1

Apple, ipotesi Città della Scienza E poi Cisco si insedierà a Scampia

Nicodemo: «Saranno formati sviluppatori di App per i sistemi operativi».
«Questa è la dimostrazione che il Governo pensa a Napoli. E non soltanto in termini di risorse. È appena partita la bonifica di Bagnoli e ora la città rientra a pieno titolo nelle policy nazionali di sviluppo. Il digitale costituisce l’architrave dello sviluppo moderno e ora Napoli è diventata centrale in un processo straordinario». Francesco Nicodemo, ex membro della segreteria nazionale del Partito democratico, oggi impegnato nello staff della comunicazione di Palazzo Chigi, è laureato in Lettere classiche ma è un vero appassionato di tecnologia e di social network. Ed è entusiasta del duplice accordo che porterà Apple e Cisco a Napoli.

In città arriveranno due giganti, appunto Apple e Cisco, con due iniziative separate: è una coincidenza?
«No, non è una combinazione. Infatti Renzi aveva già scritto qualcosa nelle sue Enews alcune settimane fa. È la conclusione non casuale di un percorso. Infatti tutto questo accade subito dopo la riforma del Senato. Il Governo sta lavorando per cambiare l’Italia e creare stabilità rendendo quindi il paese più attrattivo per gli investitori stranieri. Il tema è nazionale, dunque, ma trova applicazione a Napoli. La cosa davvero importante è che queste grandissime aziende si insedino qui».

Cisco dovrebbe fare base in un istituto superiore di Scampia, l’Itis Galileo Ferraris, è così? E l’avete suggerito voi?
«Sì, Cisco va a Scampia, ed è vero anche che c’è stata una segnalazione da parte nostra. Quella è una scuola straordinaria che si è aggiudicata molti premi nazionali e dove, alla fine dei corsi, è altissimo il placement per gli studenti. Merita attenzione in un progetto più ampio adesso che Cisco viene a Napoli, a Scampia, non nella Silicon Valley, a investire per creare una academy che formerà sistemisti».

Apple ha spiegato che «sosterrà gli insegnanti a preparare migliaia di futuri sviluppatori».
«Saranno formate centinaia di sviluppatori di app per i sistemi operativi Apple. Attenzione, non parliamo di assunzioni. Ma l’iniziativa vale molto di più di 600 sviluppatori e non va assolutamente sottovalutata, è una cosa gigantesca perché sarà l’unico centro di formazione in Italia e Europa. Qui a Napoli. Un altro centro analogo esiste soltanto in Brasile».

E dove sarà collocato? Il comunicato di Apple dice che «il centro di sviluppo App iOS sarà situato in un istituto partner a Napoli»: anche in questo caso avete segnalato una scuola superiore? Ci sono tanti centri di studio e di ricerca dell’università…
«Sono possibilità da non sottovalutare. C’è anche la Città della Scienza. E tanti istituti del Cnr. Queste opportunità potrebbero non essere alternative, nel senso che potrebbe anche crearsi una sana competizione tra vari istituti».

Insomma non è tutto già deciso?
«È così, non è tutto già deciso. Del resto Renzi e Cook hanno portato a Napoli l’iniziativa perché qui ci sono moltissimi programmatori e startupper, operano consorzi per lo sviluppo del digitale e incubatori di imprese. Si può formare un sistema con Apple al centro e tutto il resto intorno. Quindi si può superare la situazione in cui si producono solo idee per realizzare economie di scala per una città che si regga sull’innovazione. Il Governo sta facendo molto per Napoli e la Campania. Da una parte ha puntato sulla cultura, per esempio rafforzando i musei con una nuova organizzazione e con direttori stranieri, e sul turismo culturale, valorizzando gli Scavi di Pompei, Ercolano, la Reggia di Caserta. E ora sta fornendo ciò che serve per una vision . In una vecchia intervista avevo detto che a Bagnoli sarebbe dovuta venire Google. Ecco, viene Apple e abbiamo messo i soldi per la bonifica».

Questo dovrebbe anche migliorare non l’immagine turistica della città che in questo periodo è già buona, ma la sua reputazione. Non crede?
«Certamente. E soprattutto così si evitano discussioni ideologiche e poco concrete. Ricorda il libro Se Steve Jobs fosse nato a Napoli di qualche anno fa? Ecco, i l mio sogno è che tra qualche anno sia Tim Cook a scrivere un libro in cui racconti che si è innamorato di Napoli. Per ora, tuttavia, mi fermo al fatto politico».

A proposito, bisognerà capire chi amministrerà la città nei prossimi cinque anni. Per ora nel Pd è in corsa solo Bassolino.
«Il totonomi non ci porta da nessuna parte. Io credo che il Pd abbia le capacità per mettere sul piatto più nomi validi. Poi si faranno le primarie e chi vincerà sarà il candidato di tutti. Vinca il migliore».

link all’articolo




Apple e Google a caccia di programmatori tra i banchi delle medie

googledi Federico rampini da Repubblica:

Inventano “app” di successo e diventano milionari prima di aver superato la pubertà. Ecco perché i giganti del web corteggiano i giovanissimi.

Non è solo la generazione dei Baby boomer a sentirsi spaesata o inadeguata nella padronanza delle tecnologie, rispetto ai Millennial. Ora i ventenni sentono il fiato sul collo di una generazione più agguerrita di loro. I nuovi inventori corteggiati da Apple e Google stanno facendo ancora la scuola media. Le frontiere del reclutamento di cervelli nella Silicon Valley diventano sempre più precoci. Un esercito di dodicenni e tredicenni affollano le conferenze tecnologiche per presentare i propri brevetti, vincono competizioni internazionali, piazzano le loro app sugli smartphone.

Finiscono sul Wall Street Journal i campioni di questa nuova fascia di età, milionari prima di aver superato la pubertà. Il quotidiano economico intervista in prima pagina Grant Goodman, 14 anni, e già al suo terzo brevetto di successo. Quando Apple l’anno scorso decise che sui nuovi iPhone non ci sarebbe stato YouTube in dotazione, il ragazzino si tuffò sull’opportunità. Inventò Prodigus, una app che consente di guardare video sull’iPhone, senza la pubblicità imposta da YouTube. “Se cominci così presto – dice Goodman al Wall Street Journal – hai una lunghezza di vantaggio rispetto ai ventenni”. Lui ha già costituito una società, la Macster Software, per gestire la sua attività d’inventore. Sa mettere in competizione fra loro Apple e Google, cimentandosi con app per tutti i loro prodotti. Ne ha brevettata una che serve a vedere il livello di carica della batteria dell’occhiale Google Glass, un minuscolo indicatore luminoso. Ha anche inventato un videogame. Questa è stata l’estate del suo addio alla scuola media, da settembre entra al liceo.

Ci sono casi perfino più precoci. Quando a giugno Google ha organizzato a San Francisco la sua conferenza annua I/O, dedicata a tutti gli inventori che sviluppano nuovi software e app, ha dovuto prevedere un apposito “programma giovani” con 200 partecipanti. I più piccoli tra loro avevano 11 anni, e guai a guardarli dall’alto in basso: sottovalutarli può essere un errore micidiale. Per non essere meno competitiva dei rivali, nel reclutamento dei giovanissimi cervelli, Apple già nel 2012 cominciò ad abbassare l’età minima per essere ammessi alle sue conferenze di developer: dai 18 ai 13 anni. La metà delle borse di studio per partecipare gratis alle conferenze tecniche di Apple, riservate a veri professionisti, sono state vinte da minorenni.

La creatività di questi enfant prodige è ben remunerata. Google in un anno ha versato 5 miliardi di dollari agli inventori delle migliori app, mentre Apple addirittura il doppio: 10 miliardi. I ragazzini negano che il guadagno sia la molla che li spinge a rinunciare alle feste da ballo o al baseball per passare pomeriggi e sere a escogitare nuove invenzioni. La mamma di Grant, Becky Goodman, non accetta insinuazioni o processi alle intenzioni: “Non abbiamo investito emotivamente nella speranza che lui sia il prossimo Mark Zuckerberg. A noi interessa solo che sia felice”. E tuttavia…

A quell’età i compagni di classe possono essere crudeli verso i nerd, come vengono chiamati i secchioni troppo bravi in matematica e informatica. I B-movie di Hollywood con episodi di bullismo sono pieni di nerd umiliati da compagni più bravi nello sport o nel rimorchiare le ragazzine. Salvo ricredersi, quando arrivano a casa i primi assegni delle royalties? Nick D’Aloisio, che ha appena compiuto i 18 anni ma cominciò anche lui nella pre-adolescenza, l’anno scorso ha venduto a Yahoo per 30 milioni di dollari la sua app Summly, che offre una sintesi veloce delle principali notizie di attualità.

La giovane età comporta qualche limitazione legale, facilmente aggirabile. Per costituire una società bisogna essere maggiorenni, perciò alcuni di questi ragazzini intestano la propria azienda a genitori o nonni. Per definizione, i loro mestieri non conoscono frontiere: lo conferma la storia di Douglas Bumby (16 anni), la cui app JustGo! (cronometro per corridori) è già in vendita in tutti gli AppStore; Douglas che vive in Canada di recente si è trovato un partner agli antipodi, in Australia, il 17enne Jason Pan con cui hanno creato la società Apollo Research. E c’è il caso di Ahmed Fathi, un 15enne volato dall’Egitto alla Silicon Valley per partecipare alla conferenza degli inventori organizzata da Apple. Fathi ha imparato a programmare software e a creare app come autodidatta, seguendo un corso online su YouTube. Ha già inventato, brevettato e venduto ad Apple il suo Tweader, un’app che legge Twitter ad alta voce per chi sta guidando o pedalando in bicicletta.

Il filosofo francese Michel Serres, che insegna alla Stanford University in California, usa il personaggiodelle favole Petit Poucet, cioè Pollicino, per descrivere la generazione mutante dei “nativi digitali” i cui pollici prensili viaggiano alla velocità della luce sul display del telefonino. No country for old men, non è un mondo per vecchi, così hanno anche tradotto le teorie di Serres sul potenziale rivoluzionario di queste generazione. Ora anche i ventenni devono guardarsi alle spalle, incalzati da un’obsolescenza già in agguato.

link all’articolo




Le radio sfidano Apple: chi vince conquista milioni di smartphone

radioIN USA DUE NUOVI SERVIZI, TRA CUI I-TUNES, CREANO PALINSESTI AUTOMATICI BASATI SU ALGORITMI SU MISURA PER OGNI UTENTE. LE EMITTENTI RISPONDONO CON IL SISTEMA DIGITALE DAB+ CHE ASSICURA PIÙ QUALITÀ DI SUONO E NON BRUCIA BANDA COME LO STREAMING
Non l’hanno uccisa 60 anni di tv e non la ucciderà nemmeno Internet. Ma la “cara vecchia radio” sta affrontando un passaggio difficile. Nel mondo e anche in Italia. Nel mercato nordamericano, che da solo fa il 53% dei circa 34 miliardi di dollari di ricavi pubblicitari globali attratti dal più antico dei media elettronici, da due mesi è stato lanciato i-Tunes Radio e in poche settimane ha raccolto 20 milioni di utenti. non si tratta di utenti unici, va bene, e 9 su dieci continuano a ascoltare radio sui loro iPhone anche attraverso Spotify e Pandora, ma l’arrivo di Apple è un segnale importante e imprime un’accelerazione al mercato in una direzione che mette a rischio il core business stesso della radiofonia. Il lavoro di una stazione radio, come chiamiamo ancora per abitudine le emittenti, consiste nella produzione di contenuti audio in forma di palinsesti. Che poi questi palinsesti viaggino sulle tradizionali onde radio terrestri, onde medie, Fm o nel nuovo standard digitale Dab, oppure via satellite o via Internet non importa, da questo punto di vista. E’ un business che non è stato finora neanche intaccato in modo particolare da Spotify. La piattaforma svedese è infatti un social network a pagamento per distribuire musica. Si paga un canone mensile sui 10 dollari oppure vi si accede gratis ma con la presenza di pubblicità e con un sostanziale limite di file scaricabili. E comunque è solo musica. Anche i-Tunes radio per ora è solo musica, ma non è un social
network. Come un altro servizio Internet americano, Pandora, invia agli utenti non la lista delle canzoni che piacciono ai loro amici su Facebook, come Spotify, ma la musica che piace a ogni singolo utente. Questo almeno secondo i calcoli di un algoritmo che analizza gusti, scelte e abitudini di ognuno. Fin qui, ancora, nulla di nuovo: è una nicchia. Pandora ha il 7% di quota d’ascolto negli Usa. Nei primi sei mesi 2013 ha fatturato 233 milioni di dollari, tutti in pubblicità e con una crescita del 46%, ma ancora perde molti soldi. Ma il punto è che invece Apple ha promesso che non si limiterà alla musica e che presto aggiungerà anche le news, le previsioni del tempo e i talk i programmi di intrattenimento. Che non produrrà ma pescherà dalla Rete un po’ come Google News è fatto con le notizie dei media tradizionali. In questo modo ognuno avrà la sua “stazione radio” personalizzata automaticamente dall’algoritmo di Apple. Il massimo del risparmio di tempo perché il sistema scarta automaticamente ciò che ognuno di noi scarterebbe di persona o piuttosto una specie di Truman Show radiofonico? La partita è appena iniziata e l’esito non è affatto scontato in favore dei nuovi servizi (così come Google News non ha fagocitato i giornali online) ma per il mercato radiofonico è comunque il segnale che è ora di darsi una mossa. Perché è in forte ritardo sulla digitalizzazione, soprattutto in Europa. Negli Usa, che hanno il vantaggio di essere un unico mercato da 300 milioni di utenti la radio non è certo un mercato residuale. Due gruppi si dividono la fetta più grande del mercato. Uno è Clear Channel, una syndacation di distribuzione e gestione della pubblicità che raccoglie 840 stazioni radio Usa e altre 140 tra Australia e Nuova Zelanda, con un fatturato annuo di 1,5 miliardi di dollari. Clear Channel ha creato un nuovo marchio per Internet, si chiama i-Heart Radio e riunisce sul web ben 1500 stazioni radiofoniche, le versioni online di quelle via etere più un numero imprecisato di radio native online, che esistono cioè solo su Internet. Diverso invece l’approccio al mercato di Sirius Xm, che è una vera e propria pay radio. Si riceve unicamente da satellite e si rivolge soprattutto al pubblico di chi ascolta la radio in auto. Sirius ha 25 milioni di abbonati che pagano un canone tra i 14 e i 18 dollari al mese, a seconda della presenza o meno di spot (o un pacchetto annuo da 199 dollari) per un fatturato che nei primi 9 mesi del 2013 ha raggiunto i 2,8 miliardi di dollari. Le dimensioni e i risultati di Sirius Xm dicono che la vera sfida nella radio è la mobilità. Non solo perché la radio si ascolta prevalentemente in macchina (anche in Italia) ma soprattutto perché anche i giovani che ascoltano la radio via Internet lo fanno sempre più spesso in mobilità. E questo significa una cosa ben precisa: che la nuova frontiera del business radiofonico – ed è una frontiera globale, che vale su tutti i mercati, dalle Americhe, all’Europa, all’Asia – è una sola. Ossia come mettere la radio dentro gli smartphone (e in misura minore nelle tavolette). Visto dall’Italia il problema è stavolta uguale al resto d’Europa. «Oggi in Italia la penetrazione degli smart device è al 50%, vuol dire che la metà degli utenti può già potenzialmente ascoltare programmi radio in streaming attraverso le app del telefono. Nel 2017 arriverà al 95%», spiega Andrea Samaja, Consulting, partner di Pwc (Pricewaterhouse Coopers), che ha appena pubblicato le sue previsioni sul mercato globale di Entertainment & Media fino al 2017. Si tratta, per ora, di un utilizzo sporadico. Anche perché lo streaming radio, consuma parecchia banda e quindi gli utenti la usano con parsimonia. La soluzione sarebbe ovviamente quella di trasformare gli smartphone in radio. E possibilmente in radio digitale Dab+ che consentirebbe al settore, che è ancora analogico, di digitalizzarsi più in fretta. Gli operatori cellulari però non ne vogliono sapere perché sarebbe traffico sottratto alle loro reti. Esiste, per esempio, una versione del Samsung Galaxy 4 dotato di ricevitore Dab, ma è solo sul mercato coreano. Senza digitale la partita è problematica. La programmazione delle radio attuali e la loro distribuzione attraverso il caos delle frequenze Fm non sono sufficienti a riconquistare il pubblico giovanile e il rischio è di regalarlo tutto ai nuovi servizi Internet. «Il digitale può fare la differenza. Può ad esempio dare due driver nuovi per questa generazione, ossia il suono di qualità e l’arricchimento dei contenuti da offrire – aggiunge Samaja – ma finora le imprese radiofoniche hanno esitato ad investire sul digitale a causa di una doppia incertezza: sullo standard tecnologico e sui sistemi di misurazione degli ascolti». Se il settore riuscirà a risolvere questi due problemi, la sfida con Internet sarebbe tutt’altro che perduta.
Stefano Carli
link all’articolo