1

La risposta è nel vento

“Chiacchierare, farsi raccontare, capire, ascoltare i mormorii della gente” suggerisce Marco Ciancia ne “L’idraulico di Giolitti e il consenso perduto” sul Corriere di oggi.
Contemporaneamente sullo stesso giornale Serena Danna ci informa che “Dei 13 mila link ad articoli della Bbc che vengono condivisi in un mese su Twitter ne vengono aperti…meno della metà” e che “Non esistono…strumenti scientifici per capire se un lettore “della carta” abbia letto…l’articolo”.
Se mettiamo insieme le due argomentazioni troviamo forse una risposta a quello che ci si domanda oggi di fronte ai risultati elettorali.
Abbiamo ancora un ascolto in corso tra la politica e la gente?
La rete può creare canali di contatto tra i cittadini e le istituzioni?
Se non troviamo una risposta a queste domande non riusciremo neanche a spiegarci che cosa è avvenuto nelle ultime elezioni.
Se le periferie hanno decretato la sconfitta di chi le ha governate negli ultimi anni vuol dire che nessuno tra i politici e gli amministratori è stato in grado di parlare con il popolo delle periferie.
Tanto cianciare di rigenerazione urbana non ha prodotto un solo risultato concreto per la qualità della vita nei territori.
Tanti convegni non hanno generato un solo posto di lavoro tra le masse giovanili urbane in cerca di occupazione.
Tante inchieste e reportage non hanno aperto nessun cantiere di riqualificazione, di mobilità, di sicurezza.
Bastava andare a sentire gli umori di chi in periferia lotta per mantenere un minimo di decoro e di vivibilità nel totale abbandono delle istituzioni pubbliche.
Bastava ascoltare le associazioni che da anni operano in questi territori offrendo servizi sociali, culturali, sportivi, sanitari in sostituzione della latitanza delle amministrazioni.
Quanti asili, biblioteche, consultori, teatri, centri sociali sono stati definanziati se non chiusi?
La risposta è semplice e sta nel farsi le domande giuste.




Il piano periferie di Renzi: prestiti ai condomini

Un fondo pubblico per ristrutturarli. I soldi restituiti a rate in bolletta.
Tornare ai fasti di Petroselli – il sindaco comunista che diede una casa a molti romani a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta – è impossibile. Altri tempi, altri numeri. Fu lui a volere Tor Bella Monaca, il quartiere che oggi simboleggia il degrado di Roma e che allora apparve come un sogno realizzato. I numeri bulgari conquistati lì dai Cinque Stelle e in altri quartieri popolari delle grandi città hanno però messo in allarme il governo. Oggi stesso al ministero del Tesoro ci sarà una riunione di Padoan con la sua squadra per analizzare i risultati e iniziare a ragionare seriamente della prossima legge di Stabilità. C’è da scommettere che le ragioni di chi punta a nuovi sgravi alle famiglie rispetto a quelli promessi alle imprese (Renzi è il primo a pensarla così) avranno più orecchie attente di qualche giorno fa. La tentazione di far prevalere scelte di impatto mediatico su quelle capaci di cambiare in profondità la struttura dell’economia italiana sarà sempre più forte. In ogni caso, a meno di andare allo scontro con la Commissione europea, per il governo non sarà facile far quadrare i conti. Come dimostra la discussione sul prestito pensionistico, oggi le ipotesi più gettonate sono le meno costose per il bilancio pubblico. Oppure deve trattarsi di misure capaci di stimolare la domanda interna: la più avanzata, già valutata tecnicamente da Tesoro e Palazzo Chigi prima delle elezioni, riguarda proprio la cura delle grandi periferie.

Il punto di partenza è uno sconto fiscale in vigore. Oggi chi vuole ristrutturare il condominio o installare pannelli solari può contare su un bonus piuttosto forte: del 55 per cento nel primo caso, addirittura del 65 nel secondo. Tutte le spese sostenute fino al limite dei 96 mila euro sono detraibili per ben dieci anni. Di qui il boom dei lavori negli appartamenti e nelle palazzine. Ma per quanto lo sconto sia alto, chi deve mandare avanti una famiglia con meno di mille euro al mese non è in grado di sostenere alcuna spesa straordinaria. L’idea è quella di applicare il meccanismo su larga scala per chi ha un reddito molto basso, soprattutto al di sotto degli ottomila euro all’anno, la soglia sotto la quale non si paga nemmeno l’Irpef.

Immaginate una grande palazzina in cattive condizioni, i cui condomini siano d’accordo per ritinteggiare le scale, la facciata, e magari anche risparmiare sulle bollette con l’installazione di pannelli fotovoltaici. L’amministratore si rivolge ad un fondo pubblico, il quale si incarica di sostenere le spese in vece dei singoli proprietari. Al fondo andrà il vantaggio fiscale che oggi è riconosciuto a ciascun privato. Il pagamento dei lavori veri e propri avverrebbe attraverso la bolletta energetica dei condomini, la quale beneficerebbe in ogni caso di una riduzione dei costi per via dei pannelli fotovoltaici. Il piano è già stato studiato con l’Enea, e prevede il coinvolgimento della Cassa depositi e prestiti, presso la quale verrebbe costituito il fondo. I dettagli sono ancora da mettere a punto: potrebbe essere costituito presso Cdp immobiliare, o ad hoc. «In ogni caso sarà uno strumento virtuoso dai costi contenuti per lo Stato», dice il viceministro Enrico Morando. «Il vantaggio può essere esponenziale: per il settore edilizio, per quello dell’energia, e di sostegno alla ripresa dei prezzi immobiliari. Vivere in un appartamento in una palazzina ristrutturata e resa più efficiente è un vantaggio anzitutto per chi li possiede». Per risolvere i problemi di Tor Bella Monaca o delle Vallette non basta certo la tinteggiatura dei palazzi. Le periferie non sono tutte uguali: più si scende a Sud, più è facile che sommino degrado urbano a degrado sociale. Altri strumenti nel frattempo stanno prendendo il via, come il fondo per la povertà educativa finanziato con il sostegno delle Fondazioni bancarie. Piccoli passi per ritrovare il consenso perduto.

link all’articolo




Torino e Roma, la politica nelle periferie

La campagna elettorale appena conclusa sarà ricordata per una parola: periferie. Cerchiamo di capire quanto sono importanti.

In questa campagna elettorale, la parola più utilizzata – a volte correttamente, a volte a sproposito – è stata periferie. Proprio nelle periferie il peso degli elettori si è rivelato decisivo per cambiare gli equilibri politici delle principali città italiane, soprattutto Roma e Torino. Ci sono due mappe molto interessanti realizzate da You Trend, dalle quali partiremo nella nostra analisi.
Virginia Raggi (wikimedia.org)

Virginia Raggi (wikimedia.org)
Roma, un monte innevato.

La prima, quella forse più ovvia dato il risultato finale, sembra un monte, dove le periferie rappresentano le pendici che salgono verso una punta innevata. Le “scure” periferie hanno votato la candidata del Movimento 5 Stelle, Virginia Raggi, per oltre il 60% (e anche fino al 79%). Al centro, invece, il divario con Roberto Giachetti, candidato del Partito Democratico, è stato più stretto ma comunque a vantaggio della Raggi, che ha trionfato al ballottaggio con il 67,15%. Oramai, purtroppo, constatiamo una scarsa affluenza alle urne. Roma ha di poco superato il 50% (per la precisione 50,15%), e in diverse municipalità si è scesi ampiamente sotto, come ad esempio nella 15, che ha toccato il 44,46%.
Le due Torino.

Diverso il discorso di Torino che, per certi aspetti, appare ancora più illuminante. Nella mappa di You Trend la città appare spaccata in due. Le periferie hanno votato per la pentastellata Chiara Appendino (c’è anche una mappa realizzata da Sky, ancora più dettagliata). A queste zone si aggiungono anche quartieri più “giovani” e multiculturali come Borgo Rossini e Vanchiglietta. Al contrario, zone come La Crocetta, San Salvario e in generale il centro e la collina hanno scelto il sindaco uscente PD, Piero Fassino.
Il dato dell’astensione, comunque migliore della Capitale, è pesante. Sebbene sia uniforme in tutte le zone della città, quasi un cittadino su due non è andato a votare (54,41% è l’affluenza finale). A poco valgono le indignazioni e gli attacchi verso chi non vota: sono cittadini anche quelli che non votano, e se quelli che non votano sono in tanti significa che c’è un problema politico, non ci vuole molto a capirlo. Per lo stesso motivo, considerare “voti di serie B” quelli del «centrodestra che ha votato 5 stelle» significa non voler ascoltare l’elettorato.
Chiara Appendino (chiaraappendino.it)

Chiara Appendino (chiaraappendino.it)
Le periferie hanno votato un po’ di più.

Sempre per restare attaccati ai numeri, emerge come nei quartieri in cui si è votato di più si siano imposte Raggi e Appendino. A Roma, dove Virginia Raggi ha prevalso ovunque, nelle municipalità 1 e 2 l’affluenza media è stata del 48,2%, qui la nuova sindaca ha ottenuto meno consensi. Nelle municipalità 6 e 10, dove ha stravinto, l’affluenza è stata del 49,83%.

Molto più interessante, invece, il dato di Torino. L’unica circoscrizione in cui Fassino ha vinto (superando il 59% dei consensi), cioè la 1 (Torino Centro), è anche quella dove si è votato di meno, con un’affluenza del 51,2%. In tutte le altre, dove Chiara Appendino ha prevalso con un picco del 64,76% nella Circoscrizione 5, l’affluenza è stata sempre superiore al 52%, con una media del 54,6%. Dove si è votato di più, si è scelto di mandare a casa Fassino. In generale, sono state le periferie ad alzare l’affluenza, premendo per il cambio di rotta, pur mantenendo una fiacca corsa alle urne.
Quanto contano le periferie.

Almeno nelle grandi città, si registra la netta risalita dell’importanza politica delle periferie. Eppure non è un concetto nuovo. Basta guardare le cronache degli ultimi anni per capire che le periferie sono il luogo in cui si misura la forza istituzionale di una città, quando non addirittura dello Stato.

Qualche anno fa, Torino visse una sorta di pogrom contro alcuni nomadi in zona Vallette, scaturito da un’aggressione poi rivelatasi inventata. Negli scorsi giorni, invece, in zona Falchera sono state sgomberate alcune famiglie in emergenza abitativa che occupavano appartamenti vuoti. Emergenza ancora più forte a Roma, dove sono frequenti gli sgomberi e la città è salita alla ribalta delle cronache, negli ultimi anni, per gli scontri “tra poveri”, cioè tra abitanti delle periferie – fortemente provati da crisi e disoccupazione – e stranieri (come, ad esempio, i fatti di Tor Sapienza).

Si tratta di zone dove il conflitto sociale è acuito dalle difficoltà economiche. Qui la politica deve (doveva) intervenire al più presto, la sua assenza (ricordata da Diego Novelli) ha contribuito ad allargare il divario tra “poveri” e “ricchi”, fino a registrare addirittura differenze di salute. Lo studio del professor Giuseppe Costa, epidemiologo dell’Università di Torino, pubblicato sul «Venerdì» di Repubblica, ha evidenziato un divario nell’aspettativa di vita: più bassa alle Vallette (77,8 anni), più alta in collina (82,1).ù
La retorica dell’aiuto.

Il rischio, ora, è che la “riscoperta” delle periferie, citate da tutti i candidati nelle città più grandi (anche Sala, appena eletto sindaco di Milano con il centrosinistra, ne ha parlato), diventi lo studio di un fenomeno folkloristico, nella stucchevole logica delle «periferie che vanno aiutate». Ebbene no, le periferie delle grandi città non vanno «aiutate», vanno «incluse», quindi coinvolte in politiche di integrazione, sviluppo e riqualificazione. Dove, precisiamo, riqualificazione non può coincidere soltanto con la costruzione di nuovi centri commerciali e grandi stradoni. Vanno sostenute le iniziative culturali, senza “imporle” dal centro, perché le energie ci sono, vanno bensì ascoltate. Basti pensare – tanto per fare due esempi torinesi – a Barriera di Milano o a Mirafiori, dove le iniziative sono variegate e stimolanti.

Il rapporto con le periferie, per Virginia Raggi, Chiara Appendino e tutti gli altri, sarà la vera sfida. Chi perderà le periferie, lo abbiamo visto, perderà la città, allontanando i cittadini dalla politica e dalle istituzioni. Qui si gioca il futuro delle metropoli e non è una scoperta di due giorni fa.

link all’articolo




Vinta la battaglia ora bisogna vincere la guerra

La guerra che ora la nuova amministrazione deve vincere a Roma è impegnativa e risolutiva.
Lo richiede una città da troppo tempo senza una direzione e un progetto.
La vittoria che tutte le periferie hanno consegnato al nuovo sindaco conferma che la partita da giocare è lì.
Se si apriranno finalmente i cantieri della rigenerazione
se si apriranno davvero i cantieri della mobilità sostenibile
se si apriranno velocemente i cantieri del decoro, della sicurezza e della legalità in tutti i territori
allora a Roma avrà vinto la speranza.




Le nuove frontiere della politica

Le recenti elezioni amministrative lasciano sgomenti i rappresentanti politici. I commentatori, cercano iperbole più o meno raffinate per raccontare le slavine culturali e politiche che si rappresentano nella modificazione dei gruppi sociali, nei partiti politici, nelle élite che sentono traballante il loro piedistallo. Eppure i segnali di avviso si sono moltiplicati in tutta Europa e non solo, da tempo e con pervicacia. I nuovi proletariati, acquisendo nel proprio interno i cedi medi, sfaldano i sistemi di rappresentanza e rendono inutili strumenti le analisi e gli articolati del novecento, mostrando così nudo il re della democrazia rappresentativa.

Il contesto e le modalità con cui il cambiamento si espande ne fanno un caso nel caso. Il contesto è quello di un cambiamento industriale/produttivo sussultorio raffrontabile all’idea di un terremoto, intere filiere spariscono e con loro competenze e professioni ed altre ne appaiono con qualità e forma inusitata. Le modalità riguardano la velocità con cui tutto ciò avviene, una velocità mai provata probabilmente nella storia umana, senza pause di assestamento. La produzione messa a confronto con i limiti del compatibile (ambiente, risorse prime, consumo, distribuzione) arretra spaventata dalle conseguenze sociali che una inversione rapida potrebbe produrre: la sparizione del consumatore.

I nuovi proletari hanno qualità e definizioni: per esempio sono radicali, sono mediamente colti, connessi, portatori di un diritto estremo e non soppremibile – il consumo ora, adesso e subito, e rivolto a se stessi. Nulla a che vedere con le masse proletarie che emergevano dalle campagne oscure e si collocavano nelle nuove città produttive ed illuminate e posizionandosi nelle periferie, aspettando di costruire uno spazio sociale per le generazioni che sarebbero venute, accumulando duramente tramite il risparmio, un vantaggio e una possibilità, alcuni in proprio, alcuni tramite le organizzazioni sociali di massa che diventavano proposta e potere politico conteso.

Pensare a forme di rappresentanza per comparti in una vaga architettura socialdemocratica è inutile e fuorviante, i soggetti sociali, mischiati, sovrapposti e liquidi non hanno tempo, devono rispondere con immediatezza al loro istinto sociale e trovare spazi in cui rappresentarsi. Sono allenati sulla rapidità e pensare in grande vuol dire uscire fuori dai pixel attraverso cui filtrano la realtà. Non si viene percepiti.

Sfatiamo anche la scusa dietro cui molti si nascondono, cioè che la tecnologia brucia il lavoro. Questo assunto è falso, è vero invece che lo trasforma e lo rende una materia di per se instabile, andrebbero quindi cercate qualità nuove invece di attardarsi in difese impossibili, la qualità del semplice accesso e della diffusività: poche regole chiare e chi non le rispetta ( questa parentesi riguarda prevalentemente l’Italia) fuori dal sistema.

Quindi le nuove frontiere riguardano il lavoro e la cultura. Le due cose non sono più scindibili, ma lo sapevamo già dalle ricerche sulla storia materiale negli anni 80.
Il compimento delle due azioni che si intrecciano, possono essere lasciate alle tensioni o alle casualità del mercato o, essere indirizzate dagli Stati. La differenza tra queste scelte produce la visione delle élite e nei paesi a prevalenza democratica l’elemento partecipativo diffuso unico e vero produttore di cittadinanza.

E’ il lavoro e la cultura che asciugano la paura della indifferenza e della inutilità che grava e pesa sugli individui molecolari urbani. E’ tramite di loro che è possibile scommettere sulle comunità educanti asciugando l’angoscia che trasuda dalle periferie e con la violenza dei dati virali tracima nei buoni quartieri borghesi ormai privi di sicurezze.

Se la politica vuole tornare il motore del paese può sperimentare fino in fondo queste esigenze senza avere tabù accettabili trenta anni fa, venendo da una storia statalista disastrosa, e avviando una ripartenza di piani nazionali d’investimento sulla riqualificazione ambientale, premiando con vantaggio fiscale le imprese compatibili, inclinando il piano potentemente sulle rinnovabili, attraverso una digitalizzazione che saturi il territorio, scegliendo l’agricoltura di qualità e i prodotti di nicchia, sviluppando servizi dignitosi e paritetici in tutto il Paese, cercando il miglior design e innovazione manufatturiera. Lo può fare tramite Agenzie Nazionali leggere ad alto tasso di qualità, con programmi e pianificazioni certe e trasparenti, ci sono uomini e donne capaci e pronti per queste scelte, è la nostra migliore gioventù.




C’è speranza per Roma

C’è speranza per Roma quando tremila ragazzi, e qualche cresciutello, stanno seduti per terra per vedere un film problematico come “Non esssre cattivo”.
Un film sulla disperazione esistenziale delle periferie che diventa denuncia senza inutili paroloni, ma con la nuda crudezza della realtà di territori in cui la lotta quotidiana tra il bene e il male è la lotta tra il lavoro nero e lo spaccio.
Realtà in cui il desiderio di fuga da una vita senza prospettive diventa fuga dalla realtà e dalla vita stessa.
C’è speranza per Roma quando tremila ragazzi occupano una piazza intera non per un concerto o per un inutile comizio, ma per riflettere sulle alternative “nè nè” che questa realtà gli mette davanti.
C’è speranza per Roma se questa consapevolezza domani riuscirà a trovare “gambe istituzionali” per darle voce e strumenti.
C’è speranza per Roma se domani questa “meglio gioventù romana” non darà voce alla rabbia o, peggio, all’odio ma darà corpo e sostanza a questa speranza.
A domani…per un futuro migliore per la nostra “meglio gioventù romana”.




Questo spot di Carlo Verdone e Franco Carraro dimostra che Roma non è cambiata negli ultimi 20 anni

“Ricucire le periferie”, “rilanciare le periferie”, “le periferie luoghi da cui ripartire”. Tutti i candidati a sindaco di Roma hanno usato questi slogan durante i loro tour per la città. Da Giachetti a Marchini, da Meloni a Fassina fino a Raggi, il ruolo delle periferie in campagna elettorale è dominante. Perché i quartieri dimenticati, habitat dei cittadini che vivono ai margini della Capitale, restano comunque un invitante bacino di voti se si è capaci di incanalare il malcontento a forza di promesse di rinascita e riqualificazione.

Per questo fa un certo effetto rivedere uno spot del 1989 dell’allora candidato sindaco di Roma Franco Carraro in quota Partito socialista. Lui e Carlo Verdone passeggiano nel quartiere romano di Vigne Nuove dove, dieci anni prima, il regista ha girato alcune scene del suo primo film “Un sacco bello”. Verdone fa notare a Carraro come persista il degrado del quartiere e chiede cosa si potrebbe fare per riqualificare zone come quelle. Carraro spiega il problema delle periferie e le possibili misure: “Penso che questo sia uno dei grandi nodi della città, con periferie che in realtà sono lager. Eppure gli spazi ci sono, non ci vorrebbe molto a creare una piazza, luoghi di ritrovo, impianti sportivi. Queste zone potrebbero essere sistemate. In questo modo la gente vivrebbe meglio qui e intaserebbe meno il centro”.

Parole che oggi ci suonano come familiari dato che, se si butta un occhio allo stato in cui versano le periferie romane, di miglioramenti se ne sono visti ben pochi. Carraro, allora ministro del Turismo nel Governo De Mita, venne scelto sindaco dopo il “patto del camper” stretto tra i leader del Psi e della Dc, Bettino Craxi e Arnaldo Forlani. La sua amministrazione fu sconvolta da arresti eclatanti tra i membri della giunta. La sua esperienza terminò con le dimissioni dei consiglieri di opposizione e la nomina di un commissario. La storia che si ripete.

Al termine dello spot Carraro e Verdone si salutano sperando che fra ulteriori dieci anni la situazione sarà migliorata. A distanza di quasi trent’anni il loro auspicio non sembra essersi realizzato.

link all’articolo




Rigenerare le periferie: sei proposte ai candidati sindaco

Un coordinamento di quattro grandi periferie chiede un Accordo di programma. Che comincia con la riorganizzazione dell’Amministrazione.

Sei proposte per i candidati sindaco, perché finalmente anche a Roma si avviino percorsi per rigenerare le periferie, ridando ai cittadini quella qualità di vita di cui hanno bisogno, occorre avere un modello di sviluppo condiviso e partecipato, ma servono anche strumenti e strutture in grado in realizzare quanto serve per raggiungere gli obiettivi. Ieri, durante il convegno CANTIERE APERTO. Periferie: adesso parliamo noi, è stato presentato il documento che redatto dal Coordinamento Periferie di Corviale, Statuario Tobellamonaca, Torpignattara e Torrespaccata. Contiene sei proposte ai candidati sindaco, che sono state elaborate durante un lungo lavoro di incontri, ricerca, dibattito cui hanno partecipato associazioni, gruppi, singoli cittadini delle periferie citate.

Il coordinamento chiede di fare alcune scelte precise, perché il problema delle periferie non si affronta con le ruspe, ma appunto in una prospettiva di rigenerazione, che tra l’altro valorizzi le risorse – umane, culturali, ambientali – che in questi quartiere ci sono, anche se sottovalutate o trascurate.

Un’Amministrazione meno rigida e più efficace

Fra i primi punti è indicata la necessità di riformare l’organizzazione l’Amministrazione comunale, sostituendo l’Assessorato alle periferie con un Assessorato per la rigenerazione urbana e ridefinendo l’organigramma dando spazio a Dipartimenti trasversali. L’Amministrazione è infatti troppo rigida e settorializzata, tanto da apparire inadeguata a qualunque politica che voglia essere innovativa.

Il primo passo per definire un piano per rigenerare le periferie, secondo Pino Galeota, è di «mettere tutti attorno ad un tavolo, insieme all’Amministrazione, Asl, scuole, trasporti… L’obiettivo è arrivare ad un Accordo di programma, con un responsabile di progetto e uno stato di avanzamento dei lavori opportunamente monitorato». L’alibi per non intervenire seriamente sulle periferie è sempre la mancanza di fondi, ma «non è vero che non ci sono risorse. Bisogna imparare a usare meglio quelle europee, ma anche a coinvolgere le aziende e soprattutto il privato sociale. E poi c’è il ruolo delle municipalizzate, da mettere a punto e valorizzare».

Luca Lo Bianco ha indicato una serie di fattori che sono di ostacolo ad una strategia che punti a rigenerare le periferie: tra l’altro, il fatto che negli ultimi anni l’idea di un forte decentramento è stato accantonata e che si punta alla rivisitazione delle società di servizio pubblico con riforme che prevedono la dismissione, cosa poi nei fatti impossibile… «Se si realizzasse un vero decentramento sui Municipi, anche il dibattito sulle periferie si sposterebbe», perché «al cosiddetto centro rimangono alcune politiche, integrate tra loro, ma tutto il resto si fa sui territori». Ed è evidente che questo implica una ridefinizione della macchina comunale. Tra l’altro, occorre usare di più strumenti nuovi come gli Uffici di scopo, organizzati attorno ad obiettivi ben delineati, raggiunti i quali si sciolgono». Tutto questo implica anche un «ragionamento con i sindacati, che riguardi la ridefinizione del senso del lavoro pubblico e affronti i temi delle funzioni, ma anche quello, molto concreto, degli orari di lavoro, e quindi di apertura al pubblico».
Processi complessi, ma non impossibili. Che andrebbero sviluppati, secondo torrespaccataAlfredo Fioritto, creando le condizioni per una vera «partecipazione alle scelte, a qualunque livello». D’altra parte, i cambiamenti sono già in atto e incidono fortemente sulla governace. La legge del 2014 sulle città metropolitane ha abolito le provincie, sostituite dalla Conferenza metropolitana (quella di Roma comprende 120 comuni) e ha istituito un Consiglio metropolitano e un sindaco eletti dai cittadini. Se questa è la strada, secondo Fioritto, «è evidente che anche l’Assessorato alle Periferie non ha più senso» e che bisogna ragionare in termini completamente diversi, perché cambia l’idea stessa di centro e di periferia.

Sei proposte per rigenerare le periferie

Le sei richieste sono frutto di un lungo lavoro di dibattito e approfondimento, che ha coinvolto associazioni, movimenti, singoli cittadini, università e centri di ricerca. Ecco una sintesi delle richieste:

Promuovere un forum dedicato alle periferie e quindi alla Rigenerazione Urbana entro la seconda decade di luglio.

L’abolizione dell’Assessorato alle Periferie e la costituzione dell’Assessorato per la Rigenerazione Urbana, attraverso la realizzazione di una effettiva interdisciplinarietà, che abbia funzioni e poteri di riconosciuto coordinamento.

La definizione di un nuovo organigramma dell’Amministrazione, che dia funzioni e poteri a Dipartimenti responsabili, che dovranno collaborare con chi verrà incaricato di coordinare i progetti individuati.

L’attivazione di sperimentazioni nelle cinque Periferie, congiuntamente con tutti i soggetti pubblici e privati interessati, che entro un anno definiscano contenuti, scelte e procedure per avviare le attuazioni. Il cosiddetto stato avanzamento lavori dovrà avere tempi, modalità e responsabilità note e forme di comunicazione partecipate. Va individuato un Responsabile del progetto, che abbia le competenze per coordinarlo e per seguire il suo iter amministrativo e interistituzionale.

La definizione di un modello di sviluppo delle periferie, che renda protagonisti i cittadini, le presenze territoriali e che preveda le necessarie connessioni con l’Area metropolitana, con la Regione Lazio e la governance nazionale, oltre che con i settori produttivi pubblici e privati.

La sottoscrizione di un Accordo di Programma o altro atto similare, che renda procedibile il progetto condiviso tra tutti i soggetti pubblici e privati interessati.

Il coordinamento chiede inoltre che, nella fase di transizione, a fronte delle problematiche sulla sicurezza e la legalità nei grandi agglomerati periferici, si pensi ad una presenza continua di Ater-Regione e del Comune di Roma sui territori.

Link all’articolo




C’è ancora chi parla di abbattimento

Corviale, le soluzioni dei candidati a sindaco di Roma: quale preferisci?
Abbiamo chiesto ai possibili sindaci di Roma quale soluzione hanno in mente per risolvere la situazione di grave degrado del “mostro” costruito negli anni ’70. Quale proposta vi convince di più? Dite la vostra con il nostro sondaggio online.
Virginia Raggi: più autobus, più spazi comuni e attività culturali
Corviale è una delle realtà più complesse di Roma, così come lo sono Tor Bella Monaca, Laurentino 38 o San Basilio: aree e quartieri totalmente sconnessi dalla città e socialmente abbandonati, soprattutto dalle istituzioni e dalla politica. C’è un preciso modello urbanistico che contraddistingue realtà come quelle di Corviale, un modello che ha mal funzionato al principio, nel momento in cui si è pensato di realizzare intere zone abitative senza avviare alcun processo di urbanizzazione, senza l’erogazione di servizi essenziali come le scuole o centri di aggregazione culturale e di sviluppo. Risanare Corviale presuppone un lavoro sul piano del quotidiano che miri al confronto e alla crescita dei giovani, in particolar modo. Sono loro per primi che possono segnare un punto di discontinuità, ma bisogna dargli gli strumenti per farlo. E gli strumenti sono un incremento delle linee bus che colleghino il quartiere al resto della città, la valorizzazione degli spazi comuni attraverso iniziative artistiche e musicali e il rilancio del mercato, ad esempio. Zone come il “castellone” Corviale devono tornare ad essere parte di Roma ma per farlo devono sentirsi incluse ed è un obbligo dell’amministrazione farsi trovare presente.
Roberto Giachetti: il palazzo va riqualificato, occorrono più servizi sociali
Dobbiamo uscire dall’idea che Corviale sia uno dei simboli del degrado della Città. Corviale non va abbattuto, ma va continuata l’opera di riqualificazione e di collegamento con la città. Oltre alla manutenzione straordinaria del palazzo, la riqualificazione di Corviale passa dal completamento di alcune opere e dalla chiusura di vicende storiche: garantirò che sia finanziato l’ultimo stralcio dei lavori di ristrutturazione della Scuola Mazzacurati; un fiore all’occhiello per la qualità degli interventi riaprirò il Farmer’s Market finanziandone i lavori di manutenzione straordinaria e con un nuovo bando pubblico selezioneremo gli operatori; realizzeremo la piazza di Corviale, già oggetto di una partecipazione con i cittadini e trait d’union tra il palazzo e il vicino abitato di Casetta Mattei e, al contempo, porta d’accesso alla valle dei Casali. Il mio impegno, come sindaco, andrà verso le realtà che negli anni sono sorte nel quartiere e che quotidianamente animano la vita sociale, sportiva e culturale, come il Centro d’Arte municipale Il Mitreo, la Biblioteca Comunale “Renato Nicolini”, il Calciosociale, la Piscina Comunale e il Rugby; inoltre riprenderò quei progetti sospesi, come la ristrutturazione della Piscina Comunale e il completamento del Palazzetto dello Sport di via Maroi, opera incompiuta sulla quale metterò mano nei primi 100 giorni.
Giorgia Meloni: prima un quartiere a bassa densità, poi abbattere il mostro
Per la riqualificazione e il rilancio di Corviale stiamo valutando due ipotesi di intervento: il primo consiste nell’avviare, con la finanza di progetto, la costruzione di un nuovo quartiere, a bassa densità abitativa, a basso consumo energetico, edificando e riqualificando lo sterminato spazio verde antistante, abbandonato a se stesso. In questo modo, si possono dare aumenti di cubature ai privati che volessero investire. Un’operazione che per l’amministrazione sarebbe a costo zero. Solo dopo la costruzione del nuovo quartiere, si procederebbe con l’abbattimento del ‘mostro’ costruito negli anni ’70 dall’architetto Mario Fiorentino.
L’altro approccio, più morbido, prevede un processo di ‘normalizzazione’ con la separazione di un lotto dall’altro e colori diversi per ogni palazzina. Ciascuna ipotesi, però, deve essere sottoposta a un referendum popolare, ovvero deve prevedere la più ampia partecipazione dei residenti nella scelta. Assoluta rilevanza va poi riservata agli spazi per la socializzazione: è necessario valorizzare l’anfiteatro, costruire asili nido, cinema, farmacie, spazi verdi attrezzati, aprire spazi museali con i reperti oggi conservanti negli scantinati dei musei del centro di Roma. Qualche tempo fa lanciammo l’iniziativa: “Vieni a prenderti un gelato a Corviale” per rivendicare la centralità della periferia rispetto alle attenzioni tutte concentrate dentro il pomerio cittadino delle giunte precedenti. Ecco, lo rifarei.
Stefano Fassina: la soluzione è realizzare il progetto del “Chilometro verde”
L’intervento su Corviale è un capitolo distintivo del nostro programma di rigenerazione urbana. Con Guendalina Salimei, la nostra proposta di assessore alle politiche urbane per Roma Capitale, vogliamo innanzitutto portare a compimento “Chilometro verde”, il progetto dedicato alla riqualificazione del piano libero (”quarto piano”) di Corviale di cui l’architetto Salimei è autrice. Per noi, l’alternativa al Corviale è il Corviale stesso. Per la riqualificazione, bisogna guardare, osservare, ascoltare come Corviale, nella sua inaspettata permeabilità, ha accolto forme di abitare e stare nel modo più eclettico e ha interpretato i bisogni del vivere contemporaneo. L’intervento sul quarto piano, oltre a una serie di alloggi eco-sostenibili ricavati nella maglia strutturale esistente, conferma e reinterpreta la varietà d’usi, realizzati da iniziative spontanee e autogestite, nelle relazioni di vicinato tra famiglie e gruppi eterogenei. Il progetto definito per il quarto piano è in realtà solo un progetto pilota, il primo di tanti altri, ma decisivo per innescare energia al quartiere: un processo virtuoso che faccia capire l’alto valore di questo complesso sperimentale e ne sappia recuperare e rilanciare il suo senso utopico e fortemente innovativo. Insomma, anche su Corviale applichiamo, come per tutte le nostre politiche per il governo di Roma, il principio regolativo della sussidiarietà.

La stessa domanda è stata rivolta ad Alfio Marchini. Quando vorrà rispondere saremo lieti di ospitare il suo intervento

link all’articolo per rispondere al sondaggio




Un profilo di “sindaco delle periferie”

Elezioni di primavera: identikit di un sindaco.
Su Ignazio Marino cala il sipario. Dopo le sue dimissioni verrà nominato un commissario dal quale si pretenderanno miracoli, visto che la città è chiamata a grandi sfide. Ma i miracoli non sono di questo mondo e anche il più volenteroso tra i servitori dello Stato non potrà fare granché. Sarà già tanto se riuscirà a tenere a galla la barca per evitare che affondi nello sconforto generale. Una sana gestione dell’ordinaria amministrazione sarebbe grasso che cola. Bisognerà attendere l’esito delle prossime elezioni comunali per comprendere come i romani intendano risollevarsi dal degrado in cui sono precipitati. Le profferte non mancano.

Un minuto dopo dell’annuncio delle dimissioni di Marino è partito il toto-nomi. A destra come a sinistra. I big della politica hanno provveduto, ciascuno, a tracciare il profilo del candidato ideale. Lo ha fatto Renzi, lo ha fatto Berlusconi, lo hanno fatto tutti gli altri. Non vale solo per Roma. Sono in gioco poltrone delicatissime: Milano, Napoli, Bologna, Torino. Sarebbe consigliabile una riflessione a largo spettro che non tenesse conto delle contingenze determinate dai duelli quotidiani, ormai tutti mediatici, tra i litigiosi capi e capetti di partito. Sarebbe meglio interrogarsi non su chi ma sul come debba essere il sindaco di una grande città del terzo millennio.

Dopo il tramonto degli “uomini della provvidenza” va facendosi strada, nel teatrino della politica, l’idea di evocare una nuova divinità pagana: il manager. Quando la si smetterà di scambiare il governo di una comunità con la gestione di un’impresa non sarà mai troppo tardi. Se si è stati bravi capi d’azienda non è detto che si sarà dei buoni sindaci, pur avendone tutte le intenzioni. Non esiste alcuna formula matematica che legittimi questa equazione. La complessità dell’organizzazione comunale non è in alcun modo paragonabile a quella di una fabbrica. Nel primo caso bisogna tenere conto degli stati d’animo, del “sentire” della popolazione, oltre che dei numeri di bilancio e dei mezzi idonei ad assicurare il funzionamento della “macchina”; nel secondo si è chiamati a governare processi mediante una pianificazione preordinata. Nel primo caso si persegue il benessere di una comunità; nel secondo si guarda alla profittabilità dell’impresa.

I sindaci che verranno potranno riuscire nel compito soltanto se sapranno interpretare i bisogni profondi dei cittadini amministrati, armonizzandone gli interessi disomogenei, talvolta confliggenti, nell’ambito di un’idea di sviluppo coerente dell’insieme. Se partecipassimo al gioco de “l’uomo giusto al posto giusto”, opteremmo per un profilo di “sindaco delle periferie” perché quei pezzi di territorio, stracolmi d’umanità separata, saranno il vero banco di prova per ogni aspirante al buon governo. Gli agglomerati che cingono i centri storici, nati con la rivoluzione industriale, sono qualcosa di più di luoghi fisici degradati, di quartieri dormitorio, di residenzialità massificata: sono luoghi dell’anima. Esiste una dimensione periferica dell’esistenza individuale e collettiva che si allontana, inesorabilmente, dai ritmi pulsanti del nucleo vitale della grande città. Gli agglomerati dell’extra moenia non godono di forza propria, ma sopravvivono per effetto della capacità di attrazione gravitazionale dei centri intorno ai quali ruotano. Quanto più è avvertita la forza centripeta dei nuclei, tanto migliore è la qualità di vita dei suoi corpi satellitari. La città che smette di attrarre abbandona le periferie al proprio destino. E gli effetti di questa perdita si trasformano nei disagi, nei disservizi, nelle inefficienze e nelle tristi storie di ordinaria miseria di cui la cronaca ci inonda.

Bisogna pur dirselo: il buio che avvolge le periferie italiane è il frutto avvelenato di quella insensata fuga dell’idea di “progresso” dallo spirito coinvolgente e partecipato della “civitas”. Un sindaco questo lo deve sapere.

link all’articolo