1

La Truffa dei Logan (Logan Lucky)

di Steven Soderbergh. Con Channing TatumAdam DriverRiley KeoughKatie HolmesHilary Swank USA 2017

West Virginia. L’operaio Jimmy Logan (Tatum), che lavora nei sotterranei del circuito automobilistico Charlotte Motor Speedway, viene licenziato perché è claudicante e non lo ha scritto nel modulo di assunzione. Lui è separato e adora la figlioletta Sadie (Farrah Mackenzie), che l’ambiziosa mamma Bobbie (Holmes) e il suo nuovo marito MoodyChapman (David Denman) hanno iscritto ad un concorso di bellezza infantile. Jimmy, che ha un passato di campione sportivo interrotto da un brutto incidente che gli ha leso la gamba, va a trovare il fratello Clyde (Driver) nel bar che gestisce; lui ha perso un braccio in Iraq ed è convinto che sulla loro famiglia gravi una maledizione. Si presenta al bancone MaxChilblain (Seth MacFarlane), ricco sponsor di un team di piloti sportivi, con due scagnozzi (Alex Ross e Tom Archdeacon) e si mette a sfottere Clyde, sfidandolo a fargli un cocktail con un braccio solo; quando Jimmy si ribella e i tre lo malmenano, Clyde si precipita fuori e, sotto lo sguardo dell’imperturbabile Earl (Charles Helford), incendia la macchina di Max. A casa Jimmy racconta al fratello di aver deciso di rapinare il circuito: lavorando nei sotterranei ha saputo che gli incassi vengono indirizzati in un caveau al quale lui sa come accedere. Clyde – pur certo che la iella dei Logan farà andare qualcosa storto – accetta e anche loro sorella, la parrucchiera Mellie (Keough)sarà della partita. Ci vuole però un rapinatore espertoper aprire il caveau e i due fratelli vanno a trovare in carcere il leggendario Joe Bang (Daniel Craig); lui sulle prime ride loro in faccia (l’idea è che lui evada, faccia il colpo e rientri subito in carcere) ma – quando loro gli rivelano che la sua ex-moglie ha rubato il malloppo dell’ultima rapina ed è fuggita con un altro – accetta, ponendo come condizione che al colpo partecipino pure i suoi imbranati fratelli, Sam (Brian Gleeson) e Fish (Jack Quaid). Clyde sfonda la vetrina di un negozio con l’auto e il giudice (Daniel Jones) lo condanna a 90 giorni da scontare nel carcere di Joe, dove – grazie al suo stato di reduce – ottiene di svolgere lavori di pulizia che gli consentono di girare per la prigione. Joe- dopo essersi accordato con il duro Naaman (John Eyez) – finge un malore e si fa ricoverare in infermeria, qui Clyde lo accompagna nel bagno, da cui insieme evadono mentre Naaman campeggia una rivolta, concentrando l’attenzione del direttore Warden Burns (Dwight Yoakam) e dei secondini. Sam e Fish fanno saltare la centrale che dà energia alle casse del circuito, costringendo i cassieri e i gestori dei chioschi di bibite ad accettare solo contanti. A Glemma (AnnMahoney), un impiegata della banca che gestisce i passaggi del denaro dello Speedway, arriva una torta di compleanno piena di blatte, così che i nostri, mescolandosi con i disinfestatori, possano invertire la direzione di marcia dei soldi. Mellie, che è andata a prendere i due temporanei evasi, li porta in tempo alle gallerie correndo a 180 all’ora, perché con una finta denuncia ha dirottato gli agenti della stradale su una innocua vecchietta (Rebecca Coon). Il colpo riesce con qualche contrattempo: a Clyde viene risucchiata la protesi, il cancelletto di uscita è difettoso e, infine, Clyde e Joe, nell’uscire, incontrano Max che sta litigando con il pilota Dayton White (Sebastian Stan) e lo atterrano. Poi, grazie ad un finto incendio appiccato da Naaman, travestendosi da pompieri rientrano in carcere.  Jimmy – che, intanto ha conosciuto l’operatrice sanitaria volontaria Sylvia Harrison (KatherineWaterstone) e se ne è innamorato – si precipita, trafelato con la sorella al concorso, dove Sadie (truccata pesantemente) deve esibirsi e lei, quando vede il padre, anziché la prevista –ed allusiva – Umbrella di Rihanna, canta il brano preferito da lui: Take Me Home, Country Roads. Sul colpo indagano due agenti F.B.I., la pertinace Sarah Grayson (Swank) e l’agente Brad Noonan (Macon Blair) ma Jimmy la refurtiva l’aveva fatta trovare in un furgoncino abbandonato….

La vulgata ufficiale del film vuole che, Clarissa Blunt; un’amica della moglie di Soderbergh Jules Asner, fresca di studi come script-writerle abbia dato la sceneggiatura del film e che il regista,leggendola,  entusiasmandosi e avendo avuto la convinta adesione di Tatum per questa sorta di Ocean’sproletario, abbia deciso di recedere dall’impegno (preso qualche tempo fa)  di smettere di fare film. Nessuno però ha mai visto la Blunt, che sembra viva da qualche parte a New York e allora sono nate alcune ipotesi: che la scrittrice misteriosa sia la stessa Asner o il suo partner, il comico John Henson, (entrambi noti volti televisivi ma poco spendibili per un progetto cinematografico) o che la scrittura sia dello stesso Soderbergh, non nuovo al vezzo di celarsi in pseudonimi (per il suoMagic Mike XXL ha curato fotografia e montaggio, firmandosi con i nomi dei suoi genitori). Chiunque l’abbia scritto, il plot funziona e – a parte la trovata del colpo operato da evasi, preso dal vecchio Un alibi troppo perfetto con Peter Sellers – il meccanismo di apparenti coincidenze ed errori che sono tutti funzionali alla riuscita del furto è quello rodato dei suoi Ocean’s. Le musiche poi – tutte perfettamente country, con le due chicche di LeAnnRimes che canta America The Beautiful all’inaugurazione e della commovente performance della bambina sul brano di Johnny Denver – sono un bel momento nel racconto (è possibile che Sodebergh abbia avuto in mente la meravigliosa sequenza in cui Sammy Davis jr canta Eee-O- 11 con un coro di netturbini, che ha reso immortale il primo Ocean’s 11 del 1960). Nel film sembra esserci tutto: uno script ben oliato, un regista eclettico, un gran cast (con l’emergente Driver in stato di grazia), pure non tutto gira nel verso giusto e quello che manca sono i soldi: i tre Ocean’ssono costati 85.000.000 $ ciascuno, questo 29.000.000. Ora, scontando che Tatum e Craig – come spesso gli attori americani fanno quando un copione li convince – abbiano lavorato in caratura (cioè con una paga molto più bassa dei lo standard e una cointeressenza nei ricavi), rimane un budget molto basso per il tipo di storia che viene raccontata. Gli incassi, in patria ed all’estero sono proporzionali all’investimento, per cui l’operazione non può certo dirsi fallimentare. Alla fine, tutti – anche noi – si sono divertiti e nessuno si è fatto male.




Deadpool 2

di David Leitch. Con Ryan ReynoldsJosh BrolinZazie BeetzJulian DennisonMorena Baccarin   USA 2018

Wade Wilson/Deadpool (Reynolds) – sempre dotato dei superpoteri che lo rendono invulnerabile-  ora è un giustiziere a tempo pieno e sgomina da solo temibili bande di fuorilegge in ogni parte del mondo; un giorno, però, gli sfugge Sergei Valishinkov (Thayr Harris), il capo del più potente cartello di spaccio a Los Angeles, che lo aggredisce a casa mentre lui sta decidendo con Vanessa (Baccarin) di fare un figlio; durante il conflitto una pallottola, da lui deviata, colpisce a morte la donna. Wade insegue Sergei e, abbracciandolo, si fa investire da un camion e lo uccide. Più tardi Deadpool – in preda ai sensi di colpa per aver involontariamente causato la morte dell’amata – cerca di suicidarsi sdraiandosi nel suo appartamento sopra un mucchio di barili di benzina che fa esplodere. Nel coma che segue vede Vanessa ma non la può raggiungere “perché -, lei gli dice – “il suo cuore non è nel posto giusto”. Arriva Colosso (Andrè Tricoteux) e porta i pezzi di Wade in un sacco nella sede degli X-Men, dove lo ricompone e lo convince ad arruolarsi coi mutanti. La sua prima missione è quella di recarsi – insieme a Colosso, a Testata Mutante Negasonica (Brianna Hildebrand) e alla fidanzata di lei Yukio (Shioli Kutsuna) – all’orfanotrofio dei mutanti, dove il quattordicenne Russell Collin/Firefist (Dennison), che emana un fuoco potentissimo dalle mani, minaccia di uccidere il preside (Eddie Marsan). Wade – come X-Man (sia pur “stagista”) – non deve uccidere nessuno ma quando, scopre che il direttore e il personale hanno abusato del ragazzo, spara ad un infermiere (Nicolai Witsch), particolarmente crudele e blocca Russell ma Colosso fa arrestare anche lui per l’omicidio ed entrambi vengono portati nella Prigione di Ghiaccio (carcere speciale per mutanti) con un collare che blocca i loro superpoteri. Qui Deadpool, che senza poteri è di nuovo in preda al cancro, cerca di proteggere il ragazzo ma, nel contempo, sentendosi troppo debole, lo allontana da sé, invitandolo a cercarsi un amico più forte. Intanto, nel futuro, il mutante cibernetico Cable (Brolin), al quale – apprenderemo –   Firefist adulto ha ucciso moglie (HaYley Sales) e figlioletta (Islie Irvonen), si arma fino ai denti e, con un salto nel tempo, assalta il carcere per uccidere Russell e salvare così la propria famiglia.  Deadpool, combattendo per salvare il ragazzo perde il collare, trascina Cable all’esterno della prigione e, durante la caduta, ha un’altra visione di Vanessa che lo invita a proteggere il ragazzo per ritrovare il proprio cuore. Wade, allora, con l’aiuto del suo amico Weasel (T.J. Miller) mette insieme una squadra di mutanti: la X-Force – formata dalla fortunatissima Domino (Beetz), dal manipolatore di energia Bedlam (Terry Crews), dal guerriero Shatterstar (Lewis Tan), dall’alieno sputa-acido Zeitgeist (Bill Skarsgaard), dall’invisibile Svanitore (Brad Pitt) e dal normale umano ma impavido Peter (Rob Delaney). Con loro di prepara ad attaccare il convoglio sul quale che i reclusi della Prigione di Ghiaccio – resa inagibile dall’attacco di Cable – sono trasferiti, in celle blindate, per liberare Russell, il quale, nel frattempo, ha stretto amicizia con il gigantesco Fenomeno (Reynolds). Deadpool e i suoi arrivano in volo ma, quando si paracadutano sulla prigione viaggiante, solo lui e Domino rimangono vivi mentre gli altri periscono in spettacolari incidenti. Cable ha avuto la stessa idea e l’assalto al convoglio si trasforma in un combattimento tra lui, Deadpool, Domino, i secondini e i detenuti; durante il combattimento Russell e Fenomeno si liberano e – dopo che il gigante ha diviso in due Deapool – fuggono con l’intento di uccidere il preside. Wade va dalla sua amica cieca Blind Al (Leslie Uggams) ad attendere che gli ricresca la parte inferiore del corpo e qui viene raggiunto da Domino e da Cable, che gli propone di combattere insieme Fenomeno e Firefist, Deadpool accetta ma chiede di poter tentare di convincere il ragazzo a non uccidere il direttore (quel primo delitto lo avvierebbe al destino di odio che, da adulto, sfocerebbe nell’uccisione della moglie e della figlia di Cable; se evitato, la famiglia del cibermutante si salverebbe).  Arrivati all’orfanotrofio sul taxi di Dopinder (Karan Soni), i tre non sembrano farcela contro il potentissimo Fenomeno ma arrivano in soccorso Colosso, Testata Mutante Negasonica e Yukio, e il gigante viene sconfitto. Deadpool, per convincere Russell delle sue buone intenzioni si mette il collare inibitore ma il ragazzo è troppo arrabbiato per ragionare e Cable gli spara; Deadpool, con un ultimo salto acrobatico, prende lui la pallottola al cuore e muore felice di potersi ricongiungere con Vanessa ma questa gli dice che non è ancora il suo momento; infatti Cable – che ha assistito al pentimento di Russell di fronte al sacrificio dell’amico – usa l’ultima carica, che gli consentirebbe di tornare  dalla famiglia ormai salva, per tornare indietro e proteggere il cuore di Wade con il gettone portafortuna che gli aveva sottratto. Ad uccidere il perfido preside provvederà, investendolo con il taxi, Dopinder, che da tempo voleva essere parte di una missione sanguinaria.

David Leitch nasce come stuntman e in questa veste ha partecipato a decine dei film action più importanti degli ultimi vent’anni (Blade, The Mexican, Spy game, Troy, Ocean’s Eleven, S.W.A.T, Matrix Revolution, Troy, XXX2, Bourne- Ultimatum, Conan The Barbarian, Hansel e Gretel, Tartarughe Ninja), in alcuni dei quali ha anche recitato (nel cinema americano, a parte Burt Lancaster, acrobata di circo e cascatore agli esordi, non si registrano molti casi di passaggi tra i due ruoli; in Italia sono noti i casi di Fabio Testi,  di Giuliano Gemma, più di recente di Alessandro Borghi e del meno conosciuto Giovanni Cianfriglia, controfigura di vari Ercole e Maciste,  al quale il regista Maurizio Lucidi – per l’occasione rinominatosi Maurice Bright – per ragioni di budget diede il ruolo di avversario di Ercole/Reg Park nell’abborracciato peplum La sfida dei giganti, aprendogli una piccola strada di forzuto in alcuni B-movies). Insieme all’amico Chad Stahelski, Leitch prima fonda la 87Eleven, società di coordinamento di stuntmen, poi dirige John Wick.  In seguito cura da solo la regia di Una bionda esplosiva con Charlize Theron e i primi due successi gli valgono la direzione di questo sequel, che peraltro mantiene, anzi migliora il tono (e, dai primi segnali, la performance al botteghino) del precedente. Come scrivevamo a proposito del primo Deadpool, ci troviamo di fronte ad una scommessa che era stata vinta prima con il fumetto e poi sullo schermo: quello di un supereroe sboccato (qui, ad esempio, come ultimo desiderio prima di morire chiede al pudico Colosso di dire “cazzo”) e violento. Proprio l’assoluta scorrettezza del personaggio consente di tenere in piedi una ironia costante – uno dei maggiori punti di forza della produzione Marvel – che contrappunta anche i momenti più drammatici (anche il pressbook del film si apre con uno sberleffo ai critici, ai quali il volumetto è rivolto, che sono descritti come frequentatori di “seminari che insegnano ad evitare il lavoro vero”), esasperandola con efficacia. E’ però l’esperienza di stuntman di Leitch a fare la differenza con il precedente: le acrobazie delle scene d’azione (non a caso due salti mortali di Deadpool segnano i momenti topici del film) sono una specie di piacevole balletto che, da un lato, valorizza ma, dall’altro, alleggerisce, la violenza delle situazione. Gli attori – Reynolds e Brolin in testa – sono bravissimi e del cicciottello australiano Dennison sentiremo ancora parlare. I titoli di coda sono alternati a scene dichiaratamente autoironiche del protagonista /produttore Ryan Reynolds e ci fanno sapere che – grazie alla macchina del tempo – Vanessa è salva e la ritroveremo nel prossimo sequel. Lo aspettiamo, non dico frementi ma un po’golosi.




Dopo la guerra

di Annarita Zambrano. Con Giuseppe BattistonBarbora BobulovaCharlotte CétaireFabrizio FerracaneElisabetta Piccolomini  Francia – Italia 2017

Nel 2002 il giuslavorista Marini (Ermanno Casari), convinto assertore della revisione dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, dopo una forte contestazione da parte dei suoi studenti, all’uscita dall’Università di Bologna viene ucciso da un ragazzo (Matteo Ali) coperto da un casco. L’omicidio viene rivendicato dal Movimento di Azione Rivoluzionaria, una formazione terroristica di sinistra, attiva negli anni di piombo, uno dei cui fondatori – Marco Lamberti (Battiston) – è da tempo rifugiato a Parigi; l’attentato però, fa decidere il governo francese (che vent’anni prima, con Mitterand, aveva concesso asilo a molti terroristi) a rivedere le proprie posizioni e a concederne l’estradizione (lui in Italia era stato condannato all’ergastolo per l’uccisione di un giudice). Lamberti va a prendere la figlia Viola (Cétaire) durante una partita di palla a volo e, mettendole in uno zaino alla rinfusa indumenti presi a caso, scappa con lei in una casa abbandonata di campagna. In un officina nelle vicinanze va da Jerome (Jean-Marc Barr), un ex-compagno che si impegna a procurargli i passaporti falsi ed un imbarco per il Sud America, qui Viola conosce un ragazzo, Mathias (Cyann Lalot), con il quale scambia qualche parola, suscitando una reazione allarmata nel padre. Intanto, in Italia Anna (Boboulova), la sorella di Marco, insegnante di Lettere e moglie del magistrato di sinistra Riccardo (Ferracane), subisce varie conseguenze di questa situazione: la madre, Teresa (Piccolomini) deve trasferirsi da lei perché le arrivano anonime telefonate e ingiunzioni minacciose; il marito, che sta per essere promosso Procuratore Generale, deve rinunciare, a causa dell’imbarazzante parentela; la loro figlioletta Bianca (Carolina Lanzoni), che avverte il clima pesante in casa, durante un saggio di ginnastica dà una spintone a un’amichetta; lei stessa viene “convinta” dal Preside a prendere tre mesi di aspettativa. Viola – che ha continui scontri con il padre che sente incomprensivo e concentrato solo sui propri problemi – in un emporio trova una rivista che ospita un lungo articolo sul padre dal quale apprende del suo omicidio. Da una successiva intervista con una giornalista di sinistra, Marianna (Marilyne Canto), oltre a venire a sapere che il fratello più giovane del padre era morto accanto a lui in uno scontro armato con la polizia, sente come Marco si consideri un esule che ha perso la guerra, senza alcun pentimento e alcuna compassione per quanti hanno sofferto per le sue azioni (come il bambino di otto anni del giudice ucciso che era con il papà mentre Marco lo assassinava). Da Marianne sa – il padre glielo aveva nascosto – che stanno per partire per il Sud America, per restarvi per sempre; sconvolta, scappa di notte ma, all’alba, sola e disperata, fa ritorno. Il giorno prima della partenza Viola va a prendere i documenti da Jerome ma, prima di rientrare, va ad una festa in spiaggia con Mathias. Il padre la trova e, quando lei gli dice di aver lasciato lo zaino con i passaporti, si infuria; lo cercano disperatamente e, alla fine, lo trovano ma….

Sono passati vent’anni dal film d’esordio di Marco Turco Vite sospese che, per la prima volta, affrontava il tema dei terroristi italiani rifugiati in Francia e si vede: non solo nel 1998 la legge Mitterand era in pieno vigore ma l’approccio era assai diverso: aleggiava in quel film una sorta di comprensione e di vicinanza con quel milieu che non appartiene alla pur gauchiste Zambrano, anche lei esordiente nel lungometraggio con alle spalle un bel palmarès di premi per i suoi precedenti corti e documentari (Tre ore, A’ la lune montante, L’anima del Gattopardo). Dopo la guerra, scelto dai selezionatori della sezione Un certain regard, sceglie di non entrare nel merito ideologico delle vicende – i richiami al delitto Biagi e, forse, alle vicende del brigatista Persichetti sono appena un punto fermo per far iniziare il racconto – ma di raccontare della devastazione che scelte estreme possono portare nelle vite di altri ed il tema è svolto con tale partecipazione da travalicare l’argomento terrorismo per entrare nel discorso ben più universale del dramma di ciascuno di fronte all’insondabile enormità di gesti definitivi che non ha voluto, né praticato. Battiston, per una volta lontano dagli schemi del grasso simpatico ed imbranato, è efficacissimo nel rendere palese come le spigolosità egocentriche e tragicamente infantili – nutrite di slogan vacui e di banalità da ciclostile studentesco –  di Marco deflagrino tragicamente nelle vite di chiunque gli sia vicino; notevole la prova della Boboulova ma soprattutto è da segnalare la dolorosa adolescenza dell’esordiente Cétaire. Questi risultati sono dovuti in gran parte anche alla solida mano di regia della Zambrano, che ha potuto contare per il suo esordio, oltre alla maggioritaria produzione francese, sulla bella qualità produttiva della Movimento di Mario Mazzarotto, uno dei pochi produttori italiani di opere d’impegno culturale (tra i recenti: Banat, A Blast, Redemption song) che sappiano scegliere titoli sempre interessanti e portarli a termine con vero, solido mestiere. Fa piacere, nel consigliare il film non facile ma coinvolgente, poter sottolineare anche la qualità della produzione, in un panorama critico che – miopemente – si ferma a valutare dei film autore e contenuti: nel cinema la produzione e l’uso intelligente dei fondi sono parte creativa alla pari di tutte le altre componenti poetiche e spesso – anche nel legiferare – ci se ne dimentica.

 




Avengers: Infinity War

di Joe RussoAnthony Russo. Con Robert Downey Jr.Chris HemsworthMark RuffaloChris EvansScarlett Johansson USA 2018

La nave spaziale con a bordo Thor (Hemsworth), Bruce Banner/Hulk (Ruffalo) e Loki (Tom Hiddleston) viene assalita dalla Q-Ship, di Thanos (Josh Brolin), il re titano dell’Ordine Nero e nello scontro ha la peggio. Heimdall (Idris Elba) giace ferito, Loki è tenuto sotto tiro da Proxima Media Nox (Carrie Coon) e Thor è alla mercé di Thanos, che, minacciando di ucciderlo, costringe Loki a consegnargli Il Tesseract, il contenitore di una delle sei Gemme dell’Infinito, che, se messe insieme, rendono il possessore invincibile; mentre il titano si infila in un guanto la Gemma, Hulk gli giunge alle sue spalle ma Thanos lo atterra e sta per finirlo quando Heidmall riesce a salvarlo, scagliandolo sulla Terra, venendo subito dopo ucciso.  Il disegno di Thanos è di raccogliere tutte e sei le Gemme (ora ne ha due) per invadere la Terra e – come ha fatto con molti altri pianeti – decimarne metà della popolazione (lui è convinto di dover compiere questa missione per salvare l’Universo dalla carestie e dalla fame) Loki – da conoscitore del pianeta – si offre di guidarlo ma quando si avvicina per siglare il patto con una stretta di mano, tenta di ucciderlo e Thanos lo strangola poi riparte con i suoi lasciando Thor semimorto nello spazio. Banner è caduto nella dimora del Dottor Strange (Benedict Cumberbatch) e avverte lui e Wong (Benedict Wong) della prossima invasione; Strange si manifesta a Tony Stark (Downey jr.) – che stava cercando di persuadere la moglie Pepper Potts (Gwyneth Paltrow) ad avere un bambino – e lo convince a seguirlo. Poco dopo da una nave spaziale scendono lo stregone Fauce d’Ebano (Tom Vaughan Lawlor) e il gigantesco Astro Nero (Terry Notary) che attaccano Strange, Wong e Iron Man, ai quali si unisce Spiderman (Tom Holland), mentre Banner non riesce a trasformarsi in Hulk. L’obiettivo dell’attacco è l’Occhio di Agamotto (una delle Gemme) custodito su di sé da Strange, che alla fine della battaglia viene catturato e portato a bordo della nave nemica. Mentre Banner cerca di contattare Steve Rogers/Capitan America (Evans), Iron Man e Spider-Man volano sulla nave nemica e riescono a liberare Stange. Wanda Maximoff/Scarlet (Elizabeth Olsen) e Visione (Paul Bettany), che si sono ritirati ad Edimburgo per vivere il loro amore, vengono attaccati da Proxima Media Nox e Gamma Corvi (Michael James Shaw), che cercano di strapparela Gemma della Mente dalla fronte di Visione (ferendolo gravemente) ma l’arrivo di Captain America, Natasha Romanoff/Vedova Nera (Scarlett Johansson) e Sam Wilson/Falcon (Anthony Mackie), costringe gli assalitori alla ritirata. I 5 Avengers vanno al Quartier Generale dove l’Ufficiale James Rhodes/War Macchine (Don Cheadle), che è stato raggiunto ed aggiornato da Banner, è a colloquio con l’ologramma del Segretario di Stato Ross (William Hurt); alla richiesta di questi di arrestare i ribelli (vedi: Captain America: Civil war), James reagisce facendone sparire l’immagine e concordando con i Vendicatori di andare a Wakanda per far curare Visione e chiedere aiuto a T’Challa/Balck Panther (Chadwick Boseman). Nello spazio profondo Thor viene raccolto e curato dai Guardiani della Galassia, i quali, quando apprendono il piano di Thanos – patrigno feroce ed odiato di Gamora (Zoe Saldana) – decidono di entrare in azione, dividendosi: Thor, Rocket e Groot vanno a Nidavellir abitato dai Nani, – i costruttori del Mjolnir e di tutte le armi ascardiane – per farsi confezionare un nuovo Martello, mentre Peter Quill/Star-Lord (Chris Pratt), Gamora, Drax (Dave Bautista) e Mantis (Pom Klementieff) si recano a Ovunque, dove  il Collezionista (Benicio Del Toro) conserva la Gemma della Realtà ma  quando arrivano trovano Thanos che ha già preso la gemma e che – dopo un breve impari lotta (le gemme lo rendono fortissimo) – cattura Gamora e la porta sulla Q-Ship. Qui è in ceppi anche l’altra sua figliastra Nebula (Karen Gillan), che viene torturata finché la sorella non rivela la posizione (di cui è segretamente a conoscenza) della Gemma dell’Anima: il pianeta Vormir. Thanos vi conduce Gamora e li accoglie Teschio Rosso (Hugo Weaving), l’ex SS nemico di Captain America, che spiega a Thanos che per ottenere la Gemma dovrà sacrificare una persona amata e lui, pur piangendo in un attimo di umanità, la uccide. Intanto su Nidavellir, ridotto dal recente passaggio di Thanos ad ammasso di rovine, Eitri (Peter Dinklage), l’unico dei Nani rimasto in vita, racconta come il titano li abbia costretti a forgiare il Guanto dell’Infinito, che raccoglie le Gemme, per poi spegnere la fucina e uccidere tutti gli altri Nani. Thor riesce a riaccendere la stella che alimenta il sistema ed Eitri gli forgia la nuova arma: l’ascia Stormbreaker.  Tony Stark, Peter Parker e Stephen Strange raggiungono Titano, il pianeta natale di Thanos, qui trovano i Guardiani della Galassia reduci dallo scontro a Ovunque e decidono di affrontare insieme Thanos; Doctor Strange, in una delle sue meditazioni, scopre che solo uno dei futuri possibili – fra i quattordici milioni che gli sono apparsi -potrà portare gli Avengers alla vittoria. Intanto Capitan America e gli altri arrivano a Wakanda dove si riuniscono a Bucky Barnes/Soldato d’Inverno e Black Panther: Visione viene portato di tutta fretta nel laboratorio di Shuri (Letitia Wright), la sorella di T’Challa, l’unica che può estrargli, senza ucciderlo, la Gemma dalla fronte, perché sia distrutta prima che Thanos se ne impadronisca. Mentre la delicata operazione chirurgica è in corso, giungono le navi degli eserciti di Outriders – l’esercito di Thanos –  guidati da Proxima Media Nox, Gamma Corvi e Astro Nero e incomincia un’epica battaglia. La comandante dell’esercito di Wakanda, Okoye (Danai Gurira), Vedova Nera e Scarlet uccidono Proxima, Bruce Banner, grazie all’armatura Hulkbuster sconfigge Astro Nero e Gamma Covi cerca Visione ma, quando sta per raggiungerlo, viene ucciso da Shuri. Intanto su Titano è arrivato Thanos che, colto di sorpresa viene catturato dai supereroi e tenuto fermo da Mantis ma quando questa comunica agli altri di percepirne il dolore per aver ucciso la figlia, Peter Quill, folle di rabbia, gli si scaglia contro e il titano, nella lotta riesce a ferire gravemente Tony Stark e minaccia di ucciderlo se non gli verrà consegnata la Gemma del Tempo e Strange, sicuro di ciò che aveva visto durante la meditazione, gliela consegna. A Wakanda arrivano anche Rocket, Groot e Thor che, con il suo nuovo martello, dà un contributo decisivo alla sconfitta degli Outriders ma giunge Thanos, alla ricerca dell’ultima Gemma e le sorti del combattimento si ribaltano. Wanda, disperata, per salvare metà della razza umana, distrugge la Gemma della Mente, sfaldando così anche il corpo di Visione ma il titano grazie all’Occhio di Agamotto ne ricompone le spoglie e gli estrae la Gemma, ottenendo l’Onnipotenza (neanche l’ascia che Thor gli scaglia lo può distruggere). Ora Thanos si è trasportato da un portale su Titano e contempla il nuovo ordine che è convinto da aver dato all’Universo. Poco dopo Bucky, Groot, Quill, Spider-Man, Strange, T’Challa, Falcon, Drax e Scarlet si dissolvono e, dopo i titoli di coda, vediamo Maria Hill (Coby Smulders) e Nick Fury (Samuel L.Jackson) a New York dissolversi a loro volta ma Nick ha fatto in tempo a mandare un SOS a Captain America.

Complicato remake di ben quattro film già complessi di loro: Guardiani della Galassia 2, Captain America: Civil War, Thor: Ragnarok e Black Panther, Avengers: Infinity War è una macchina narrativa pressochè perfetta, che non perde mai il filo del racconto. C’è sicuramento un gran lavoro degli sceneggiatori Christopher Markus e Stephen McFeely (autori della trilogia Cronache di Narnia e degli ultimi Captain America) ma si sent, anche, la geniale mano del vecchio Jack Kirby, ideatore ed autore dei più riusciti personaggi dei fumetti Marvel: lui è abituato da sempre a seguire, albo dopo albo, le tracce di mille storie diverse ed a contaminare con personaggi di altre saghe le avventure dei suoi supereroi. Questi film – a partire dal primo fastoso Avengers – sono, a mio avviso, destinati a rimanere nella storia del cinema, come una sorta di western moderni; certamente la loro epicità (inevitabilmente meccanica) non potrà mai eguagliare la grandezza del mondo – anch’esso, peraltro, ricostruito sulla carta (“Se il pubblico vuole la leggenda, tu stampa la leggenda” diceva un personaggio de L’uomo che uccise Liberty Valance) – di John Ford. Gli ingredienti sono quelli giusti: due professionisti di genere alla regia, un cast svuota Hollywood, effetti efficacissimi e, soprattutto, la deliziosa ironia che contrappunta, dal tempo dei primi fumetti, anche le situazioni di maggior tensione nella produzione di Stan Lee. Dulcis in fundo, la trovata geniale di far finire con una strage di eroi la prima parte del film (il sequel è atteso nel 2019): ho sentito decine di ragazzi all’uscita lambiccarsi, già in attesa del prossimo episodio. That’s entertainment recitava il titolo di due film di montaggio di qualche anno fa. Sottoscrivo: questo è il cinema di intrattenimento!

 




Molly’s Game

di Aaron Sorkin. Con Jessica ChastainIdris ElbaKevin CostnerMichael CeraJeremy Strong   USA 2017

Molly Bloom (Chastain) è un’ex giovane promessa dello sci ma, dopo anni di dura preparazione sotto la severa guida del padre Larry (Costner) rigido psicoterapeuta, al momento della qualificazione per le Olimpiadi, un rametto sulla pista l’aveva messa fuori gioco. Trasferitasi a Los Angeles, si era mantenuta agli studi, facendo la cameriera in hot-pants in un bar alla moda. Qui conosce Dean Keith (Strong), un intrallazzatore che, vedendola particolarmente abile nel far consumare bevande costose agli avventori, la assume come segretaria e, dopo poco, la mette a parte del suo business: organizza serate di poker con giocatori famosi e la porta con sè come segretaria ed organizzatrice delle partite, alle quali partecipano uomini d’affari, assi dello sport, registi e attori famosi – in particolare un tal Player X (Cera), star di Hollywood, grande giocatore e anima delle serate. Dean, che a sua volta gioca e perde, la mette di fronte ad un aut-aut: lei guadagna ottime mance dai giocatori e, quindi, se vuole continuare dovrà fargli da segretaria per il resto di settimana senza stipendio. Lei lo manda all’inferno e decide di organizzarsi per conto proprio: d’accordo con Palyer X organizza un tavolo alternativo. Poco dopo, consapevole che i grandi capitali sono a New York, si sposta lì; affitta una suite al Plaza, alza la posta di ingresso da 10.000 a 250.000 dollari, assume come assistenti di sala delle top model (Natalie Krill, Stephanie Harfield e Madison McKinley) che, quali habitué dei parti più esclusivi, hanno anche il compito di spargere la voce tra giocatori ricchissimi e, come croupier, l’affascinante e disinvolta B (Angela Goats). Al suo tavolo non manca di arrivare X, con il suo seguito di star del cinema e dello sport e gli affari procedono bene. Tra i giocatori abituali ci sono l’eterno perdente Brad (Brian d’Arcy James), il prudentissimo e sempre vincente Harlan (Bill Camp) e Douglas Downey (Chris O’Dwod), alcolista e innamorato di Molly. Gli affari vanno benissimo – lei ormai gestisce tre bische – ma per reggere il ritmo e lo stress, Molly è sempre più dipendente da droghe. Una sera il compassato Harlan, perde una mano a causa di un bluff di Brad (l’unico che gli sia mai riuscito!) e, infuriato, gioca somme sempre più alte, nell’illusione di rifarsi, fino a perdere 1.200.000 dollari (questo gli costerà il lavoro e il matrimonio); Molly è preoccupata per il grosso debito del quale dovrà rispondere ma una settimana dopo Harlan arriva con un assegno per l’intera somma. B. la convince a prendere una percentuale sulle giocate (pratica illegale negli Stati Uniti) e X getta la maschera: lui gestisce alcuni dei giocatori dai quali ricava il 50% sulle vincite (suoi sono i soldi con i quali Harlan ha coperto il debito) e lei dovrà accettare al tavolo quelli che lui le indica: arrivano così dei non meglio identificati ebrei russi – tra i quali Shelly Habib (Jon Bass) che si presenta con Matisse come garanzia – che giocano forte e pagano senza difficoltà. Per accontentare il suo autista (anche guardia del corpo e confidente) Donnie (Jeff Kassel) lei accetta di incontrare due sedicenti uomini d’affari, John G (Jason Weiberg) e Bobby (Matthew D.Matteo), che in realtà sono due mafiosi che, minacciandola, le offrono protezione. Molly se ne libera ma, rientrata in casa, viene aggredita, derubata di 2 milioni e di vari gioielli e pestata a sangue dal loro boss (Frank Falcone). Dopo due settimane chiusa i casa per guarire dalle ferite – non può certo chiamare la polizia – è pronta a tornare ma una telefonata di Douglas la mette in allarme: lui, ex-bancarottiere, ha accettato di fare l’informatore per l’F.B.I. e ha raccontato degli ambigui clienti della sala da gioco. Come se non bastasse, anche Brad – che vendeva per milioni titoli fasulli alle persone con le quali, volutamente, perdeva al gioco – messo sotto torchio dai federali fa il suo nome. Molly cerca la fuga ma un plotone di agenti dell’F.B.I., armi in pugno, l’arresta e le sequestra tutti i beni, circa 4,5 milioni di dollari. Lei, libera su cauzione, per campare scrive un libro sulle sue vicende, Molly’s Game, nel quale però rivela pochissimo per non compromettere i suoi ex clienti. L’attende un processo con gravi imputazioni (l’accusano, tra l’altro, di essere collusa con la mafia russa) e lei va dal famoso avvocato Charlie Jaffey (Elba) e – aiutata dalla bambina di lui, Stella (Whitney Peak), che ha letto il libro e ne ammira la determinazione – lo convince a difenderla. Partecipa a un drammatico incontro con il Pubblico Ministero David Sagen (Dan Lett), nel quale Jaffey cerca di convincerlo a lasciar cadere le accuse più gravi, ottenendo la richiesta di un colloquio riservato. Molly viene fatta uscire e lei, per placare la tensione, va a pattinare sul ghiaccio; qui viene raggiunta dal padre – non lo vedeva da quando, anni prima, a causa delle sue infedeltà, si era separato dalla madre (Claire Rankin) – che, in una sorta di psicoterapia lampo, la rassicura sul suo amore ed il suo appoggio. Molly, rafforzata da questo incontro, quando Charley cerca di convincerla ad accettare l’accordo che lui ha raggiunto con il P.M. – in cambio dei file e delle cassette di tutte le partite giocata nei suoi locali, lui farà cadere le accuse e le farà restituire tutte i soldi confiscati – rifiuta nettamente: non rovinerà la vita di tante persone che avevano avuto fiducia in lei. Una pesante condanna sembra inevitabile ma il giudice (Graham Greene), che ha capito che lei era stata incastrata, sostanzialmente innocente, per carpirle in modo ricattatorio rivelazioni, la lascia libera con una multa e qualche mese ai servizi sociali.

Sorkin è alla sua prima regia ed ha un passato di ottimo sceneggiatore ed autore teatrale (da un suo dramma è tratto il primo film a cui ha partecipato, Codice d’onore), tra gli altri ha firmato gli script di The rock, The social network, L’arte di vincere e Steve Jobs e la scrittura di Molly’s Game – con il suo andamento ondivago nel tempo – è un meccanismo quasi perfetto. Il “quasi” nasce, in parte, dal paragone inevitabile con i grandi film sul gioco d’azzardo, quali California poker, Casinò, Il grande peccatore (da Il giocatore di Dostoevskij), Atlantic city, E io mi gioco la bambina, L’uomo dal braccio d’oro e, in particolare, Cincinnati Kid nel quale la partita finale di poker è, di per sé, elemento di tensione e suspense. In Molly’s Game questo non c’è: le partite sono raccontate all’essenziale e il pittoresco bestiario dei giocatori d’azzardo è appena accennato, solo in funzione delle disavventure realmente vissute da Molly, tanto che – quasi a giustificazione – gli spietati meccanismi del grande azzardo sono visti come un esempio della più generale disumanità del mondo degli affari (più o meno puliti) e non come un’occasione drammaturgica in sé. E’ assai probabile che la reticenza dell’autrice/protagonista delle vicende (per fare un esempio, Player X sembra sia Tobey Maguire  ma nel libro e nel film è tutto appena alluso) si sia riverberata nella scrittura; certo, anche la caricaturale seduta analitica con il padre, da Bignami del freudismo, che accelera il finale non contribuisce al possibile processo di empatia, necessario alla riuscita di un dramma ma, di contro, le scelte di cast sono perfette: non solo la Chastain ed Elba, bravissimi, fanno scattare un climax quasi erotico nei loro dialoghi ma tutti, a partire dal  misuratissimo Costner, al seraficamente crudele Cera, ai precisi Camp, O’Dwod e D’Arcy James, evidenziano la capacità – tutta teatrale – di Sorkin nel rendere credibili caratteri appena sbozzati. Il Kid di Steve McQueen, l’imbattibile Lancey di Edward G. Robinson e il rassegnato cartaio di Karl Malden erano un’altra cosa ma Sorkin non è Norman Jewison. Forse, al di là del valore del regista – l’autore de La calda notte dell’ispettore Tibbs e di Jesus Christ Superstar è quasi irraggiungibile – c’è da considerare, a lato, la differenza tra il poker tradizionale – gioco di abilità e di fortuna – e il moderno Texas Hold’em, brutale scontro di soldi nel quale vince sempre il più ricco o il più incosciente. In questa chiave il parallelo poker/ capitalismo finanziario acquista un senso.




Io sono Tempesta

di Daniele Luchetti. Con Marco GialliniElio GermanoEleonora DancoJo SungFrancesco Gheghi Italia 2018

Numa Tempesta (Giallini) è un potente uomo d’affari ma, mentre sta avviando la costruzione di un mega-quartiere di gran lusso in Kazakistan, una vecchia storia di evasione fiscale lo porta a dover scontare la pena di un anno ai servizi sociali. Ogni mattina, lasciato il lussuosissimo hotel del quale è proprietario ed unico ospite, si fa portare con la sua Maserati al Centro di accoglienza, gestito da Angela (Danco), una sorta di suora laica che crede davvero nella efficacia della pena alternativa come terapia per i comportamenti antisociali. Per prima cosa lei gli toglie telefonino e passaporto e lo invita ad un atteggiamento empatico verso i poveri che dovrà accudire. Tra questi c’è Bruno (Germano), ex proprietario di un bar, che, scombussolato dall’abbandono della moglie che lo ha lasciato con un bambino, Nicola (Gheghi), ha perso tutto; lui però non si è perso d’animo e vive la sua attuale condizione di vagabondo con la ottimistica certezza che qualcosa cambierà. Numa, invece, vive malissimo la sua situazione: è in costane conflitto con gli ospiti del Centro e vede l’affare kazako sfumare: il suo socio locale Dimitri (Sung) lo sollecita a trovare investitori ma tutti i suoi amici, a fronte della sua nuova condizione, lo evitano. Inoltre soffre di insonnia perché non riesce a liberarsi del ricordo doloroso del padre (Carlo Bigini) che da quando era piccolissimo gli ha sempre e solo detto: “Sei un coglione!”. La sua terapia sono gli incontri sessuali bisettimanali con tre prostitute studentesse di psicologia: Radiosa (Simonetta Columbu) e, in coppia, Klea (Klea Marcu) e Mimosa (Sara Deghdak). Una sera che è in giro con Radiosa vede Bruno e Nicola al centro di una rissa per la precedenza nella fila per un Ostello dei Poveri e, sceso dalla macchina, li porta nel suo hotel, dove trascorrono una notte d’incanto – e anche lui, per la prima volta dopo anni, riesce a dormire profondamente. L’indomani sera Numa fa loro mandare, come regalo, due costosissimi pigiami di seta, dai quali Bruno trova la forza di affittare una fatiscente roulotte per dormirci e di chiedere al finanziere dei soldi. Lui gli dà 100 euro a patto che trovi altri 10 ospiti del centro che, per la stessa somma, convincano Angela della forte empatia che è nata nei suoi confronti. Detto fatto e mentre dà loro i soldi aggiunge che, se riusciranno a incrementare la somma del 10%, glie ne darà altrettanti. Nicola, da una vecchia intervista a Numa, elabora un piano: basta che uno di loro – e la scelta cade sul Boccuccia (Franco Boccuccia) – dichiari di aver perso la somma e la divida tra gli altri, che si troveranno possessori dei 10 euro in più richiesti. Tempesta, fiero dei risultati dei suoi nuovi adepti, li invita tutti a cena da lui. Qui il piccolo Nicola, appreso da Radiosa (che dopo poco va a letto con Bruno) il trauma di Numa e, ricordandosi di un vecchio vagabondo rabbioso che dava in escandescenze quando vedeva una vecchia rivista con l’effige del finanziere, gli dice di essere in grado di fargli ritrovare il padre se lui, in cambio, cederà a Bruno una delle sue sale Bingo; lì per lì, Tempesta non sembra interessato ma si capisce che vorrebbe saperne di più. Naturalmente i rapporti tra Numa e Angela sono ora idilliaci e un giorno lei gli confessa la sua rabbia perché sta per passare una legge sbagliata sui sevizi sociali. Lui, allora, va con lei a Palazzo Chigi e, con una congrua regalia, ottiene che passino gli emendamenti proposti da Angela. Dopo la accompagna a casa e lei, dopo anni di astinenza, ci va a letto. Qualche giorno dopo la morte nel Centro di un vecchio kazako fa scattare in Numa un piano: ottiene da Angela il permesso di andare, con il suo jet privato, insieme a Bruno e agli altri 10 in Kazakistan a seppellire il vecchio nella sua terra, fa ripulire per bene i vagabondi e li presenta a Dimitri e ai suoi soci come potenti investitori europei. Tutto bene ma Angela…

Sulla carta Io sono Tempesta parrebbe la solita operazione – da parte di una cinematografia chiusa tra piccole camarille – di una commedia scritta e diretta da autori non particolarmente adatti al genere e in parte è così: uno dei due co-sceneggiatori, Sandro Petraglia non è certo noto come irresistibile umorista (Giulia Calenda, l’altra co-autrice, a qualche commedia ha partecipato) e lo stesso Luchetti ha garbo e, talora, lieve ironia ma non certo l’irridente disinvoltura di chi sa e vuole suscitare ilarità. Non è infatti la scrittura la parte vincente del film: il meccanismo di partenza – in parte ispirato alle vicende di Berlusconi – si avviluppa in racconto nel quale tutto è un po’ “telefonato” e, spesso, moralistico (in una vera, vecchia commedia l’imbroglio finale ai kazaki sarebbe stato molto più partecipato e divertente e, probabilmente, sarebbe andato a buon fine); quello che funziona, invece – sicuramente in gran parte per merito della regia – è la chimica degli e tra gli attori: non solo Giallini e Germano trovano una grande intesa (in alcuni momenti mi hanno ricordato Vittorio Gassman e Nino Manfredi nello splendido Il gaucho di Dino Risi) e la Danco regala spassosa maniacalità e, al fondo, disumanità all’insopportabile Angela ma anche i caratteristi (alcuni – pare – presi davvero tra i diseredati di un centro di accoglienza) sfruttano le occasioni di sorriso del copione. Nei film della gloriosa commedia italiana, era facile osservare come le figure di affaristi, un po’ cialtroni e un po’ avventurieri, erano ritagliate sugli unici imprenditori che quegli autori conoscevano: i produttori, visti sì in negativo ma con un fondo di affettuosità. La scelta di Giallini, in fondo, recupera quella modalità e Io sono tempesta si lascia seguire con qualche sussulto di breve ma piacevole risatina. Certo il perfido, amabilissimo Sordi, torturatore di vecchiette in Piccola posta, era tutt’altra cosa ma evidentemente non ce lo meritiamo più Alberto Sordi (vero Moretti?).




A Quiet Place – Un Posto Tranquillo

di John Krasinski. Con Emily BluntJohn KrasinskiMillicent SimmondsNoah JupeCade Woodward  USA 2018

Un attacco alieno ha decimato l’umanità. Gli extraterrestri ora sono sulla Terra, si nutrono di esseri umani e sono ciechi ma percepiscono ogni rumore. Vediamo, così, la famiglia Abbott – il padre Lee (Krasinski), la madre Evelyn (Blunt) e i loro tre figli: la dodicenne Regan (Simmonds), il secondogenito Marcus (Jupe) e il piccolo Beau (Woodward) – rifornirsi silenziosamente e a piedi scalzi in un supermercato abbandonato. Beau vorrebbe un aeroplanino ma è rumoroso e il padre glielo leva di mano; la sorella intenerita glielo ridà ma, mentre tornano a casa, lui lo accende e un velocissimo mostro lo mangia. La vita va comunque avanti per gli Abbott: lei è incinta e continua a lavorare a fianco al marito e a fare scuola ai figli, lui tenta, con una ricetrasmittente in cantina, di mandare segnali al mondo per cercare di individuare altri sopravvissuti e a perfezionare auricolari che riproducano il finissimo udito degli alieni (tre di loro si aggirano intorno alla loro fattoria). Un giorno Lee porta Marcus a fare un giro per imparare a cavarsela nel mondo circostante, il ragazzo è spaventatissimo e non vorrebbe andare, mentre la sorella, sommersa dai sensi di colpa per la morte del fratellino, prende la propria esclusione dalla escursione come una prova del fatto che il padre non le ha perdonato l’accaduto e scappa di casa per portare un regalino sulla croce che ricorda Beau. Lee va con il figlio accanto ad un fiume, gli insegna a pescare insieme e lo porta sotto una rumorosa cascata, dove entrambi potranno sfogarsi a gridare. Al ritorno trovano un’anziana (Doris McCarthy) donna morta, con vicino il marito (Leon Russom) che, disperato, lancia un urlo e si fa aggredire da un alieno. Intanto Evelyn sta per partorire ma, scendendo in cantina, si ferisce il piede con un chiodo. Va in bagno e, mentre un mostro si aggira sospettoso nella stanza, partorisce reprimendo le urla di dolore. Lee arriva in quel momento e – avendo visto le luci rosse che Evelyn ha accesso- manda a Marcus ad accendere un fuoco d’artificio per distrarre l’alieni e così riesce a mettere in salvo lei e il neonato in una stanza insonorizzata. Regan è tornata e si è rifugiata sul tetto del silo di grano con il fratello ma la creatura li tallona dappresso, costringendoli a scendere. A terra, si rifugiano nel pick-up ma stanno per essere divorati quando il padre – dopo aver detto a Regan di amarla – grida per attirare su di sé il pericolo e viene ucciso. Ora Evelyn ed i figli sono in cantina, raggiunti da uno dei mostri ma Regan porta al massimo il volume dell’auricolare che il padre le aveva dato, facendo quasi esplodere la testa dell’alieno. Sarà Evelyn a finirlo con il fucile, mentre gli altri due extraterrestri scappano, terrorizzati dagli ultrasuoni.

L’horror distopico ha una grande tradizione: da La guerra dei mondi di Byron Haskin del 1953 (dal romanzo di Wells) in poi c’è stato un lungo fiorire di mostri alieni che invadono la terra: da capolavori come L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel del 1956 a divertentissimi film b come Ho sposato un mostro venuto dallo spazio o pellicole così trash da diventare un mito (su tutte: Plan 9 from Outer Space di Ed Wood), fino al recente The Village di M. Night Shyamalan. Uno dei rischi che corrono i film con creature extraterrestri è proprio la rappresentazione del mostro; per fare un esempio storico: ne L’astronave atomica del dottor Quatermass di Val Guest (1955) c’è una bella tensione nel seguire la trasformazione dell’astronauta (Richard Wordsworth) in mostro alieno ma quando questa è completata e lui diventa un buffo polipone l’effetto thriller scompare; in altri casi – ad esempio i 3 Jeepers Creepers – dopo tanta ansia l’arrivo di un patetico mostraccione  fa virare la paura in risata. Un posto tranquillo la risolve mostrando degli alieni simili a mantidi con grandi orecchie e tanti, minacciosi denti. Il limite del film è invece il regista-protagonista: avevamo ammirato Krasinski nel bel American Life di Sam Mendes, ci aveva stupito come, giovanissimo, tenesse testa a Meryl Streep e a Steve Martin in E’ compilcato ma il suo portamento di giovane stralunato ed ottimista (che aveva messo al centro della sua precedente regia, The Hollars) qui smorza ogni tensione; quando, invece, è in scena la moglie (nella finzione e nella vita) Emily Blunt troviamo l’angoscia necessaria perché il racconto abbia la sua indispensabile tensione. L’horror ha bisogno di atmosfere angosciose e disperanti (vedi i recenti La madre, L’evocazione-The conjuring con i suoi spin-off Annabelle, It follows o It). Il boy scout volenteroso che alberga in Krasinski è un po’ fuori tono ma, fatta questa tara, il film – anche se, appunto, non paurosissimo – è ben calibrato; non a caso lo produce il regista-produttore Michael Bay (The rock, Transformers) e ha nelle musiche di Marco Beltrami un gran punto di forza. I primi incassi (anche in America è uscito da poco) in patria e da noi sono buoni.




Io c’è

di Alessandro Aronadio. Con Edoardo LeoMargherita BuyGiuseppe BattistonGiulia MicheliniMassimiliano Bruno  Italia 2018

Massimo (Leo) ha ereditato il palazzetto di famiglia e lo ha trasformato in un hotel ma gli affari non vanno affatto bene: lui è un po’ scriteriato ma le tasse che gravano sull’attività sono oggettivamente insostenibili. Un giorno, notando un gran viavai nel convento di suore di fronte al suo albergo, capisce che le religiose hanno aperto a loro volta un’attività ricettiva. Per saperne di più passa lì una notte e, dopo aver raccolto le lamentele del parroco (Daniele Parisi) che oltre a celebrare le messe deve dedicarsi a costanti, defatiganti opere di misericordia che diano al luogo un alone di religiosità,  al momento di chiedere il conto si sente rispondere da Suor Assunta (Gegia) che loro ospitano per carità cristiana e che lui potrà (dovrà) versare 40 euro come volontaria elargizione. Lui va dalla sorella commercialista, Adriana (Buy) – che da tempo cerca di convincerlo di cederle l’attività – per esporle il suo piano di trasformare l’hotel in un luogo di culto, quindi totalmente esentasse. Lei, lì per lì, non lo prende sul serio e lui prova, invano, con il parroco e con rappresentanti di varie religioni di convincerli a partecipare al suo piano. Torna da Adriana, con una nuova trovata: fonderà una religione e l’albergo ne sarà la sacra sede. Lei gli consiglia di rivolgere al loro ex-amico Marco (Battiston), uno scrittore fallito che vive con l’ex-moglie di Massimo; lui, prospettandogli il rischio che se le tasse lo mandassero a gambe all’aria non potrà più pagare gli alimenti (con i quali Marco sopravvive), ne ottiene la collaborazione. Nasce così lo Ionismo, la religione secondo la quale ciascuno è Dio a sé stesso e che non contiene divieti e comandamenti ma suggerimenti (“Sarebbe meglio se non desiderassi la donna d’altri”). Con dei pasti più succulenti attraggono i poveracci che gravitano nel convento e formano la prima comunità ionista. Le cose cominciano a marciare e, con qualche dispetto reciproco delle suore, i clienti/fedeli arrivano numerosi: Marco ha predisposto una Bibbia di grande attrattiva: ciascuno, essendo l’unica autorità religiosa a sé stesso, può fare quello che vuole, seguendo il proprio istinto. C’è anche chi, come Teodoro (Bruno), paralizzato e costretto su di una sedia a rotelle, aspetta il miracolo, anzi lo pretende in pochi mesi: d’estate vuole andare ad Ibiza a rimorchiare. La stessa Adriana, che ha trovato la forza di separarsi e di mettersi con un prestante giamaicano, sembra convinta di dovere questi cambiamenti agli influssi benefici del fratello.  Arriva il sospirato riconoscimento a Luogo di Culto (le autorità in questi tempi di livellamento egualitario delle culture, non vogliono certo farsi tacciare di preclusione religiosa) e tra gli ospiti Massimo nota Teresa (Michelini), una ragazza carina alla quale fa la corte; lei lì per lì sembra sfuggirgli ma una sera si fa trovare in piscina e, dopo averlo invitato a fare il bagno con lei e averlo baciato, lo porta nella sua stanza; qui lui vede che ha un seno di meno e lei gli dice di aver avuto una brutta malattia dalla quale non è completamente guarita; dovrebbe sottoporsi ad un’altra operazione ma, ora che lo ha conosciuto ed abbracciato lo ionismo, ha deciso di seguire il proprio istinto, che le dice di affidarsi al Maestro, cioè a lui. Massimo, per convincerla ad operarsi, le racconta la verità ma lei non gli crede, anzi si convince che lui la stia mettendo alla prova (del resto, anche Teodoro, all’ennesimo fallimento decide che il Maestro gli stia indicando la vera via: andrà ad Ibiza con la sedia a rotelle e rimorchierà lo stesso). Lui, disperato, cerca di convincere la sorella e Marco ad abbandonare la partita ma loro non ci pensano affatto; prova allora a rompere lo specchio sacro (quello nel quale ciascuno vede riflesso Io/Dio) ma i fedeli pensano si tratti di un nuovo livello di autocoscienza. Poco dopo arriva la Polizia: gli eredi di una fedele morta, che ha lasciato tutto alla setta, lo accusano di circonvenzione; lui al processo nemmeno si difende e, quando lo stanno portando in prigione, Teresa lo abbraccia, dicendogli che ha davvero fatto il miracolo: lei è completamente guarita. Marco, con una gigantografia di Massimo alle spalle predica ispirato ai nuovi adepti: è il nuovo guru dello Ionismo.

Io c’è è l’opera terza di Aronadio ma, in realtà, è come se fosse la sua seconda prova: il primo film, Due vite per caso, riproposizione un po’ meccanica del tema di Siliding doors, sembrava un saggio di fine corso di cinema; mentre il suo nome ha circolato con grande eco all’uscita – prima a Venezia e poi in sala – di Orecchie, trasognata e trascinante tragicommedia dell’assurdo. Si usa dire, come si sa, che dopo una prova interessante ogni regista sbagli la sua seconda opera. Non vale esattamente per Io c’è: ci sono errori (ma neanche il precedente era certo perfetto) ma il film è la conferma che un buon autore si è affacciato sulla scena. Volendo capire i limiti del film, il discorso va spostato sul suo distributore: la Vision. La società vede la presenza di Sky e di alcuni produttori (Cattleya, Palomar, Lucisano Media Group, Wildside ed Indiana); è naturale che il network – di fatto quello che mette i soldi – abbia una netta prevalenza e i primi prodotti italiani distribuiti (Il premio, La casa di famiglia, 9 lune e mezza, Sconnessi, Sono tornato e il miracolato – dagli incassi – Come un gatto in tangenziale) sono tutte commedie semi-autoriali, non particolarmente divertenti ma con un buon livello produttivo (il vero target sembra essere la pay tv, prima ancora della sala, dalla quale basta aspettarsi il rimborso delle spese di uscita) non molto dissimili dai due tv-movie natalizi prodotti da Sky; Un Natale coi Fiocchi e Un Natale per due. Io c’è è stretto tra due esigenze: confermare la vena sarcasticamente trasgressiva di Aronadio (tutta la polemica sulla religione – peraltro già presente nel personaggio di Papaleo in Orecchie – ne è una piacevole prova) e soddisfare la platea di Sky; per farlo, gli attori protagonisti mantengono/amplificano il proprio cliché, non sempre fornendo un buon servizio al racconto; in particolare Leo, ripetendo le insicurezze di altri film, appiattisce il suo Massimo in una macchietta senza spessore. Questi film, peraltro, si aggiungono al desolante panorama di un numero strabordante di simil-commedie italiane, bagnaticce di melmoso buonismo, che si confrontano stancamente sui nostri esausti schermi. Cosa ci aspettiamo, d’altronde, da un’industria che, anziché da un imprenditore si fa rappresentare, come presidente dell’Anica, da Rutelli, il quale giustifica l’abissale tracollo degli incassi del nostro cinema con l’assenza di un film di Zalone (come se ci fossero 10 milioni di spettatori fanatici del comico pugliese che escono di casa solo per vedere i suoi film) !?

 




Hostiles – Ostili

di Scott Cooper. Con Christian BaleRosamund PikeWes StudiAdam Beach USA 2017

In un ranch del Nuovo Messico, Wesley Quaid (Scott Shepherd) sta tagliando la legna e la moglie Rosalie (Pike) insegna alle sue bambine (Ava Cooper e Stella Cooper) la grammatica, mentre i fratellino piccolo dorme nella culla. Una banda di comanches ladri di cavalli, guidati da Occhi di Serpente (David Midthunder), fa irruzione, uccide Wesley e i tre bambini, ruba i cavalli e dà fuoco alla fattoria. Nel vicino Forth Berringer, il capitano Joseph-Joe- Blocker (Bale) sta cercando di consolare il suo amico Sergente Tom Metz (Rory Cochrane), al quale – per una grave forma depressiva – hanno tolto la pistola e che rimpiange i tempi nei quali, insieme, facevano strage di indiani senza distinzione di età e sesso. L’indomani il colonello Biggs (Stephen Lang) gli ordina di scortare il capo Falco Giallo (Studi) e la sua famiglia – i figlio Falco Nero (Beach) e Donna Alce (Q’Orianka Kilcher), la nuora Donna Vivente (Tanaya Beatty) e il nipotino Piccolo Orso (Xavier Horsechief) – in Montana; iI vecchio capo cheyenne è molto malato e il Presidente gli ha concesso di tornare alla sua terra. Blocker è contrarissimo e, dopo aver litigato con il messo (Bill Camp) del Presidente che gli rinfaccia la disumanità con la quale ha combattuto i pellerossa e tentato di opporsi agli ordini, accetta di malgrado la missione. L’indomani mattina parte con i prigionieri (che fa subito incatenare), Metz, al quale ridà l’arma, il caporale Henry Woodson (Jonathan Majors), veterano di colore, al suo fianco in tante battaglie, il tenente Rudy Kidder (Jesse Plemons), neo-diplomato a West Point e la giovane recluta Philippe Dejardin (Timothée Chalamet). Dopo poco il drappello arriva alle rovine del ranch dei Quaid e trova Rosalie che ha in braccio il cadaverino del piccolo ed accanto ai corpi delle due bambine, sdraiate che li prega di non far rumore per non svegliarli. La portano con sé e, in una scena straziante, la convincono a far seppellire il marito e i figli. Prima di ripartire Falco Giallo cerca, invano, di convincere il capitano a scioglierli dalle catene per battersi insieme contro i pericolosi comanches. Questi attaccano di lì a poco e il vecchio capo ne strangola uno con le catene, mentre il giovane Dejardin cade nello scontro. Blocker si risolve a liberare i prigionieri e insieme fronteggiano un altro assalto dei comanches, annientandoli; Woodson viene gravemente ferito e Rosalie, vedendo morto in terra Occhi di Serpente, gli scarica addosso una pistola. I superstiti fanno tappa nel Forte del colonnello McCowan (Peter Mullan), con l’intento di far curare il caporale -dal quale Joe (consapevole che non lo rivedrà più) si congeda con uno straziante addio – e di lasciare Rosalie, che Minnie (Robyn Malcolm), la moglie del colonnello con idee umanitarie sui nativi, si offre di ospitare ma lei preferisce andare con la pattuglia; McCowan chiede a Blocker di portare in tribunale il sergente Charles Willis (Ben Foster), che ha ucciso con un’ascia un’intera famiglia di prigionieri indiani. Nel viaggio Willis, che è stato a lungo a fianco di Joe, prova a convincerlo di lasciarlo andare (in fondo insieme hanno compiuto stragi peggiori) ma lui è irremovibile: è un soldato e obbedisce agli ordini e, inoltre, capisce che i tempi sono cambiati. Una notte tre cacciatori di pelli (Scott Anderson, Boots Southerland e Dicky Eglund jr.) rapiscono e violentano Rosalie, Donna Alce e Donna Vivente. I soldati e i cheyennes vanno insieme a liberarle e uccidono i tre bruti. Fino ad allora Joe aveva ceduto la tenda a Rosalie, dormendo all’aperto ma lei lo inviata a dormire con lei. La notte dopo, Willis, fingendo un malore, convince Kidder a scioglierlo dalle corde alle quali era assicurato e, dopo averlo ucciso, scappa; Metz – che ha sempre più frequenti crisi di coscienza – si lancia, da solo all’inseguimento. Poco dopo, nella tenda Rosalie si avvicina a Joe, angosciato dagli avvenimenti, lo abbraccia e i due fanno l’amore. Il mattino successivo il drappello trova Willis impiccato ad un albero e Metz sdraiato ai suoi piedi: è chiaro che lo ha giustiziato e poi si è sparato. Finalmente arrivano in Montana e lì Falco Giallo muore e gli vengono da tutti tributati gli onori funebri ma l’indomani mattina, arriva il proprietario del terreno dove hanno tumulato il vecchio capo, Cyrus Lounde (Scott Wilson) con i suoi due figli (Brian Duffy e Richard Bucher), che intima a Blocker di spostare il corpo dello  ”sporco indiano” dalla sua proprietà. Lui rifiuta e nella sparatoria che ne segue muoiono i Lounde ma anche i figli e la nuora di Falco Giallo. Ora Rosalie è alla stazione in partenza per Chicago, portando con sé Piccolo Orso rimasto solo; Blocker, in borghese, la saluta impacciato ma quando il treno si avvia vi sale in corsa.

L’ultimo film western dell’immenso John Ford è stato Il grande sentiero, epopea di una tribù cheyenne che, per fuggire all’invivibilità (a causa del cinismo e della disonestà dei burocrati) della riserva nella quale è relegata, compie un lunghissimo viaggio verso il parco di Yellowstone. Il film non ebbe successo – non tanto per i contenuti ma per una grande dispersione narrativa – ma, in qualche modo, il vecchio autore di Sentieri selvaggi (nel quale Ethan/John Wayne uccide, d’inverno, i bisonti per far morire di fame gli indiani), cantore incomparabile del mito della frontiera, anticipa i temi del western che gli succederà; ovvio che i correttissimi Soldato Blu, Un uomo chiamato cavallo o Piccolo, grande uomo non sfiorano nemmeno la grandezza di Ombre rosse, del Massacro di Fort Apache o, appunto, di Sentieri selvaggi ma – come dice Blocker al prigioniero Willis – i tempi sono cambiati. Hostiles è in quell’alveo ma, talvolta, esagera nell’attribuire a personaggi di quell’epoca e con quella storia pensieri degni di un sociologo di sinistra del XX secolo (ben altra consapevolezza – e ben altra poetica profondità – ha la scena di Pat Garrett e Billy the Kid, nella quale Garrett e un vecchio trapper, incontrandosi, si prendono di mira con il fucile, con negli occhi la triste consapevolezza della fine dei tempi nei quali si sarebbero tranquillamente sparati). Hostiles ha un ottimo cast e Bale è indubbiamente bravo ma il suo cambiamento è appesantito da un eccesso di emotiva consapevolezza (quanto piange l’impavido killer di indiani!). Efficacissima la Pike, che dà sempre l’idea di una forza, direi, contadinescamente essenziale anche nelle prove più dure. In generale, si direbbe che Cooper (del quale ricordiamo il durissimo Il fuoco della vendetta) sia più a suo agio nel raccontare le asprezze della vita di frontiera che nell’entrare nelle non sempre coerenti crisi si coscienza dei suoi personaggi.

 




Visages, villages

di JRAgnès Varda Documentario Francia 2017

Agnès Varda conosce il fotografo, artista, regista JR e decide di fare un viaggio con lui nei paesini della Francia per ritrarre l’anima delle persone che incontreranno. Lei ha 88 anni e lui 33 ma a nessuno dei due pesa quella differenza e partono con il furgone-laboratorio fotografico (ha l’aspetto di una vecchia macchina fotografica e sviluppa, da un fianco, gigantografie). Arrivano in un villaggio semi-abbandonato; era un paese di minatori ma ora le miniere sono chiuse e le case sono quasi tutte vuote. C’è solo una signora anziana che non se la sente di abbondonare la casa lasciatale dal padre minatore, del quale conserva vecchie foto, insieme ai compagni di lavoro a testimonianza della loro durissima vita ma lei ricorda ancora il “pane di miniera”, l’avanzo di pagnotta che il padre portava a casa, finito il lavoro e che lei, bambina, accoglieva festosamente: era un po’ della miniera del papà che arrivava da lei. Loro la fotografano e con la foto le decorano la facciata della casa che, da anonima, diventa viva e personale. Arrivano poi in un piccolissimo centro abitato e JR nota la bella cameriera dell’unico bar-trattoria. La fotografano scalza, ne incollano l’immagine su di un muro e i suoi bambini giocano a fare il solletico agli enormi piedi della mamma. In una fabbrica fotografano, nei vari turni di riposo tutti i dipendenti, decorandone le mura esterne con le gigantografie messe in modo da farli apparire tutti protesi gli uni verso gli altri. Negli spostamenti Agnès e JR discutono di tutto, di arte, della loro vita e lei ogni tanto si arrabbia un po’ perché lui non si toglie mai gli occhiali da sole (li avverte come una barriera contro di lei) e ricorda come nel 1961, durante le riprese del suo corto Le fiancés du Pont MacDonald, nel quale Jean-Luc Godard rifaceva, scherzosamente, Buster Keaton e Anna Karina la sua partner Dorothy Sebastian, lo scorbutico regista, anche lui con gli occhi costantemente nascosti dagli occhiali scuri, se li era tolti per farle un piacere. Ora sono in un allevamento di capre e, di fronte alla loro sorpresa perché le bestie sono senza corna, un allevatore spiega che da quelle parti le bruciano quando le bestie sono piccole, per evitare che si azzuffino di continuo, rischiando di morire, con nocumento alla produzione del latte; un’allevatrice (che verrà immortalata con una delle sue capre) non la pensa così: lei ama le capre ed i gatti e lascia che gli animali seguano, liberi, la loro natura. Arrivano a Le Havre e incontrano i lavoratori del porto – mitici eroi di grandi lotte sindacali – ma Agnès vuole conoscere le loro mogli e, insieme a JR fotografa tre di loro e ne incolla gli ingrandimenti su una catasta di conteiner; togliendone tre all’altezza del cuore per farvi accomodare le tre donne. Tra gli incontri, non manca un vagabondo che vive con la pensione minima (lui ha bisogno di così poco che è convinto sia la “massima”) ed è felice perché con tappi di bottiglie e materiale di risulta si è costruito una baracca coloratissima e piena di collages. I viaggiatori si concedono anche delle deviazioni sentimentali: Agnès va a vedere la casa nella quale era morta la scrittrice Violette Leduc e le tombe di Henri Cartier- Bresson e della moglie Martine (anche lei grande fotografa); vanno infine a trovare la nonna centenaria di JR, che li accoglie festosa e fiera del nipote. In Normandia, dove Agnes, giovanissima, aveva cominciato ad appassionarsi di fotografia artistica, trovano, in riva al mare, un bunker tedesco piantato nella sabbia. JR prende un nudo maschile dalle foto giovanili di lei e vi incolla la gigantografia: l’effetto è splendido e poco male se subito l’alta marea la lava via. Arrivano in Svizzera a Rolle, il paese nel quale vive Godard e lei è emozionata: è molto tempo che non vede il caro amico e maestro ma lui le fa un brutto scherzo: all’ora dell’appuntamento non le apre e le fa trovare sulla porta una frase cara al suo scomparso marito Jacques Demy; lei ne soffre e JR, abbracciandola, la porta in riva al lago di Ginevra e lei si commuove al ricordo di una vacanza con il marito, Jean-Luc e Anna Karina. JR per consolarla, si leva gli occhiali. Alla fine del viaggio, dopo una visita di controllo agli occhi malati di lei, lui le fotografa gli occhi e i piedi e ne incolla l’ingrandimento su due cisterne attaccate ad una locomotiva: “Così – le dice – i tuoi occhi e i tuoi piedi andranno in luoghi dove tu non potrai andare”.

Questo film era uno dei cinque candidati all’Oscar di quest’anno quale miglior documentario; ha vinto l’americano Icarus ma la Varda ha avuto il Premio Speciale alla Carriera. In effetti è un piccolo capolavoro e lei vi fa trasparire tutta la sua forza e la sua poesia di autrice. E’ stata l’unica regista nel complesso e multiforme universo della Nouvelle Vague e non è un caso: meglio di tanti altri suoi colleghi, la sua filmografia esprime quell’èsprit de liberté che è proprio di quel movimento: dal suo primo successo Cleo dalle 5 alle 7, a Il verde prato dell’amore a Senza tetto né legge (tutti incentrati su figure di donne orgogliosamente e dolorosamente libere) è passata a raccontare, guidata solo dalle proprie emozioni, l’affetto per l’amica Jane Birkin in Jane B. par Agnès V. e l’amore per il marito scomparso in Garage Demy. I suoi documentari, poi, sono un raro esempio di capacità di cogliere lo splendore del vero, altro comandamento della Nouvelle Vague: gli struggenti Les Demoiselles ont eu 25 ans e L’univers de Jacques Demy, in ricordo dell’adorato marito e il recente Les plages d’Agnes son esempi di un racconto personalissimo, che del documentario hanno la forma ma dalla realtà sanno trarre – verrebbe da dire spudoratamente -mille suggestioni autobiografiche. Così questo Visages, villages parte da un idea – catturare i volti di piccoli villaggi – per poi tradirla, sulla base degli universi dei due autori. Lei si commuove, si appassiona, si addolora e la sua commozione, la sua passione, il suo dolore sono i materiali veri del racconto (un operaio della fabbrica dirà: “L’arte non deve sempre stupire?”, cogliendo il senso reale dell’operazione). I suoi occhi e i suoi piedi, al di là dell’effimera vita delle gigantografie, continueranno a vagare, liberi nella ricerca della meravigliosa relatà/irrealtà  del piccolo, irripetibile quotidiano.