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Proposte e considerazioni della rete «Decide Roma» per il Tavolo tecnico istituito dalla Giunta capitolina

Il Consiglio Comunale di Roma Capitale ha approvato, lo scorso 5 agosto, una mozione ex art. 109, con la quale si dà mandato alla Sindaca e alla Giunta di istituire un «Tavolo tecnico propedeutico alla stesura di una nuova disciplina nell’uso dei beni del patrimonio indisponibile di Roma Capitale, che enuclei nel dettaglio i beni della futura regolamentazione e gestisca medio tempore le urgenze di rientro in possesso dei beni, in presenza di contestazioni che attengano a pretese inadempienze dell’Amministrazione». La rete Decide Roma, come è noto, da molti mesi ha intrapreso un denso percorso di consultazione popolare e di discussione democratica, anche in dialogo con le forze politiche e l’amministrazione, finalizzata ad individuare i principi che dovrebbero sovrintendere alla riscrittura delle regole per un nuovo uso comune dei beni pubblici nella nostra città.
Apprendiamo dai social media che il citato Tavolo tecnico è stato convocato. Crediamo che sia un segnale importante, sintomo (sperabilmente) della effettiva volontà di trovare una soluzione ad una vicenda ormai drammaticamente segnata da un perenne stato di emergenzialità, che costringe tutti i soggetti coinvolti in una detestabile incertezza, che ipoteca la possibilità di affrontare con la giusta serenità una discussione così importante per la città tutta, e che – soprattutto – rende quasi impossibile, nella quotidianità, l’esercizio delle nostre tante attività sociali e culturali, spesso delicate, e che comunque hanno bisogno di progettazione e programmazione di lungo periodo. Con riferimento alla mozione approvata in agosto, riteniamo di centrale importanza la parte in cui ci si riferisce alla «partecipazione dei cittadini alle scelte politiche che determinano la loro vita ed il destino dei loro territori», concetto ripreso laddove si segnala che «anche […] gli immobili relativi alle deliberazioni […] n. 219/2014 (patrimonio pubblico di Roma Capitale “bene comune”) necessitano, per la relativa assegnazione, di un processo che coinvolga cittadini ed organi politici competenti in un’ottica di programmazione più efficace per il territorio e le realtà che lo animano». Questa attenzione alla partecipazione democratica, dei soggetti coinvolti e degli abitanti di Roma in generale, che da sempre costituisce il significato e il metodo della nostra rete Decide Roma, crediamo debba innervare oggi, da subito, la discussione che sta intraprendendo il Tavolo tecnico. In altre parole, non crediamo sia possibile, per l’Amministrazione, procedere alla modifica della normativa sul patrimonio pubblico senza un coinvolgimento protagonistico e una consultazione costante dei soggetti associativi e le realtà sociali che da decenni operano nella città in relazione alla materia. Altrimenti si tratterebbe, in sostanza, di uno schema identico a quello scelto dalla Giunta Marino (e segnatamente dagli assessori Nieri prima e Cattoi dopo), proprio lo schema che ha portato all’attuale, drammatica situazione. Nel richiedere dunque l’immediata apertura pubblica e partecipativa della discussione, crediamo sia utile cominciare ad esporre alcune considerazioni ed alcune proposte in merito, elaborate in questi mesi.

• Il quadro normativo
Il quadro normativo entro il quale va collocata la riforma della regolamentazione per l’uso dei beni di natura indisponibile di proprietà di Roma Capitale è piuttosto complesso e articolato. È possibile individuare almeno tre nuclei normativi, che permangono ancora nella vigenza: il primo e più risalente nucleo è il vecchio Regolamento sulle concessioni del 1983; il secondo nucleo è quello composto dalla delibera n. 26/1995 e dalla delibera n. 202/1996; il terzo nucleo, più recente, è quello costituito da alcune norme della delibera n. 6/2014, dalla delibera n. 219/2014 e dalla famigerata delibera n. 140/2016.
Su ciascuno di questi nuclei normativi, sulla sua storia, sulla concreta applicazione e sugli esiti sociali, ci sarebbe molto da dire. Valgano però intanto alcune considerazioni, certamente utili al lavoro da svolgere nelle prossime settimane.
La delibera n. 26/1995 costituisce effettivamente il più importante atto di riconoscimento formale dell’importanza della vivace scena associativa e culturale romana. Si trattava, in buona sostanza, del riconoscimento politico di spazi di autonomia e di autorganizzazione, in assenza dei quali non sarebbe stata possibile la moltiplicazione di esperienze e attività che – da un lato – hanno oggettivamente contribuito per anni a tracciare uno dei profili culturali più moderni e avanzati della città, e che – dall’altro lato – hanno organizzato dal basso servizi propriamente welfaristici (addirittura, sovente, in ambito sanitario), sostituendo “sussidiariamente” il settore pubblico laddove la sua assenza si avvertiva più duramente in termini di mancata garanzia di diritti fondamentali (diritto ala salute, diritto allo sport, diritto alla cultura, diritto allo studio, diritto al lavoro degno, diritto alla socialità, eccetera). Questo riconoscimento politico (nel senso più nobile del termine) si traduceva, tra le altre cose, nella decurtazione dell’80% del canone concessorio degli immobili: una scelta lungimirante, che non solo rendeva possibile il concreto svilupparsi di realtà davvero “indipendenti”, ma che contribuiva alla sottrazione di importanti porzioni di patrimonio immobiliare capitolino alla mercificazione selvaggia dei territori, agendo per questa via come vero e proprio strumento di politica urbanistica, oltre che sociale e culturale. Pur prendendo atto della necessità storica di immaginare nuove e più moderne forme di regolamentazione, che non guardino solo al passato ma al futuro, crediamo che questo senso profondo di quell’esperienza vada ricordato e mantenuto: la gestione del patrimonio pubblico, infatti, non può essere una mera gestione contabile o amministrativa, improntata soltanto a ciechi criteri di efficienza, efficacia ed economicità, ma può e deve essere strumento di politica sociale e culturale, per mezzo del quale promuovere e favorire le iniziative cooperative e solidali della cittadinanza, differenziando regole e procedure a seconda della finalità oggettiva dei soggetti coinvolti.
La seconda considerazione relativa al secondo nucleo normativo è, per così dire, l’altra faccia della medaglia. Se infatti quella stagione amministrativa aveva dimostrato la capacità di riconoscere e favorire il meglio dell’attivazione dal basso del tessuto sociale, dall’altro lato, tuttavia, specialmente con la delibera n. 202/1996, venivano a ciò predisposte attività amministrative eccessivamente procedimentalizzate, poco chiare sia per i cittadini che per l’Amministrazione stessa, spesso inutilmente cavillose, più attente alle forme amministrative che alla sostanza dei processi in atto. Questa procedimentalizzazione, tra l’altro, non ha soltanto – sul lungo periodo, cioè oggi – generato i mostri amministrativi che saranno successivamente esposti e ai quali urge trovare rimedio, ma non ha neppure impedito che l’Amministrazione stessa ne rimanesse vittima, in termini di responsabilità personale dei funzionari e dei dirigenti preposti. Crediamo che questa vicenda debba necessariamente insegnare qualcosa, relativamente a come e a quanto si deciderà di normare la materia in oggetto.
Il terzo nucleo normativo, quello più recente, ha provato – in maniera assolutamente scomposta – a riordinare la disciplina in materia. Una prima decisione, assolutamente rilevante e rispetto alla quale non è opportuno arretrare, è quella contenuta nella delibera n. 6/2014, laddove essa – nel disporre il piano di alienazioni di una parte del patrimonio pubblico capitolino – esplicita che gli immobili interessati dalle assegnazioni ex delibera n. 26/1995 sono escluse dal suddetto programma di (s)vendita immobiliare. Gli altri due provvedimenti, invece, sono quelli che hanno creato l’attuale «emergenza sgomberi», ossia quelli che hanno nei fatti predisposto la totale tabula rasa dell’intero tessuto sociale, culturale e associativo romano.
In primo luogo, c’è da segnalare come la delibera n. 219/2014 sia una delibera menzognera. Essa, infatti, è intitolata «Patrimonio pubblico bene comune», eppure la disciplina in essa contenuta non ha nulla a che vedere con i beni comuni, con la loro teoria giuridica e con la loro prassi amministrativa ormai consolidatasi in quasi 100 Comuni in tutta Italia.

• Delibera 140: cancellazione

• I beni comuni urbani
• Che cosa sono i beni comuni urbani (in generale, brevemente)
• Dettaglio della prassi amministrativa sui beni comuni + Napoli (cfr. Piscopo)
• La delibera presentata dalla Raggi nella scorsa consiliatura (importante!)
• Soluzioni intermedie, soluzioni a geometria variabile (non soluzione erga omnes)

• Urgenze, soggetti in campo, metodo
• Questione della Corte dei Conti e dei debiti (nel dettaglio)
• Metodo politico (brevemente, no missili)




L’ex-Asilo Filangieri ed il governo dei beni comuni

Labsus intervista gli attivisti dell’ex-Asilo Filangieri di Napoli.
Con la delibera 893/2015 il Comune di Napoli ha riconosciuto il Regolamento d’uso collettivo dell’ex-Asilo Filangieri, portando un inedito modello di governo dei beni comuni all’interno del nostro ordinamento.
La delibera riconosce autonomia di organizzazione e produzione ai fruitori del bene.

Tale regolamento infatti è stato prodotto in maniera autonoma dalla collettività di riferimento che usufruisce del bene, e pone l’autogestione della struttura come uno dei principi cardine della sua gestione. Abbiamo intervistato gli attivisti dell’Asilo, per capire gli aspetti più importanti e le novità che questo regolamento porta nella pratica teorico-giuridica dei beni comuni.
La storia

L’ex-Asilo Filangieri, ora L’asilo, è un centro di produzione interdipendente dedicato all’arte e alla formazione, autogestito dalla comunità di riferimento, ossia i lavoratori dell’arte e della cultura.
L’edificio storico, patrimonio Unesco nel cuore di Napoli, nonché demanio comunale, era stato scelto come sede del Forum delle Culture, di fatto dato come fondo di garanzia ad una fondazione privata.
Sulla scia delle diverse esperienze legate agli spazi culturali autogestiti che ha investito l’Italia, nel 2012 i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo e della cultura occupano l’immobile che viene così riconsegnato alla cittadinanza e riconosciuto dal comune di Napoli tramite la delibera 400/2012, in cui non solo si riconosce l’importanza della cultura come bene comune, ma si riconosce “ai lavoratori e alle lavoratrici dell’immateriale” la possibilità di gestire in maniera partecipata e trasparente uno spazio pubblico dedicato alla cultura. Nasce così l’esperimento dell’Asilo e dopo tre anni di tavoli pubblici, la comunità che usufruisce dello spazio, con l’aiuto di studiosi e giuristi, dà alla luce il Regolamento collettivo d’uso civico e collettivo urbano, convertito in atto amministrativo tramite la delibera 893 /2015.
Il Regolamento e i beni comuni

Tale Regolamento d’uso pone delle basi giuridiche al concetto di bene comune, diffuso nella prassi ma di difficile categorizzazione a livello giuridico. Partendo dalla nota definizione della Commissione Rodotà, dove il bene diventa comune se legato all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, si è aggiunta un’interpretazione estensiva della tradizione degli usi civici, dove l’uso collettivo di un bene è strettamente legato alla partecipazione diretta della collettività (come già riconosciuto dalla Corte Costituzionale nella sent. 345/1997). Come ci spiega Giuseppe, “Noi volevamo che fosse riconosciuto il bene monumentale ex Asilo Filangieri come bene comune e per noi un bene diventa tale quando è legato ad un determinato regime di governo, ossia quando è presente una particolare forma di fruizione che garantisce ai cittadini non solo un potere di accesso, ma un metodo codecisorio per quanto riguarda le pratiche e la gestione degli spazi”. La partecipazione diretta della comunità diventa quindi un punto fondamentale per definire la categoria dei beni comuni, dove “la comunità si crea attraversando lo spazio, ossia nel momento in cui si mettono insieme le risorse, i mezzi di produzione artistico-culturali, le competenze” e che si autoregola tramite assemblee e tavoli di lavoro aperti alla cittadinanza tutta.
L’uso civico della struttura si basa sulla capacità di autonormazione civica di tale comunità e si fonda sui principi di imparzialità, inclusività, accessibilità e autogoverno della comunità, in quanto “gli operatori della cultura devono essere autonomi nelle scelte che fanno, vale a dire non essere soggetti a nessuna ingerenza da parte della partitocrazia né da parte dell’economia, ossia dalle logiche del profitto”, sottolinea Nicola.
Per un nuovo pubblico

“Tale sperimentazione”, si legge nel Regolamento, “si configura come demanialità rafforzata dal controllo popolare”. Il bene in questione rientra quindi in uno “speciale regime pubblicistico”, in cui lo Stato non è gestore dall’alto della struttura (come ad esempio con il meccanismo del bando pubblico), ma, tramite un meccanismo di sussidiarietà orizzontale, diventa garante del funzionamento della struttura stessa, riconoscendo l’autonomia di gestione dei fruitori dello spazio e assumendosi lui stesso oneri e responsabilità relativi al funzionamento del bene. Un pubblico che risponde quindi all’ articolo 3 della Costituzione, pronto a rimuovere ciò che può ostacolare il godimento collettivo della struttura da parte della comunità e della cittadinanza tutta. Il concetto di utilizzo collettivo del bene rientra nella volontà di “declinare i beni comuni a livello relazionale”, ci spiega Nicola, “ossia mettere in evidenza che la singola persona nell’esercizio legato ai diritti dei beni comuni non può che relazionarsi ad altri soggetti”.
Quindi uso collettivo di uno spazio pubblico, affidato alla gestione della comunità di riferimento tramite la condivisione degli oneri e delle responsabilità tra tale comunità e le istituzioni che hanno la titolarità del bene. E qui si evidenzia l’importanza del regolamento: la sua esistenza assicura infatti la pubblicità del bene, e permette un’amministrazione diretta da parte della collettività tramite modelli di democrazia partecipativa, che possano durare nel tempo indipendentemente da chi attraversa lo spazio. A livello pratico, ciò si traduce da una parte nell’introduzione di un elemento di terzietà (ossia il controllo delle istituzioni del rispetto di tale Regolamento), e dall’altra si riconosce il credito che tale struttura dà alla cittadinanza, di fatto tramite la partecipazione del Comune ai costi di gestione della struttura (come ad esempio l’utilizzo di dipendenti comunali per aprire e chiudere l’edificio o eventuali lavori straordinari legati a problemi dello stesso). “L’edificio deve essere tenuto come una piazza e sta all’istituzione garantire che le persone lo possano utilizzare”, ci spiega Giuseppe. Si riducono quindi i costi minimi della produzione teatrale e allo stesso tempo si riconosce una redditività civica del bene in questione, garantendo autonomia di organizzazione e produzione ai suoi fruitori.

L’esperimento de L’Asilo porta sicuramente nuovi spunti nel dibattito sui beni comuni (e il conseguente ruolo che possono avere le istituzioni) e per quanto sia legato ad una situazione specifica, può essere d’esempio nella creazione (e continua sperimentazione) di nuove forme di democrazia partecipata e di autogestione di quei beni che, per privatizzazioni o gestione centralistica statale, vengono di fatto sottratti alla collettività.

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