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Pride

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di Matthew Warchus. Con Bill NighyImelda StauntonDominic WestPaddy ConsidineGeorge MacKay  Gran Bretagna 2014

Nel 1984 il ventenne Joe (McKay) partecipa al suo primo Gay Pride – è spaventato perché la legge inglese riconosceva maturità sessuale agli etero diciottenni ma per gli omosessuali bisognava aspettare i 21 anni. Dopo la manifestazione va con i nuovi amici nella libreria di Gethin (Andrew Scott), dove Mark (Ben Schnetzer), giovane attivista, propone di fondare la LGSM (Lesbian an Gays Support the Miners) e di aprire una sottoscrizione a favore dei minatori in lotta contro le scelte economiche del governo Tatcher. I ragazzi si mobilitano e raccolgono una bella sommetta ma ogni tentativo di contattare le Unions va a vuoto (il pregiudizio omofobo era ancora forte, specialmente tra le classi operarie),  finché non raggiungono telefonicamente il paesino di Dulais, nel sud del Galles dove Gwen (Menna Trussler), un’anziana membro del locale comitato di lotta, accetta la loro offerta; gli altri membri del comitato discutono animatamente, alla fine Dai ( Considine), Hefina (Staunton), Sian (Jessica Gunning) e Cliff (Bill Nighy) votano a  favore dell’aiuto del  LGSM, mentre la cognata di quest’ultimo, Maureen (Lisa Palfrey), indignata lascia il comitato. Dai va ad incontrare i ragazzi per ringraziarli ma, a sorpresa, questi gli annunciano che alcuni di loro andranno a Dulais. Un gruppetto parte, quindi, con un pulmino – una decina, tra cui Mark ,Joe , Steph (Faye Marsay) e il compagno di Gethin (assente perché, gallese a sua volta, è ancora shockato dal bullismo dei suoi compagni d’infanzia) ,l’attore Jonathan (West) – e l’accoglienza è molto imbarazzata; Mark fa un discorso un po’ inopportuno e i giovani minatori sono chiaramente risentiti ma i membri del comitato sono gentili ed accoglienti. Qualche tempo dopo i ragazzi tornano con altri soldi – e stavolta Gethin è con loro – e la sera al pub Jonathan rompe il ghiaccio trascinando la ballo le ragazze (e dopo un po’ anche i maschi) al ritmo di Shame ,shame, shame di Shirley & Company. L’integrazione è quasi raggiunta ma Maureen manda la notizia ad un giornale conservatore e i minatori, sbeffeggiati dai compagni, sono  costretti a chiedere a Mark e agli altri di andarsene. Quest’ultimo, arrivato a Londra, non si dà per vinto e decide di usare l’articolo che li definiva “pervertiti” in positivo ed organizza il Pits and perverts concert , serata di beneficenza alla quale gruppi famosi, come i Bronksi Beat, danno la loro adesione. I membri del comitato di Dulais raggiungono la manifestazione, che raccoglie un mucchio di soldi ma, al loro ritorno, apprendono che, con un colpo di mano guidato da Maureen, il sindacato ha deciso di rompere i rapporti con la LGSM. Poco dopo – la linea della Tatcher contro i minatori ha intanto vinto in Gran Bretagna – nel successivo Gay Pride, i nostri amici sono isolati anche dalle organizzazioni omosessuali che non vogliono dare caratterizzazioni politiche al movimento ma l’arrivo dei minatori del Galles con i loro striscioni li farà finire alla testa della sfilata.

Matthew Warchus è un ottimo autore e regista teatrale e nel 1999 ha esordito al cinema con Inganni pericolosi, adattamento non memorabile di un testo minore di Sam Shepard. Pride è tutta un’altra storia e si inserisce autorevolmente nel filone britannico del dramedy (dramma con toni di commedia) inglese basato sulle lotte operaie (Full monty, Grazie, signora Tactcher, Billy Elliot, We want sex). Il film è basato su di una storia vera e riesce nel miracolo di coniugare un racconto impegnato e drammatico con toni leggeri e accattivanti; certo, gli attori, tutti eccezionali, aiutano non poco ma la scrittura di Stephen Beresford e la regia compongono un quadro di bell’impatto .Abbiamo nelle orecchie i commenti di nostri critici che lo hanno trovato furbo e poco politically correct e questo conferma e rafforza il nostro giudizio positivo.

 




Sei mai stata sulla luna?

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di Paolo Genovese. Con Raoul BovaLiz SolariSabrina ImpacciatoreNeri MarcorèGiulia Michelini Italia 2015

Giulia (Solari) è una ricercatissima redattrice di moda e sta per fare un’ulteriore balzo nella prestigiosa carriera  quando, nel pieno della preparazione alla Settimana della Moda, le arriva la convocazione nel paesino pugliese di origine della sua famiglia per un’eredità, consistente in un’avviata masseria .Arrivata in paese, trova nella fattoria il cugino autistico  Pino (Marcorè), che  non potrà certo essere lasciato solo e, più tardi, nei due bar del paese, gestiti dai rivali Delfo (Sergio Rubini) e Felice (Emilio Solfrizzi) conosce l’affascinante Renzo (Bova), che la fa bere in tutti e due locali per non fare torto a nessuno. Un po’ brilla va nella masseria con lui e ci fa l’amore. L’indomani mattina scopre che Renzo è il massaro vedovo che vive lì con il figlio Tony (Simone Dell’Anna) e, all’arrivo del fidanzato Marco (Pietro Sermonti), commercialista maneggione, gli comunica che vuole vendere tutto e – irritata per essere stata ingannata – lo licenzia, dandogli solo pochi giorni per sistemare le proprie cose. Il notaio De Santis (Dino Abbrescia) le conferma che la masseria è sua e che non ha vincoli se non quello della sistemazione di  Pino. Il paese intanto si coalizza perché il podere non sia venduto: il contadino Oderzo (Nino Frassica), ad esempio, arriva rumorosamente all’alba e le chiede di condividere lavori pesanti e sporcanti e l’agente immobiliare Rosario (Paolo Sassanelli) dissuade i possibili compratori. Giulia, intanto, ha fatto amicizia con Mara (Impacciatore), la sorella zitella di Delfo, della quale Felice è segretamente innamorato e che, invece, sogna di incontrare il vero amore attraverso le chat e, di lì a poco, avendo sistemato Pino in una casa-famiglia, torna a Milano. Dopo poco però le comunicano che lui è fuggito e non ne vuole sapere di lasciare la masseria. Giulia decide così di tornare giù e di farsi raggiungere dalla preziosa assistente Carola (Michelini), per preparare da lì il servizio sulla Settimana. Qui si riconcilia con Renzo ma, quando i due si danno un appuntamento galante, arriva inatteso Marco e lei scopre che il bel massaro ha un amore: la  veterinaria Anita (Isabella Briganti). Parte per Milano e riprende con successo il lavoro ma una telefonata di Mara che le chiede di partecipare alla festa del paese, nella quale si avverano i desideri, le fa venire voglia di tornare. Il ballo in piazza farà fidanzare Mara con Felice e Delfo con Carola. Lei, che ha lasciato Marco, va alla masseria per un’altra notte d’amore con Renzo (che, a sua volta, ha chiuso con Anita).

Genovese (Immaturi, Tutta colpa di Freud) ha dimostrato una mano efficace e delicata nel dirigere commedie non banali e anche stavolta il suo tocco di metteur en scene si fa sentire, così come la Pepito di Agostino Saccà alla sua prima esperienza cinematografica in autonomia (aveva partecipato ad un paio di titoli prodotti da Luciano Martino) dà un buon valore produttivo al film. I limiti dell’operazione sono nella fragilità del testo (aggiornamento poco convinto del vecchio mito del topo di campagna e topo di città) e nella scarsa congruità dei pesi nel cast, troppo ricco di nomi ingombranti anche in ruoli minimi e concentrato sulle belle ma fragili spalle della Solari, che dovrebbero reggere – con un po’ di supporto del convenzionale Bova – il peso della commedia.




App, film, giochi i libri del futuro saranno “totali”

appSE Manzoni vivesse oggi, l’uscita in libreria dei Promessi sposi verrebbe anticipata da un video che annuncia il ritrovamento di un anonimo manoscritto del Seicento. L’innominato e la monaca di Monza avrebbero un profilo Facebook, Lucia darebbe alle stampe il suo diario segreto e Renzo sarebbe il protagonista di un videogioco. La storia della colonna infame non uscirebbe in appendice, ma in digitale e le illustrazioni di Francesco Gonin diventerebbero un fumetto di culto. Non ci sarebbe neppure bisogno di una risciacquatura dei panni in Arno.

Piuttosto di un gigantesco Sudoku letterario. Fantaletteratura, ma neanche troppo visto che la trasformazione del libro in evento mediatico è già cominciata. L’editoria in crisi gioca la carta delle coproduzioni: lo scrittore mette l’idea e una squadra di specialisti lo affianca per tradurla in più linguaggi: dai film ai videogiochi, dai fumetti alla musica. Una sorta di cooperativa dei bestseller che decide a tavolino come raccontare una storia, quali informazioni muovere da un terreno all’altro, come diluirle nel tempo e come trasformare il pubblico in tanti fan.

Da poco nelle librerie di 27 paesi è uscito Endgame – The calling, primo romanzo di una trilogia sul genere apocalisse: la terra è in pericolo, dodici prescelti hanno ricevuto un messaggio in codice che, se decifrato, permetterà di salvare l’umanità. Harper Collins ha venduto i diritti pressoché ovunque (in Italia alla casa editrice Nord), la 20th Century Fox ha incaricato Wyck Godfrey e Marty Bowen, già produttori di Twilight e Colpa delle stelle , di portare nelle sale un film ad alto budget, Google e la controllata Niantic Labs hanno realizzato un’app che metterà in contatto i lettori perché si scambino informazioni utili a risolvere gli enigmi disseminati da un team di crittografi nel libro, in Internet e nel mondo reale. In contemporanea con l’uscita del primo titolo, è scattata una caccia al tesoro che si concluderà a Las Vegas, in una delle tremila lussuose stanze del Caesars Palace, di fronte a una teca di vetro che custodisce 500mila dollari in monete d’oro.

A tirare le fila di tutto il progetto c’è James Frey, scrittore che ha già dimostrato notevole disinvoltura con i concetti di verità e finzione. Il suo primo libro – In un milione di piccoli pezzi – era stato presentato come racconto autobiografico: memoriale del suo passato da tossicodipendente. Peccato che nel salotto di Oprah Winfrey sia stato fatto a pezzi: la fantasia aveva di gran lunga superato la realtà. Scaricato dal suo agente, diventato un paria della letteratura, Frey si è rialzato fondando una casa editrice che pubblica romanzi young adult in serie: lui mette l’idea, altri scrivono. Adesso, in collaborazione con Nils Johnson-Shelton, è arrivato Endgame .

Una impresa ambiziosa, ma non unica. In Italia da un anno si sta lavorando al lancio de Il ragazzo invisibile , film, fumetto e romanzo. La storia di Michele, tredicenne che un giorno guardandosi allo specchio si scopre invisibile, è stata scritta da Alessandro Fabbri, Ludovica Rampoldi e Stefano Sardo. Come già accaduto con Braccialetti rossi di Albert Espinosa, gli autori del romanzo che uscirà per Salani a metà novembre sono anche gli sceneggiatori del film di Gabriele Salvatores. Quest’ultimo, nelle sale da dicembre, è quello che in gergo tecnico si chiama “la tana del coniglio”, principale porta d’ingresso a un universo narrativo in continua espansione. Sia in radio che in edicola. Per scegliere la colonna sonora è stato indetto un concorso su Radio Deejay e, dato che di un personaggio invisibile si parla, ecco scendere in campo la Panini Comics: Michele diventerà un supereroe, protagonista di tre albi a fumetti sceneggiati da Diego Cajelli, disegnati da Giuseppe Camuncoli, Werther Dell’Edera e Alessandro Vitti, con le copertine di Sara Pichelli. E non è detto che la storia di Michele si concluda qua. Quelle ben congegnate, come sanno i fan di Star Wars, vivono di vita propria. Uno sceneggiatore di Hollywood, intervistato da Henry Jenkins nel saggio Cultura convergente (Apogeo education), spiega quale sia il meccanismo alla base dei nuovi modelli di narrazione: «Quando ho iniziato il mio lavoro, bisognava creare una storia perché senza una buona narrazione non ci sarebbe stato nessun film. Poi con la diffusione dei sequel, divenne importante inventare un buon personaggio che potesse reggere più storie. Oggi in- vece si inventano mondi che possano ospitare molti personaggi e molte storie su più media». Lo hanno fatto i fratelli Wachowski con Matrix, Chris Pike per la serie tv Dawson’s Creek, ma anche produzioni indipendenti come The Blair Witch Project .

Adesso tocca all’editoria. Si sperimentano nuovi format, si corteggiano lettori giovani, abituati al linguaggio delle serie tv e con un immaginario plasmato sul web. La Rizzoli ci ha provato per la prima volta quando si è trovata in lettura Under, romanzo distopico di una giovane blogger bolognese, Giulia Gubellini. Quelle pagine ricordavano Hunger Games e Divergent , ma parlavano di una Italia stremata dalla crisi economica e privata di ogni libertà. Meritavano un investimento originale: così questa estate in contemporanea alla pubblicazione del romanzo è uscita una web serie in dieci puntate con Gianmarco Tognazzi e Chiara Iezzi, diretta da Ivan Silvestrini. L’abbraccio tra società Anele, Rcs e Trilud per un esperimento narrativo dal budget limitato sfata anche un luogo comune molto diffuso: le coproduzioni non devono essere necessariamente colossali e rumorose. A volte possono essere piccoli passi in avanti nel marketing librario. Sperling & Kupfer ha deciso che per creare attesa in un lettore il modo migliore sia quello di fargli assaggiare il libro: non un’anteprima o un riassunto, ma un testo originale che serva da antipasto. Un esempio? Breve storia di uno starter , che introduce al mondo post-apocalittico del romanzo Starters di Lissa Price.

Anche se non tutto viene fatto per soldi, anche se quello che si insegue è un nuovo modello estetico, dietro l’angolo c’è sempre il rischio di intrappolare l’autore, di costringerlo a rimescolare contenuti come fossero caramelle. Nella progettazione di Endgame si avverte la riproposizione di mondi già sperimentati: il titolo del primo libro è un chiaro riferimento a Magic: The Gathering , gioco di carte pubblicato dalla Wizards of the Coast nel 1993, che ha coinvolto più di sei milioni di persone in 50 paesi. La caccia al tesoro è un omaggio a Masquerade, libro per bambini scritto nel 1979 da Kit Williams che scatenò la ricerca di una lepre d’oro per tutta l’Inghilterra; il gioco interattivo online che ricrea il mondo immaginario della trilogia ricorda Potterworld di JK Rowling e l’utilizzo di luoghi ed enigmi reali disseminati nel mondo ha una ricca tradizione in cui si inserisce Il Codice Da Vinci.

Sarà veramente questo il futuro del libro? John Walsh dell’ Independent si chiede se Martin Amis pubblicherà una versione online del suo nuovo romanzo sull’Olocausto The Zone of Interest, offrendo indizi per la scoperta di cimeli nazisti nella sua Brooklyn. E se David Mitchell stia per invitare i lettori di The Bone Clocks a scovare il luogo segreto dove qualcuno ha nascosto un orologio a pendolo incrostato di gioielli. Ecco la sua risposta: «Probabilmente no perché sia Martin Amis che David Mitchell sono scrittori veri in grado di distinguere la verità dalla finzione e di vedere la pubblicazione dei libri come qualcosa in più di uno sfruttamento dell’immaginazione altrui».

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Perché La Grande Bellezza è un capolavoro

o-grande-bellezza-facebookTolgo qualche ora alla scrittura di un saggio dedicato alla creatività perché ho bisogno di spiegare il motivo per cui ritengo La Grande Bellezza un film magnifico. Lo faccio dopo l’assegnazione del premio Oscar al film, e lo faccio il giorno dopo averlo visto al cinema: ormai ero determinato a capire il perché buona parte del mondo intellettuale italiano, spesso sussurando tra una cena e un aperitivo, lo ritenesse un film brutto e sbagliato, o comunque in ogni caso sopravvalutato. Volevo capire perché si ripetesse come un noioso argomento che quella era l’immagine dell’Italia che piace agli americani. E volevo vedere se fosse mai vero che si trattava di una scopiazzatura di Federico Fellini, e ancora di più se poteva avere un senso un’altra delle tante cose che ho sentito sul film di Paolo Sorrentino: che era costruito per prendere l’Oscar. Come se fosse mai possibile una cosa simile.

Non avevo visto La Grande Bellezza quando uscì per molti motivi. Vado poco al cinema (spesso mi annoiano i film che si producono oggi) e non mi era piaciuto Il Divo, che avevo trovato un film sbagliato, dove il ragionamento estetico sul potere, e la figura di Andreotti, raggiungevano un paradosso che a suo tempo avevo trovato un po’ stucchevole. Insomma avevo trovato Il Divo un’idea molto bella, ma anche un’occasione persa. Per cui non mi si poteva annoverare tra i fan di Paolo Sorrentino, ma neppure tra i detrattori, visto che mi erano piaciuti molto L’uomo in più e Le conseguenze dell’amore. Questo per la premessa.

Ma quando leggo in giro, e quando ascolto in giro giudizi negativi così netti mi insospettisco. Quando utilizzo l’espressione in giro intendo nell’ambiente che mi appartiene, e che conosco assai bene, forse meglio di tutti quelli che dell’ambiente fanno parte. Parlo dei giornalisti, degli scrittori, dei critici e in genere degli intellettuali italiani, che ho conosciuto uno a uno, anche se non li ho mai frequentati molto (non sono salottiero, ho da sempre delle timidezze relazionali che mi vengono da una parte di anima sabauda e provinciale che quasi 30 anni di Roma non mi hanno scrollato ancora di dosso). Così, non essendo riuscito a vedere La Grande Bellezza in televisione, sono andato al cinema. Ancora meglio: niente interruzioni pubblicitarie, concentrazione, e visione degna di quello che chiamiamo spettacolo.

Non mi aspettavo niente, ma una cosa mi balenava per la testa: eccetto Bernardo Bertolucci, non avevo sentito da nessuno parole profonde che mi accendessero una curiosità sul film. Solo banalità distaccate. Per quel poco che conosco Bertolucci non è un uomo che usa l’espressione, «è un film che ti resta dentro», a caso. Ha un uso delle parole che è quello di suo padre Attilio, un uomo meraviglioso, un grande poeta, che sorrideva sempre (a proposito degli intellettuali conosciuti, e di un’altra Italia che non esiste più).

Dopo pochi minuti de La Grande Bellezza avevo capito che mi trovavo di fronte a un film magnifico, scritto per uno spettatore colto, sofisticato, capace di entrare fino in fondo dentro un sogno che scardina tutti i luoghi comuni e le banalità che certo cinema e certo mondo intellettuale propinano da trent’anni. Solo che Sorrentino nella sua fortuna è sfortunato. In Italia non c’è più una classe culturale e giornalistica, un’intellighentia che possa capire un film del genere e apprezzarlo. Esiste solo fuori d’Italia. E infatti lo hanno premiato gli americani, ma non perché hanno visto una certa immagine dell’Italia. Questo film non è sull’Italia, ma è un film sulla religione e sulla morte, sul sesso, sul potere, sulla dissoluzione della storia. E solo Roma poteva permettere questo. L’unica città dove la storia si manifesta in strati sovrapposti, in strati di pietre che cambiano dall’età Augustea al Medioevo, dal Rinascimento al Barocco fino al periodo Umbertino e al Novecento.

Certo ci voleva coraggio a mettersi a girare un film che non è scritto secondo le regole rimbambite che insegnano in tutte le scuole di regia e sceneggiatura e che stanno mandando all’ammasso il cervello di tutte le nuove generazioni. Ci voleva coraggio a spazzare via con una mirabile battuta qualsiasi impegno politico, qualsiasi riferimento alla nostra sinistra, alla nostra destra, alla politica corrotta, e agli ideali. Jep Gambardella liquida tutto una sera sul suo terrazzo quando spiega a Stefania chi è lei veramente, demolendola. Forse è lì che una parte dei nostri critici binari (ovvero capaci solo di una scarnata dicotomia come: bello/brutto) ha cominciato a sviluppare una certa antipatia per Jep e per Sorrentino.

Davvero scrittori e giornalisti, intellettuali e artisti, sono stati solo degli ininfluenti provinciali affannati a prendersi un po’ di gloria con qualche spinta in Rai, o qualche posto di potere culturale dove compiacere la grande politica, quella che ci avrebbe resi tutti migliori, oltre che compiacere se stessi?

Ho visto ne La Grande Bellezza trent’anni della mia vita. Ma forse anche 50 anni, per quello che 30 anni fa mi raccontavano i più vecchi, quelli che avevano vissuto il dopoguerra, gli anni 50 e 60. Ed era questo. Era il racconto di Sorrentino nel film. In questa Roma struggente, che è struggente per qualsiasi provinciale che ci arriva da fuori (vale per me, per Sorrentino, e ancor di più per Fellini) è come se fosse in atto una dissoluzione che non è solo fisica, non è solo morale (quanta morale, nel cinema italiano, quanto neorealismo camuffato quando ormai si era fuori tempo, quanta pedagogia politica mascherata da arte, bellezza, ed estetica… basti solo pensare a casi come La meglio gioventù) ma è una dissoluzione ancestrale, come se la storia trasudasse comunque da tutto.

Quel Colosseo che incombe non è uno specchietto per gli americani che lo fotografano, e non è il simbolo di una grandezza perduta, è il capro espiatorio, la pietra del sacrificio, il luogo di un martirio che non finisce mai. Ed è il martirio consapevole di una modernità e di una contemporaneità che non è in grado di comprendere perché non c’è niente da comprendere.

Ovvio che Toni Servillo è un grandissimo attore. Ovvio che il film senza di lui non sarebbe immaginabile. Ma non è solo questo. Questo è un film fitto di contaminazioni musicali,  di citazioni. E le citazioni non sono solo quelle felliniane, che i critici binari comprendono subito, ma ad esempio c’è Todo Modo di Elio Petri. Il vero film sul potere che Sorrentino ha girato è proprio La Grande Bellezza, e non Il Divo. Il vero film sul potere del divino e sul mistero originario è questo.

Ho conosciuto il mondo di Jep Gambardella. Non è importante se le feste fossero in quel modo oppure no. La Grande Bellezza non è un film felliniano e non è un film realista. È un film sorrentiniano, perché ormai il termine ci sta. Ho visto quei giornalisti, quegli scrittori, ho ascoltato argomentare in quel modo. Ho visto quei mondi mescolati in epoche diverse. Quando gli anni Settanta avevano appena smesso di bruciare, e sembravamo un paese destinato a fare scuola, e persino ora che non contiamo più nulla da nessuna parte. Sono entrato in case come quelle. Esistono. Ed esistono corridoi che portano sempre là in fondo, a quelle chiavi che aprono giardini e palazzi inaccessibili, a persone che tolgono la camicia e scopri che portano il cilicio, a religiosità strane, sincretiche, eclettiche dentro volti, ruoli, pensieri, azioni e corpi che neanche immagineresti. Ho conosciuto uomini di fiducia e uomini sfiduciati. Ho visto gente capace di mandare al diavolo una carriera per il sesso e gente che con il sesso ha costruito un potere profondo, incancellabile, ma non roboante e volgare, peggio: invisibile. Ho visto candore nel potere e potere nel candore. Vecchiaia repellenti che odoravano di saggezza ma anche di pochezza e di vergogna. Ho ascoltato discorsi tutti uguali per anni, di gente che non sapeva cosa stesse dicendo ma soprattutto perché. E mentre queste complessità si legavano assieme una all’altra, generando una classe di potere nuova e sottile che nulla aveva a che fare con il censo, con la cultura e con le posizioni sociali e professionali, dall’altro lato si creava una nuova semplicità sempre più isolata, che andava a occupare caselle che non interessavano più a nessuno.

È quello che si vede nel film. Le attricette che valgono sempre più dei ruoli che vengono loro offerti, gli attori che assomigliano alle pubblicità di Dolce e Gabbana, gli scrittori che sembrano degli sceneggiatori che si sono persi il produttore, e i produttori che guardano alla crisi e investono in commerciabilità e semplicità. Le fiction morali, i fotoromanzi dei nostri giorni rivolti a shampiste e intellettuali, dove l’eroismo è semplice, la storia è lineare, dove vincono i buoni, e l’olezzo dei cattivi non arriva da nessuna parte. E attorno a questa roba c’è un mondo di uffici stampa, di parole, di feste, di eventi, di visibilità, ma soprattutto di oscenità nel senso della messa-in-scena che nessuno è stato capace di girare come Sorrentino.

A Paolo Sorrentino sono bastate un paio di feste per chiudere l’argomento. Altri ci avrebbero girato un film intero, e inutilmente. Lui invece torna di continuo a quelle fontanelle sul Gianicolo, quei luoghi di clausura che intravedi, e dove non entri, il sogno dell’hortus conclusus.

Non c’è la bellezza in questo film. Non ci sono attrici strepitose, modelle scelte con la lente di ingrandimento, prelevate direttamente dalle campagne dei sacerdoti di questa dissoluzione: gli stilisti, o se preferite, i sarti. La più bella è Ramona, Sabrina Ferilli, che ha 50 anni. E muore di una malattia che non si sa, che non può curare.

Ai critici ha dato fastidio che Sorrentino non abbia puntato il dito su ogni cosa, non abbia indicato il nemico culturale e politico, non abbia raccontato con il plot. I critici non hanno capito che nella Roma a strati lui sta un po’ più sotto di loro, verso i riti più antichi, verso il punto originario di tutto. E per loro i giusti tributi a quella che è l’influenza, la tradizione culturale non è altro che «fare il verso», come dicono loro. E invece non è un verso, è un proseguire in un discorso che inizia dal Rossellini de La presa del potere di Luigi XIV, continua con il Fellini romano, prosegue con Petri, sia con Todo Modo e sia con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto. Ai critici non interessa che in Toni Servillo c’è un superamento di Gian Maria Volontè. Nel senso che da Volontè prende il registro paradossale e grottesco, ma arriva là dove quei tempi ideologici non potevano consentire. Arriva a René Girard, arriva alla Roma nera, antipositivista, reazionaria. Arriva allo sberleffo della Commedia dell’Arte. Mette l’orologio della storia prima della nascita dei partiti di massa, della Psicologia delle folle di Gustav Le Bon. Guarda fino ai boschi sacri dei dintorni di Roma, fino a una religiosità pagana dove i miracoli e le apparizioni sono un chiacchierare sommesso, profondo, di una città che non si è mai dimenticata di aver stampato le opere magiche di Giordano Bruno, quelle di Girolamo Cardano, e aver dato asilo, in ogni caso, al meglio degli irrazionali, dei maghi, degli alchimisti, degli stregoni e naturalmente degli imbroglioni che l’Europa potesse vantare.

In quelle vecchiaie sdentate de La Grande Bellezza non c’è bellezza, come non c’è bellezza in quelle feste, in quei personaggi patetici e stanchi, in quella via Veneto deserta che abbiamo visto tutti. E tutti, passandoci di notte, quando non non arrivano echi di niente, se non sguardi ammiccanti di buttadentro che sperano tu sia un turista buono per locali da lap-dance, abbiamo ricordato intere sequenze della Dolce Vita come servissero a scaldarci da quel gelo.

Non è quello che si è perduto a preoccuparci, è quello che è rimasto comunque ad affascinarci. E Sorrentino a farcelo entrare nella testa, a lasciarcelo dentro, come dice Bertolucci, è di una bravura stupefacente. Non ho usato il verbo raccontare, e l’ho fatto di proposito. Un’altra caratteristica del critico binario, del produttore binario, del capo delle fiction binario, del regista binario è questa: hai una storia da raccontare? Se hai una buona storia… Questa storia a un certo deve avere una svolta… Sorrentino non racconta storie, ti inietta il penthotal. E poi sono fatti tuoi. Il film non ha svolte. Mentre lo vedevo mi chiedevo se non potesse essere montato in cento modi diversi, se ogni dettaglio non valesse in sé. Come se l’anima del film potesse resistere a tutto, soprattutto ai precetti idioti che si trasmettono con religiosa competenza alle nuove generazioni: il ritmo, la svolta, la messa a fuoco dei personaggio, le sottostorie che nei film ci devono essere. E via dicendo. Non mi stupirebbe se qualcuno mi dicesse che nessuno ha mai scritto questa sceneggiatura. E non mi stupirebbe se Sorrentino un giorno dichiarasse: ho fatto questo film per raccontare Roma, la morte, e il vuoto. Punto. Come Eco raccontò di aver scritto Il nome della rosa perché voleva «avvelenare un monaco».

Che poi un film così complesso, che non può essere visto una sola volta, sia piaciuto all’Academy (e non solo a loro) è la dimostrazione che siamo noi dei provinciali. Noi che ancora pensiamo, attraverso un’ideologia bolsa e trita che ancora resiste anni e anni dopo la fine delle ideologie, che «gli americani» sono dei semplicioni, banali, capaci di vedere l’Italia come una cartolina svampita. Quando è sempre stato l’opposto: un tempo come oggi. Ma si sa, le nostre cattedre di storia del cinema nelle università erano quasi sempre tenute da gente che non andava più a ovest di Miklós Jancsó, e chi sa di cosa parlo capisce quel che dico.

In questo film sul vuoto, sul divino che alle volte sembra andarsi a svilire in una bellezza scheggiata, consumata dal tempo, in questo lungo viaggio dentro una perdita di identità che sta nelle cose, e non potrebbe essere altrimenti, oltre questa rassegnazione alla pochezza, non resta niente. Non resta la vita com’era, il diario della vecchia fidanza di Jep, la povera bellezza di Ramona, la grottesca potenza di Dadina, l’ipocrisia di Stefania, e via dicendo. Niente resta perché niente doveva restare. Neppure il mafioso del piano di sopra riesce a resistere. Solo quello spettacolo, fuori da quel terrazzo, di quel Colosseo che non è affatto l’Anfiteatro Flavio come tutti credono. Ma un luogo spolpato dalla storia, privato dei marmi, crollato per i terremoti, dimenticato, abitato da famiglie nobiliari che ci costruirono dentro case poi demolite, restaurato alla meglio perché non crollasse. Un luogo che è antico, ma è anche ricucito come si è potuto, immaginario di un passato, monumento che non ha neppure la forza di sorreggersi da solo. E soprattutto luogo sinistro, di sacrificio e perdizione. Così muore la carne, titolava Samuel Butler un suo grande romanzo postumo, sul sesso, sulla tragressione, un testo contro la sua epoca, l’epoca vittoriana. E Così muore la critica in questo italianissimo vittorianesimo culturale in cui viviamo, dove lo scandalo è nelle idee, e non nella dissoluzione; dove ci si vergogna ad argomentare e a rompere le righe più che a praticare pubblicamente una fellatio.

Sorrentino ha girato un film che è un punto di partenza per tutti quelli che avranno coraggio e avranno voglia di ricominciare davvero. Ha segnato l’anno zero dei prossimi tempi. E non posso che ringraziarlo per tutto questo.

Roberto Cotroneo




Cinema a Corviale

Set cinematografico Via di Poggio Verde, in fondo Paola Cortellesi (indossa un casco), nel cast anche Raoul Bova

Set cinematografico Via di Poggio Verde, in fondo Paola Cortellesi (indossa un casco), nel cast anche Raoul Bova…clicca sull’immagine

 




IL CINEMA AMERICA STA PER ESSERE DEMOLITO

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IL 17 FEBBRAIO DURANTE UN’ASSEMBLEA PUBBLICA ALL’INTERNO DEL CINEMA AMERICA PRESENTEREMO IL NOSTRO PROGETTO DI RECUPERO E RESTAURO. Il Cinema America è minacciato dalle ruspe della proprietà, la Progetto Uno s.r.l., che vuole distruggere questo edificio per farne un palazzo con 20 monolocali di lusso, con due piani di parcheggi sotterranei ed una galleria d’arte privata, che dovrebbe sostituire l’attività sociale e culturale che il Cinema America ha svolto sino ad ora. Come è ben facile intuire, si tratta di una vera e propria speculazione edilizia nel cuore di Trastevere: né un piano di edilizia sociale, né di valorizzazione culturale.

Progettato da Angelo Di Castro negli anni ‘50, il Cinema America, oltre a rappresentare una delle poche sale di quartiere ancora attive, testimonia la storia e la cultura della nostra città. Dove negli anni cinquanta e sessanta si assiste ad un vero e proprio boom: Cinecittà diventa la seconda capitale mondiale del Cinema, preceduta solo da Hollywood. A Roma si contano ormai più di 250 sale che, grazie ad un’altissima qualità, liberano al loro interno proprie individualità spaziali. Questa nuova tipologia edilizia del XX sec viene caratterizzata da pochi ma significativi elementi progettuali: la pensilina, l’insegna luminosa, il tetto apribile, l’uso del calcestruzzo e la combinazione fra arte-architettura. Elementi tutti che vengono esibiti e potenziati nella grande sala del Cinema America, ormai quasi un’eccezione.

A rileggere il D.M Interno 19 Agosto 1996, n 261 (regola di prevenzione incendi per la progettazione, costruzione ed esercizio dei locali di intrattenimento e di pubblico spettacolo) il Cinema America è anche a norma sui suoi punti più significativi, come i materiali usati all’interno, la distribuzione della sala e delle vie di uscita, la cabina di proiezione, le visuali verso lo schermo…ecc. Insomma, è predestinato ad essere Cinema.

Ma non è solo un edificio dall’alto valore artistico: per noi rappresenta un vero e proprio spazio di discontinuità urbana. In un rione in cui la gentrificazione e la messa a rendita del territorio conquistano ogni via ed ogni vicolo, l’America, controcorrente, propone l’accesso alla cultura ad un numero enorme di persone e mette a disposizione uno spazio di socialità svincolata dalle logiche di profitto.
Durante l’assemblea pubblica presenteremo il progetto della proprietà, attualmente in approvazione agli uffici dell’assessorato all’urbanistica. Ma, soprattutto, presenteremo il nostro progetto di restauro partecipato dell’edificio. Per noi il futuro di questo cinema è uno solo: gestione partecipata della programmazione cinematografica, cinema indipendente, presentazioni e dibattiti di film in collaborazione con registi ed attori, possibilità di fruire dello spazio anche nelle ore diurne trasformandolo da cinema ad aula studio, spazio espositivo per mostre, sala convegni pubblica, biblioteca e teatro, uno spazio in divenire che si modifica con le esigenze del territorio. Perché siamo convinti, e lo abbiamo dimostrato in questo anno di iniziative, che il Cinema America non è solo un cinema ma tanto altro. Per noi il tetto di questa sala cinematografica ha una storia e deve tornare ad aprirsi d’estate senza essere demolito.
Stiamo portando avanti un progetto di autofinanziamento popolare: l’8 marzo si concluderà con un’assemblea durante la quale i sottoscrittori decideranno come investire i fondi raccolti nel restauro e nella valorizzazione dell’edificio.

Il progetto di restauro ha visto anche le adesioni di personalità del mondo della cultura, dello spettacolo e dell’architettura che hanno preso parte a iniziative dell’occupazione del Cinema America: Paolo Sorrentino, Nanni Moretti, Toni Servillo, Carlo Verdone, Gianfranco Rosi, Nicolò Bassetti, Rocco Papaleo, Elio Germano, Libero de Rienzo, Daniele Luchetti, Elena Cotta, Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre, Daniele Vicari, Luca Vendruscolo, Francesco Pannofino, Stefano Benni, Marco Delogu, Ivano de Matteo, Andrea Sartoretti, Valerio Mastandrea, Claudia Pandolfi, Angelo Orlando, Ninetto Davoli, Roberta Fiorentini, Antonio Catania, Francesco Montanari, Gianni Zanasi, Giuseppe Piccioni, ing. Paolo Berdini Prof.ssa Alessandra Muntoni , Prof.ssa Maria Rita. Intrieri, Prof. Giorgio Muratore, Ing. Livio De Santoli, Prof. Silvano Curcio & 120 studenti “ghostbusters” diwww.fantasmiurbani.net Facoltà di Architettura Sapienza Università di Roma, Prof.ssa Simona Salvo e Prof. Andrea Bruschi e molti altri.
Restaurare il Cinema Ameria non è una speranza ma un progetto concreto: vi invitiamo tutti a venire qui per ascoltare la nostra proposta, formulata grazie all’architetto Cristina Mampaso: sullo schermo del cinema proietteremo le tavole del progetto di restauro e discuteremo insieme delle reali possibilità di sviluppo di questa proposta.

LUNEDI 17 FEBBRAIO ORE 18.00
ASSEMBLEA PUBBLICA AL CINEMA AMERICA OCCUPATO

Residenti di Trastevere – Comitato Cinema America – Cinema America Occupato

Per adesioni inviare un’email ad americaoccupato@gmail.com

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A seguire, alle ore 21, verrà proiettato:

“NUOVO CINEMA PARADISO” di Giuseppe Tornatore.

Le uniche poltrone a cui teniamo sono quelle di questo cinema.




FILM DELLA SETTIMANA: The Counselor, Nebraska, The Wolf of Wall Street, Tutta colpa di Freud. Recensioni, link e VD

The Consuelor - Il procuratore

The Counselor – Il procuratore

Un film di Ridley Scott con Michael FassbenderPenelope CruzCameron DiazJavier BardemBrad Pitt

A Juarez, un avvocato di buon successo( Fassbender) è perdutamente innamorato della bella Laure (Cruz) e va in Olanda dal miglior mercante di preziosi (Bruno Ganz) a comprarle uno splendido diamante per l’anello di fidanzamento; per quanto agiato, non può permettersi una vita così dispendiosa chiede così al suo amico e cliente Reiner (Bardem) , un proprietario di locali alla moda ammanicato con il cartello della droga – anche grazie alla sua donna, la sconvolgente Malkina (Diaz) – di farlo entrare, per una volta , nel giro della droga ; Reiner lo introduce a Westray(Pitt), un middleman indipendente del cartello che , dopo averlo sconsigliato, accetta di fargli finanziare una grossa  spedizione dalla quale l’avvocato ricaverà un fiume di denaro . L’avvocato, intanto, viene convocato in carcere da una sua cliente d’ufficio, Ruth (Rosie Perez), che gli chiede di pagare la cauzione per il figlio (Richard Cabral) che è stato arrestato per eccesso di velocità con la moto; il ragazzo esce ma  il carico di droga scompare e il suo corpo decapitato lo collega al trafugamento della partita ; il cartello pensa così che l’avvocato sia implicato nel furto . Reiner viene ucciso e l’avvocato riesce a scappare ma  Laura  viene rapita e lui tenta di salvarla  parlando con un losco avvocato messicano (Fernando Gayo) ma il Boss (Ruben Blades) gli comunica per telefono che Laura è morta.

“The counselor” non è certo il miglior  film di Ridley Scott : statico, verboso , pieno di personaggi – marionetta, non riesce a decollare. Uno dei suoi demeriti è proprio la sceneggiatura del celebrato (dopo “Non è un pase per vecchi”) Cormac McCarthy  che disegna personaggi apodittici e senza spessore umano (in fondo era così anche il romanzo del film dei Coen ma loro lo hanno adattato alla propria travolgente ed affettuosa ironia). A parte la ridicola tendenza a far fare digressioni filosofiche anche ai più efferati killer, il film nel suo impianto di base ( uomo un po’ stupido  si rovina per amore) perde nel confronto con due grandi precedenti : “La fiamma del peccato” (B. Wilder, 1944) e “Brivido caldo” (L. Kasdan, 1981).

Dopo il deludente “Prometheus”, di nuovo Scott mette insieme un film senza la forza che era il suo più significativo segno autoriale ( sembrerebbe che il suicidio del fratello Tony lo abbia segnato anche creativamente).

Nebraska

Un film di Alexander Payne. Con Bruce DernWill ForteJune SquibbBob OdenkirkStacy Keach

Il vecchio Woody (Dern) viene più volte fermato dalla polizia locale del paese del Montana nel quale abita mentre si avvia a piedi a Lincoln nel Nebraska. Lui ha ricevuto una delle tante lettere pubblicitarie , un po’ truffaldine, che comunicano la una grossa vincita (in questo caso, 1.000.000 di dollari) per poi vendere qualcosa (qui sono abbonamenti a riviste). Invano il figlio David (Forte) e la moglie ,Kate (Squibb), cercano di farlo ragionare. Alla fine David decide prendersi qualche giorno di vacanza e di accompagnare il padre a Lincoln. Nel viaggio Woody, che è semi-alcolizzato, fa una brutta caduta e si ferisce alla testa . I due finiscono nella città natale del vecchio a casa del fratello di lui Ray (Rance Howard) che vive con la moglie Martha (Marie Louise Wilson) ed i figli Bart (Tim Driscoll) e Cole (David Ratray), due scioperati subumani. Woody non regge alla tentazione di vantarsi con il vecchio amico e rivale Ed (Keach) della vincita , scatenandone la avidità . Il giornale locale si prepara a farne un eroe e David va a spiegare alla anziana direttrice della testata Peg (Angela McEwan) la situazione ; sarà proprio l’incontro con la donna che rivelerà a David le sfaccettature di dolore e generosità del padre, che a lui ed al fratello Ross (Odenkirk) era apparso come un egoista. Woody potrà, alla fine, farsi vedere dai vecchi compaesani con un furgoncino nuovo – che il figlio gli ha comprato , fingendo che sia un premio di consolazione della lotteria e David avrà ritrovato il padre.

Payne ha molto al centro della sua narrazione il viaggio  come ritrovamento di sé (“A proposito di Schmidt”, “Sideways”) e in questo film , anche grazie allo splendido bianco e nero di Phedon Papamichael, il rapporto tra la solitudine – ma anche la rabbiosa vitalità – dei personaggi e la decadente mestizia dei piccoli agglomerati urbani è resa con grande efficacia. Per non dire del cast : sono tutti perfetti   ; Dern (attore mito del cinema indipendente degli anni ’70) ha vinto a Cannes ma anche la meno nota June Squibb dà alla sarcastica  grevità di Kate un’ umanità toccante ed indimenticabile; parteggiamo per lei agli Oscar.

The Wolf of Wall Street 

Un film di Martin Scorsese. Con Leonardo DiCaprioJonah HillMargot RobbieMatthew McConaugheyKyle Chandler.  USA 2013

Jordan Belfort (DiCaprio) ,ragazzo di  pieno di ambizioni, nel 1987 a New York  trova lavoro in una grossa società di brockeraggio finanziario . in attesa di ottenere la licenza di brocker si accontenta di fare il galoppino ma il maggior azionista della società, Mark Hanna(McConaughey), – che ha intuito in lui un vero talento – lo invita a pranzo e gli spiega i rudimenti spietati e adrenalinici di quel lavoro. Proprio il giorno nel quale ha ottenuto la licenza è però il famoso Lunedì Nero e i suoi sogni sembrano infrangersi ma la moglie Teresa (Cristin Miloti) lo invita a non arrendersi. Entra,così, in una finanziaria sfigatissima che vende titoli improbabili ad ingenui piccoli risparmiatori. Jordan , in breve tempo, fa impennare gli affari della società ,guadagnando un bel pò di soldi di commissioni. Dopo un poco, arruola il suo nuovo amico Donnie (Hill) – un piccolo assicuratore che gli si mette a fianco, abbagliato dalla  sua ostentata  ricchezza  – e un manipolo di amici spacciatori occasionali e apre una sua società, alla quale dà il roboante nome di Stratton Oakmont . Seguendo i consigli di Hanna, i nostri eroi vendono di tutto a tutti , strafacendosi di cocaina ed altre droghe per reggere il ritmo e di sesso orgiastico (ma anche solitario) per rilassarsi.

La Stratton passa dalla vendita di azioni legate a società farlocche all’empireo delle costose Blue Chips . Ovviamente, la maggior parte dei guadagni è assolutamente illegale e poco può fare Max (Rob Reiner) , il padre di Jordan , contabile, assunto per mettere  ordine nel caos amministrativo della società. Jordan incontra la top model Naomi (Robbie) , se ne innamora , lascia Teresa e la sposa. Intanto l’F.B.I. gli mette alle costole l’agente Patrick Denham (Chandler) e Jordan apre un conto in Svizzera nella banca diretta da Jean-Jaque Saurel (Jean Dujardin) ,intestandolo alla zia inglese di Naomi, Emma (Joanna Lumley) . I soldi vengono spediti attraverso il suo corriere (e pusher) di fiducia , Brad (Jon Bernthal) ma Donnie ,  strafatto, lo fa beccare con l’ultimo carico. Zia Emma muore , Saurel si fa beccare in America e Jordan rischia una condanna a  vent’anni. Per salvarsi denuncia i suoi complici e dopo una lieve condanna in un carcere di tutto riposo, il nostro eroe si ricicla come guru  delle  tecniche di vendita.

Scorsese e DiCaprio hanno avuto per  anni i diritti dell’autobiografia di Belfort ma il puritanesimo americano ha loro consentito di girarlo solo un anno fa . Ne hanno affidato la scrittura all’autore de “I Soprano” e di “Broadwalk Empire”, Terence Winter ( non a caso due grandi gangster story) e ne hanno tratto  questo grande affresco sulla corruttela finanziaria degli anni ottanta, epico e miserabile ad un tempo , con un cast eccelso , a partire da DiCaprio stesso ( ma quando recita con Jonah Hill o con Matthew McConaughey entrambi gli rubano grandiosamente la scena). Epico, dicevo, perché il Belfort del fim richiama la  grandezza  , la brutalità, gli eccessi  degli eroi omerici ,  prigionieri del volere di dèi capricciosi così come i protagonisti del film sono guidati alla catastrofe da droghe sempre più padrone del loro volere.

Tutta Colpa di Freud

Un film di Paolo Genovese. Con Marco GialliniAnna FogliettaVittoria PucciniVinicio MarchioniLaura Adriani. Italia 2014

Genovese è ormai un autore consolidatissimo della commedia italiana sofisticata (“Immaturi” 1 e 2, “Una famiglia perfetta”) e questo film ne è un’ulteriore conferma : ben scritto ,ben diretto , ben interpretato, con location sempre appropriate e le battute giuste a sciogliere ogni sequenza è una prova in più che il  nostro cinema sa trovare la  strada per ritrovare un pubblico che, talora , sembra perduto. Non è un caso   che attori noti – che non disdegnano di apparire in un’operazione di prevedibile successo – diano volto a piccoli camei: oltre a Maurizio Mattioli nel ruolo del portiere, ci sono Dario Bandiera, Lucia Ocone, Francesco Apolloni e Michela Andreozzi. Al soggetto ha partecipato anche Pieraccioni (con il quale Genovese aveva scritto il recente “Un fantastico viavai”).Francesco (Giallini) è uno psicanalista ed ha cresciuto da solo (la moglie era partita anni prima per l’Africa quale medico volontario) tre figlie, due intorno ai 30 anni – Sara (Foglietta) e Marta (Puccini)  -e la terza, Emma (Adriani) diciottenne. Le ragazze passano , tutte e tre, un difficile momento sentimentale: Sara, che viveva in America, è omosessuale ma dopo l’ennesima delusione d’amore torna a casa e decide di provare con l’eterosessualità ; Marta è libraria snob e si innamora di uomini improbabili : l’ultimo è uno scrittore (Antonio Manzini) del quale aveva frainteso le attenzioni; Emma , infine, presenta al padre il suo fidanzato Alessandro (Alessandro Gassman),cinquantenne e sposato. Francesco , dopo aver cercato di dissuadere Sara dai suoi propositi, l’aiuta come può a capire gli uomini, cerca di consolare la povera Marta e, soprattutto, impone ad Alessandro una terapia, apparentemente per facilitargli la separazione in realtà per cercare di farlo tornare dalla moglie Claudia (Claudia Gerini) – non sa che lei è proprio la donna che incontra al bar e della quale si è innamorato. Marta si innamora di Fabio (Marchioni), un cleptomane sordomuto che ruba libretti d’opera nella sua libreria e comincia con lui una relazione complicata dalla allarmata sensibilità dell’uomo. Sara , dopo vari appuntamenti deludenti  – un geometra tirchio (Giammarco Tognazzi), un poeta tronfio (Paolo Calabresi) e un bravo ragazzo (Edoardo Leo) che lei, ubriaca, fa scappare raccontando , con varie confusioni sessuali, le sue delusioni amorose – incontra Marco (Daniele Liotti) e , per la prima volta, ci fa l’amore . Quando tutto sembra perduto- Fabio rompe con Marta, temendo che lei lo tratti con pietà, Sara ha una  forte pulsione per la cugina (Giulia Bevilacqua) di Marco , resiste  ma  il mattino successivo viene a sapere che i due cugini sono andati a letto insieme ed Emma scopre il doppio gioco del padre – la saggezza e l’amore paterno di Francesco rimettono a posto ogni cosa.

 

 

 




VD > Indovina chi viene a Natale?

natale--638x366Un film di Fausto Brizzi. Con Diego AbatantuonoClaudio BisioRaoul BovaCarlo BuccirossoCristiana Capotondi. Angela FinocchiaroClaudia GeriniRosalia PorcaroIsa Barzizza.

Giulio (Abatantuono) , industriale dolciario ospita, come ogni Natale, nella villa ,in cui abita  con la moglie Marina (Finocchiaro) e la mamma Emma ( Barzizza),  tutti i parenti . Arrivano così la sorella Chiara (Gerini) con i suoi due bambini e il nuovo fidanzato Domenico(Bisio), un maestro elementare molto impegnato e montessoriano, il fratellastro Amonio (Buccirosso) con la moglie Elisa (Porcaro) e i tre figli : Gaspare , Melchiorre e il piccolissimo Gennaro e la figlia Valentina (Capotondi) , che presenta in famiglia il fidanzato Francesco (Bova) , bello e gentile ma privo delle braccia . Giulio e Marina, assai liberal nell’azienda , sono scombussolati dal genero e mettono in campo varie strategie (tutte perdenti) per dissuadere la figlia, così come i figli di Chiara, per gelosia,  combinano danni su danni  , facendone ogni volta ricadere la responsabilità su Domenico; fra vari disastri – e l’atmosfera è già pesante di per sé per la recente scomparsa del capofamiglia (Gigi Proietti),  cantante di successo e padre assai assente – l’unico entusiasta è  Amonio  che compensa  con una forzata allegria natalizia il proprio essere meridionale ,povero e “fratello post-datato”. Equivoci, rivalità, bugie e ripicche sembrano compromettere tutto ma … è Natale.

Brizzi , dopo i non memorabili incassi di “Come è bello far l’amore” e di “Pazze di me”, si  rituffa sulla commedia corale ; ingaggia , per la prima volta, Abatantuono e la Finocchiaro e va giù di spirito natalizio come un giulebbe ; lui e Martani -qui si è aggiunto anche Fabio Bonifacci (“Benvenuti al sud” ,”Benvenuti al nord”, “Il principe abusivo”)- scrivono benissimo le singole scene e le gag ma l’insieme è un patchwork di situazioni e di tormentoni già visti mille volte ; gli attori sono troppo esperti per non portare a casa un risultato degno ma , su tutti, svetta Isa  Barzizza : ogni volta che c’è lei gli altri mostri sacri sono confinati, idealmente, in un angolino dello schermo.




VD > Film di Natale Colpi di fortuna

trailer-colpi-di-fortuna-16275Un film di Neri Parenti. Con Christian De SicaPasquale PetroloClaudio GregoriLuca BizzarriPaolo Kessisoglu,  Francesco Mandelli

 1° episodio: Piero (Kessisoglu) è innamorato della tabaccaia Barbara (Fatima Trotta) ma , non avendo il coraggio di dichiararsi, compra – lui non fumatore- decine di pacchetti di sigarette e , una volta , gioca anche una cinquina assurda ; quella sera vede la sua amata che bacia un altro – è il suo amico e socio Mario (Bizzarri) ma lui non lo sa; disperato si butta in una notte di follie . Mario , dopo aver saputo che la cinquina è uscita, lo trascina (ancora intontito e immemore per via delle copiose bevute) a ripercorrere le tappe di quella notte , della quale Piero non ricorda nulla : le tracce portano ad un clan mafioso, al giocatore del Napoli Marek Hamsik, ad un funerale da corsa ma alla fine..

2° episodio : Gabriele Brunelli (De Sica) , un industriale laniero assai superstizioso sta per chiudere un grosso affare con il Tibet ad ha bisogno di un traduttore ; ingaggia Bernardo Fossa (Mandelli) , il migliore su piazza ma anche uno jettatore pazzesco , sull’orlo della prevedibile catastrofe, ecco che…

3° episodio : Felice (“Lillo” Petrolo) è un ex ballerino della Carrà, che ora vive con la moglie (Barbara Folchitto) e  quattro figli – due dei quali adottati- dando lezioni di danza ad un centro per anziani; riceve (dal padre che non sapeva di avere) in eredità una minuscola sommetta ed un fratello autistico(“Greg” Gregori) ; sembrano cominciati i veri guai ma…

Dopo il fortunato “Colpi di fulmine”, Aurelio De Laurentis (e il figlio Luigi) ripropone la stessa formula , aggiustando un po’ il tiro : gli episodi sono tre e non due , ritorna un po’ della sana scatologia delle “Vacanze di Natale” e a De Sica in scadenza di contratto affianca il “solito idiota” Mandelli ma , per il resto , come nel precedente dirige il solidissimo Parenti e l’episodio di Greg e Lillo è appoggiato su  loro precedenti gag; oltre a camei della Carrà e di vari giocatori del Napoli, appaiono, in piccoli ruoli, oltre alla Trotta, vari comici di “Made in sud”.

I primi segnali di incasso lo danno vincente ; mai dare per finito  il vecchio leone Aurelio : lui ha ancora tanto da insegnare sul cinema di intrattenimento a tutti quanti !

 

 

 

 




Hunger Games – La ragazza di fuoco

the-hunger-gamesUn film di Francis LawrenceCon Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Woody Harrelson, Elizabeth Banks.
 Ricordo rapidamente l’antefatto (cioè il plot del primo “Hunger games”): in un prossimo futuro , un governo centrale autoritario tiene sotto il tallone della repressione e della miseria i 12 distretti nei quali è divisa la popolazione; ogni anno vengono sorteggiati un maschio ed una femmina per distretto per partecipare agli Hunger Games , olimpiadi violente nelle quali i concorrenti debbono eliminarsi a vicenda , finchè non rimane un solo vincitore che sarà ricco e famoso ; Katniss (Lawrence) e Peeta (Hutcherson) avevano partecipato per il dodicesimo distretto alla 74’ edizione e , contro tutte le regole, erano rimasti vivi entrambi .
Ora sono in tour per essere festeggiati ma in ogni distretto colgono sintomi di ribellione ; il Presidente Snow (Donald Sutherland) , che ha mal sopportato la decisione dei due di non combattere tra di loro –e che per questo ha eliminato il precedente Stratega dei giochi Seneca (Wess Bentley- nomina un nuovo Stratega , Plutarch Haevensbee ( Philip Seymour Hoffman ) e decide di far partecipare ai 75’ Giochi i vincitori , due per distretto, delle precedenti edizioni . Katniss e Peeta sono di nuovo in ballo e sanno che stavolta non potranno salvarsi entrambi ; eccoli , di nuovo in team con il preparatore Haymitch (Harrelson), con lo stilista Cinna (Lenny Kravitz) e con la svalvolata p.r. Effie (Banks) , cercare alleati per la prima parte dei giochi . Stringono alleanza con Finnick (Sam Claflin) e Mags (Lynn Cohen) e quando la gara mortale ha inizio capiscono che il terreno è disseminato di trappole letali , si uniscono anche al sapiente Beetee (Jeffrey Wright ) e alla ribelle Johanna (Jena Malone ) ma mentre stanno mettendo a segno un colpo vincente …
Per questo secondo episodio l’adrenalinico Lawrence (“Io sono leggenda”) sostituisce il riflessivo Gray (“Pleasantville”) e i risultati si vedono : anche se in entrambi i film i giochi finali sono preceduti da linghi antefatti , qui le scene nal campo di combattimento sono molto ben mosse e i vari combattenti hanno carattarestiche ben delineate e anche i preamboli sono gestiti con buona suspense e senza le sbavature del precedente ( ad es. il mellifluo presentatoretelevisivo , affidato al grande Stanley Tucci, ha solo pochi essenziali scene , senza il moralismo eccessivamente giudicante del primo) . Resta da capire come mai i romanzi di Suzanne Collins, prima, ed i film , dopo, abbiano un così vasto seguito di giovani fan : probabilmente così come la saga “Twilight” rappresentava bene la solitudine e l’auto-mostrificazione di adolescenti in cerca del sé adulto, “Hunger games” sollecita fantasie di rivolta distruttiva , propria della difficile fase della crescita. Il film è , comunque, molto piacevole e sapientemente infarcito di eccezionali attori in solidi camei.