici renderà superfluo l’utilizzo dei liquami urbani in agricoltura. Si spezza così il plurisecolare circolo virtuoso tra città e campagna, formato in successione e ripetutamente prima dalle fasi della produzione e del consumo dei prodotti agricoli e poi dalle fasi del trasporto di rifiuti e deiezioni umane dalle aree urbane in quelle rurali e del loro riutilizzo in agricoltura. E solo allora sarà il condominio a ripartire le spese per il vuotamento dei pozzi neri in attesa di più efficienti reti fognanti dinamiche.

L’evoluzione delle forme dell’abitare

La vita economica e sociale delle città in età pre-industriale e pre-metropolitana è contrassegnata dalla mescolanza di aspetti urbani e aspetti rurali. La vita degli individui è interamente regolata dalla comunità, la Gemeinschaft, di cui parla il sociologo Ferdinand Tönnies. Tutto rientra nello spazio pubblico. Le relazioni tra gli individui sono emotive e immediate, piene e aperte, solidali e reciproche. Sono orientate da regole consuetudinarie definite dalla comunità.

Il passaggio dall’urbanesimo preindustriale a quello industriale ha aperto la strada alla deruralizzazione totale dell’ambiente cittadino. Alla Gemeinschaft (comunità) subentra la Gesellschaft, che per Tönnies è la società basata su relazioni artificiali e convenzionali e in cui gli individui s’impegnano solo parzialmente nei rapporti emotivi. Il moderno urbanesimo industriale si afferma all’insegna della convinzione che l’avvento della società industriale rappresenti, nell’evoluzione dei sistemi economico-produttivi, una tappa conclusiva e irreversibile, e che in virtù delle enormi potenzialità tecnologiche dell’industria il mondo urbano possa vivere ed espandersi prescindendo da ogni rapporto con l’ambiente rurale. In tale contesto, lo Stato assolutista assorbe ogni potere normativo espropriando la comunità della sua funzione primaria di autoregolamentarsi. Assecondano tale processo la Riforma protestante e il Concilio di Trento che introducono la preghiera personale e silenziosa e attenuano il valore di quella comunitaria. Inoltre, l’alfabetizzazione e le tecniche di stampa si propagano e finalmente si può leggere anche individualmente.

Lo sviluppo della città metropolitana e della grande fabbrica, come due facce della stessa medaglia, ha portato alla morte dello spazio pubblico e al rinchiudersi progressivo degli individui nella sfera privata. Secondo il sociologo Richard Sennett, questo cambiamento ha avuto una lunga gestazione dal declino dell’Ancien régime in poi. L’idea del “privato” sembra richiamare la casa come luogo nostro per eccellenza, preposto all’intimità, uno spazio del sé, che si intende come ricco, pieno del senso della persona. In realtà, il significato della parola – “esser privo” – non suona affatto come pienezza ma prende il nome da una mancanza. Cosa manca nel privato? Evidentemente lo sguardo dell’altro, il collettivo, il fragore del pubblico. La parola racchiude, dunque, le tracce di una sottrazione, come se il terreno del sé fosse stato separato da altri spazi e con fatica conquistato.

In tale clima, nasce l’idea hobbesiana di “Stato sociale” come preoccupazione del Sovrano assoluto – raffigurato dalla figura mitologica del Leviatano – che opera per il benessere della popolazione. Thomas Hobbes (1588-1679) teorizza che in origine lo “stato di natura” dell’uomo è “homo homini lupus” (“un lupo per l’altro uomo”) e che, per non soccombere in una guerra fratricida, fra gli uomini si deve stipulare un contratto al fine di delegare il potere a una autorità, il Leviatano, al quale conferire il monopolio della forza (fisica e legale), e di altri poteri ancora, ove necessari, così da garantire le libertà individuali e la pace sociale, in breve il benessere di tutti. Sulla base di questa teoria, si è successivamente sostenuto che l’utilitarismo degli individui genera problemi di sicurezza (conflitti sociali) che possono essere risolti solo attraverso un contratto (che ha due momenti: un pactum unionis e un pactum subjectionis) in cui ciascuno aliena le proprie prerogative ad un Potere che decide le regole per tutti, assicurando le libertà proprietarie di tutti alla sola condizione che ciascuno non leda le libertà altrui. Col tempo, il Leviatano si trasforma nella “Repubblica” di marca giacobina. Tutti i vari modelli di Stato sociale, fino a quelli recenti di tipo keynesiano-beveridgiano o parsonsiano, assumono una visione antropologica di tipo materialistico, utilitaristico e individualistico e presuppongono che gli individui, come sudditi o cittadini, si sottomettano ad un Potere politico che detta la norma valevole per tutti.

Lo Stato sociale edificato in Italia nel secondo dopoguerra ha assunto caratteri del tutto peculiari. La pesante eredità del fascismo e l’adattamento alla “guerra fredda” tra gli Stati Uniti e i paesi alleati, da una parte, e l’Unione Sovietica e i paesi satelliti, dall’altra, hanno interagito per fare in modo che il residuo spazio pubblico della comunità venisse occupato dalle organizzazioni della sinistra marxista e dei cattolici democratici in una logica di appartenenza competitiva. A questa condizione si aggiunge un altro elemento non meno grave. Da noi i doveri costituzionali di solidarietà non sono ripartiti tra Stato, corpi intermedi e cittadini – come si sarebbe dovuto fare – ma sono stati assunti quasi completamente nelle politiche pubbliche in una logica statalista, burocratizzata e centralistica. I pubblici poteri si fanno essi stessi produttori di beni e servizi mediante attività economiche non dissimili da quelle dei privati (partecipazioni statali, nazionalizzazioni, consorzi bancari, ecc.); le riforme socio-economiche come l’agricoltura, l’istruzione e la sanità sono gestite essenzialmente da enti pubblici (enti di riforma, aziende sanitarie locali, distretti scolastici, ecc.); i servizi sociali vengono pensati di tipo centralistico e risarcitorio, cioè per i soggetti svantaggiati e per i poveri; il riequilibrio territoriale viene affidato alla Cassa per il Mezzogiorno; il regionalismo viene attuato come articolazione dello Stato unitario per ridistribuire le provvidenze pubbliche. La Dc e la sinistra  hanno assolto ad un ruolo di mediazione tra i cittadini e lo Stato, trasformando la residua comunità tradizionale in una sorta di convivenza tra “separati in casa”. Le forme di aggregazione e di associazionismo, costruite nel tempo, hanno fatto riferimento essenzialmente alle due “chiese politiche” che sono rimaste in piedi anche quando non ci sono state più le ragioni ideologiche e geopolitiche che motivassero in qualche modo la loro esistenza. Una situazione che si è ulteriormente complicata con le recenti ondate migratorie: nei quartieri delle nostre città, insieme a gruppi di immigrati si sono aggiunti nuovi movimenti politici transnazionali e nuove religioni con la conseguenza che le “chiese” si sono moltiplicate.

Dal punto di vista urbanistico, l’idea guida dello sviluppo metropolitano è che i nuovi quartieri debbano essere abitati da un’unica classe, mentre nel vecchio centro cittadino i ricchi debbano vivere separati dai poveri. Questa concezione ha dato origine allo sviluppo urbano “monofunzionale”, secondo il quale ogni parte della città ha una funzione specifica. Interi isolati sono esclusivamente residenziali, mentre i servizi per le famiglie  (centri comunitari, parchi, centri commerciali, ospedali, ecc.) sono situati altrove. Lo spazio non si definisce dai confini – dentro/fuori alla/dalla polis come per la dimensione fondativa della città premoderna – ma dalla specializzazione interna dello spazio urbano. Tale differenziazione impone i suoi criteri anche sulla regolazione del tempo della vita sociale.

Tali processi sono accompagnati da fenomeni contraddittori e paradossali come la vicenda degli orti urbani. Già nella seconda metà dell’ottocento, i processi migratori delle campagne verso le città sono accompagnati dalla reinvenzione della tradizione degli orti negli interstizi dei grandi complessi edilizi urbani; una tradizione che costituisce la modalità con cui i contadini diventati operai restano legati in qualche modo alla loro cultura originaria ed evitano gli effetti alienanti della vita di fabbrica. Spesso sono i condomìni a promuoverli sull’onda dei mitici jardins ouvriers organizzati dall’abate Lemire in Francia e lo fanno per soddisfare un bisogno di comunità che la vita urbana tende a sfaldare.

Presto ci si accorge che stabilire l’immutabilità dell’uso dello spazio a prescindere da chi lo utilizza, è razionale solo in termini d’investimento iniziale. Alla lunga i costi umani sono enormi. Sicché, lentamente e spontaneamente ogni spazio specializzato per funzioni, ogni interstizio o confluenza tende a reinventarsi come spazio  plurifunzionale in contraddizione con le rigidità dello Stato sociale. In sostanza, nonostante l’eclisse della comunità, gli individui continuano a cercare relazioni comunitarie, le quali assumono forme intimistiche, affettive, motivazionali e psicologiche, e – in mancanza di regole comunitarie condivise – tendono inevitabilmente ad autodistruggersi. Senza barriere, confini, distacco reciproco – gli elementi di fondo delle convenzioni e delle regole  –  gli individui diventano distruttivi. E questo non già perché la natura umana sia malvagia (come pensava Hobbes), ma perché gli effetti della cultura urbana e industriale portano al fratricidio qualora la base dei rapporti sociali non sia la regola comunitaria condivisa, bensì semplicemente l’aggregazione per appartenenze familiari, amicali, etniche, religiose, ideologiche e motivazionali. Tönnies rimpiangeva la fine della Gemeinschaft, ma riteneva che fosse “romanticismo sociale” credere in una sua rinascita. Della comunità tradizionale, così come essa si configurava concretamente, non bisognerebbe, invece, nutrire alcuna nostalgia poiché presentava alcuni connotati inaccettabili, a partire dalla forte gerarchizzazione dei rapporti sociali. Ma la sua reinvenzione in forme adatte all’attuale sensibilità civile è da auspicare per costruire un equilibrato rapporto tra comunità che recupera la sua capacità di organizzarsi e autoregolarsi e sistema politico e istituzionale.

Nel frattempo, lo Stato sociale entra in una crisi profonda. Nonostante i gravi limiti con cui esso era stato edificato nel secondo dopoguerra nel nostro paese, quel modello ha rappresentato un esperimento di economia mista (pubblico-privata), tra i più estesi del mondo occidentale, che ha permesso una rapida ricostruzione dopo i disastri della guerra e un principio – benché parziale – di modernizzazione delle strutture fondamentali del paese. Ma, negli anni settanta, la crisi fiscale, la commistione pubblico-privata e l’eclisse della comunità ad opera delle “chiese politiche” hanno prodotto un’inarrestabile degenerazione, i cui segni più evidenti sono la crisi del sistema politico e i livelli vertiginosi raggiunti dal debito pubblico. E sono così riemerse, come un fiume carsico, e si reinventano regole comunitarie di reciprocità e mutuo aiuto, come dimostrano le continue attenzioni alle vicende delle terre collettive, la creazione di economie civili, la diffusione delle banche del tempo e di antiche consuetudini come il baratto.

Le forme dell’abitare della città post-fordista e post-metropolitana sono caratterizzate dal riemergere del bisogno di campagna nelle aree urbane che trova soddisfazione con la diffusione del fenomeno delle villettopoli e la reinvenzione dell’agricoltura di servizi che dapprima affianca e sempre più oggi tende a prevalere sul modello produttivistico (che si è imposto dagli anni trenta del novecento quando la preoccupazione principale dei paesi occidentali è stata quella dell’autosufficienza alimentare). Così prendono forma progetti che prevedono di rivitalizzare le aziende agricole che ancora sopravvivono nelle aree urbane e destinare alle agricolture civili e relazionali parti delle aree industriali e commerciali dismesse o dei complessi residenziali da rinnovare. E in tale evoluzione si reinventa di nuovo la tradizione degli orti di città come saldatura e cerniera di territori plurifunzionali. Le agricolture civili s’incrociano con il Terzo Settore e danno vita a modelli di welfare produttivo: nasce l’agricoltura sociale come attuazione del principio di sussidiarietà. In sostanza, le granitiche certezze sociologiche e urbanistiche che hanno assecondato e guidato l’espansione della città industriale moderna si rivelano infondate. E la crisi urbana si manifesta impietosamente con il processo di decremento demografico dovuto alla fuga dalla città e con il delinearsi di un continuum urbano-rurale da cui emerge un’agricoltura che produce beni relazionali inclusivi, legami comunitari e civili. Alle fattorie sociali si aggiungono, negli ultimi tempi, i farmer’s market, i gruppi di acquisto solidale e  le forniture di mense collettive con prodotti locali. E si creano inedite sinergie di tali economie coi percorsi turistici, culturali, archeologici e ambientali nelle aree protette.

Questo fenomeno, definito dagli studiosi “rurbanizzazione,” vede l’entrata in scena di una particolare tipologia di consumatore che vuol essere partecipe del progetto con cui si crea il prodotto agricolo e non semplicemente spettatore passivo nel teatro del marketing; vuole, in sostanza, essere un co-protagonista che interagisce con il produttore. Egli non si limita ad informarsi sui diversi prodotti, guardare l’etichetta e acquistare passivamente il bene in qualunque punto vendita. Vuole invece partecipare attivamente al rapporto di scambio dopo essersi aggregato, anche informalmente, in gruppi di acquisto o in comunità di cibo, le cui esperienze pioneristiche nascono tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. Queste forme civili di agricoltura, con istanze ed esperienze diversificate, si candidano a promuovere modelli di welfare produttivo e ad assumere un ruolo di cerniera e di saldatura di territori in cui sono sempre più evidenti le confluenze e le intersezioni. E in tale quadro si aprono ai condomini nuove opportunità di iniziativa per svolgere servizi di interesse collettivo a beneficio delle comunità locali, reinventando una tradizione partecipativa di vicinato e di promozione sociale che si è mantenuta solo in alcune realtà.

La grande crisi economica e finanziaria

Con la globalizzazione, la costruzione dell’Unione europea, la conclusione del ciclo fordista dell’economia e la nuova rivoluzione tecnologica, le modalità con cui lo Stato ha esplicato i doveri di solidarietà si sono frantumate e non ci sono più le condizioni per ripristinarle nelle vecchie forme. La nostra società versa, dunque, in una condizione in cui non pare esserci alcun barlume solidaristico nell’intervento pubblico e tale stato di cose si è adesso aggravato con la recente crisi economica e finanziaria. Emergono sempre più le nuove forme di povertà. Si tratta a volte di una povertà percepita, indotta dalla paura di arretrare nella scala sociale. Spesso sono forme di povertà dovute alla mancanza di prospettive per superare la povertà stessa, a orizzonti che progressivamente si chiudono sempre di più.

Rivitalizzare lo spirito comunitario in tali condizioni è diventato più difficile perché le appartenenze particolaristiche si sono frantumate e prevalgono sui vincoli di appartenenza di tipo territoriale. E la difficoltà a ricostruire legami sociali fraterni e doveri solidaristici è strumentalizzata politicamente dai populismi e dagli amministratori delle città che cavalcano in modo spregiudicato il disagio urbano, drammatizzando il disordine che deriva dall’atomizzazione delle funzioni e dalla distruzione dello spazio pubblico, adottando metodi manipolatori e costruendo messaggi eticamente inaccettabili.

In mancanza di veri e propri programmi urbani per la sicurezza che poggino su interventi co-progettati dalle amministrazioni pubbliche e le comunità di cittadini,  si utilizza  il modello esplicativo della “finestra rotta” come un supporto giustificativo alla strategia della “tolleranza zero” ai fini dell’organizzazione del consenso sociale. Una finestra rotta di un edificio se non prontamente riparata determinerebbe la vandalizzazione di un’altra finestra; una cabina telefonica danneggiata inviterebbe a distruggerne altre, e così via. Insomma, il degrado produrrebbe degrado e l’azione vandalica si diffonderebbe rapidamente rendendo ben presto quel territorio inospitale, pericoloso e insicuro.

Ma tale modello esplicativo della genesi e diffusione dell’insicurezza nella città si è rivelato scientificamente erroneo: se è possibile verificare che una cabina telefonica vandalizzata favorisce la distruzione di altre, non è possibile trovare convincente verifica che la presenza di edifici abbandonati con le finestre rotte e altre forme di degrado definisca un territorio urbano insicuro o più insicuro di altri. Il diffondersi del degrado urbano non ha effetti di moltiplicatore sui livelli di sicurezza oggettiva. La strategia della “tolleranza zero” che si è voluta ricavare da questo modello è servita solo a enfatizzare la paura del contatto con la miseria e coi diversi, ma è del tutto inefficace per affrontare il degrado urbano.

Con l’aumento della disoccupazione soprattutto giovanile, le città rischiano di esplodere. I figli e i nipoti di coloro che migrarono dalle campagne centro-meridionali del paese nelle aree urbane, stanno sviluppando un loro modo peculiare di vivere la crisi. Essi stanno subendo un arretramento dei livelli di benessere fino a rasentare la soglia di povertà. La condizione di profonda incertezza rispetto al futuro fa sì che queste persone sviluppino una tipica avversione verso i deboli: non perché c’è in loro il senso del nemico, ma per paura di cadere nello stesso livello. Allora, attraverso l’aggressione al nero, al nordafricano, al bengalese, si stabilisce  una distanza rispetto al pericolo di una contaminazione da contatto. È la reazione a questo rischio e a quello di cadere al loro stesso livello. L’avversione contro il più debole è, poi, il bisogno di sfogare le frustrazioni che provengono dalle sfere della società in cui non si può arrivare, calpestando coloro che stanno sotto: creando, cioè, dei capri espiatori. Un rancore verso l’alto che si sfoga verso il basso. È una distorta ricerca di dignità. Su questi sentimenti fanno leva i movimenti populisti per incanalare la violenza verso gli immigrati e la protesta verso le istituzioni considerate le principali responsabili dell’afflusso di stranieri nei quartieri multietnici della città. E nel vuoto che si è creato tra istituzioni e cittadini si sono incuneate nuove mafie che vedono interagire gruppi criminali, spezzoni di pubblica amministrazione e di terzo settore e movimenti xenofobi nella gestione di servizi sociali verso gli ultimi.

Per affrontare seriamente l’insicurezza urbana – come ci insegna Maurizio Fiasco – bisogna incominciare a sperimentare nuove modalità di intervento che poggino su strategie definite in modo razionale e con un approccio interdisciplinare e assumano, come dato strutturale di cui tener conto concretamente: l’emotività delle persone e delle comunità, la percezione dell’insicurezza (processo psichico che elabora e connota simbolicamente le impressioni della realtà ricevute attraverso gli organi di senso), la paura personale di essere vittime di un atto criminale (fear of crime), la preoccupazione sociale per la criminalità che minaccia l’ordine sociale e il “mondo giusto” (concern abourt crime). In tale ambito, la promozione della coesione di vicinato e della sussidiarietà tra le comunità di cittadini può svolgere sia una funzione di pressione verso le amministrazioni pubbliche perché si dotino di programmi efficaci, sia un’azione propedeutica a strategie pubbliche da implementare in percorsi partecipativi dal basso, sia una qualche difesa preventiva di ulteriore erosione del capitale sociale nei quartieri urbani.  In questo modo, si soddisfa il bisogno avvertito in modo latente tra i residenti delle città di una relazione tranquillizzante tra la domanda soggettiva di sicurezza e il servizio dell’offerta di sicurezza.

Lo sviluppo locale a partire dai quartieri delle città

Gli strumenti utilizzati finora dalle amministrazioni comunali non permettono più di programmare, pianificare e gestire le città-territorio per affrontare i diversi problemi. Occorrerebbero percorsi di progettazione ad alta risoluzione capaci di mobilitare le comunità locali, cioè i soggetti e i gruppi che le compongono, senza più separarli per categorie. Anche i luoghi dell’abitare non sono più spazi chiusi, ma ogni edificio o spazio tende a trasformarsi in luogo polivalente, inglobando diverse funzioni nel legarsi ad altri edifici e ad altri spazi.

Per ricostituire le comunità-territorio e per fare in modo che queste possano meglio cogliere le opportunità della globalizzazione, bisognerebbe accompagnarle nell’acquisire una chiara percezione di sé, per fare in modo che gli scambi culturali ed economici con altre comunità-territorio del mondo globale siano reciprocamente arricchenti e improntati ad una relazionalità collaborativa. Le arti e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione possono alimentare la capacità delle reti locali di costruire in modo creativo la propria immagine e di riscoprire il Genius loci come processo culturale di autocoscienza e di apertura agli altri.

Reinventare le tradizioni diventa un’esigenza non comprimibile perché esse danno continuità e forma alla vita. C’è un nesso stretto fra tradizione e cambiamento. Per evitare, però, che a caratterizzare le tradizioni restino solo i riti e i simboli specifici, in un vuoto di visione che si chiude al mondo, bisognerebbe inventarle, da un lato aperte al confronto con altre tradizioni o modi di fare le cose e, dall’altro, disposte a lasciarsi trasmettere e consegnare alle generazioni future perché le possano conservare. Del resto, le radici linguistiche della parola “tradizione” sono antiche e risalgono al termine latino tradere, che significa “trasmettere”, “dare qualcosa a qualcuno perché la custodisca”. E così, se le tradizioni si reinventano continuamente e si aprono all’interazione con le altre tradizioni e con le generazioni future, anche l’identità – cioè la percezione di sé – non dovrà mai essere statica ma creata e ricreata in modo molto più attivo e multiforme di prima. Si dovrà ripartire dal territorio nella sua pluridimensionalità dal locale al globale, dalla percezione del passato a quella del futuro. E si dovranno costruire le multiformi identità che ne deriveranno, tutte mutevoli e in continua evoluzione. Identità caleidoscopiche e paritarie, impastate di memoria e creatività, capaci di non blindarsi dinanzi allo straniero. Capaci di riconoscersi negli altri, visti non come minacce ma risorse, non buchi neri ma specchi necessari, a loro modo positivi. Capaci di recuperare e rivitalizzare il senso di fraternità primordiale proprio delle comunità rurali, lo spirito di dialogo che ha preceduto il monologo, il valore dell’ospitalità che è più antica di ogni frontiera.

A livello locale non ci sono istituzioni, né organizzazioni politiche e sociali, che svolgono un’azione costante di lettura dei bisogni sociali dei cittadini. Bisognerebbe, pertanto, strutturare alcuni strumenti d’indagine (semplici e gestibili con risorse modeste) per osservare e accertare tali bisogni in ambiti che si ipotizzano come più significativi. Dall’osservazione e verifica dei bisogni occorrerebbe poi trarre una serie di indicazioni e alternative possibili da tradurre sia in domanda di decisioni politiche (da rivolgere ai partiti e alle istituzioni), sia in domanda strutturata di beni e servizi a cui far corrispondere un’offerta (da promuovere e organizzare). Lo scopo delle attività dovrebbe essere quello di supportare progetti territoriali al fine di promuovere: la partecipazione, la coesione, lo sviluppo locale, la legalità e l’integrazione. Si tratta di far crescere le persone, la qualità umana dei singoli mediante l’aumento della buona occupazione e della relazionalità.

Di primaria importanza è l’utilizzo integrato territoriale dei Fondi strutturali e di investimento europei 2014-2020 al fine di introdurre percorsi innovativi di sviluppo locale. La prima risorsa che dovrebbe essere messa a valore è la condivisione delle informazioni. Si tratta di individuare strumenti che permettano ai soggetti economici e sociali delle comunità-territorio di avere il massimo delle informazioni relative agli ambiti in cui operano. E di favorire la collaborazione in modo tale che i buoni progetti siano messi in comune senza il timore che qualcuno li rubi, senza gelosie e con l’idea che insieme si potranno realizzare progetti migliori. In tale contesto comunitario e collaborativo, il Progetto Condominio di Strada potrà trovare una sua più rapida ed efficace concretizzazione.




Where to develop innovation?

At the Social Innovation Factory!

The city is full of complex and persistent problems; some view these societal urban issues as wicked problems and some see them as tough questions. There are no simple solutions but do related to patterns and ways of thinking.

Social experimentation offers creative alternatives to approaching the interdependent and  multi-layered challenges. The goal of the Social Innovation Factory (SIF) is for innovators to come together to develop and improve concepts towards social change. They offers a range of perspectives and expertise with members including member from civil society, business and government. The Social Innovation Factory offer inspiration, feedback creativity and happiness as ingredients for innovation. They promote and support social entrepreneurship and innovation for tackling societal challenges. Their three basic values are:

  • Shared value
  • Social transformation
  • Impact passion

They work on the Flanders region and promote Flemish citizens to inquire, be inspired, think and activate participation, social innovation and entrepreneurship. It’s open to everyone who wants to act, think, learn, experiment or improve the civil society through social creativity. They support these citizen activities in aiding their realisations, from guidance and feasibility studies to financial support. It’s a way to strengthen concepts through a new lens, experience and knowledge.

SIF1

You can send in your ideas here. They offer online inspiration, practical examples, meet-ups,  training sessions and learning networks. The services are not completely free, it is based on an exchange. After a preliminary interview to evaluate the idea to see if it has potential for social impact, the relevant learning network (critical thinkers, innovators and experts) works together with the innovator to develop the concept. This strengthening session puts the user 8 SIF points in debt. The way to repay the debt points is to offer your knowledge in various ways:

  • Participating in a strengthening session (8 SIF points)
  • Giving a keynote lecture or workshop at a Social Innovation Factory event to inspire future innovators (8 SIF points)
  • Actively participating in a panel discussion organized by or in cooperation with the SIF (4 SIP points)
  • Write an online article on a SIF event, an interesting method or example (2 SIF points/page of 2000 characters)
  • Share your knowledge on a theme that social innovation can support or encourage (4 SIF points)

In addition to the strengthening session, the Social Innovation Factory offers information sessions and vision sessions. Information sessions delve in deeper into concepts to demonstrate how social entrepreneurship tackles social issues. Vision sessions are to move towards realizing bright ideas to make visions more concrete with methods and services to translate them into real social impact.

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Crowdfunding, alcuni ce la fanno. Casi di successo nel mondo di startup e iniziative italiane

Negli ultimi due anni, diverse iniziative italiane hanno trovato i fondi per il proprio sviluppo su piattaforme italiane e, soprattutto, straniere. Abbiamo selezionato alcuni casi di successo secondo noi particolarmente significativi.

Il crowdfunding nelle sue varie forme (equity, reward, donation), soprattutto negli ultimi due anni, si è affermato come forma di finanziamento alternativa di successo, anche per iniziative italiane.

Ecco alcuni casi di successo “italiani”, prodotti, servizi, iniziative e perfino un film e un porgetto editoriale che abbiamo selezionato in base alla eclatante differenza del risultato rispetto all’obiettivo iniziale. Purtroppo, nella maggior parte dei casi, la raccolta è avvenuta attraverso piattaforme non italiane.

Chupa-Mobile

Fondata a Roma nel Febbraio 2012 da Stefano Argiolas e Paolo De Santis, ma basata a Londra, Chupamobile è il primo Marketplace dove chiunque può acquistare Applicazioni e Giochi mobile professionali, pronti per essere personalizzati e distribuiti sugli App Store. Nel 2 Q 2014 ha lanciato una campagna di equity crowdfunding su crowdcube.com dove ha raccolto £740.000 da 122 investitori, a fronte di un target iniziale di £400.000.

La Fenice

La Fenice è stata fondata da un team di imprenditori milanesi ognuno dei quali da tempo opera a vario titolo nell’industria del caffé. La loro idea è quella di creare una macchina da caffé che sfrutti il principio dell’induzione elettromagnetica per fare sia il caffé espresso che quello americano. La macchina funziona con qualunque tipo di capsula e anche con il caffé macinato, risparmiando l’80% dell’energia elettrica rispetto a una normale macchina. La loro campagna di reward crowdfunding su Kickstarter, conclusa nel giugno 2014, ha raccolto $215.000 da 565 sostenitori, a fronte di un obiettivo iniziale di $70.000.

FABtotum

FABtotum è una stampante 3D open source, che permette di produrre da soli gli oggetti desiderati a un costo accessibile. E’ stata fondata da tre ragazzi del Politecnico che hanno costruito un prototipo di macchina che stampa in 3 dimensioni. Una specie di factotum, che usa plastiche o metalli leggeri. Da una scansione si ottiene una stampata del prodotto in materiale fisico. La campagna di reward crowdfunding su Indiegogo, conclusa a Ottobre 2013, ha raccolto la bellezza di $590.000 a fronte di un obiettivo iniziale di $50.000.

Ginkgo

Ginkgo è l’ombrello dal design innovativo – personalizzabile nei colori di ogni elemento, compresa la tela – realizzato interamente in polipropilene riciclabile al 100%, nato dall’idea del designer Federico Venturi e dell’ingegnere meccanico Gianluca Savalli, studenti del Politecnico di Milano, ai quali si è poi aggiunto l’ingegnere gestionale Marco Righi. La campagna attivata su Indiegogo nel 2013 ha raccolto un totale di $ 137,255 da parte di 5223 “finanziatori”, superando i primi due goal prefissati ($ 30,000 e $ 100.000).

Vivax

Mattia Ventura, romano di ventun anni, ha avuto l’idea di un laptop case indistruttibile e in grado di resistere a ogni tipo di condizione estrema: finire in mare, precipitare da un palazzo, essere schiacciato dalle ruote di un’automobile. Lo sviluppo di Vivax è stato finanziato con una campagna di reward crowdfunding si Kickstarter che ha raccolto €53.000 da 538 sostenitori a fronte dell’obeittivo iniziale di €20.000.

Festival del giornalismo di Perugia

Il Festival del Giornalismo di Perugia è stato salvato da una piattaforma di crowdfunding. Dopo aver annunciato la chiusura per mancanza di fondi, gli organizzatori hanno avuto l’idea di reperire i finanziamenti mancanti attraverso una piattaforma di crowdfunding dedicata, e realizzata attraverso il servizio offerto da Starteed, co-fondata da Claudio Bedino. La campagna è stata un successo: in 90 giorni sono stati donati €115.420 da 749 sostenitori. Poi si sono aggiunti altri sponsor, ma la cifra è stata essenziale per permettere alla macchina di ripartire.

Intuiti

Intùiti è una sintesi di Design, Tarocchi e Psicologia della Forma. Ogni carta rappresenta uno stimolo visivo, disegnato seguendo le teorie della Gestalt, il quale riprende un archetipo dei tarocchi classici. A differenza del brainstorming, è uno strumento non violento, che spinge a mettersi in discussione: si mescola il mazzo, si pesca una carta e ci si lascia ispirare dall’immagine. All’inizio del 2013 l’ideatore Matteo Di Pascale ha lanciato una campagna su Kickstarter raccogliendo quasi €50.000 da quasi 2.000 sostenitori, a fronte dell’iniziale obiettivo di circa €12.000.

Lumina

Lùmina, progetto editoriale italiano degli autori Emanuele Tenderini e Linda Cavallini, è un fumetto disponibile in italiano, francese e inglese, a metà tra Sci-Fi e fantasy, realizzato in stile euro-manga combinando il ritmo e i codici dei cartoons nipponici con la qualità estetica dell’animazione e dei videogame. Conclusa nel Maggio 2014, la campagna su Indiegogo ha raccolto €60.000 da 1631 sostenitori, rispetto all’obiettivo iniziale di €44.000.

Io sto con la sposa

Io sto con la sposa” è un docu-film che nasce dai tre registi Gabriele Del Grande, Antonio Augugliaro e Khaled Soliman Al Nassiry: hanno radunato alla stazione centrale di Milano una ventina di siriani e palestinesi intenzionati a raggiungere la Svezia per chiedere asilo-politico. L’avventura è durata tre giorni, con una fermata a Marsiglia e migliaia di chilometri percorsi in smoking, elegantissimi, a bordo di macchine lussuose prese a noleggio, con il timore di non farcela. E invece l’obiettivo è stato raggiunto: i profughi arrivati a Lampedusa sono riusciti a mettere piede a Stoccolma. Il film è stato finanziato con una campagna su Indiegogo che ha raccolto €98.000 rispetto ai €75.000 previsti, grazie a 2500 sostenitori.

Hydrojacket

Hydro Jacket è una giacca resistente a vento e acqua. Qual è la novità? Che è al 100% di cotone organico ed ecosostenibile. Luca Sburlati e un gruppo di professionisti torinesi, amanti dello sport, quattro anni fa in Norvegia, scoprono capi sportivi certificati bio e senza fibre sintetiche. Unico problema: quei capi sono brutti. Decidono così di produrre una linea analoga, ma ad alto contenuto di estetica e design e fondano N2r (si legge nature). La campagna su Kickstarter, terminata nel Gennaio 2014, ha raccolto €52.000 a fronte dei €40.000 previsti inizialmente.

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Ricerca, innovazione e competitività in Italia

Dire che l’economia italiana non è competitiva perché facciamo poca ricerca e innovazione è ormai diventato un luogo comune. Come dire che non c’è più la mezza stagione.

I luoghi comuni sono pericolosi. Mettono d’accordo tutti facilmente, ma spesso alimentano opinioni fuorvianti, basate su piccoli e grandi equivoci. Nel nostro paese, oggi, prevale l’opinione che i nemici dell’innovazione e della competitività siano la scarsità di risorse pubbliche e l’incertezza.

Le statistiche internazionali sulla ricerca e l’innovazione, praticamente da sempre, raffigurano l’Italia come fanalino di coda dei paesi avanzati (vedi per esempio l’ultimo “Science, Technology and Industry Outlook” dell’OCSE pubblicato a metà novembre). Spendiamo poco in ricerca e la nostra economia impiega poco capitale umano.

Si pensa subito alle risorse pubbliche per la ricerca che scarseggiano sempre di più a causa dell’austerity. A molti brillanti ricercatori italiani che sono costretti ad andarsene all’estero a causa dell’incertezza sul futuro lavorativo. E questo spinge a puntare il dito contro i tagli al bilancio pubblico e la precarizzazione dei rapporti di lavoro. Ma fa dimenticare altre importanti criticità.

Spesso si dimentica che la capacità innovativa e la competitività del tessuto produttivo non sono un semplice by-product dei risultati della ricerca. Il trasferimento della ricerca “dall’accademia all’industria” non è un fatto scontato e indolore. È un cammino a sé, complesso e difficile. Non esiste una ricetta in grado di assicurare il successo di un progetto imprenditoriale innovativo. Anche se nasce da risultati brillanti e di acclarato valore scientifico.

L’innovazione imprenditoriale è un processo che non può prescindere dalla selezione del mercato. Una idea innovativa non si trasformerà mai in un progetto d’impresa e poi, eventualmente, in una azienda di successo, se manca qualcuno che ha la passione e il coraggio di assumerne il rischio imprenditoriale, e se manca chi ha le capacità di assumerne il rischio finanziario.

In poche parole, non nascono imprese innovative e non si genera vera innovazione – quella dirompente, intendo, quella che crea discontinuità – se non c’è nessuno disposto a sobbarcarsi il rischio di fallire, professionalmente e finanziariamente.

La selezione delle start-up innovative è un processo crudele. Nel gergo imprenditoriale, la fase che separa l’avvio della start-up dalla sua stabile affermazione sul mercato viene chiamata “la valle della morte” – la metafora dovrebbe essere sufficiente a rendere l’idea.

Una start-up innovativa è un progetto ad elevatissimo rischio di fallimento. Un rischio molto più elevato di un normale progetto di impresa. Le banche di credito ordinario non finanziano la creazione di imprese innovative. Inutile illudersi sull’efficacia della stampa indiscriminata di moneta. Generalmente se ne occupano fondi specializzati di private equity e di venture capital. E gli investimenti di questi fondi si configurano a tutti gli effetti come vere e proprie operazioni speculative.

Sarà pure paradossale, ma un fondo di venture capital si comporta quasi come un giocatore di azzardo. Gioca in perdita nella speranza che ogni tanto gli capiti una grossa vincita in grado di ripagargli tutto.

La probabilità di successo delle start-up innovative è bassa, e la variabilità dei rendimenti elevata. E ciò anche se la selezione dei progetti è molto rigida e basata sulle qualità e le reali potenzialità dell’iniziativa imprenditoriale. Perciò il venture capitalist riuscirà a “pescare” la gallina dalle uova d’oro solo a fronte di un altissimo numero di progetti falliti o con rendimenti appena sufficienti.

Quella “gallina dalle uova d’oro”, per i benpensanti del politicamente corretto, è solo un guadagno speculativo. In realtà, tuttavia, andrebbe vista come un guadagno per l’intera economia, in termini di innovazione e competitività.

In un certo senso è un po’ il contrario di quello che voleva dire Keynes, quando affermava che “lo sviluppo del capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò da gioco”. Il famoso economista sottolineava questo fatto in modo negativo, come a voler deprecare un aspetto dannoso dell’economia di mercato. Noi potremmo quasi parafrasarlo dicendo che “lo sviluppo dell’innovazione è il co-prodotto delle attività di un casinò da gioco”. Ma per sottolineare questo fatto in modo positivo, e non negativo.

I fondi pubblici per il finanziamento delle start-up innovative, a volte copiati dal modello del venture capital privato, non hanno mai dato risultati soddisfacenti o comunque comparabili con quelli dei fondi privati. Il venture capital di stato non funziona: una ricerca recente del Politecnico di Milano, “Government, Venture Capital and the Growth of European High-Tech Entrepreneurial Firms”, evidenzia questo punto in modo efficace.

Un fondo alimentato con risorse pubbliche, generalmente non gestito con l’obiettivo di fare profitto e che potenzialmente ammette anche la gestione in perdita, ha solo un obbligo formale ma nessun incentivo a selezionare i progetti in funzione del potenziale valore e delle possibilità di riuscita. Anche qui, è inutile farsi illusioni.

Un fondo pubblico per l’innovazione non seleziona le proposte come farebbe un fondo privato. Avrà sempre la tentazione di erogare denaro in favore di una determinata iniziativa perché è stata segnalata dall’amico politico. Molti fondi pubblici, nati per finanziare l’innovazione, finiscono per trasformarsi in strumenti per l’acquisizione di consenso elettorale. E il denaro pubblico finisce per finanziare i progetti degli amici.

Se si tiene a mente tutto questo, la mancanza di innovazione e competitività in Italia assume connotati un po’ diversi. Non è più (solo) un problema di scarse risorse pubbliche e di troppa incertezza. Perché sarà pur vero che la ricerca, quella di base soprattutto, ha bisogno di risorse pubbliche e di stabilità. Ma è altrettanto vero che per arrivare alla competitività si deve passare per l’innovazione. E, come abbiamo visto, l’innovazione ha bisogno di capitali privati, ed è sorella dell’attitudine al rischio e della speculazione, non della certezza e della tranquillità.

L’impalcatura dell’innovazione e della competitività, perciò, si regge su più pilastri. L’investimento pubblico in ricerca è importante, ma è soltanto uno dei pilastri. Non si può fare a meno dell’altro, rappresentato dal crudele processo di selezione delle innovazioni da parte del mercato.

La via maestra per tramutare la ricerca scientifica in innovazioni, poterle valorizzare economicamente e conseguire risultati utili anche in termini di competitività e occupazione è accettare il rischio della selezione sul mercato, e soprattutto dare la possibilità di assumere il rischio imprenditoriale e professionale a chi è disposto a farlo.

E invece, oggi, in Italia, chi è disposto ad assumere un rischio imprenditoriale e professionale non solo non è incentivato, ma è addirittura penalizzato dalle norme fiscali e da quelle sul lavoro. La capacità e la disponibilità ad assumersi il rischio non è vista come una cosa positiva, da valorizzare e da premiare. È vista, anzi, come il tentativo furbesco di aggirare le regole, di evadere il fisco, di bypassare le norme sul lavoro. Di sfruttare il lavoro dipendente.

In questo senso, è emblematica proprio la storia di Steve Jobs e Steve Wozniak, che crearono la loro start-up, la Apple, dentro un garage. Oggi, in Italia, questo sarebbe impossibile perché violerebbe chissà quante norme, gius-lavoristiche, amministrative, fiscali, sanitarie, e chi più ne ha più ne metta.

Mettiamo che sia possibile aumentare quanto vogliamo la spesa pubblica per la ricerca e formare tutti i cervelli che vogliamo nelle nostre università. Anche i migliori al mondo, in possesso di idee brillanti e ottimi risultati di ricerca.

Tuttavia, se la possibilità di fare innovazione imprenditoriale rimarrà preclusa, gran parte di loro potrà solo scegliere tra l’essere mortificato, accontentarsi di impieghi non all’altezza delle proprie aspettative e delle proprie potenzialità, oppure fuggire all’estero per provare a realizzare la propria idea o lavorare a fianco di chi l’ha potuta realizzare.

Quello di cui parliamo non ė soltanto un modo diverso di vedere l’economia. È in discussione il modo stesso di vedere la società e il contributo che gli individui potrebbero dare per migliorarla, se venisse, finalmente, restituita loro la libera iniziativa.

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Ci salverà la musica?

Nella musica italiana è difficile individuare tratti peculiari o specificità. È italiana solo perché nasce nel territorio del nostro paese. In realtà, è frutto del confronto con le molte popolazioni straniere con cui gli italiani sono venuti a contatto. Evidente è l’influenza della cultura bizantina, spagnola, araba, greca e teutonica nel tessuto più intimo dell’espressione popolare che un pregiudizio romantico vorrebbe incontaminata e pura – appunto – da influssi esterni. E questo vale per tutti i generi musicali, dal folklore alla musica d’arte e alla canzone. Persino il ballo liscio non nasce – come molti credono – tra l’Emilia Romagna e la Lombardia. Ma le sue radici si allungano in Austria e in Francia.

Gramsci e il carattere cosmopolitico della musica

Se c’è un’italianità della musica la si può scorgere solo in questa molteplicità di esperienze, generi e stili, derivanti da fattori storici, economici, politici e linguistici, e non già in un suo radicamento deducibile da fattori biologici e ambientali. Ne parla Antonio Gramsci nei suoi Quaderni del carcere:  «In Italia la musica ha in una certa misura sostituito, nella cultura popolare, quella espressione artistica che in altri paesi è data dal romanzo popolare (…) e i geni musicali hanno avuto quella popolarità che invece è mancata ai letterati». E s’interroga: «Perché la “democrazia” artistica ha avuto un’espressione musicale e non “letteraria”? Che il linguaggio non sia stato nazionale, ma cosmopolita, come è la musica, può connettersi alla deficienza di carattere popolare-nazionale degli intellettuali italiani?» Ecco la risposta del pensatore sardo: «Nello stesso momento in cui in ogni paese avviene una stretta nazionalizzazione degli intellettuali indigeni (…), gli intellettuali italiani continuano la loro funzione europea attraverso la musica. Si potrà forse osservare che la trama dei libretti non è mai “nazionale” ma europea, in due sensi: o perché l’intrigo” del dramma si svolge in tutti i paesi d’Europa e più raramente in Italia, muovendo da leggende popolari  o da romanzi popolari; o perché i sentimenti  e le passioni del dramma riflettono la particolare sensibilità europea settecentesca e romantica, cioè una sensibilità europea, che non pertanto coincide  con elementi cospicui della sensibilità popolare di tutti i paesi, da cui del resto aveva attinto la corrente romantica». Attraverso la musica, si conferma in sostanza la vocazione universalistica di un popolo che non aveva un “particulare” da coltivare ed esportare, ma si sente a pieno titolo in un contesto globale.

Il deficit di cultura musicale

Chi ascolta attentamente la musica, può facilmente notare che dietro ogni pezzo c’è una storia, un processo, una sedimentazione di culture. Ma in genere chi consuma musica non ne comprende questa profondità. E non sceglie i brani in base a questi aspetti. Non a caso, per garantirsi l’eccellenza, molti si affidano ai divi e così suppliscono ad una cultura musicale deficitaria.

L’arte di massa nasce a metà Ottocento con l’idea di fruire di essa come distensione, distrazione, anziché sforzo intellettuale e mezzo di educazione. Nasce così l’arte “facile”, non problematica. La musica è invece un prodotto umano in sé compiuto di cui vanno compresi i meccanismi. La scuola, l’educazione di base e l’azione culturale penetrante e diffusa della società civile possono modificare la mentalità prevalente e suscitare un interesse a investire sul futuro della musica.

La musica italiana è aperta all’innovazione

A differenza della letteratura, la musica italiana porta con sé due elementi che interagiscono in modo virtuoso: il carattere cosmopolitico e aperto al mondo globale, in opposizione ad ogni rigurgito nazionalistico e autarchico, e l’apertura all’innovazione. I musicisti sono portati a fare i conti con l’innovazione. L’evoluzione della musica è sempre stata accompagnata e anche influenzata da un progresso di tecnologia che nei secoli precedenti era pressoché applicato all’organologia. Si pensi, ad esempio, cosa ha implicato il passaggio dal clavicembalo al pianoforte, inventato dall’italiano Bartolomeo Cristofori. La tecnologia di cui oggi disponiamo è figlia di un lungo processo di ricerca che ha le sue radici tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento, quando si incominciarono a cercare nuove forme di scrittura ed espressione musicale. Con l’aiuto di maestranze tecniche e scientifiche, alcuni compositori cercarono anche strumenti musicali innovativi per esprimere i nuovi linguaggi, sfruttando l’elettricità, il magnetismo, i motori elettrici ed elettromeccanici. Un passo importante verso il connubio tra innovazione tecnologica e musica si ha con la cosiddetta Computer Music, da cui si sviluppa il sintetizzatore che viene utilizzato con successo nella cosiddetta musica elettronica ma anche nella musica pop e rock a partire dagli anni sessanta. Dagli anni ottanta in poi, la diffusione del protocollo MIDI e del computer Atari consente una grande diffusione della tecnologia musicale. Oggi il processo di innovazione è indirizzato principalmente alla ricerca del sistema di interazione tra l’utente e la macchina in grado di essere di semplice utilizzo soprattutto nell’interazione in tempo reale. Sicuramente i tablet e principalmente l’ipad della Apple cambieranno nei prossimi anni il modo che avranno gli utenti di interagire con le applicazioni software.

Il futuro è la musica

Oggi i giovani di buona cultura, generalmente umanistica, sono portati a contestare tutti o quasi tutti i processi d’innovazione tecnologica. In essi prevale lo spirito romantico, la nostalgia del bel tempo che fu. Guardano con sospetto alla modernità e tendono a rinchiudersi in difesa dinanzi alla globalizzazione con atteggiamenti autarchici. Un diffuso atteggiamento antiscientifico sottende un’inefficace politica di sostegno al made in Italy.

L’agricoltura italiana, che pure ha conosciuto nella sua storia un rapporto intenso con la tecnologia e la scienza, sta pesantemente subendo questa involuzione indotta da una cultura umanistica che si contrappone alle discipline scientifiche. Una cultura umanistica che identifica il “buono”, il “bello” e il “giusto” con l’atteggiamento antiscientifico e non sostiene, con la disponibilità ad un approccio pluridisciplinare, l’esigenza di tenere in equilibrio etica, innovazione tecnologica e sostenibilità.

Forse l’Italia potrà farcela a guardare in avanti con ragionevoli speranze, se promuoverà tra le nuove generazioni un’attività educativa e culturale capace di valorizzare i due tratti distintivi della musica italiana: il suo carattere cosmopolitico e l’apertura all’innovazione. Comprendendo fino in fondo la musica, il suo mondo e i suoi meccanismi, forse saremo in grado di cogliere pienamente le opportunità della globalizzazione  e della rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo.

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Alessandro Cives, cantautore romano




Sistema wireless per ridurre la congestione del traffico

traffico-150x150Il MIT lancia RoadRunner, un dispositivo che sfrutta lo standard wireless 802.11p e che mappa le aree cittadine, stabilendo un numero massimo di vetture in ingresso e l’offerta di percorsi alternativi.

Tratti stradali a pedaggio, app che avvertono sul livello di congestione del traffico, navigatori in grado di suggerire percorsi alternativi. Sono diverse le soluzioni proposte dal mercato per migliorare la viabilità stradale ma nessuna finora ha realmente risolto il problema, sopratutto in quelle aree urbane particolarmente congestionate.
Ora ci prova il MIT con un sistema GPS chiamato RoadRunner, che è stato accolto con fervore all’Intelligent Transportation Systems World Congress, svoltosi a Detroit la scorsa settimana, dove è stato presentato e premiato come ‘uno dei progetti più innovativi’.

Un modello per Singapore

Il dispositivo, creato ad hoc per la città di Singapore, si propone come alternativa ai sistemi attualmente vigore, che prevedono la delimitazione di alcune aree accessibili soltanto attraverso il pedaggio, opportunamente segnalate da alcuni trasmettitori radio installati nei vari punti strategici. RoadRunner, invece, è un dispositivo palmare installabile direttamente nel cruscotto delle auto e che, dalle prime simulazioni, è in grado di aumentare dell’8% la velocità della vettura durante i periodi di picco. I ricercatori si sono avvalsi dei modelli stradali ricavati dal sistema di pedaggio vigente ma modificando quei modelli- e quindi incoraggiando o scoraggiando percorsi alternativi- si potrebbero avere dei risultati nettamente più efficienti. “Con il nostro sistema, è possibile disegnare un poligono sulla mappa e dire, ‘voglio controllare questa intera regione'”,spiega Jason Gao, uno degli sviluppatori del sistema.

Test

Il sistema è stato testato su 10 vetture a Cambridge, in Massachusetts. Se il test su 10 auto non è sufficiente per influenzare la viabilità è stato però utile per valutare l’efficienza del sistema di comunicazione e dell’algoritmo utilizzato.

Stabilire un numero massimo di vetture

Il primo principio su cui si basa RoadRunner è l’assegnazione di un numero massimo di vetture che possono accedere in una determinata zona. Qualsiasi vettura deve ricevere un’autorizzazione virtuale che i ricercatori chiamano “gettone.” Se non vi sono più ‘gettoni’ disponibili, il dispositivo seleziona percorsi alternativi che conducono l’automobilista passo per passo verso la sua destinazione. 

Utilizzare lo standard wireless 802.11p

Il sistema utilizza uno standard wireless chiamato 802.11p, un’alternativa al Wi-Fi che utilizza una fetta ristretta dello spettro elettromagnetico, ma è concesso in licenza per trasmissioni di alta potenza, in modo che si possa avere una frequenza di trasmissione molto più alta.

Nei test i ricercatori hanno utilizzato cellulari per controllare i sistemi radio 802.11p, che hanno la dimensione di un tipico sistema di pedaggio installabile nel cruscotto, ma in futuro potrebbe essere possibile incorporare le radio direttamente nei cellulari, sviluppando quindi un’app scaricabile.

Ricerca sui materiali
Altra questione affrontata, quella dei materiali. Nel corso del Simposio Internazionale in Low Power Electronics and Design  i ricercatori del Mit in collaborazione con la Nanyang Technological University di Singapore, hanno presentato un paper che dimostra come una radio 802.11p composta da nitruro di gallio e controllata da un sistema elettronico in silicio consumerebbe la metà della potenza rispetto alle radio tradizionali. Inoltre, il Singapore-MIT Alliance for Research and Technology (SMART) ha sviluppato una tecnica per integrare il nitruro di gallio nei processi di produzione del chip attualmente proposto in silicone. 

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Linee guida per le competenze digitali

lineeOn line le linee guida Agid-Formez PA per sviluppare le competenze digitali in Italia e definire gli obiettivi minimi per favorire una cultura digitale tra i cittadini, tra i dipendenti della pubblica amministrazione e per gli addetti ai lavori. Per il settore pubblico sono 4 le linee di attività riportate nelle linee guida: sviluppo delle competenze digitali per tutti, sviluppo dell’e-leadership per chi ha la responsabilità di orientare le scelte di una pa, lo sviluppo di competenze verticali dei dipendenti per le figure impegnate in funzioni di alto contenuto tecnologico infine attivare una rete di condivisione della conoscenza tra tutti.

Il volume è stato presentato al ForumPA 2014.

“Digital skills are fundamental to an effective use of ICT”, lo dice l’ultimo rapporto della Commissione Ue sull’attuazione dell’agenda digitale in Europa, pubblicato lo scorso 28 maggio.
E il nostro Paese ha ancora molta strada da fare: se in Europa il 39% dei lavoratori ha scarse competenze digitali e il 14 % non ne ha affatto, in Italia ben il 50%  ha scarse  competenze digitali, cioè un lavoratore su due, contro il 27% che ne è completamente privo.

Se passiamo al settore pubblico prima di parlare di digital skills occorre dare uno sguardo all’età.Nel settore pubblico il 40% dei dipendenti ha tra i 50 e i 59 anni, il 35% ha tra i 40-49 anni (fonte Corte dei Conti, Relazione 2011 sul Costo del lavoro pubblico); solo il 18,5% ha meno di 40 anni.
Altro dato: la maggior parte di essi, ben il 29%, si concentra nel comparto della scuola il luogo ideale dove gli studenti dovrebbero accrescere le loro competenze, anche digitali.

Nell’UE  il 41% dei cittadini ha interagito con le pubbliche amministrazioni via internet. Tra gli italiani, il 21% ha avuto tale interazione negli ultimi 12 mesi.

La scarsa cultura digitale tra coloro che lavorano è uno specchio di quanto avviene in tutta la popolazione: in Italia il 34% dei cittadini non ha mai usato internet contro il 21% in Europa.

programma_nazionale_cultura_formazione_competenze_digitali_-_linee_guida

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DA CORVIALE RIPARTE L’UTOPIA DI PERIFERIE UMANE

AgriculturalUrbanism2Da simbolo di degrado a segnale di riscossa: le periferie diventano il fulcro della partita per il rilancio economico/sociale.

Il là l’ha dato Renzo Piano pianocon l’ovvia e semplice constatazione che nelle periferie c’è lo spazio e il bisogno del cambiamento urbanistico.

Ed è dalle periferie che può partire la grande chance delle smart city, le città dal volto umano che aiutano a salvare l’ambiente producendo nel contempo benessere, servizi, occupazione e cibo a km zero.

E’ questa la partita che può aiutare Renzirenzi a lanciare il grande piano keynesianokeynes che immagina per riaccendere l’economia e l’occupazione: partire dai bisogni dei cittadini più disagiati per costruire una macchina urbanistica  e amministrativa che offra risposte in termini di servizi e di vivibilità.

Scuole e ricerca, innovazione e green economy: questi i cardini di un “rammendo” delle periferie delineato da Piano.

Non a caso sono le stesse parole d’ordine del consorzio di associazioni che con corviale_domani_11 ha da tempo impostato un progetto complessivo di rigenerazione del Quadrante di Corviale.

Un consorzio che si è confrontato con urbanisti, amministratori, economisti, ricercatori senza perdere mai il contatto con le esigenze di servizi e sicurezza degli abitanti.

Ritrovare le ragioni dell’utopia significa proprio questo: coniugare il rilancio urbanistico/economico con i bisogni dei cittadini.

L’articolo di Francesco Erbani su REPUBBLICAdel 27 maggio “Basta costruire, gli architetti ora rigenerano” non a caso parte proprio dai progetti su Corviale dell’architetto Daniel Modigliani modiglianicommissario dell’Ater di “aprire il pian terreno e installarvi servizi e altre attività e per consentire il passaggio dalla strada agli orti che sono alle spalle dell’edificio, così da alimentare le relazioni con il quartiere.” Un’idea quindi di interazione tra la città del cemento e la campagna dei 1.200 ettari di parco del Quadrante da sempre propugnata da Alfonso Pascale pascaledi Corviale Domani con la realtà delle Fattorie Sociali che proprio il 6 giugno s’incontrano al Forum del Terzo Settore per la costituzione di una rete cittadina anche in previsione dell’Expo 2015 dedicata all’alimentazione. expoErbani su Corviale prosegue con  Modigliani: “Sul tetto sono previsti verde e impianti per la raccolta dell’acqua e il risparmio energetico” riprendendo il progetto del prof. Stefano PanunziAnnuncio-partenza-Corviale dell’Università del Molise tante volte propugnato nei due Forum che la direttrice del servizio di Architettura del  Ministero dei Beni Culturali Maria Grazia Bellisario

The Making of / Artisti al lavoro in tv

ha promosso con Corviale Domani.Last but not least il progetto di rigenerazione di Corviale sarà il 2 giugno alla trasmissione “I visionari” di Corrado Augias.augias

Quale auspicio maggiore per far ripartire da Corviale l’utopia di periferie umane.

Tommaso Capezzone