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La sfida di Made expo, rigenerare le città dalle periferie

Il salone internazionale dell’architettura e delle costruzioni che si terrà dall’8 all’11 marzo in Fiera Milano con 1.400 espositori punta sulla ripresa del mercato delle costruzioni. Quattro settori specialistici e un progetto per la riqualificazione urbana del futuro
La sfida dei prossimi anni per l’architettura e l’edilizia si chiama “rigenerazione urbana” e parte dalle periferie con l’obbiettivo di ridurre il consumo del suolo e riqualificare aree urbane con fabbricati spesso caratterizzati da scarsa qualità architettonica e costruttiva e spesso privi di requisiti antisismici.

Con attenzione, per quanto riguarda le politiche urbanistiche, alle aree di aggregazione, ai servizi e ai parchi con l’obbiettivo di riqualificare anche il capitale sociale delle periferie. E’ questa la parola d’ordine lanciata alla presentazione di Made expo, fiera internazionale dell’architettura, del design e dell’edilizia che si terra dall’8 all’11 marzo nei padiglioni di Fiera Milano. Un grande hub per il mondo dell’architettura e dell’edilizia.

Dibattito al quale hanno preso parte, oltre al presidente di Made Expo Roberto Snaidero, l’architetto Stefano Boeri, John Foot professore di Storia italiana all’Università di Bristol, Cristina Tajani assessore al Commercio del Comune di Milano, responsabile del progetto Sharing Cities.

“In Europa viviamo sempre di più in città diffuse, disperse e frammentate, i cui tessuti urbani aumentano ogni anno il proprio diametro, pur generando deserti al loro interno, città in cui centro e periferia sono parole dure e difficili da definire. Non perché non ci siano centri o non ci siano periferie, ma perché oggi, per i fenomeni demografici e di immigrazione, per la polivalenza di culture che abitano le nostre comunità urbane, la questione è diventata irriducibile a una semplice opposizione tra centro e periferia – ha spiegato Stefano Boeri -. Si stanno formando anticittà non contrapposte alla città ma che le erode dall’interno distruggendo il fare città”.

“In Italia abbiamo città dove questo tipo di periferia è nel cuore stesso della città: i Quartieri Spagnoli a Napoli così come il centro storico a Genova sono luoghi di sofferenza e di assenza di servizi o come via Gola, a Milano: vicino alla Darsena. Le politiche urbane – ha proseguito l’architetto Boeri – non possono semplicemente essere politiche che riducono le distanze centro-periferia o intervengono localmente per portare servizi. Occorre promuovere condizioni di urbanità, di intensità di scambi e relazioni. Si tratta di creare spazi di aggregazione, di cui le singole comunità possano appropriarsi e che possano gestire e spazi di interazione, dove le diverse comunità possano incontrarsi”.

“Le città e le società occidentali hanno attraversato profondi cambiamenti nell’ultima trentina d’anni. La fabbrica non è più il centro della vita urbana o economica.

– ha esordito il professor John Foot -. Gli immensi spazi che si sono liberati sono stati riempiti con nuovi progetti a destinazione mista, aree residenziali, centri commerciali, zone ricreative, musei, parchi. Questo cambiamento rivoluzionario ha inciso sul funzionamento della città, e quindi sul ruolo dell’architettura e dell’edilizia, oltre che del design. Adesso si lavora tutto il tempo, e la giornata è scandita da internet e dai social media. Non esiste un orario lavorativo: la vita – come l’orario di lavoro – è flessibile. Ritmi, tempi e griglia delle attività urbane non sono più quelli di uno spazio industriale. I luoghi del lavoro e del tempo libero sono mescolati tra loro, non più separati da muri, cancelli e divise da lavoro che fanno vedere a tutti qual è la nostra occupazione. Questi mutamenti sono stati accompagnati e spinti dalla globalizzazione che ha portato l’immigrazione di massa e spostamenti di popolazione in tutto il globo, coinvolgendo persone qualsiasi in cerca di lavoro, ma anche professionisti – architetti, designer, costruttori – che sono chiamati a trasportare altrove le loro capacità di innovazione e le loro competenze, in ambienti e culture diverse”. Per questo, ha spiegato ancora Foot, “dobbiamo andare oltre la retorica della periferia, la rapidità del cambiamento fa sì che la periferia di oggi possa diventare il centro di domani”.

“E’ un cambiamento epocale – ha spiegato l’assessore Cristina Tajani – dove cittadini, amministrazioni e progettisti dovranno collaborare in maniera sempre più stretta per favorire uno sviluppo territoriale attraverso l’ottica dell’innovazione. Essere una Smart City non significa puntare esclusivamente sulla tecnologia quale strumento per migliorare la qualità della vita dei cittadini ma soprattutto favorire la condivisione e l’innovazione. E’ un processo virtuoso che unito alla trasformazione di porzioni di città già urbanizzate come gli ex-scali ferroviari in aree di aggregazione, servizi e parchi urbani, ci proietterà nelle città del futuro. Ed è qui – ha concluso – che la Made expo gioca un ruolo da protagonista grazie alla sua capacità di attrarre innovazione e ricerca proponendo soluzioni e materiali che avranno un ruolo fondamentale in questo processo di trasformazione”.

“Questa edizione di Made expo – ha dice Roberto Snaidero – rappresenterà un fondamentale momento di confronto tra imprese e istituzioni per dare un contributo alla crescita economica e alla trasformazione del nostro Paese e delle nostre città. Grazie a un mix unico di innovazione e competenza la manifestazione presenta e mette a disposizione del mercato gli strumenti indispensabili per portare avanti questo ambizioso progetto. Anche quest’anno Made expo sarà un grande evento esperienziale, un luogo fisico dove scoprire, vedere, conoscere, toccare, decidere. Un grande evento in grado di spingere verso i mercati internazionali e far ripartire quelli nazionali. Grazie ai quattro Saloni tematici specializzati e al palinenseto di iniziative mirate, i visitatori potranno conoscere in anteprima materiali e soluzioni in un momento di inizio ripresa del mercato delle costruzioni che, secondo stime di Ance, nel 2017 registrerà un incremento dell’0,8% degli investimenti in edilizia”.

La fiera, con circa 1.400 espositori offre una visione multi-specializzata su materiali, sistemi costruttivi, serramenti, involucro, finiture e superfici. Quatto i Saloni.

Made costruzioni materiali (padiglioni 6-10) – Presenta soluzioni costruttive e tecnologie innovative, materiali performanti, attrezzature più all’avanguardia per un’edilizia sostenibile e sicura. In scena sistemi costruttivi e strutture in legno (di grande interesse per il boom delle case in legno), laterizio, calcestruzzo e acciaio, materiali, manufatti, prodotti performanti nei settori dell’impermeabilizzazione, isolamento, protezione, risanamento e rinforzo strutturale, colore e pitture, sistemi di misura, prova e controllo, soluzioni per il cantiere e per la sicurezza. Made involucro e serramenti (padiglioni 1-2-3-4) – Rappresenta tutta la filiera in tema di serramenti, tende, sistemi di oscuramento, protezione, involucro edilizio e coperture. Made interni e finiture (padiglioni 5-7) – Propone soluzioni ad alta qualità e prodotti innovativi per pavimenti, rivestimenti, porte, maniglie e accessori, controsoffittature, partizioni interne, pareti attrezzate, scale e finiture. Made software tecnologie e servizi (padiglione 10) – Mette in mostra le ultime novità in ambito software: dalla progettazione e calcolo strutturale alla progettazione architettonica ed ingegneristica, e del Bim. E poi stampanti 3D, realtà aumentata, tecnologie e servizi innovativi funzionali a progettare, costruire e gestire edifici ed ambienti.

Da segnalare infine Carousel for Life, il progetto che FederlegnoArredo ha deciso di lanciare a Made expo generato da una ricerca condotta sull’architettura per l’infanzia, finalizzato a orientare una nuova visione che definisca criteri qualitativi di progettualità e produzione, mettendo i bambini al centro del mondo.

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Radici nel Cemento – Agricoltura in Città…

Prosegue l’impegno e l’affermazione di UNIMOL all’EXPO di Milano.
Il 29 giugno due studenti di ingegneria sono stati premiati al concorso nazionale EXPERIA (Politecnico di Milano, RAI EXPO e Padiglione Italia) ed hanno illustrato i loro progetti al Media Centre di EXPO Milano, alla presenza di rappresentanti delle istituzioni organizzatrici, un gruppo di studenti UNIMOL dei Corsi di Progettazione Architettonica in viaggio di studio e di un folto pubblico.

Nell’ambito della premiazione è stato proiettato in anteprima uno dei documentari del regista Guido Morandini per RAI EXPO, della serie EXPERIA – VIAGGIO IN ITALIA NELL’ANNO DELL’EXPO, andato in onda il venerdì 24 Luglio su RAI 2 : Radici nel Cemento – Agricoltura in Citta’. http://www.expo.rai.it/radici-nel-cemento/)

Questo documentario ha visto l’attiva collaborazione di due docenti del Dipartimento di Bioscienze e Territorio – UNIMOL : i proff. Davide Marino e Stefano Panunzi.

Un viaggio tra utopia e realtà, tra Roma e Torino visti come comuni agricoli alla scoperta di fattorie urbane, orti sui tetti, architettura e cultura del cibo. Architetti e agricoltori affrontano il dilemma di un futuro metropolitano ancora senza una chiara risposta : da una parte l’agricoltura che entra nella città per salvare il suolo coltivabile confinante con le periferie, dall’altra le invenzioni necessarie per far attecchire le radici nel cemento, serre, orti e giardini pensili che timidamente occupano e bonificano coperture di cemento o si inerpicano sulle facciate delle abitazioni.

Una buona parte del metabolismo delle città passa attraverso i flussi con le aree agricole urbane e soprattutto periurbane. Non soltanto cibo, ma più in generale queste aree forniscono una serie di servizi ambientali, culturali e ricreativi, fondamentali per il benessere dei cittadini. L’agricoltura urbana è quindi divenuta centrale per le politiche delle metropoli grazie all’innovazione sociale, economica ed organizzativa promossa da una nuova generazione di agricoltori.

Questo documentario si presenta come un racconto alla ricerca di storie vere per lanciare, pur nella sua incompletezza, molti spunti ed un messaggio aperto: prima di costruire nuovi palazzi pensiamo al futuro di un patrimonio costruito e naturale che esiste nell’indifferenza e nell’abbandono. Monito per le semplificazioni ideologiche o tecnicistiche: per immaginare un mondo nuovo, trasformando quello che c’è, bisogna rimboccarsi le maniche e saper condividere coraggio e fantasia, prima delle soluzioni e delle fattibilità tecnologiche. Un piccolo grande contributo per riflettere sul consumo di suolo e sulla bonifica della crosta urbana che UNIMOL ha offerto all’Esposizione Universale di Milano.

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Radici nel cemento – Agricoltura in città

Uno dei documentari, in onda tutti i venerdì, del regista Guido Morandini per RAI EXPO della serie EXPERIA – VIAGGIO IN ITALIA NELL’ANNO DELL’EXPO il 24 luglio alle 23.55 su RAI 2.
Un viaggio tra utopia e realtà, tra Roma e Torino visti come comuni agricoli alla scoperta di fattorie urbane, orti sui tetti, architettura e cultura del cibo. Architetti e agricoltori affrontano il dilemma di un futuro metropolitano ancora senza una chiara risposta : da una parte l’agricoltura che entra nella città per salvare il suolo coltivabile confinante con le periferie, dall’altra le invenzioni necessarie per far attecchire le radici nel cemento, serre, orti e giardini pensili che timidamente occupano e bonificano coperture di cemento o si inerpicano sulle facciate delle abitazioni. Un racconto alla ricerca di storie vere che lascia, pur nella sua incompletezza, molti spunti ed un messaggio aperto: prima di costruire nuovi palazzi pensiamo al futuro di un patrimonio costruito e naturale che esiste nell’indifferenza e nell’abbandono. Questo racconto è stato ispirato anche dalla storia della rinascita di Corviale come simbolo, come monito per le semplificazioni ideologiche o tecnicistiche: per immaginare un mondo nuovo, trasformando quello che c’è, bisogna rimboccarsi le maniche e saper condividere coraggio e fantasia, prima delle soluzioni e delle fattibilità tecnologiche. In fondo può essere considerato un piccolo contributo della comunità di Corviale all’Esposizione Universale di Milano.

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Radici nel Cemento – Agricoltura in Citta’

Uno dei documentari, in onda tutti i venerdì, del regista Guido Morandini per RAI EXPO della serie EXPERIA – VIAGGIO IN ITALIA NELL’ANNO DELL’EXPO il 24 luglio alle 23.55 su RAI 2.
Un viaggio tra utopia e realtà, tra Roma e Torino visti come comuni agricoli alla scoperta di fattorie urbane, orti sui tetti, architettura e cultura del cibo. Architetti e agricoltori affrontano il dilemma di un futuro metropolitano ancora senza una chiara risposta : da una parte l’agricoltura che entra nella città per salvare il suolo coltivabile confinante con le periferie, dall’altra le invenzioni necessarie per far attecchire le radici nel cemento, serre, orti e giardini pensili che timidamente occupano e bonificano coperture di cemento o si inerpicano sulle facciate delle abitazioni. Un racconto alla ricerca di storie vere che lascia, pur nella sua incompletezza, molti spunti ed un messaggio aperto: prima di costruire nuovi palazzi pensiamo al futuro di un patrimonio costruito e naturale che esiste nell’indifferenza e nell’abbandono. Questo racconto è stato ispirato anche dalla storia della rinascita di Corviale come simbolo, come monito per le semplificazioni ideologiche o tecnicistiche: per immaginare un mondo nuovo, trasformando quello che c’è, bisogna rimboccarsi le maniche e saper condividere coraggio e fantasia, prima delle soluzioni e delle fattibilità tecnologiche. In fondo può essere considerato un piccolo contributo della comunità di Corviale all’Esposizione Universale di Milano.




Calciosociale ad Expo con il progetto “Mensa della Legalità, della Sostenibilità e Social Market”

L’associazione ha presentato un progetto unico in Italia che potrà distribuire, a pieno regime, oltre 100.000 pasti l’anno di cui almeno il 70% gratuitamente.
Un luogo inclusivo rivolto a più tipologie di utenti, uno spazio di promozione delle relazioni tra persone senza distinzioni sociali o di reddito, capace di attivare in maniera integrata tutte le dimensioni del benessere individuale a partire da quello più importante: il cibo. Un luogo dove sarà possibile fare la spesa con dignità senza preoccuparsi del conto alla cassa; ma anche un esempio di bioarchitettura unico in Italia.

Tutto questo e altro ancora è racchiuso nel progetto “Mensa della Legalità, della Sostenibilità e Social Market” presentato il 10 giugno 2015 all’Expo, nel Padiglione Coca – Coca, da Calciosociale, no profit presente a Roma dal 2005 e operante a Corviale, nonché best practice italiana per sport e inclusione sociale.

MensaSociale(1)Il progetto, opera dell’architetto Valerio Albanese Ruffo, prevede, secondo i canoni della bioarchitettura, l’utilizzo di materiali naturali e sostenibili, come intonaci in terra cruda atossica, balle di paglia, vetrate fotovoltaiche, tetto con piantumazioni. La struttura avrà una dimensione di 7mila mc e un costo di realizzazione di 1.600.000 euro. La capienza della mensa sarà di 260 persone e, a pieno regime, potrà fornire oltre 100 mila pasti l’anno di cui circa 70 per cento gratuitamente. Impiegherà 10 dipendenti. All’interno della struttura che ospita la Mensa, il Social Market garantirà una spesa alimentare dignitosa e adeguata alle famiglie e alle persone in difficoltà.

“L’idea che si propone non è semplicemente la fornitura di pasti gratuiti in una mera ottica assistenziale – ha spiegato il presidente di Calciosociale, Massimo Vallati – bensì quello di creare un luogo di incontro dove persone con esperienze personali diverse, per via dell’estrazione economico-sociale, delle abilità motorie, delle problematiche sociali o familiari, possono sedersi attorno allo stesso tavolo e dialogare. Un luogo bello. Desiderabile. Realizzabile. Replicabile in altri luoghi d’Italia. Un progetto per contrastare la povertà e per restituire dignità alle persone”.

MensaSocialeCorvialeIl progetto Mensa ha ricevuto il patrocinio del Ministero dell’Agricoltura e gli auguri del Ministro Martina che in un messaggio ha dichiarato: “L’iniziativa, promossa da Calciosociale, ha il merito di rappresentare uno straordinario modello di integrazione sociale, promuovendo percorsi di aiuto a favore delle fasce più deboli della popolazione, grazie all’attività sportiva, ricreativa, educativa e pedagogica”.

A testimoniare l’importanza dell’operato nel quartiere di Corviale anche le istituzioni locali.

“Calciosociale è un’eccellenza delle nostre periferie, un progetto che seguiamo da dieci anni, e che oggi rappresenta una punta di diamante di quell’idea di sport e solidarietà che Roma Capitale abbraccia e sostiene”, ha dichiarato Paolo Masini, Assessore a Scuola, Sport, Politiche Giovanili e Partecipazione di Roma Capitale. Il progetto – ha concluso Masini – “è una vera risposta di legalità, inclusione e attenzione all’ambiente, che ci rende orgogliosi”.

“Ospitare questa mensa nel nostro territorio sarebbe un grande onore – ha commentato Maurizio Veloccia, Presidente del Municipio Roma XI – Iniziative come questa sono oggi importantissime perché, purtroppo, le nuove povertà sono in continuo aumento ed in una fase di flessione delle risorse a disposizione è necessario creare sinergie per dare risposte a chi si trova a vivere un momento di disagio. Come Municipio faremo il possibile per sostenere il progetto della mensa che potrà rappresentare un’ancora di salvezza per tante persone e diventare un punto di riferimento nel territorio per far fronte a bisogni materiali ma soprattutto a quelli relazionali delle persone. Progetti come questi, infatti, stimolano la solidarietà e contribuiscono ad accrescere il senso di comunità che, molto spesso, in città grandi come la nostra rischiano di perdersi”.

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Le conseguenze di Expo 2015

Il paradosso di dover liberalizzare i mercati e, nello stesso tempo, proteggere gli agricoltori si può risolvere solo in un modo: con liberalizzazioni e protezioni a geometria variabile.

A Milano si è appena inaugurato Expo 2015. C’è da augurarsi che la manifestazione non si risolva solo in una vetrina dove esporre beni e servizi, ma sia anche occasione di dibattito sui gravi problemi che il pianeta ha dinanzi a sé nei prossimi decenni. Ho letto l’ultima versione della Carta di Milano e devo dire che non mi ha soddisfatto. Molte proposte concrete in essa contenute sono senz’altro utili e condivisibili. Ma, a mio avviso, mancano elementi fondamentali. E queste carenze sono dipese dal fatto di voler tenere insieme a tutti i costi visioni che si contraddicono.

Per nutrire il pianeta i paesi industrializzati e i paesi poveri non possono prendere impegni analoghi ma differenziati. Se il problema dell’insicurezza alimentare interessa davvero le istituzioni dei paesi ricchi, come viene proclamato in diversi documenti ufficiali, c’è un modo per dimostrarlo in concreto: spostando una parte delle risorse destinate ai sussidi diretti ai nostri agricoltori, agli investimenti in ricerca e in aiuti volti a sostenere la capacità delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo a investire nelle loro agricolture.

In particolare, gli agricoltori europei non hanno bisogno di grandi risorse per sostenere i propri redditi, ma di ridistribuirle in modo più equo tra grandi e piccoli produttori e tra aree forti ed aree deboli. Le campagne mediterranee hanno estrema necessità di politiche che puntino allo sviluppo territoriale, all’ammodernamento del welfare, al miglioramento della qualità della vita nelle aree rurali, all’edificazione di sistemi agroalimentari in grado di interagire coi nuovi mercati nei paesi emergenti, nonché alla valorizzazione del contributo dell’agricoltura di servizi alla vivibilità delle aree urbane.

Il paradosso di dover liberalizzare i mercati e, nello stesso tempo, proteggere gli agricoltori si può risolvere solo in un modo: con liberalizzazioni e protezioni a geometria variabile. I paesi più poveri dei nostri hanno bisogno, per un certo periodo, di proteggersi dalle importazioni dei nostri prodotti agricoli e puntare al proprio sviluppo autoctono. E noi dovremmo dichiararci disponibili a favorire queste legittime e irrinunciabili esigenze. I paesi industrializzati, invece, qualora le crisi alimentari dovute ai prezzi alti del cibo colpissero le fasce povere della propria popolazione, non dovrebbero nutrirle producendo di più localmente. Bisogna adottare politiche di welfare per fare in modo che superino la loro condizione di indigenza.

Dobbiamo aiutare i paesi a basso reddito a non dipendere dalle importazioni a basso prezzo ma a ricostruire i loro sistemi alimentari. Non dobbiamo dar loro da mangiare, ma aiutarli a nutrirsi. Se la produzione alimentare aumenta con una ulteriore marginalizzazione dei piccoli agricoltori nei paesi in via di sviluppo, si perde la battaglia contro la fame e la malnutrizione. Il 31 maggio 2012 la Rivista “l’albatros” organizzò a Roma, presso la Biblioteca del Senato, il Convegno sul tema “Cibo Terra Acqua Sostenibilità. Quale futuro per 10 miliardi di persone” e, in quell’occasione, lanciammo una serie di proposte in vista di Expo 2015. Fui incaricato dagli organizzatori di svolgere la relazione introduttiva che vi ripropongo.

Gentili ospiti,

lo squilibrio che sempre più si sta determinando tra risorse e popolazione, intrecciandosi coi cambiamenti climatici, la crisi energetica e l’arresto della crescita economica, mette in discussione la capacità del nostro pianeta di soddisfare l’imponente domanda di cibo. Questa situazione, per certi versi inedita nella modernità, potrà essere fronteggiata se si affermerà una consapevolezza della gravità dei problemi che sono esplosi e si avvierà pertanto un cambiamento nelle coscienze individuali, nella società civile organizzata, nella politica, nel sistema della conoscenza e nella responsabilità degli Stati che dovranno coordinare politiche sempre più complesse a livello globale.

La complicazione sta nel fatto che la democrazia è rimasta un fenomeno nazionale e una rete istituzionale per affrontare questi problemi non può essere disegnata mediante deliberazione democratica al livello di un singolo Paese, anche il più potente. La rete va, pertanto, disegnata e costruita attraverso accordi tra Stati sulla base di proposte che la società civile e la politica devono saper elaborare in una dimensione globale.

Affronterò il tema partendo da una descrizione sommaria di tre elementi che mi sembrano essenziali per un suo inquadramento: 1) le cause dell’insicurezza alimentare che grava su di un terzo della popolazione mondiale e interessa i paesi del Sud del mondo; 2) l’evoluzione dell’agricoltura e della ruralità nei paesi industrializzati; 3) i dilemmi delle politiche agricole europee alla vigilia della loro ridefinizione. Passerò poi ad elencare una serie di misure e di azioni su cui gli Stati hanno avviato un confronto per determinare una politica globale del cibo. E concluderò con l’indicazione di alcune questioni su cui occorrerebbe produrre dei cambiamenti culturali negli individui e nella società per fare in modo – per dirla con Enzo Rullani – che i processi moltiplicativi della modernità non continuino ad erodere i beni comuni ma siano resi coerenti con una modernità sostenibile. Decisivo è a mio avviso il ruolo delle relazioni interpersonali e di quell’intelligenza unica e fuori standard di ciascun individuo che sono state svalorizzate e sostituite dagli automatismi. Imprescindibile è la funzione delle culture che si sono accumulate nel tempo e che riguardano il rapporto tra popolazione e risorse e la gestione dei beni comuni in connessione stretta coi legami sociali.

Cibo e insicurezza alimentare

Per affrontare la prima questione – quella relativa alle cause dell’insicurezza alimentare – vorrei ricordare che le grandi organizzazioni mondiali intendono per sicurezza alimentare“l’accesso sicuro e costante a cibo sufficiente per condurre una vita in buona salute”. Nella Costituzione dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) il concetto di salute è definito come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia”. Per star bene ognuno di noi ha, dunque, bisogno di quelle duemila calorie al giorno senza le quali ci si ammala. Ma l’assunzione di calorie sufficienti è la base minima per star bene, non è ancora la condizione per conseguire lo stato di benessere fisico, psichico e sociale. Solo associando l’assunzione del cibo alla soddisfazione sensuale, alla convivialità e ai legami comunitari in cui il cibo assume valori simbolici fondamentali, si potrà dare un senso pieno al concetto di “vita in buona salute”.

E tuttavia prima ancora che il cibo possa essere assunto, bisogna creare le condizioni perché le popolazioni accedano ad esso in modo sicuro e costante. E’ per questo che la sicurezza alimentare ha a che fare con lo sviluppo umano e con il tenore di vita di individui e comunità.

Nei paesi occidentali consumiamo circa 2.900 calorie. Circa un terzo della popolazione mondiale non raggiunge però le duemila calorie e il 30 per cento di quel terzo di popolazione (925 milioni di persone) dispongono di meno di 1.500 calorie, il che vuol dire che soffrono la fame e moriranno precocemente per inedia.

La cifra è più che doppia rispetto a quella menzionata negli obiettivi del primo Summit Mondiale dell’Alimentazione, che nel 1996 proponeva di ridurla a 420 milioni entro il 2015. Il numero delle persone denutrite ha, dunque, ripreso a crescere. E di queste, il 65 per cento vive in soli sette paesi: India, Cina, Repubblica Democratica del Congo, Bangladesh ed Etiopia.
Qual è la causa fondamentale di questo regresso, del riacutizzarsi del problema dell’insicurezza alimentare? E’ la povertà, definita da Amarthia Sen come “l’assenza o l’incapacità tecnico-sociale-politica di raggiungere uno standard di vita socialmente accettabile”.

L’insicurezza alimentare è, nel contempo, causa ed effetto della povertà e del sottosviluppo: il benessere nutrizionale delle fasce povere di popolazione non è soltanto una conseguenza dello sviluppo ma un suo presupposto.

La povertà si è aggravata con la rapida sequenza e sovrapposizione di più fenomeni tra loro collegati: 1) il tasso di crescita demografica superiore al tasso di crescita della produttività agricola; 2) i cambiamenti climatici, che rendono meno assorbibili gli incidenti ambientali estremi come siccità, incendi, inondazioni e dissesti; 3) la fiammata dei prezzi internazionali dei prodotti agricoli e dell’energia; 4) la speculazione finanziaria sul cibo; 5) la corsa all’accaparramento della terra; 6) l’impoverimento delle risorse idriche.

1) La popolazione mondiale aumenta ad un ritmo superiore alla crescita della produzione agricola. Nel 2050 supererà i 9 miliardi di persone. Un terzo in più rispetto ai 6,9 miliardi che ora abitano il pianeta. Già tra meno di 20 anni ci sarà un miliardo in più di persone nei paesi poveri e in quelli emergenti.

Oggi la popolazione mondiale è equamente distribuita per il 50 per cento nelle città e per il 50 per cento nelle campagne. Nel 2050 la quota delle aree urbane raggiungerà il 70 per cento con una concentrazione di grandi agglomerati nell’area asiatica.

Sicché, la Fao sostiene che per venire incontro alla domanda di cibo di una popolazione in crescente aumento e che sarà più ricca e più urbanizzata, la produzione agricola per usi alimentari dovrà aumentare del 70 per cento entro il 2050.

2) Il riscaldamento globale da qui al 2100 porterà a un innalzamento medio della temperatura tra 1,4 e 5 gradi. Questo significa che l’agricoltura sarà in molte aree del pianeta più vulnerabile agli stress idrici, più esposta alla frequenza degli eventi calamitosi estremi (siccità e inondazioni) e all’azione dei parassiti e degli altri agenti patogeni. Inoltre, l’agricoltura influenza a sua volta il clima, in quanto responsabile delle emissioni di gas serra.

3) I prezzi degli alimenti non solo hanno avuto un aumento ma sono stati interessati anche dal cosiddetto fenomeno della “volatilità”, che si verifica quando la frequenza e l’ampiezza delle variazioni dei prezzi registrate in un dato arco temporale sono superiori alle medie storiche.

Quali sono le cause di questa instabilità turbolenta dei mercati agricoli?

Quella principale è la lievitazione della domanda di petrolio, una risorsa necessaria allo sviluppo economico dei paesi emergenti. L’aumento della domanda di combustibile nell’ultimo periodo ha reso generalmente più costoso l’utilizzo di questa fonte energetica per: a) impiegare le macchine nei processi produttivi agricoli; b) creare la base chimica nella produzione di fertilizzanti e pesticidi; c) trasportare le derrate.

Un’altra causa dell’ascesa dei prezzi delle commodity agricole è il mutamento dei modelli di consumo nelle fasce più ricche della popolazione dei paesi emergenti. Sulle loro tavole è ora la carne ad abbondare e il conseguente aumento della domanda di pollame, bovini, suini, ecc. non è senza conseguenze. Per allevare questa grande quantità di animali è, infatti, necessaria una notevole produzione di mangime, a cui segue l’aumento della domanda di grano e di altri cereali.
Un ulteriore motivo d’innalzamento dei prezzi degli alimenti è la crescita delle superfici, precedentemente dedicate a coltivazioni alimentari, per produrre bietole e canna da zucchero da utilizzare poi nella produzione di biocarburanti, e la destinazione di grano e mais a questo nuovo uso, diverso da quello alimentare.

4) Un aspetto inquietante dei meccanismi che determinano il rialzo dei prezzi agricoli e, dunque, le condizioni di povertà è la speculazione finanziaria sulle derrate agricole.

Se anche gli operatori dei mercati mondiali agricoli delle borse merci, alle prese con una inedita volatilità dei prezzi, chiedono di regolamentare i mercati finanziari a livello globale e per ora si sono autoregolamentati, significa che la situazione è davvero assai rischiosa.

5) Dagli inizi del Duemila in poi, società private, governi e fondi sovrani di tutto il mondo stanno acquisendo terreni su larga scala destinati alla produzione di alimenti e biocarburanti nei paesi in via di sviluppo. Si stima che siano stati oggetto di negoziazione nel mondo dai 50 agli 80 milioni di ettari, di cui oltre i due terzi nell’Africa subsahariana (Etiopia, Sudan e Mozambico).

L’aumento dei prezzi delle derrate agricole e i timori di una nuova scarsità alimentare hanno favorito fortemente l’espandersi del fenomeno. Accaparrarsi la terra significa garantirsi la produzione di colture ad uso alimentare ed energetico. Si tratta di una pressione commerciale su questo bene comune che coinvolge anche settori come il turismo, l’attività estrattiva, lo sfruttamento delle foreste, il controllo delle risorse idriche.

Questo aumento della domanda di terra rivolta prevalentemente verso il Sud del mondo è sicuramente un rischio, da monitorare con grande attenzione perché può provocare un innalzamento dei livelli di povertà, ma, qualora venisse regolato, aprirebbe spiragli interessanti per affermare modelli d’investimento in agricoltura diversi e quanto mai necessari.

6) Infine, l’acqua diventa sempre più una risorsa scarsa. Essa è un bene comune fondamentale per conseguire lo sviluppo dell’agricoltura e assicurare condizioni di vita dignitose alle popolazioni, soprattutto quelle più povere.
La parte più cospicua di questa risorsa è costituita dalle acque del mare che ricoprono il 71 per cento della superficie del pianeta. Oltre a svolgere un ruolo fondamentale nella regolazione del clima e a costituire il nodo più importante nel ciclo dell’acqua sulla Terra, il mare ha da sempre rappresentato un’importante fonte di sostentamento per l’umanità.
Molte comunità costiere hanno basato la propria ricchezza sulla pesca, che è divenuta nel tempo parte integrante del loro tessuto storico-culturale. Per quanto riguarda il nostro Paese, il Direttore della nostra rivista “l’albatros”, Agostino Bagnato, è autore di una interessantissima opera – pressoché unica nel suo genere – in cui si racconta la vicenda del mare e dei pescatori e il suo stretto legame con la storia d’Italia.

Oggi siamo in presenza di un drastico impoverimento della vita nel mare dovuto all’intensa attività di pesca, in parte illegale, all’inquinamento e al degrado dell’ambiente marino.

Inoltre, l’acqua pone gravi problemi di competizione tra i diversi usi. Ed è soprattutto l’aumento degli usi urbani e industriali ad aver creato la pressione commerciale sulla risorsa. La crescita delle aree metropolitane nei Paesi emergenti sta riducendo notevolmente la disponibilità d’acqua per l’irrigazione delle campagne.

Infine, la gestione impropria dell’acqua d’irrigazione in zone aride si traduce in impaludamento e salinizzazione delle terre, in un incremento delle malattie legate all’acqua e in una riduzione della biodiversità. Tutti effetti che determinano minore disponibilità di cibo.

Cibo e sviluppo agricolo nei Paesi industrializzati

Illustrate sommariamente le cause dell’insicurezza alimentare che interessa i paesi del Sud del mondo, vediamo adesso come evolvono l’agricoltura e la ruralità nei paesi industrializzati.

Lo sviluppo agricolo che si è realizzato negli Usa, in Europa e in Giappone ha risolto il problema dell’autosufficienza alimentare di questi paesi, almeno a partire dagli anni Sessanta, e ha indotto la modernizzazione sociale ed economica della parte di mondo in cui noi viviamo, ma ha determinato al tempo stesso anche gravi contraddizioni.

La surrogazione di un’economia rigenerativa della natura (economia contadina) con un’economia dissipativa della tecnica (utilizzo massiccio di sostanze chimiche) ha provocato il saccheggio della fertilità storica dei terreni agricoli e ha dato vita al fenomeno dell’erosione.

Il luogo dove si produce il cibo, un tempo habitat salubre per eccellenza, è diventato una delle fonti dell’inquinamento globale dell’aria, dei laghi, dei fiumi e dei mari.

L’attività umana che originariamente ha dato vita ai primi insediamenti comunitari, si è trasformata in un’attività produttiva che erode capitale sociale e ricchi patrimoni culturali, saperi secolari legati alla qualità dei cibi e alla custodia del territorio.

Mentre un miliardo di persone sono denutrite, un terzo del cibo prodotto a livello globale, vale a dire 1,3 miliardi di tonnellate l’anno, viene perso o sprecato con un inutile consumo delle risorse impiegate per produrlo e con un altrettanto non necessario rilascio di anidride carbonica. Se si considera che la perdita di materia edibile per cittadino in Europa e in Nord America ammonta a 280-300 chili l’anno, mentre nell’Africa sub-sahariana e nel Sud-est asiatico a 120-170 chili, è facile dedurre che non si tratta solo di inefficienza produttiva ma anche di insostenibili stili di vita e di consumo nei paesi ricchi.

L’attuale condizione, in alcune aree del mondo, di sovrabbondanza di cibo sta determinando disturbi di vario tipo, come l’obesità e l’anoressia. Cresce sempre più il numero di persone in condizione di soprappeso, che costituisce una concausa nelle patologie arteriosclerotiche e cardiovascolari e nel diabete che sopravviene in età matura. Solo in Italia sono 18 milioni.

Negli Stati Uniti l’obesità è responsabile di un numero di morti che oscilla tra i 280.000 e i 350.000 all’anno.

Ma dopo mezzo secolo di ricerche e dopo aver speso centinaia di migliaia di dollari per demonizzare i grassi nell’alimentazione, la scienza della nutrizione non è riuscita a provare che una dieta con pochi grassi può aiutare a vivere a lungo; e questo perché di fronte a fatti così complessi come quelli che caratterizzano la nutrizione, non ci è concesso di affidare l’indagine a un solo ramo del sapere. Occorre, in sostanza, mettere insieme più discipline e assumere un approccio olistico per fronteggiare la malattia. E questo ancora non si fa.

L’anoressia è, invece, una malattia mentale che si accompagna ad una vera e propria propaganda volta a diffonderla tra le nuove generazioni. E’ forse l’unico caso di apologia di un morbo. Ci sono, infatti, decine di siti web che incitano i giovani al controllo totale del cibo come mezzo di autoaffermazione.

Inoltre, il mondo della moda adotta modelli di bellezza che si fondano sull’idea dell’essere magri a tutti i costi. I mezzi di comunicazione di massa hanno assunto come valori esclusivi della nostra società la bellezza e l’efficienza fisica e diffondono questo messaggio con un’aggressività e volgarità senza misura. Si è in tal modo verificata una sorta di saldatura tra modelli culturali di vita e forme patologiche. Non a caso l’anoressia è presente solo nei paesi ricchi.

Cibo e nuova ruralità

Mentre lo sviluppo agricolo produce queste gravi contraddizioni, nonché disagi e disturbi di vario genere, compare in Europa, negli anni Settanta, un fenomeno che è stato definitonuova ruralità. Va riconosciuto a Corrado Barberis il merito di aver studiato per primo e più di altri questo fenomeno.

La nuova ruralità inizia a prendere forma quando un’altra grande crisi, che precede quella che stiamo vivendo, incrocia la nuova rivoluzione tecnologica e fa sì che il modello di sviluppo adottato qualche decennio prima, mostri le prime avvisaglie della propria insostenibilità.

Siffatto fenomeno si manifesta in modo differenziato a seconda delle tradizioni della ruralità. La nuova ruralità continentale è prevalentemente conservazionistica e ricreativa perché fa leva su di una tradizione rurale di tipo naturalistica e agraria. Esprime il riemergere di bisogni ancestrali legati alle relazioni uomo-terra e uomo-cibo che si erano determinate nell’ambito di assetti comunitari e di forme collettive di utilizzazione delle risorse naturali, considerate da tempi immemorabili come beni comuni.

La nuova ruralità mediterranea si pone, invece, in continuità con una tradizione che si caratterizza per una maggiore integrazione tra città e campagna, nonché per una diffusa presenza di pratiche civili comunitarie, di attività plurime e di economie informali. Essa non si manifesta come nostalgia di un lungo ciclo rurale ormai giunto a compimento e di cui serbare la memoria valorizzandone le vestigia. Ma è difatti una tradizione che permane nella modernità come un insieme sia di attività in più settori, sia di soggetti sociali di diversa estrazione e provenienza, legati tra loro da relazioni di tipo collaborativo. Una tradizione che la cultura legata al modello sociale prevalente nei paesi industrializzati ha considerato per un lungo periodo retaggio ingombrante di cui liberarsi e che oggi incomincia di nuovo ad essere apprezzata e rivitalizzata per le sue virtù.

La ruralità contemporanea è visibile osservando alcune novità nelle relazioni tra città e campagne: la rurbanizzazione, i consumATTORI e le comunità di cibo.

a) La rurbanizzazione è un fenomeno che riguarda sia lo spostamento di singoli individui e gruppi dalle città nelle aree periurbane e rurali alla ricerca di stili di vita e forme dell’abitare meno stressanti e più sostenibili, sia la crescita di attività agricole e rurali meno industrializzate e più legate a logiche di competizione di tipo cooperativo.

Questi neo-contadini si rendono oggi protagonisti di una mutazione antropologica delle campagne: da “non luoghi” dove operano sistemi agroalimentari delocalizzati e predatori, che ricercano ovunque nel mondo materie prime a minor costo, a “luoghi” dove si rigenera un’agricoltura relazionale e di territorio. Il loro obiettivo non è produrre cibo in sé, ma produrlo in un certo modo per ottenere beni relazionali e ambientali capaci di soddisfare bisogni collettivi.

Si opera una sorta di capovolgimento dei mezzi in fini, per ristabilire un ordine di priorità che si era smarrito con la modernizzazione agricola: è l’uomo coi suoi bisogni e le sue aspirazioni più profonde e sono i beni comuni, relazionali e ambientali, che si riproducono i fini dell’attività economica, mentre il processo produttivo, il prodotto e la sua scambiabilità sono soltanto i mezzi per perseguirli.

E’ in tale quadro evolutivo che si stanno sperimentando nuovi modelli di welfare e di efficienza energetica nelle aree metropolitane. Ad esempio, a Corviale di Roma, si è avviato un percorso di progettazione territoriale “dal basso” legata alle varie forme di agricolture civili, dalle fattorie sociali ai centri ippici e alle asinerie, fino alle abitazioni con orti sui tetti in serre ricoperte da fotovoltaico, che Stefano Panunzi ha studiato.

L’innovazione tecnologica che si lascia permeare dall’innovazione sociale, potrebbe aprire una nuova fase della bonifica integrale, in cui un inedito terziario agricolo – di cui Franco Paolinelli ci parla da un decennio – inverdisce il cemento, lasciando cadere in frantumi le mura di cinta che hanno separato per millenni la città dalla campagna.

E’ quel “continuum urbano-rurale policentrico e molteplice” che Franco Ferrarotti ha trovato tornando nelle periferie romane quarant’anni dopo la sua famosa indagine sociologica degli anni Sessanta.

b) I consumATTORI costituiscono una particolare tipologia di consumatore che vuol essere partecipe del progetto con cui si crea il prodotto agricolo e non semplicemente spettatore passivo nel teatro del marketing; vuole, in sostanza, essere un co-protagonista che interagisce con il produttore. Egli non si limita ad informarsi sui diversi prodotti, guardare l’etichetta e acquistare passivamente il bene in qualunque punto vendita. Vuole, invece, partecipare attivamente al rapporto di scambio dopo essersi aggregato, anche informalmente, in gruppi di acquisto.

La comparsa di questo nuovo soggetto permette di sperimentare strategie di impresa fondate sulla competitività cooperativa (co-opetition). Si agisce sul mutuo aiuto e sul reciproco vantaggio dei soggetti che partecipano allo scambio di mercato mediante modelli di governance allargata e percorsi partecipativi. In sostanza, produttori e consumatori operano come un team per raggiungere obiettivi comuni in grado di avvantaggiare tutti i partecipanti dello scambio economico.

c) Le comunità di cibo si creano intorno alle attività legate alla cultura del cibo locale (km zero, farmer’s market, agricoltura hobbistica, orti urbani, presidi di prodotti tradizionali, agriturismo e ittoturismo). Si tratta di esperienze che rischiano di chiudersi in una logica di autosufficienza e di inaridirsi se non si ha l’ambizione di agire in una dimensione globale, costruendo reti sempre più ampie in un’ottica cooperativa e di scambio culturale.

Una delle idee fondanti delle comunità di cibo è che piacere e salute non vanno intesi in modo conflittuale ma nel segno dell’alleanza e del reciproco vantaggio.

L’idea che il piacere sia salutare, che ciò che piace fa bene è un’idea-base della dietetica antica. Essa nasce dalla convinzione che i messaggi del corpo, che ci spingono a desiderare un cibo piuttosto che un altro, servono a riconoscere, attraverso la piacevolezza del gusto, la qualità degli alimenti di cui il corpo ha bisogno.

Le relazioni tra motivazione, piacere dei sensi e assunzione alimentare danno luogo a un complicato intreccio: fabbisogno, desiderio, piacere nascono all’interno di reti neurali che si sovrappongono le une alle altre. Ma non tutto si risolve affrontando la sola dimensione fisica: per ottenere uno stato di effettivo benessere, bisogna modificare il contesto in cui le persone agiscono e le relazioni che l’individuo ha con il mondo esterno. Da qui nasce il bisogno di allargare il discorso sul cibo agli elementi simbolici perché il cibo è cultura.

Oggi non è ancora un dato acquisito che il cibo sia anche piacere e che il piacere del cibo sia un diritto di tutti. Per secoli i ceti dominanti hanno preferito immaginare il piacere come loro esclusivo privilegio. Includere, pertanto, il diritto al piacere tra gli obiettivi alimentari delle prossime generazioni ha a che fare con l’ampliamento delle libertà degli individui.

Il cibo è un fondamentale strumento di identità culturale che non si oppone al villaggio globale. La diffusione di modelli alimentari globalizzati, come quello di McDonald’s e dei suoi concorrenti, paradossalmente ha eccitato la ricerca della diversità, la ricostruzione di radici più o meno inventate, la riscoperta o reinvenzione delle tradizioni locali. Il corpo sociale ha elaborato un formidabile antidoto al rischio dell’omologazione culturale. Mettere in rete le culture locali, diffonderle, farle conoscere, condividerle è stata la risposta positiva a questo rischio. Utilizzando il villaggio globale come luogo di scambio anziché di omologazione. Globalizzando la biodiversità gastronomica e culturale.

La cultura economica delle civiltà cresciute attorno al Mediterraneo è cultura della mescolanza, dell’ibridazione, della contaminazione. Questa parte del mondo è una realtà geografica dotata di elementi comuni, legati al clima e al paesaggio, ma su questo fondo comune si sono sviluppate civiltà, lingue, tradizioni (anche alimentari) diverse. Ciò che storicamente ha contraddistinto il Mediterraneo è stata semmai la vocazione (favorita dalla brevità dei tragitti da est a ovest, da nord a sud) a costituirsi come area comune di scambio tra uomini, prodotti, culture. Ecco il punto: l’identità mediterranea esiste solo nello scambio, nella messa in comune delle diversità naturali. Come scrive Massimo Montanari, l’identità mediterranea nasce dalla storia più che (oltre che) dalla geografia.

Quella che, troppo semplicemente, oggi ci siamo abituati a chiamare dieta mediterranea è un’astrazione che solo in parte corrisponde a questa storia. E’ un modello costruito a tavolino, a cominciare dagli anni Cinquanta, per motivi e per scopi ben precisi, di carattere medico-sanitario: trovare un correttivo alla dieta eccessivamente proteica e calorica dei popoli ricchi. Guai a mummificare questo modello in una prescrizione igienica. Sarebbe negare in radice l’assunto culturale su cui si fonda.

La lezione che ci viene dalla storia è di pensare il sistema alimentare non come una realtà semplice, dettata dalla “natura” dei luoghi, bensì come una costruzione complessa, legata ad una cultura, ad uno stile di vita che i popoli del Mediterraneo hanno imparato a condividere, a modificare, a creare giorno dopo giorno. E’ forse questa modalità che noi dovremmo offrire alle altre parti del mondo come un percorso utile di confronto e integrazione delle diverse culture alimentari.

Si tratta di abbandonare la visione statica di un’italianità legata esclusivamente alla conservazione di determinati prodotti (difesi con marchi collettivi, etichettature, riconoscimenti Unesco e relative politiche di marketing) e di spingere, invece, verso un’innovazione intesa come affermazione di nuove idee per soddisfare bisogni sociali e creare continuamente mercati fondati su relazioni interpersonali. Aver rinunciato alla creatività pensando di vivere di rendita per le cose fatte in passato è all’origine del nostro declino.

La nostra tradizione va sempre rivitalizzata con dinamicità e in modo innovativo proprio per restare fedeli ai suoi caratteri peculiari. E una siffatta italianità, fondata sull’innovazione sociale e sul saper fare, è una grande risorsa soprattutto ora che, nei Paesi emergenti, entrano in scena milioni di nuovi consumatori che stanno modificando la propria dieta alimentare.

I produttori di quei Paesi imitano i nostri prodotti come abbiamo fatto noi nei millenni passati. E non ci saranno tribunali speciali a cui appellarci. Dobbiamo convincerci che la competitività da perseguire non dovrà essere tanto di tipo posizionale (come in una gara sportiva), quanto di tipo cooperativo, dovendo strutturare in modo organizzato, a livello sia locale che globale, bisogni sociali dal lato della domanda a cui far corrispondere un’adeguata capacità di organizzare l’offerta.

Si tratta di scambiare nei mercati globali non solo merci, ma culture alimentari, pratiche civili comunitarie legate all’agricoltura e alla pesca, modelli di welfare e di tutela dei beni comuni, tecnologie verdi, per produrre innovazione sociale continua. Ecco la sfida per le comunità di cibo del futuro!

Cibo ed evoluzione della Pac

Se si guarda a siffatti scenari, la proposta di riforma della Pac, confezionata dalla Commissione europea per il periodo di programmazione 2014-2020, è ancora poco coerente coi problemi posti dall’insicurezza alimentare nei Paesi del Sud del mondo e da quelli della nuova ruralità mediterranea.

Circola in diversi ambienti europei la tesi molto discutibile secondo la quale tutte le aree del mondo dovrebbero concorrere a produrre più cibo per fronteggiare la nuova era della scarsità. In sostanza, l’insicurezza alimentare viene presa a pretesto per giustificare un nuovo ciclo di politiche agricole protezionistiche nei paesi ricchi al fine di produrre più derrate agricole.

Questa soluzione è del tutto contraddittoria con gli obiettivi che, invece, dovrebbero perseguire i paesi in via di sviluppo per fronteggiare la loro insicurezza alimentare. La quale non è dovuta tanto alla scarsità di cibo ma alla scarsità degli investimenti per risolvere il problema dell’accesso al cibo.

I sussidi agli agricoltori dei paesi industrializzati generano distorsioni nei mercati internazionali. E le vittime principali sono gli agricoltori dei paesi in via di sviluppo che si vedranno sempre più tagliati fuori dai mercati delle derrate agricole. Oliver De Schutter, relatore speciale Onu sul diritto al cibo, ha dichiarato recentemente: “L’Europa ha aperto le porte alle esportazioni del mondo in via di sviluppo, ma questa apertura è inutile se i piccoli agricoltori del Sud non possono vendere i loro prodotti alimentari nei loro mercati interni. Dobbiamo aiutare i paesi a basso reddito a non dipendere dalle importazioni a basso prezzo ma a ricostruire i loro sistemi alimentari. Non dobbiamo dar loro da mangiare, ma aiutarli a nutrirsi. Se la produzione alimentare aumenta con una ulteriore marginalizzazione dei piccoli agricoltori nei paesi in via di sviluppo, si perde la battaglia contro la fame e la malnutrizione”. Non poteva essere più netta la presa di posizione contro il falso teorema che sottende il neoprotezionismo della proposta di riforma della Pac.

Proposte per una governance globale del cibo sostenibile

A questo punto della mia esposizione elencherò alcune proposte che potrebbero dar vita, qualora si realizzassero, ad una governance globale del cibo. Si tratta di approcci concreti a singoli problemi su cui si sta tentando una condivisione innanzitutto a livello di società civile, ma anche nel confronto tra gli Stati.

Al summit di Cannes del 3 novembre 2011, la presidenza francese del G20 si è impegnata per favorire un accordo globale sulla sicurezza alimentare. Il Piano di azione sulla volatilità dei prezzi alimentari e sull’agricoltura, predisposto dai ministri dell’agricoltura del G20 a Parigi nei giorni 22-23 giugno 2011, ha soltanto iniziato a mettere mano ad una strategia di riforma, tra reticenze e contraddizioni.

Nonostante le sollecitazioni del CESE (Comitato economico e sociale europeo), che aveva organizzato a Bruxelles il 23 maggio 2011 la conferenza internazionale Cibo per tutti. Verso un accordo globale, l’Unione europea non ha svolto alcuna funzione di stimolo al dibattito. Neanche l’Italia, alle prese con le continue emergenze, ha fornito un contributo nelle sedi internazionali, sebbene il Senato avesse discusso il tema e approvato, nella seduta del 16 giugno 2011, mozioni che affrontavano organicamente i suoi vari aspetti.

La mobilitazione della società civile dovrebbe premere affinché si vada più a fondo con una urgenza indilazionabile per raggiungere i seguenti obiettivi, su cui vi sono analisi e riflessioni abbastanza condivise: 1) ridurre la povertà nei paesi in via di sviluppo mediante il sostegno all’agricoltura; 2) dar vita ad una nuova organizzazione dei mercati agricoli e finanziari; 3) intensificare gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo; 4) regolare la nuova domanda di terra; 5) sperimentare nuove forme civili di gestione dell’acqua; 6) coordinare i sistemi d’incentivazione delle fonti energetiche rinnovabili; 7) rendere coerenti le politiche agricole e commerciali con il diritto all’alimentazione.

1) Sostenere l’agricoltura dei paesi in via di sviluppo significa privilegiare i mercati locali e regionali e incentrare le azioni sulle popolazioni rurali presenti sul territorio.

Gli interventi internazionali sotto forma di massicci aiuti alimentari ai paesi in via di sviluppo possono stravolgere i mercati locali e pregiudicare la sicurezza alimentare degli stessi produttori agricoli. Si dovrebbero, invece, favorire le capacità delle persone e delle comunità locali di accrescere il benessere individuale e sociale, creando domanda e offerta di istruzione di qualità, domanda e offerta di protezione dei diritti civili e politici. Una particolare attenzione andrebbe rivolta all’elevazione della condizione delle donne sia per valorizzare le loro capacità innovative in agricoltura, sia per correggere il tasso di fecondità.

2) Creare una nuova organizzazione dei mercati agricoli e finanziari è un impegno che dovrebbe partire dalla registrazione di tutte le transazioni e le posizioni degli operatori. Parallelamente, andrebbe creata una maggiore trasparenza dei mercati fisici, soprattutto per quanto riguarda i livelli di risorse e di scorte, nonché dell’offerta e della domanda a breve e medio termine. Ci vorrebbe, inoltre, una regolamentazione “uniforme” a livello internazionale per i mercati finanziari anche per evitare la concorrenza tra le “piazze” finanziarie. Bisognerebbe, infine, tornare a creare delle scorte di intervento, ma da gestire a livello mondiale.

3) Intensificare gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo è una delle condizioni ineliminabili per combattere la fame e riprendere la crescita. Del resto, non è mai stata confutata la teoria per cui Robert Solow fu insignito del Nobel per l’economia nel 1987: in ultima istanza, sono sempre le idee, sostenute dalle tecnologie dell’invenzione, che promuovono quegli elementi che cambiano la qualità della vita.

Vediamo il problema dell’aumento della produzione nelle agricolture dei Paesi in via di sviluppo può avvenire in due modi. Tale aumento può avvenire in due modi: ampliando le superfici coltivabili o accrescendo la loro produttività. La prima strada appare preclusa perché le terre migliori sono già tutte coltivate e restano quelle marginali oppure quelle impegnate dall’attuale patrimonio forestale, la cui riduzione non è affatto auspicabile. Resta la strada dell’aumento della produttività. Ma abbiamo due limiti da superare: a) utilizzare meno input chimici in agricoltura perché si è potuto constatare che l’uso prolungato di sostanze chimiche determina una perdita di fertilità dei suoli; b) accrescere la produttività con altri ritrovati tecnologici diversi dalle sostanze chimiche.

Al momento è l’ingegneria genetica ad essere ritenuta dalla comunità scientifica il sentiero tecnologico che può permettere di raggiungere maggiori livelli di produttività agricola e, al tempo stesso, di salvaguardare meglio le risorse naturali. Mentre quello delle nanotecnologie è un percorso indispensabile per un uso razionale dell’acqua ad uso irriguo. Ma le innovazioni tecnologiche sono soltanto un aspetto dell’innovazione sociale che deve produrre cambiamenti nella cultura e nei comportamenti mediante approcci olistici, interdisciplinari e di autoapprendimento collettivo.

Una ragione di ottimismo per il futuro è che salute, istruzione e diritti si comportano come il reddito pro capite, nel senso che dipendono dall’innovazione. Questa riesce a diffondersi globalmente anche in paesi con redditi bassi, che possono così godere di migliori condizioni di vita senza dover aspirare a livelli economici irrealistici.

4) Regolare la nuova domanda di terra è il modo per promuovere un accesso equo e sicuro a questo bene comune. Occorre provvedervi nella prospettiva dei diritti più che degli investimenti attraverso il dialogo e la condivisione delle conoscenze. Si tratta di costruire nell’immediato un centro di monitoraggio sulle acquisizioni di terra su larga scala e sul loro impatto dal punto di vista ambientale, sociale ed economico.

5) Sperimentare nuove forme civili di gestione dell’acqua è il percorso più efficace per ottenere un uso sostenibile delle risorse idriche. Tale percorso può riconnetterci alle antiche forme di gestione dei beni collettivi, valorizzando l’economia civile, il Terzo settore e l’azionariato diffuso. Si tratta di uscire dal dilemma statalismo/multinazionali, recuperando la migliore tradizione dei consorzi di bonifica e irrigazione e rivitalizzandola per tutti gli usi della risorsa acqua.

6) Coordinare gli incentivi per la produzione delle agroenergie è necessario per trovare il giusto equilibrio tra il bisogno di disporre di questo bene a basso costo per la ripresa economica, la necessità di uno sviluppo sostenibile, a cui la produzione di agroenergie può dare un contributo, e l’esigenza di assicurare il diritto al cibo, che mal si concilia con la sottrazione di terreno fertile per finalità energetiche.

7) Rendere coerenti tutte le politiche agricole con il diritto al cibo è, infine, l’impegno che gli Stati delle diverse aree del mondo dovrebbero assumere e concretizzare con coerenza.

Se il problema dell’insicurezza alimentare interessa davvero le istituzioni europee, come viene proclamato in diversi documenti ufficiali, c’è un modo per dimostrarlo in concreto: spostando una parte delle risorse destinate ai sussidi diretti ai nostri agricoltori, agli investimenti in ricerca e in aiuti volti a sostenere la capacità delle popolazioni dei paesi in via di sviluppo a investire nelle loro agricolture.

Gli agricoltori europei non hanno bisogno di grandi risorse per sostenere i propri redditi, ma di ridistribuirle in modo più equo tra grandi e piccoli produttori e tra aree forti ed aree deboli, agganciando i sussidi alla produzione di beni comuni, ambientali e relazionali.

Le campagne europee e in particolare quelle mediterranee hanno estrema necessità di politiche che puntino allo sviluppo territoriale, all’ammodernamento del welfare, al miglioramento della qualità della vita nelle aree rurali, all’edificazione di sistemi agroalimentari in grado di interagire coi nuovi mercati nei paesi emergenti, nonché alla valorizzazione del contributo dell’agricoltura di servizi alla vivibilità delle aree urbane.

Il paradosso di dover liberalizzare i mercati e, nello stesso tempo, proteggere gli agricoltori si può risolvere solo in un modo: con liberalizzazioni e protezioni a geometria variabile. I paesi più poveri dei nostri hanno bisogno, per un certo periodo, di proteggersi dalle importazioni dei nostri prodotti agricoli e puntare al proprio sviluppo autoctono. E noi dovremmo dichiararci disponibili a favorire queste legittime e irrinunciabili esigenze.

I paesi industrializzati, invece, qualora le crisi alimentari dovute ai prezzi alti del cibo colpissero le fasce povere della propria popolazione, non dovrebbero nutrirle producendo di più localmente.

Già ora sono a rischio alimentare oltre 50 milioni di persone negli Stati Uniti e 43 milioni in Europa. Ma la soluzione del problema non sta nel produrre di più in questi paesi, bensì nell’allestire adeguati sistemi di welfare che prevengano il rischio di impoverimento delle persone oppure che le sostengano in caso di necessità.

Il bilancio comunitario andrebbe, pertanto, riequilibrato in tale direzione: meno sussidi agricoli e più politiche per regolare i mercati agricoli e finanziari e stabilizzare i prezzi; meno misure protezionistiche e più interventi per l’occupazione, il welfare e l’innovazione sociale. E lo stesso discorso vale per il Farm Bill americano, anch’esso ancora configurato come un intervento fortemente protezionistico.

Bisognerebbe poi essere più coerenti nel regolare il commercio mondiale. Un commercio regolato è quello che integra nelle sue dinamiche decisionali ed applicative i principi e le prassi del diritto all’alimentazione. Gli Stati, le cui popolazioni soffrono una condizione di denutrizione, dovrebbero astenersi dal contrarre obblighi internazionali in contrasto con tali principi per non andare contro i loro popoli. L’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero, da parte loro, promuovere questo approccio verso gli altri stati membri del WTO, per fare in modo che la sicurezza alimentare diventi una vera e propria clausola di salvaguardia negli accordi internazionali.

Per tenere vivo il dibattito pubblico su questi sette problemi bisognerebbe cogliere ogni opportunità che si presenta. La preparazione di Milano Expo 2015, dedicato al tema “Nutrire il pianeta”, è dunque un’occasione da non perdere per organizzare in modo razionale e produttivo la trattazione di queste tematiche con il coinvolgimento di istituzioni, organizzazioni della società civile, mondo della conoscenza.

I cambiamenti culturali necessari per una modernità sostenibile

Affrontare questi sette problemi concreti è quanto dovrebbero fare gli Stati se la politica se ne occupasse in modo costante con un’elaborazione e una costruzione di soggetti politici di dimensioni sovranazionali. Ma c’è una responsabilità che fa capo a ciascuno di noi in quanto cittadini e in quanto società civile e ci sono doveri individuali e collettivi da adempiere perché nessuna persona potrà vivere e sopravvivere senza volerlo, senza operare la sua rivoluzione, così come nessuno potrà fare la rivoluzione senza sopravvivere. Come diceva il Mahatma Gandhi: “Siate voi stessi il cambiamento che volete vedere nel mondo”.

Tra i beni comuni investiti da processi dissipativi vanno considerati i beni relazionali (reciprocità, mutuo aiuto, gratuità, fiducia, ecc.) e non solo le risorse naturali (terra, acqua, aria, strato dell’ozono, ecc.).

L’erosione dei beni relazionali è tra le cause dell’attuale crisi economica e finanziaria ma anche dell’arretramento delle basi civili delle nostre società industrializzate, la cui spia si è accesa all’improvviso con la violenza gratuita verso i più fragili, i giovani. Assuefatti alla logica utilitaristica, siamo rimasti sconcertati per l’attentato di Brindisi perché non vogliamo ammettere che anche il male, come il bene, può essere gratuito. Ma l’agguato, per il modo come è stato compiuto e per le persone colpite e altre ancora che si intendevano colpire, è la spia che siamo giunti al livello di guardia della tenuta dei legami sociali.

Né lo Stato né il mercato possono fare granché dinanzi ad eventi come questi, perché sia l’uno che l’altro non sono istituti primordiali, ma frutto dell’iniziativa di persone che vivono in società. E’ dunque la società civile il luogo dove si può rigenerare quel capitale sociale che costituisce il presupposto per la nascita e il corretto funzionamento del mercato e delle istituzioni. Una nuova società civile diversa da quella plasmata dagli Stati nazionali e dall’approccio utilitaristico all’economia di mercato. Una nuova società civile che si sta organizzando nelle reti e che mette in discussione i vecchi modelli corporativi della rappresentanza, forgiati dall’economia fordista e dal vecchio stato sociale messo irrimediabilmente in discussione agli inizi degli anni Ottanta, quando i Paesi che lo avevano adottato decisero di non finanziare più il deficit dei loro bilanci con l’emissione di moneta. Reti trasversali di cittadini e non più organizzazioni di categorie, settori, professioni, mestieri o aggregazioni di portatori di bisogni speciali (disabili, non autosufficienti, anziani, ecc.) o ancora associazioni di consumatori contrapposte a quelle dei produttori. Sono queste reti d’incontro, di partecipazione e di autoapprendimento collettivo, il “luogo” dove s’addensa una nuova società civile.

Per poter rivitalizzare i beni relazionali e la capacità di questa nuova società civile di produrli, occorre recuperare dalla triade della Rivoluzione Francese (liberté, egalité, fraternité) il terzo pilastro: la fraternità, da non confondere con la solidarietà. Una fraternità dei moderni da distinguere nettamente dalla fraternità degli antichi, che era fondata sui legami di suolo e di sangue. Una fraternità dei moderni che va oltre quella delle appartenenze nazionali, dei legami di classe e di ceto, delle affiliazioni ideologiche e religiose. Una fraternità dei moderni che dovrà essere civile, universalistica, da fondare su di un nuovo civismo nell’economia e nella società.

Ci siamo adeguati un po’ tutti al modello utilitaristico e individualista e ci siamo abituati a reprimere e a non riconoscere la diversità altruistica che c’è dentro ciascuno di noi, fonte di una fragilità che c’imbarazza. Ma solo se saremo in grado di accettare questa diversità in noi, saremo in grado di riconoscerla negli altri e di costruire una nuova appartenenza fondata sul riconoscimento reciproco delle nostre fragilità e su nuove comunità umane aperte all’altro, senza più mura di cinta invalicabili da difendere, ma solo piccole siepi da varcare liberamente.

Mancando le libertà individuali e operando in territori circoscritti, nelle società tradizionali i beni comuni erano usati sulla base di consuetudini imposte alle persone in modo autoritario dalle comunità. Oggi, in presenza delle libertà individuali e della dimensione globale dei beni comuni ogni ricorso ad un potenziale Leviatano si rivela insufficiente senza far leva sui beni relazionali. Tali beni emergono spontaneamente nelle relazioni di mercato e permettono di rivitalizzare quel sistema paritario dello scambio che – secondo la lezione di Fernand Braudel ribadita recentemente da Giorgio Ruffolo in una ricostruzione storica della moneta – fu sostituito, con l’avvento degli Stati nazionali, da un’economia fondata sui rapporti di forza, sul “diritto del più forte”, in sostanza dall’attuale modello capitalistico.

Si tratta di prendere coscienza che abbiamo un solo pianeta. Ora è provato che non basterebbe questo pianeta se tutti i popoli assumessero il nostro modello alimentare. Occorre, dunque, un cambiamento culturale che coinvolga le nostre convinzioni più intime, i nostri stili individuali di vita e i nostri modelli di produzione e consumo per ridurre l’uso di sostanze chimiche nei processi produttivi agricoli; contenere la produzione e il consumo di proteine animali; arginare gli sprechi; ridurre l’uso dell’acqua; considerare l’accesso all’alimentazione e il piacere del cibo un diritto di tutti; scambiare le culture alimentari per aprirci agli altri.

Dovremmo anche dismettere un atteggiamento di diffusa avversione verso la scienza, dettato spesso da timori egoistici, e considerare, invece, il livello delle competenze e delle capacità cognitive scientifiche e tecniche un criterio non meno importante di quelli normalmente ritenuti necessari per la nascita e la sopravvivenza di una democrazia liberale e non dispotica. Se l’autonomia e l’autodeterminazione sono i valori davvero in grado di garantire un efficiente funzionamento delle regole democratiche – scrive Gilberto Corbellini – solo la diffusione della scienza è in grado di sviluppare negli individui e nelle comunità il senso di autonomia, plasmando i comportamenti e i valori civili che consentono di controllare democraticamente la sostenibilità delle premesse su cui si reggono i processi moltiplicativi della modernità.

L’apertura verso la scienza è, dunque, fondamentale per assumere pienamente la responsabilità, com’è decisivo che la nostra civiltà si faccia sempre più carico delle altre specie viventi. Nei nuovi equilibri evolutivi che si stanno determinando sull’onda dei cambiamenti delle grandi strutture antropologiche che regolano i rapporti tra gli esseri umani, si stanno spostando le frontiere dell’etica, fino a comprendervi tutto il vivente che ci circonda. Aldo Schiavone prevede che, fra qualche tempo, l’idea di mangiare carne animale susciterà non meno orrore di quel che oggi ne provochi l’esperienza della schiavitù. Ridurre perciò la produzione e il consumo di proteine animali significa non solo garantire la disponibilità di cibo ad un maggior numero di persone, ma anticipare in qualche modo anche comportamenti alimentari che saranno propri delle generazioni future.

L’atto del mangiare è un fattore altamente veicolante di pratiche e dispositivi culturali, che fornisce una rappresentazione dei mondi altri. Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare tra culture diverse aprendo i sistemi di cucina ad ogni sorta di invenzioni, incroci, sincretismi, ibridismi e contaminazioni. Conoscere le culture alimentari di un gruppo e scambiare i cibi può, dunque, costituire una pratica che favorisce l’integrazione in contesti sempre più multietnici, come quelli europei, e un veicolo per diffondere nel mondo l’idea di alimentazione sostenibile e di piacere del cibo come diritto di tutti.

E’ utopia tutto questo? Paolo Sylos Labini diceva che lo scetticismo nei confronti di percorsi innovativi spesso nasconde, in chi lo manifesta, una grande cura del proprio particulare e, nonostante le proclamazioni in contrario, un’assai scarsa preoccupazione per l’interesse pubblico. E ripeteva una metafora che aveva sentito durante una lezione di Joseph Schumpeter: “Non c’è nulla di così impercorribile come una strada che una lunga schiera di pellegrini, passandosi la voce l’un l’altro ma senza percorrerla, dichiarano impercorribile”. Chi riesce a non farsi suggestionare dagli altri può scoprire, con sorpresa, che la strada è, bensì, lunga e faticosa, ma che gli ostacoli non sono affatto insuperabili.

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Ibrahim, l’uomo che coltiva il deserto

«Noi rappresentiamo l’Islam moderato e moderno. Gli uomini dell’Isis sono solo terroristi». Ibrahim Abouleish invoca spesso Allah, quando parla della sua incredibile avventura umana, imprenditoriale e ambientale, l’aver trasformato 20.000 ettari di deserto del suo Egitto (partendo dai primi 70 conquistati a 60 chilometri a nordest del Cairo) in terreno fertile coperto da filari di alberi ad alto fusto, coltivazioni rigorosamente biodinamiche, allevamenti di bufali egiziani, fabbriche di tisane, scuole, asili nido e ora anche L’Università di Eliopoli per lo Sviluppo sostenibile («è la prima nel mondo», sorride soddisfatto). L’opera si chiama Sekem, in egiziano antico «vitalità del sole».

Ibrahim Abouleish è il relatore-simbolo del convegno internazionale «Oltre Expo-Alleanze per nutrire il Pianeta, sì è possibile» organizzato dall’Associazione per l’agricoltura biodinamica, col patrocino del Fondo Ambiente Italiano, della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli e con la partecipazione di Slow Food. L’Aula Magna Gobbi dell’Università Bocconi è strapiena, in prima fila Giulia Maria Crespi, da sempre aperta e combattiva sostenitrice dell’agricoltura biodinamica che ha fortemente voluto questo appuntamento. La scommessa è esplicita, dimostrare cioè che il futuro dell’Italia sta nelle sue stesse radici: agricoltura, alimentazione, paesaggio, artigianato e quindi turismo in un ambiente tutelato. Sul palco Carlo Triarico, presidente dell’Associazione per la biodinamica: «L’Italia ha il primato europeo nell’uso dei pesticidi, 10 chili a ettaro. La Francia ne usa la metà però attira il doppio del turismo. Penso che il nesso sia chiaro. All’agricoltura va restituita la dignità che le spetta».

Tanti i relatori italiani e internazionali. In questo quadro spicca Ibrahim Abouleish, mite signore di quasi ottant’anni, eleganza europea, occhiali sottili, sguardo penetrante, studi giovanili in Germania, due lauree in Medicina e Ingegneria che hanno sostenuto la sua vocazione: «Quando nel 1977 tornai in Egitto trovai un Paese distrutto da tre guerre. Ripensai alle parole del profeta Maometto: “Quando si avvicina l’Apocalisse, la fine del mondo, coltiva la terra e vedrai che non ti abbandonerà”. La terra è una madre dal grande cuore. Anche quando i suoi figli la maltrattano lei perdona e offre altre possibilità».

Poco prima aveva scoperto l’esistenza, e il fascino, dell’agricoltura biodinamica proprio in Italia grazie a Giulia Maria Crespi: «Mi spiegò bene di cosa si trattava, ma quando le parlai del mio progetto per il deserto mi disse che ero un pazzo». Cominciò un’avventura difficile, all’inizio ebbe contro anche gli Imam che lo ritenevano un adoratore del sole per i principi antroposofici alla base della coltivazione biodinamica, poi arrivò una targa ufficiale degli Sceicchi islamici in Egitto che definiva la sua opera «una iniziativa islamica». Oggi Sekem significa 20.000 ettari di ex deserto coltivati con 85 aziende, 10.000 lavoratori musulmani ma non mancano cristiani ed ebrei (il 40% donne) in tutto l’Egitto, 2.000 dipendenti impegnati a Sekem nella trasformazione dei prodotti (800 donne). Le scuole della comunità accolgono ogni giorno 600 studenti. Ha convinto l’intero Egitto che l’uso dei pesticidi nella coltivazione del cotone è dispendioso, dannoso per raccolto e ambiente: la soppressione biologica dei parassiti ha portato a un aumento del 30% della resa del cotone grezzo.

Ora Abouleish è soddisfatto dei proseliti che raccoglie: «Centinaia di migliaia di ettari in Egitto sono stati sottratti al deserto. Dopo l’Europa, siamo il luogo al mondo in cui più si usa l’agricoltura biodinamica». Guarda con affetto alle nuove generazioni: «Sono certo che tutta l’agricoltura si riconvertirà così. Quella tradizionale si sta rivelando sempre più costosa, per gli antiparassitari, dannosa per l’acqua, per l’aria, per la terra stessa e per la salute dei consumatori. La natura è il nostro vero, sicuro futuro».

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Temi trattati al prossimo expo

“Allo stato attuale la produzione agricola mondiale potrebbe facilmente sfamare 12 miliardi di persone……. si potrebbe quindi affermare che ogni bambino che muore per denutrizione oggi è di fatto ucciso”
Jean Ziegler, già Relatore Speciale delle Nazioni Unite sul diritto al cibo

Signor presidente del Consiglio,
i giornali ci informano che lei sarà a Milano il 7 febbraio per lanciare un Protocollo mondiale sul Cibo, in occasione dell’avvicinarsi di Expo. Ci risulta che la regia di tale protocollo, al quale lei ha già aderito, sia stata affidata alla Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition. Una multinazionale molto ben inserita nei mercati e nella finanza globale, ma che nulla ha da spartire con le politiche di sovranità alimentare essenziali per poter sfamare con cibo sano tutto il pianeta.
EXPO ha siglato una partnership con Nestlè attraverso la sua controllata S.Pellegrino per diffondere 150 milioni di bottiglie di acqua con la sigla EXPO in tutto il mondo. Il Presidente di Nestlé Worldwide già da qualche anno sostiene l’istituzione di una borsa per l’acqua così come avviene per il petrolio. L’acqua, senza la quale non potrebbe esserci vita nel nostro pianeta, dovrebbe quindi essere trasformata in una merce sui mercati internazionali a disposizione solo di chi ha le risorse per acquistarla.
Questi sono solo due esempi di quanto sta avvenendo in preparazione dell’EXPO.
Scriveva Vandana Shiva: “Expo avrà un senso solo se parteciperà chi s’impegna per la democrazia del cibo, per la tutela della biodiversità, per la difesa degli interessi degli agricoltori e delle loro famiglie e di chi il cibo lo mette in tavola. Solo allora Expo avrà un senso che vada oltre a quello di grande vetrina dello spreco o, peggio ancora, occasione per vicende di corruzione e di cementificazione del territorio.”
“Nutrire il Pianeta, Energia per la vita.” recita il logo di Expo. Ma Expo è diventata una delle tante vetrine per nutrire la multinazionali, non certo il pianeta.
Come si può pensare infatti di garantire cibo e acqua a sette miliardi di persone affidandosi a coloro che del cibo e dell’acqua hanno fatto la ragione del loro profitto senza prestare la minima attenzione ai bisogni primari di milioni di persone ?
Expo si presenta come la passerella delle multinazionali agroalimentari, proprio quelle che detengono il controllo dell’alimentazione di tutto il mondo, che producono quel cibo globalizzato o spazzatura, che determina contemporaneamente un miliardo di affamati e un miliardo di obesi.
Due facce dello stesso problema che abitano questo nostro tempo: la povertà, in aumento non solo nel Sud del mondo ma anche nelle nostre periferie sempre più degradate.
Expo non parla di tutto ciò.
Non parla di diritto all’acqua potabile e di acqua per l’agricoltura familiare.
Non parla di diritto alla terra e all’autodeterminazione a coltivarla.
Non si rivolge e non coinvolge i poveri delle megalopoli di tutto il mondo, non si interroga su cosa mangiano, non parla ai contadini privati della terra e dell’acqua, scacciati attraverso il Land e Water grabbing, ( la cessione di grandi estensioni di terreno e di risorse idriche a un paese straniero o ad una multinazionale), espulsi dalle grandi dighe, dallo sviluppo dell’industria estrattiva ed energetica, dalla perdita di sovranità sui semi per via degli OGM e costretti quindi a diventare profughi e migranti.
E non cambia certo la situazione qualche invito a singoli personaggi della cultura provenienti da ogni angolo della terra e impegnati nella lotta per la giustizia sociale. Al massimo serve per creare qualche diversivo.
In Expo a fianco della passerella delle multinazionali si dispiega la passerella del cibo di “eccellenza”. Expo parla solo alle fasce di popolazione ricca dell’occidente e questo ne fa oggettivamente la vetrina dell’ingiustizia alimentare del mondo, nella quale la povertà si misurerà nel cibo: in quello spazzatura per le grandi masse e in quello delle eccedenze e degli scarti per i poveri.
In questi mesi, di fronte a tutto quello che è accaduto nella nostra città, dall’illegalità allo sperpero di ingenti risorse economiche per l’organizzazione di Expo in una città dove la povertà cresce quotidianamente e che avrebbe urgenza di ben altri interventi, noi abbiamo maturato un giudizio negativo su Expo.
Ma come cittadini milanesi non posiamo fuggire la responsabilità di impegnarci affinché l’obiettivo di “Nutrire il pianeta” possa essere meno lontano.
Per questo avanziamo a lei e alle autorità politiche ed amministrative che stanno organizzando Expo alcune precise richieste.
Il Protocollo mondiale sulla nutrizione che lei intende lanciare, pur dicendo anche alcune cose condivisibili, evitando i nodi di fondo, rimane tutto all’interno dei meccanismi iniqui che hanno generato l’attuale situazione . Noi le chiediamo di porre al centro la sovranità alimentare e il diritto alla terra negati dallo strapotere e dal controllo delle multinazionali in particolare quelle dei semi. Chiediamo che sia affermata una netta contrarietà agli OGM che sono il paradigma di questa espropriazione della sovranità dei contadini e dei cittadini, il perno di un modello globalizzato di agricoltura e di produzione di cibo che inquina con i diserbanti, consuma energia da petrolio, è idrovoro e contribuisce al 50% del riscaldamento climatico.
Le chiediamo che venga affermato il diritto all’acqua potabile per tutti attraverso l’approvazione di un Protocollo Mondiale dell’acqua, con il quale si concretizzi il diritto umano all’acqua e ai servizi igienico sanitari sancito dalla risoluzione dell’ONU del 2011.
Chiediamo che vengano rimessi in discussione gli accordi di Partnership tra Expo e le grandi multinazionali, che, lungi dal rappresentare una soluzione, costituiscono una delle ragioni che impediscono la piena realizzazione del diritto al cibo e all’acqua.
Chiediamo che si decida fin d’ora il destino delle aree di Expo non lasciandole unicamente in mano alla speculazione e agli appetiti della criminalità organizzata e che, su quei terreni, venga indicata una sede per un’istituzione internazionale finalizzata a tutelare l’acqua, potrebbe essere l’Authority mondiale per l’acqua, e il cibo come beni comuni a disposizione di tutta l’umanità. Una sede dove i movimenti sociali come i Sem Terra, Via Campesina, le reti mondiali dell’acqua, le organizzazioni popolari e i governi locali e nazionali discutano: la politica per la vita.
Una sede nella quale la Food Policy diventi anche Water Policy, dove si discuta la costituzione di una rete di città che assumano una Carta dell’acqua e del Cibo, nella quale si inizi a concretizzare localmente la sovranità alimentare, il diritto all’acqua, la sua natura pubblica, la non chiusura dei rubinetti a chi non è in grado di pagare, la costituzione di un fondo per la cooperazione internazionale verso coloro che non hanno accesso all’acqua potabile nel mondo.
Una sede nella quale alle istituzioni e ai movimenti sociali, venga restituita la sovranità sulle scelte essenziali che riguardano il futuro dell’umanità.
“La Terra ha abbastanza per i bisogni di tutti, ma non per l’avidità di alcune persone” affermava Gandhi. E questa verità oggi è più che mai attuale e ci richiama alla nostra responsabilità, ognuno per il ruolo che svolge.




Alla luce di Expo

serra

Luce, cibo, piantagioni. Iniziamo controllando le serre via Arduino. Un modo di avvicinarci da maker alla mondiale kermesse milanese.

Ai più sembrerà un’originale lavatrice, retroilluminata e pilotabile dal telefonino. Durante Expo 2015, a Milano da maggio a ottobre, saranno in tanti a vederla, piazzata all’interno di cinque stazioni della metropolitana.

In realtà è una specie di serra, o meglio di Micro Experimental Growing, in sintesi MEG, che non vuole essere solamente un prodotto tecnologico interessante e di fascino stilistico, ma soprattutto si presenta come un progetto di conoscenza distribuita.

Grazie all’onnipresente scheda di controllo Arduino, MEG permette di impostare e monitorare tutti i parametri essenziali per la crescita sana e forte di pianticelle inserite nel suo contenitore e, soprattutto, di condividere in rete l’esperienza.

Tramite un’app di controllo remoto è possibile verificare e controllare al meglio tutti i parametri vitali, come la ventilazione, la temperatura, l’irrigazione, l’acidità o la basicità della terra e la migliore illuminazione per ogni specie di pianta inserita, realizzata con un sofisticato sistema di controllo a LED colorati.
CONTROLLO DI SERRA VIA CELLULARE.

Il sistema è indubbiamente meglio ingegnerizzato rispetto ai diversi prototipi più o meno fantasiosi che i maker hanno prodotto in questi anni, come i progetti Garduino, Arduino Grow Room Controller, Plant Box,
il casalingo progetto di un appassionato o i primi tentativi in questo settore iniziati da almeno tre anni.

Il progetto MEG ha cercato di sottolineare fin dall’inizio la sua duplice natura, parte attrezzatura e parte comunità in rete, come recita anche la presentazione nel primo tentativo di finanziamento tramite Kickstarter, peraltro fallito.

Un fallimento che sarebbe interessante approfondire, in contrasto con la nuova presentazione rilanciata sulla piattaforma Eppela che invece sembra avere maggiore successo.

Sicuramente ha giocato un ruolo positivo il concorso Hack The Expo, che lo ha visto vincitore a pari merito con Floome, un etilometro per smartphone, e gli occhiali del progetto Uptitude creati riciclando le tavole da snowboard.

Sono comunque tutti esperimenti di integrazione di nuove tecnologie con l’ambiente e soprattutto con il rapporto che abbiamo con esse. Carlo D’Alesio e Piero Santoro, i creatori del progetto MEG, hanno citato in più di un’occasione il rapporto tra luce e cultura:

…la parola luce in combinazione con la cultura implica anche l’utilizzo dello stato dell’arte della tecnologia, in attesa di un nuovo modo di pensare sistemi integrati, in cui la luce e le superfici siano permeate insieme.

Qui si tratta di incastonare realtà biologiche con sistemi di controllo tecnologici, sotto lo sguardo di una comunità di appassionati che possono interagire. La creatività dei maker penetra ovunque, perfino in Expo.

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DA CORVIALE RIPARTE L’UTOPIA DI PERIFERIE UMANE

AgriculturalUrbanism2Da simbolo di degrado a segnale di riscossa: le periferie diventano il fulcro della partita per il rilancio economico/sociale.

Il là l’ha dato Renzo Piano pianocon l’ovvia e semplice constatazione che nelle periferie c’è lo spazio e il bisogno del cambiamento urbanistico.

Ed è dalle periferie che può partire la grande chance delle smart city, le città dal volto umano che aiutano a salvare l’ambiente producendo nel contempo benessere, servizi, occupazione e cibo a km zero.

E’ questa la partita che può aiutare Renzirenzi a lanciare il grande piano keynesianokeynes che immagina per riaccendere l’economia e l’occupazione: partire dai bisogni dei cittadini più disagiati per costruire una macchina urbanistica  e amministrativa che offra risposte in termini di servizi e di vivibilità.

Scuole e ricerca, innovazione e green economy: questi i cardini di un “rammendo” delle periferie delineato da Piano.

Non a caso sono le stesse parole d’ordine del consorzio di associazioni che con corviale_domani_11 ha da tempo impostato un progetto complessivo di rigenerazione del Quadrante di Corviale.

Un consorzio che si è confrontato con urbanisti, amministratori, economisti, ricercatori senza perdere mai il contatto con le esigenze di servizi e sicurezza degli abitanti.

Ritrovare le ragioni dell’utopia significa proprio questo: coniugare il rilancio urbanistico/economico con i bisogni dei cittadini.

L’articolo di Francesco Erbani su REPUBBLICAdel 27 maggio “Basta costruire, gli architetti ora rigenerano” non a caso parte proprio dai progetti su Corviale dell’architetto Daniel Modigliani modiglianicommissario dell’Ater di “aprire il pian terreno e installarvi servizi e altre attività e per consentire il passaggio dalla strada agli orti che sono alle spalle dell’edificio, così da alimentare le relazioni con il quartiere.” Un’idea quindi di interazione tra la città del cemento e la campagna dei 1.200 ettari di parco del Quadrante da sempre propugnata da Alfonso Pascale pascaledi Corviale Domani con la realtà delle Fattorie Sociali che proprio il 6 giugno s’incontrano al Forum del Terzo Settore per la costituzione di una rete cittadina anche in previsione dell’Expo 2015 dedicata all’alimentazione. expoErbani su Corviale prosegue con  Modigliani: “Sul tetto sono previsti verde e impianti per la raccolta dell’acqua e il risparmio energetico” riprendendo il progetto del prof. Stefano PanunziAnnuncio-partenza-Corviale dell’Università del Molise tante volte propugnato nei due Forum che la direttrice del servizio di Architettura del  Ministero dei Beni Culturali Maria Grazia Bellisario

The Making of / Artisti al lavoro in tv

ha promosso con Corviale Domani.Last but not least il progetto di rigenerazione di Corviale sarà il 2 giugno alla trasmissione “I visionari” di Corrado Augias.augias

Quale auspicio maggiore per far ripartire da Corviale l’utopia di periferie umane.

Tommaso Capezzone