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The Nun – La Vocazione del Male (The Nun)

 

di Corin Hardy. Con Taissa FarmigaBonnie AaronsCharlotte HopeDemián BichirLili Bordán USA 2018

 

1952.  Nel convento di Santacarta in Romania, situato in un vecchio castello isolato e diroccato, sorella Jessica (Ani Sava) affida, prima di essere massacrata da una presenza demoniaca, alla giovane sorella Victoria una pesante chiave cesellata ma quest’ultima, inseguita da una suora spaventosa (Aarons), capisce di non avere scampo e, legatasi una corda al collo, si getta dalla finestra della propria cella. In Vaticano viene convocato Padre Anthony Burke (Bichir), uno “scopritore di miracoli” con il compito di recarsi al convento insieme alla novizia Irene (Farmiga) – a quel che gli viene detto, buona conoscitrice della zona del convento – per indagare su quel suicidio. In realtà lui è un esorcista, gravato dai sensi di colpa per aver causato la morte del giovane Daniel (Jack Falk) – il suo primo caso – liberandolo dal demonio e lei (che non è mai stata in Romania) sta prendendo i voti in seguito a delle visioni durante le quali sentiva una frase-guida: “Maria mostra la via”. Arrivati al paese del convento, vanno dal Francese (Jonas Bloquet), giovane contadino che, portando come sempre le provviste alle monache, aveva trovato il corpo della suora suicida e, non potendo –a causa del loro voto – comunicare con le altre consorelle lo aveva lasciato disteso sul pavimento della dispensa. Lui li accompagna con il suo carretto ma l’ultimo tratto di strada lo debbono fare a piedi perché il cavallo si rifiuta di andare nei pressi del convento. Dopo essere passati per il cimitero – nel quale tutte le tombe sono dotate di un campanello (antico retaggio della peste medievale, quando data l’enorme quantità di sepolture, succedeva che qualcuno venisse sotterrato ancora vivo) – entrano dalla dispensa dove trovano il cadavere non più disteso in terra ma seduto su di una panca. Dentro il castello li accoglie la Madre Superiora (Lynette Gaza) velata, che dà loro ricetto per quella notte ma li invita ad andarsene il mattino successivo. Quella notte il Francese vede aggirarsi suor Victoria e, spaventato, la segue ma, quando la raggiunge, lei, con le sembianze feroci della suora assassina, lo aggredisce – poco dopo nella locanda del paese, confermerà alla cameriera (Bordàn) ed agli altri avventori che il monastero è maledetto – mentre Padre Anthony, al quale appare Daniel, lo segue e dalla bocca del ragazzo esce un serpente, lottando con il quale finisce in una tomba con il suo nome; suona disperatamente la campanella e irene riesce a sfondare la bara che è piena di antichi manoscritti. Ritiratosi nella sua stanza, il sacerdote li esamina e scopre che sono opera del vecchio padrone del castello, il duca di Santacarta (Mark Steger), ossessionato dal Demone Valak. Irene, a sua volta, avverte presenze minacciose e quando va in chiesa a cercare aiuto trova Suor Ruth (Sandra Teles) in preghiera che non risponde alle sue richieste di aiuto; la soccorre suor Oana (Ingrid Bisu), che le spiega come il marchese avesse involontariamente evocato il demone Valak e che il castello – dopo che il maligno era stato ricacciato e che il varco da cui questi era uscito era stato sigillato con il sangue di Cristo – era diventato un convento; durante l’ultima guerra, però, i bombardamenti avevano riaperto il varco e le monache, da allora, si alternavano in costante preghiera per allontanare la maledizione. La suora-demone si fa sempre più minacciosa e Anthony (che ha con se un’ampolla con il sangue di Cristo) ed Irene si salvano da un primo assalto anche grazie al ritorno del Francese; successivamente una statua della Madonna indica loro la strada per arrivare alla tana del demone e, dopo una strenua lotta, la suora/Valak viene ricacciata negli inferi. Vediamo però, nel finale spostatosi agli anni ’70, i due investigatori del paranormale, Lorraine (Vera Farmiga) ed Ed (Patrick Wilson) Warren raccontare in una lezione universitaria di come avevano, poco prima, sconfitto la suora-demone che era stata rievocata da un suo adepto, il Francese.

L’horror, letterario o cinematografico, si è spesso alimentato di religione e satanismo (in fondo, il Frankenstein di Mary Shelley – e così i suoi nipotini cinematografici – altro non è che la storia della blasfemia di uno scienziato che voleva sostituirsi, creando un essere umano, a Dio); a spanne possiamo citare L’esorcista, Constantine, Giorni contati – End of days, Carrie, i vari Grano rosso sangue, Omen, Scontro finale.  Nel 2013 un piccolo horror di ottimo valore produttivo e con un buon cast, The conjuring ebbe un grande successo commerciale; ovviamente ebbe un seguito ma, poiché le vicende dei film erano incentrate sulle indagini di Ed e Lorraine Warren, esperti in fenomeni paranormali (ispirati a due persone reali), i due creatori del format James Wan (regista dei due Conjuring ma anche dei due Insidous) e Gary Dauberman (sceneggiatore del secondo e del recente It) hanno dato vita a già tre spin-off, ispirati alle indagini dei Warren: sono arrivati così i due blockbuster Annabelle 1 e 2 (Wan produce e Dauberman scrive) e The nun (prodotto e sceneggiato da entrambi); questo nasce come un prodotto di routine: un budget contenuto, grazie alle poche location e all’ambientazione nella conveniente Romania e a un cast professionale ma non certo costoso (protagonisti: la sorella minore di Vera Farmiga e il messicano – ancorché candidato all’Oscar per A better life – Bichir), mentre la presenza nel prologo e nell’epilogo di Vera Farmiga e di Patrick Wilson probabilmente (i loro nomi non appaiono mai) è una partecipazione amichevole. La scelta di affidarne la regia al semi-esordiente Corin Hardy, in parte, rientra anche nella logica di contenimento dei costi ma è stata anche una bella idea: già con il suo precedente The Hallow, Hardy si era fatto notare ai festival di Sundance e di Torino (a proposito, il film non ha una distribuzione in Italia ed è un peccato perché è di ottima fattura e funzionerebbe) e qui mette insieme un bell’horror all’antica, con i giusti effettacci e gli strilli del pubblico al momento giusto e con in più una sorpresa finale, presa da qual capolavoro assoluto che è Per favore, non mordermi sul collo di Polanski. In Usa ha incassato 93 milioni di dollari, nel mondo sono ad oggi circa 240. Poco?

 




La casa dei libri (The Bookshop)

di Isabel Coixet. Con Emily MortimerBill NighyHunter TremayneHonor Kneafsey , Patricia Clarkson.            Spagna, Gran Bretagna, Germania 2017

Negli anni ’50 la vedova di guerra Florence Green (Mortiner) acquista un piccolo immobile, sfitto da anni, nel centro della cittadina di Hardborough nel Suffolk inglese, The Old House, intenzionata ad aprirvi la prima libreria della zona. Poco dopo viene invitata ad una festa dalla potente Violet Gamart (Clarkson); la sarta (Frances Barber) le confeziona, per l’occasione, un improbabile abito rosso, che le aggiunge imbarazzo in quell’ambiente snob nel quale è totalmente estranea; durante il party le si accosta Milo North (James Lance) – funzionario della BBC con molto tempo libero – che, con fare sgradevole e mellifluo, la sconsiglia dall’aprire la libreria e, subito dopo,  il padrone di casa, il generale (Reg Wilson), la accompagna dalla moglie, che le chiede esplicitamente di cederle l’immobile, avendo lei l’intenzione di aprirvi un centro culturale. Lei rifiuta ma il giorno dopo tutto il paese sembra informato della sua presunta rinuncia ed anche il suo avvocato, mr. Thorton (Jacques Suquet), e il direttore della sua banca, mr. Keble (Tremayne) debbono essere sollecitati perché stanno ritardando la pratiche dell’acquisizione dell’immobile. Viene il giorno dell’apertura e Florence – che nel frattempo ha assunto la piccola Christine (Kneaffsey), figlia della signora Gipping (Lucy Tillet) la donna delle pulizie, per dare una mano dopo la scuola – riceve una lettera da Edmund Brundish (Nighy) – grande ed eccentrico lettore (brucia di tutti i libri le copertine, perché odia le note sull’autore), che da anni vive in reclusione solitaria nella propria villa (in paese si mormora che abbia, dopo solo 6 mesi di matrimonio, perso la moglie, annegata mentre raccoglieva dei lamponi per lui) – che le chiede di mandargli dei libri a suo gusto; lei incarta tre volumi tra i quali Farheneit 451 e glieli fa recapitare e lui le chiede di inviargli altri titoli di Bradbury. Un giorno lei legge Lolita, appena uscito, e se ne entusiasma ma, prima di esporlo in libreria, lo fa recapitare ad Edmund chiedendogli per lettera se ritenesse quel testo adatto alla sua clientela. Lui, poco dopo, incarica mrs. Gipping di invitarla per un tè, rompendo un isolamento pluridecennale; in villa la invita ad esporre il libro di Nabokov – lei ne farà arrivare 250 copie – e le confessa di non essere vedovo, poiché la moglie – con la quale non aveva avuto nessun legame sessuale – era andata a Londra, dove viveva con un altro uomo. Lolita ha un gran successo ma questo dà il destro ai nemici della libreria a metterla in difficoltà per il piccolo assembramento che si era formato davanti al negozio. Florence incontra Kattie (Charlotte Vega), la convivente di Milo, che lavora nel ufficio del personale della BBC e ne copre le assenze, che le confessa di essere in crisi per le ambiguità del carattere del fidanzato. Tra Florence e Christine si è instaurato un bel rapporto e lei, piano, piano, la ha anche avviata alla lettura (che inizialmente lei diceva di aborrire) ma la visita a sorpresa di un ispettore scolastico (Barry Barnes), costringe la ragazzina a lasciare la libreria e al suo posto si offre Milo, sostenendo che Kattie lo ha lasciato e che lui – senza più coperture – debba arrotondare con un piccolo guadagno. Intanto mrs. Gamart, da un lato, ha ottenuto dal nipote deputato Lionel (James Murphy), che venisse approvata una legge che consentiva l’esproprio di residenze storiche rimaste sfitte per più di cinque anni (esattamente la condizione della Old House) e, dall’altro, ha fatto aprire un’altra libreria in paese. Florence è disperata ed Edmund si offre di aiutarla; va a fare una scenata alla Gamart ma fa un buco nell’acqua e, al ritorno l’emozione gli provoca un fatale infarto. Milo, mentre Florence era assente, ha sottoscritto a suo nome il documento di esproprio – togliendole così anche la possibilità di un ricorso –  e lei, dopo aver cacciato il generale che era andato a negozio a salutarla, lascia Hardborough ma Christine…

Le librerie hanno nel cinema, più o meno sempre, le stesse caratteristiche: sono piccole, accoglienti e gestite da sognatori fuori dal tempo. Era così nel meraviglioso 84 Charing Cross Road di David Jones, come in C’è post@ per te di Nora Ephron, in Notting Hill di Roger Michell e nel recente La stanza delle meraviglie di Todd Haynes (in quest’ultimo film il bokkshop era meno centrale ma le varie vicende lì si ricompongono). La casa dei libri, tratto da La libreria di Penelope Fitgerlad, non è da meno ed in Spagna, patria della regista e principale paese produttore, ha convinto parecchio, guadagnandosi tre Goya: regia, sceneggiatura e protagonista. Non si direbbe, in realtà, che siamo di fronte ad un’opera così incisiva ma ad un film piacevole e ben costruito, con una bella fotografia (Jean-Claude Larrieu), scenografie (Rebecca Comerma) e costumi (Mercè Paloma) di grande precisione e degli ottimi protagonisti, la Mortimer (anche se talvolta sembra rinverdire le mossette della segretaria/fidanzata di Clouseau/Steve Martin), Nighy (sempre mostruosamente bravo) e la Clarkson. Molti hanno sottolineato la capacità della Coixet di rendere perfettamente l’atmosfera inglese del romanzo. E’ vero e accontentiamoci (il nostro cinema spesso non riesce a dare credibilità neppure alle inutilmente strafrequentate borgate romane).




Un affare di famiglia (Shoplifters)

di Kore’eda Hirokazu. Con Lily FrankySakura AndôMayu MatsuokaKirin KikiJyo Kairi Giappone 2018

Osamu Shibata (Franky) è in un supermercato con il dodicenne Shota (Kairi) il quale ad un suo cenno, dopo aver fatto rapidi gesti scaramantici, ruba un po’ di merce. Tornando a casa vedono un bambina (Miyu Sazaki) affacciata nel freddo della notte ad un balconcino, chiaramente affamata. La portano nella loro misera casa – dove vivono con la moglie di Osamu, Nobuyo (Ando), nonna Hatsue (Kiki) e la di lei nipote Aki (Matsuoka) – e la rifocillano. Osama vorrebbe che la bambina rimanesse da loro (ha anche notato che ha lividi e tagli sulle braccine) ma Nobuyo lo convince e riportarla a casa per evitare guai; mentre la stanno per rimettere, addormentata, nel balcone, sentono i lamenti della madre della piccola, Nozomi Hojo (Moemi Katayama) picchiata dal marito Yasu (Yuki Yamada) e decidono di tenerla con loro. Gli Shibata sono una famiglia borderline e misteriosa: Osamu alterna lavori saltuari con taccheggi insieme a Shota (che non riesce a chiamarlo papà), Nobuyo lavora in una stireria, Aki guadagna qualcosa facendo intravedere le tette e il sedere attraverso un vetro in una casa specializzata e, di fatto, tutti vivono della pensione della nonna; quando, poi, i servizi sociali fanno un controllo nella casa, tutti spariscono, tranne quest’ultima. Inizialmente Shota è geloso della piccola che loro chiamano Yuri ma Osamu la convince a considerarla una sorellina e a portarla con sé nei taccheggi; e così anche lei, fiera di lavorare con il “fratello” grande, impara a rubare ed a compiere il piccolo rituale. La televisione dà, parecchie settimane dopo, la notizia della scomparsa della bimba e del fatto che i genitori non ne avevano denunciato la scomparsa; questo tranquillizza gli Shibata, ignari che di lì a poco – a causa della necessità di ridurre il personale della stireria – sarà quel servizio a causare, indirettamente, la perdita del lavoro per Osamu; questo però non altera l’umore dei due coniugi che, anzi, rimasti in casa, possono fare finalmente l’amore. Aki, intanto, si è innamorata di un giovane cliente (Sosuke Ikematsu) e la nonna la difende dalle frecciatine degli altri “parenti”. Hatsue va ogni tanto a trovare il figlio (Naoto Ogata) di secondo letto del marito defunto e sua moglie (Yoko Moriguchi), che sono convinti che la loro Aki stia studiando in Australia e alla fine della visita le danno – come d’abitudine –  una busta con dei soldi, che lei in parte spende per giocare al pachinko; un giorno lei muore e gli Shibata, per continuare a godere della sua pensione, la seppelliscono in giardino. I due ragazzi continuano coi furtarelli, finché un giorno il vecchio proprietario (Akira Emoto) di un negozietto, accortosi delle loro manovre, dà loro delle gelatine di frutta e dice a Shota di non insegnare alla sorellina a rubare. Lui è colpito da quelle parole e in un grande magazzino, quando vede Yuri fare il rituale, ruba rumorosamente della merce per farsi inseguire e, raggiunto, si butta da un cavalcavia, rompendosi una gamba. In ospedale gli Shibata trovano la polizia e con una scusa frettolosa vanno via ma, quando stanno per scappare dalla casa vengono raggiunti e fermati. I due poliziotti ( Kengo Kora e Chirizu Ikewaki) che si occupano del caso, scoprono due cadaveri nel giardino (oltre alla nonna c’è anche il corpo del suo ex-marito, ucciso per legittima difesa dagli Shibata), riportano Yuri dai genitori – che riprenderanno a maltrattarla – e mandano Shota in una casa-famiglia. Nobuyo, che – a differenza del marito – è incensurata, si accusa di tutto e subisce una condanna a cinque anni; Osamu passa un ultima giornata con Shota e, per una volta, si sentiranno padre e figlio.

Kore’eda Hirokazu è stato spesso associato al grande Ozu e, certamente, la sua attenzione per i ritratti di famiglia lo accostano all’autore dei, peraltro irraggiungibili, Viaggio a Tokyo o Tardo autunno ma il paragone si ferma qua: le famiglie di Ozu sono, in quanto tali, portatrici di grandi valori e di terribili sofferenze, Hirokazu, invece, si sofferma sulla presenza o assenza di affettività: in questo film, come in Father and son, Little sister e Ritratto di famiglia con tempesta, ci si riconosce in un nucleo familiare se si è amati, a prescindere dai legami di sangue; in realtà, il film del regista che più richiama questo è l’aspro Nessuno sa (una sorta di Ladybird, Ladybird giapponese) ma qui si avvertono gli echi della commedia italiana della decadenza e, soprattutto, di Brutti, sporchi e cattivi di Scola ma i suoi personaggi sono meno brutti (i bambini, anzi, bellissimi), meno sporchi (al massimo la nonna si taglia le unghie dei piedi mentre cena con gli altri) e molto, molto meno cattivi. Forse non è il film più riuscito del regista (ha comunque vinto la Palma d’Oro a Cannes) anche se la parte finale è di una intensità profonda e coinvolgente ma ha, come sempre, un cast di primordine – dal suo habituè Lily Franky, alla bravissima Kirin Kiki (già indimenticabile signora Toku) fino ai sorprendenti bambini. Per la prima volta Hirokazu ha come direttore della fotografia il celebrato Kondo Ryuto ma, onestamente, la differenza con i suoi consueti Mikiya Takimoto e Yutaka Yamizaki non mi sembra si colga particolarmente. C’è, comunque, l’anima di un grande regista.

 




Dark Crimes

di Alexandros Avranas. Con Jim CarreyRobert WieckiewiczAgata KuleszaCharlotte GainsbourgMarton Csokas USA, Polonia, Gran Bretagna 2016

Tadek (Carrey) è considerato ironicamente dai suoi colleghi – corrotti dal precedente regime comunista – “l’ultimo poliziotto onesto in Polonia” ed è in crisi: in un caso precedente è stato accusato di aver costruito delle prove false ed ora sta terminando la carriera tra le scartoffie del commissariato. Anche la sua vita privata va a rotoli: la moglie Marta (Kulesza) non ne sopporta più il maniacale attaccamento al lavoro, aggravato dalla cupezza del suo attuale stato lavorativo e sua madre (Anna Polony) è malata e gli chiede – ogni che lui va a trovarla –  di non lasciarla morire da sola. Ascoltando dei brani del libro di prossima uscita dello scrittore Kozlov (Csokas), vi associa il ricordo di un delitto irrisolto di qualche anno prima: il cadavere di un cliente abitale di The Cage, un locale nel quale veniva praticato sado-maso estremo, era stato trovato incaprettato in un bosco e il romanzo racconta un delitto identico con particolari che solo la polizia e l’assassino conoscevano. Incoraggiato dall’unico amico che ha, il collega Piotr (Vlad Ivanov), e affiancato dal giovane Victor (Piotr Glowacki) riprende il filo della vecchia indagine e, raccolte prove sufficienti, arresta lo scrittore all’uscita di una conferenza stampa di presentazione del nuovo romanzo. Durante l’interrogatorio Kozlov è sprezzante, rifiuta di chiamare un avvocato e quando accetta di sottoporsi al test della verità, durante il quale si proclama ancora innocente, il tecnico (Piotr Stramowski) conferma che, secondo la macchina, non avrebbe mentito; rilasciato, lo scrittore accusa il poliziotto di averlo picchiato e di aver costruito prove contro di lui. La superiore di Tadek, Malinowska (Kati Outinen), lo invita alla prudenza – oltretutto il caso era stato curato, ai tempi dell’omicidio, da Greger (Wieckiewicz), ora Capo della Polizia – ma lui è sicuro delle proprie intuizioni e lei gli consente di continuare, ufficiosamente, le indagini. Con l’apparato tecnico fornitogli, sottobanco, da Piotr, Tadek va a casa della donna di Kozlov, Kasia (Gainsbourg) – un ex-ragazza della Cage, drogata e fragile – per piazzarvi dei microfoni ma, mentre è lì, vede – forse non visto – i due amanti fare sesso con dolorosa rabbia. Mentre procede con le indagini, si accorge di essere seguito e, pedinando Kasia, scopre che si reca a casa di Greger. Ormai sicuro di aver messo alla luce un pesante scandalo (The Cage era frequentato anche da Greger, che aveva tutto l’interesse a chiudere in sordina il caso) va dalla ragazza e, minacciandola di farle togliere – per via della droga – la figlia Hanna (Julia Gdula), ottiene la sua testimonianza che incolpa dell’omicidio Kozlov. Questi viene arrestato e con lui Greger, Piotr diventa Capo della Polizia e lui viene riabilitato ma la verità è da un’altra parte e lui è destinato a scoprirla troppo tardi.

Da che esiste, Hollywwod ha ingaggiato registi promettenti da tutto il mondo (possiamo citare, a caso,  Michael Curtiz, Alfred Hitchcock, Douglas Sirk, Fritz Lang, Billy Wilder, Jean Renoir, Jules Dassin, Kenneth Branagh, Milos Forman, Paul Verhoeven, Andrej Konchaolowskij, Timur Bekmambretur Bruce Beresford, Peter Weir, George Miller, Richard Lester, John Woo, i fratelli Pang, Guillermo Del Toro, Alfonso Cuaron, Alejandro Inarritu e gli italiani Gabriele Muccino e Luca Guadagnino) e le prime due opere del greco Avranas – il fantascientifico Without e, soprattutto, il dolorosissimo e premiatissimo (Leone d’argento a Venezia) Miss Violence – hanno convinto di affidargli la regia del noir tratto da un articolo su The Newyorker . Gli orrori descritti nel pezzo dall’autore David Grann hanno, evidentemente, richiamato le insopportabili asprezze dell’orco protagonista di Miss Violence ma l’operazione non è riuscita. Intanto, nella sua opera seconda Avranas – dipanando con splendida, brutale e sfrontata verità una storia di incesti e pedofilia – ha raccontato l’agonia del suo Paese, distrutto dalla crisi economica e dalla antropofagia di un Europa disumanizzata; mentre Dark Crimes è un noir tutto sommato tradizionale (quanti poliziotti in crisi e sopraffatti dall’hammettiano Istinto della caccia abbiamo incontrato in letteratura ed al cinema?). La scelta, poi, di affidare il ruolo di Tadek a Jim Carrey non ha certo migliorato il risultato. Molti anni fa Giuseppe Marotta, nella sua veste di critico cinematografico de L’Europeo, scriveva a proposito del celebrato Glenn Ford: “Non metterei dieci lire in quella bocca a salvadanaio”. Ora, non è il caso di essere così severi con il (forse) sopravvalutato Carrey ma qui è certamente fuori ruolo (in alcuni momenti – quelli in cui dovrebbe mostrarsi sopraffatto dall’asprezza degli eventi – sembra Ace Ventura che ha provocato l’ennesima catastrofe), è surclassato dal villain professionista Csokas (The Equalizer) e non certo aiutato da una Gainsburg meno espressiva del solito e da un regista attento a portare a casa la pelle in un operazione che, evidentemente, non lo convinceva affatto.

 




Mamma mia – Ci risiamo! (Mamma Mia: Here We Go Again!)

di Ol Parker. Con Christine BaranskiPierce BrosnanDominic CooperColin FirthAndy Garcia

USA 2018

Sono passati circa 10 anni, Donna (Meryl Streep) è morta e sua figlia Sophie (Amanda Seyfried), che è rimasta nell’isola di Kolakairi, ha deciso di ristrutturare la taverna e di trasformarla nell’Hotel Bella Donna, in onore della coraggiosa madre. Mentre i lavori procedono, sotto la guida del manager Fernando Cienfuegos (Garcia), Sophie ha una burrascosa telefonata con il fidanzato Sky (Cooper): lui è all’estero per un master in Management Alberghiero dal quale dovrebbe tornare per occuparsi del Bella Donna ma ha ricevuto un’offerta di lavoro di grande prestigio e non se la sente di rifiutarla. Lei è disperata e, al ritmo di One of us (cantata in parallelo anche da Sky), si chiude in camera e lì ripercorre le vicende che hanno portato la madre in Grecia ed alla sua nascita: Donna (Lily James) si è appena laureata – e alla cerimonia di consegna dei diplomi, insieme alle amiche – e partner nel gruppo Donna Dynamos – Rosie (Alexa Davies) e Tanya (Jessica Keenan Winn), scatena un’allegra baraonda, cantando When I kissed the teacher;  saluta poi le amiche e comunica loro di aver deciso di andarsene in giro per il mondo. A Parigi conosce Harry (Hugh Skinner) e la sera stessa, intonando Waterloo, i due finiscono a letto. L’indomani mattina lei parte per la Grecia lasciandolo ancora addormentato; arriva al molo, appena in tempo per vedere l’ultimo traghetto che salpa per Kolakairi, dove era diretta; per sua fortuna incontra il giovane svedese Bill (Josh Dylan) che le dà un passaggio con la sua barca. Giunta all’isola e arrivata in una villetta abbandonata, Donna viene sorpresa da un temporale e si rifugia nella stalla e qui quasi travolta da un cavallo spaventato dai tuoni; dal nulla sbuca Sam (Jeremy Irvine), uno studente inglese in vacanza, che la salva. L’indomani – dopo una notte d’amore – vanno, innamorati persi, a far colazione nella cantina di Sofia (Maria Vacratsis), il cui figlio Lazaros (Panos Mouzourakis), leader di una band, dopo aver eseguito Kisses of fire, la sfida a cantare a sua volta; lei esegue Andante, andante e ottiene un ingaggio. Poco dopo Sam le confessa di avere una fidanzata e che la sua famiglia si aspetta che la sposi. Disperata, Donna lo caccia via, non consentendogli di parlare (entrambi cantano tristemente Knowing me, knowing you). Attracca all’isola Bill e le propone una gita consolatoria in barca e lì, dopo aver tentato di dormire in una scomoda cuccetta, lei va nella cabina di lui e ci dorme insieme. Tornata nell’isola, dopo poco scopre di essere incinta e chiama le due Dynamos per avere il loro appoggio; insieme cantano Mamma mia e, poco dopo, Sofia le rivela di essere la proprietaria della villetta dove lei è andata ad abitare, offrendole di regalargliela se lei la rimetterà a posto. Donna ha deciso: rimarrà nell’isola e lì crescerà sua figlia (il cui padre può essere uno qualunque dei tre recenti amori). Siamo di nuovo ai giorni nostri e Sophia, pur con il cuore in pezzi, si prepara per il giorno dell’inaugurazione, supportata da Cienfuegos e da Sam (Brosnan), che dopo la morte di Donna è rimasto in Grecia; di lì a poco aggiungono Rosie (Julie Walters) e Tanya (Chistine Baranski), insieme alle quali, con Angel eyes, lei commemorerà la mamma. La sera prima dell’inaugurazione, un nubifragio interrompe ogni possibilità di far arrivare i traghetti dalla terraferma e tutti i preparativi sembrano vanificarsi ma Harry (Firth) e Bill (Stellan Skarsgard), che – pur avendo inizialmente detto di non potere essere presenti per pressanti impegni – sono arrivati fino al molo, hanno un’idea: invitano alla festa tutti i pescatori purché li portino con le loro barchette a Kolakairi. L’inaugurazione si farà comunque e, inatteso, arriva anche Sky, che con Sophya, Tanya, Rosie, Sam, Bill ed Harry introduce la festa con Dancing Queen; tra la folla appare Ruby (Cher), la madre-diva, che con le sue assenze aveva fatto soffrire Donne e che ora cerca di rifarsi con la nipote. Mentre le parla, vede Cinfuegos e in lui riconosce il rivoluzionario che aveva amato e creduto morto da giovane; lo raggiunge e con lui canta la loro storia: Fernando. A Sophia appare Donna e madre e figlia – insieme a Donna giovane – intonano My love – My life. Ora tutto si è sistemato e tutti – giovani e vecchi – si esibiscono in Super Troupe

 

I sequel, si sa, non sono quasi mai all’altezza del primo film, a meno che non siano stati progettati sin dall’inizio. In questo caso non è certo così: Mamma mia! è di dieci anni fa e la sua forza – oltreché nel cast (Meryl Streep in testa) – era nella derivazione dal grande e consolidato successo del musical, con tutti i perfezionamenti e gli aggiustamenti che una lunga e ricca tournee comporta; oltretutto la regia era stata saggiamente affidata a Phyllida Lloyd che lo aveva portato al successo in teatro, che non ha fatto grande cinema ma ha dato la giusta ed indispensabile ritmica ai numeri musicali. Per Mamma mia – Ci risiamo! è stato scelto lo sceneggiatore Ol Parker, forte della scrittura dei due deliziosi Marigold Hotel ma regista di 3 dimenticabilissime commedie sentimentali. Il risultato è una faticosa rimasticatura con un cast (a parte coloro che erano già nel precedente film) quasi raccogliticcio: steso un velo sulla faticosa improbabilità di nonna Cher, i tre giovani possibili padri hanno la comunicativa dei manichini della Rinascente e Lily James – che era stata bravissima nel ruolo della segretaria di Churchill ne L’ora più buia e una trascinante Cenerentola nel film di Branagh (Branagh appunto!) – si stampa sulla faccia un fastidioso sorriso ottimistico e attraversa allegra ed inconsapevole il film; si fa notare solo Jessica Keenan Winn, nipote di tanto nonno (Ed Keenan Winn, insostituibile caratterista dei film Disney e, tra gli atri mille ruoli, impagabile generale ottuso nel Dottor Stranamore). Insomma: l’impressione e che i due astuti membri maschili degli Abba, Bjorn Ulvaeus e Benny Andersson, motori dell’operazione, abbiano messo insieme alla bell’e meglio un sequel/prequel per rinverdire altri titoli (nel film ne contiamo 21) della loro produzione musicale. Il box-office, alla fine, dà loro ragione; il film non eguaglierà certo i 615 miloni di dollari raggiunti da Mamma mia! ma sta già a 350 milioni. C’è un dio anche per gli svedesi con i pantaloni a zampa d’elefante! D’altronde era già un miracolo che i non eccelsi Abba abbiano avuto (come i Beatles con il fallimentare Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e l’intellettualistico Across the Universe) due film ispirati alle loro poco più che orecchiabili canzoni.

 




Come ti divento bella (I Feel Pretty)

di Abby KohnMarc Silverstein. Con Amy SchumerMichelle WilliamsTom HopperRory ScovelAdrian Martinez  USA 2018

Renee Bennet (Schumer) è una ragazzona un po’ in soprappeso e insieme al rozzissimo collega Mason (Martinez), raccoglie in uno squallido scantinato le analisi di mercato dei prodotti della prestigiosa azienda di cosmetica Lilly Leclair che inoltra via internet alla casa madre. Un giorno il computer va in tilt e lei deve portare i file a mano; viene accolta da una splendida receptionist (Aina Adler) ed apprende che lei sta per cambiare lavoro e che quel posto sarà a breve vacante. Intanto Lilly Leclair (Lauren Hutton) è al lavoro con la nipote Avery (Williams) e il suo staff (Naomi Campbell, Caroline Day, Anastagia Pierre) per lanciare una linea di prodotti per il consumo di massa. Renee farebbe qualsiasi cosa per quel posto di receptionist – oltretutto è infatuata del bel nipote di Lilly, Grant (Hopper), famoso playboy – ma è tristemente consapevole del proprio aspetto, tanto che, quando le sua amiche, anche loro non delle top model, Vivian (Aidy Bryant) e Jane (Busy Philipps), le propongono di postare la loro foto insieme su un sito di appuntamenti, lei fa mille resistenze. Renee frequenta un centro di cyclette per mettersi un po’ in forma – e qui incontra la splendida Mallory (Emily Ratajkowski) che elegge a proprio irraggiungibile modello – ma si muove malissimo, tanto che cade dal biciclo, svenendo per la botta. Al risveglio, però, è convinta di essere un’altra: si vede bellissima ed è certa di aver avuto un miracolo. Ora partecipa alla selezione alla Lilly Leclair (e vince pure perché il lancio della nuova linea prevede un immagine molto più popolare dell’azienda), quando va con le amiche al bar si comporta come una strafica e, comicamente, le aiuta a rimorchiare, rendendole ridicole e furiose. Un giorno in tintoria, incontra Ethan (Scovel) e, scambiando la sua cortesia per un approccio, insiste perché si scambino i numeri di telefono. Poco dopo lo chiama e lui, per timidezza, non sa sottrarsi ad un appuntamento, che però si rileva molto piacevole: hanno scoperto di avere molte cose in comune. Qualche tempo dopo, lei lo invita a casa e si fa trovare nuda; di nuovo lui è in imbarazzo ma il sesso fra loro si rivela fantastico e decidono di mettersi insieme.  Al lavoro le cose vanno benissimo: Avery e Lilly apprezzano la sua competenza in fatto di donne medie e la promuovono sul campo, portandola in giro per l’America. Ad uno di questi viaggi partecipa Grant, che va nella sua stanza d’albergo per corteggiarla; lusingata ma fedele, lei si rifugia in bagno e, quando fa per un uscire, dà una tremenda capocciata sulla porta della doccia. Si rialza intontita e, guardandosi allo specchio, si vede di nuovo come è sempre stata. Disperata, scappa via e, dopo essere stata respinta dalle amiche ancora offese, si chiude in casa a bere e a mangiare schifezze. Dopo varie telefonate a vuoto, Ethan le strappa appuntamento a cena ma, una volta arrivata, lei – convinta che lui non possa riconoscerla nel suo reale aspetto – finge di essere un’altra, lasciandolo si stucco. Un giorno torna alla palestra e trova Mallory in lacrime: è stata lasciata brutalmente da fidanzato e, finalmente, Renee capisce che l’aspetto esteriore non è poi così importante e, dopo essere corsa da Ethan e aver fatto pace con Vivian e Jane, aiutata da Mason, interviene nella manifestazione di presentazione della nuova linea di cosmetici della Leclair e conquista tutti.

Amy Schumer – e con lei, Melissa McCarthy, Sarah Silverman, Kisten Wiig (il suo pompino mimato in Le amiche della sposa è da tempo virale), Rebel Wilson) – è la prova di quanto sia indispensabile alla comicità (e non solo) la scorrettezza politica. Non è che lei – e i suoi autori – siano dotati di un coraggio leonino; non a caso, parlando del suo primo film, Un disastro di ragazza, l’avevo paragonata ad un Doris Day un po’ sboccata; è, anzi, evidente lo sforzo di puntare ad un audience ampia; il suo secondo titolo, ad esempio, quello riuscito peggio artisticamente ed economicamente (secondo tradizione: dopo un successo, il secondo film lo sbagliano quasi tutti, con l’eccezione di Zalone), Fottute è un tentativo di   action comico. Il meglio la Schumer, come quasi tutti gli stand up comedians lo dà in sala o in televisione, più libere e aperte del grande schermo, tant’è vero che ha avuto, in passato, qualche problema per una battuta – azzeccata ma pesantuccia – sui messicani. In Come ti divento bella (il titolo originale riprende, ironicamente la canzone gorgheggiata da Natalie Wood in West Side Story) si intravede la strada che ha scelto di imboccare: quella di un Jerry Lewis al femminile che fa forza sui propri limiti e che, grazie ad una grande volontà, arriva al successo. E’ questo il tema di fondo de Le folli notti del dottor Jerryl, del Balio asciutto, del Delinquente delicato (per citare i titoli più significativi. Alla pur brava Amy manca una regia adeguata (qui in un paio di scene si usano i suoi primi piani come nel programma Inside Amy): quanto è stato importante Norman Taurog (grande regista multiuso: è stato anche l’artefice del successo al cinema di Elvis Presley) nella formazione anche regista di Jerry Lewis!? Tra i pregi del film c’è senz’altro – anche questo in aderenza con le modalità produttive dei film di Lewis – una bella presenza di comprimarie: dalle auto-ironiche top model (Naomi Campbell e Emily Ratajkowski in testa), ad un inedita Michelle Williams, all’iconica Lauren Hutton fino alle comiche emergenti Aidy Bryant e Budy Pilipps. Il film ha incassato bene in casa (89 milioni di $) e si sta muovendo bene all’estero: è (quasi) nata una stella. E in Italia? Aspettiamo di vedere la prima prova di Velia Lalli (la migliore tra le nostre comedian di quella scuola).

 

 




Shark – Il primo squalo (The Meg)

di Jon Turteltaub. Con Jason StathamBingbing LiRainn WilsonRuby RoseWinston Chao USA – CINA  2018

Un modernissimo batiscafo con a bordo Jaxx (Rose) e i suoi uomini – DJ (Page Kennedy), The Wall (Olafur Darri Olafson) e Toshi (Masi Oka) – scende nel Pacifico, vicino alle coste cinesi, per convalidare la teoria del dottor Zhang (Chao), secondo cui quelle acque sarebbero più profonde del Fosso delle Marianne. Quando però la navicella arriva a toccare il fondo, qualcosa la urta non consentendone il rientro, mentre i suoi occupanti hanno solo poco tempo di autonomia di ossigeno. Nella nave-laboratorio che guida la missione nasce una discussione su come intervenire: il ricercatore Mac (Cliff Curtis) propone di rivolgersi al suo amico Jonas Taylor – specialista di fondali marini ed ex-marito di Jaxx – ma il dottor Heller (Robert Taylor) è contrarissimo perché, a suo dire per vigliaccheria, in una precedente operazione di salvataggio assai simile, non aveva portato indietro tutti i dispersi ed inoltre, proprio in seguito al trauma per quell’episodio, si era messo a bere, vivendo alla giornata in Thailandia. Mac convince Morris (Wilson), il finanziatore dell’operazione, che Jonas è l’unico in grado di portare a termine una missione così rischiosa. Jonas all’inizio non intende ragioni: nell’ultima missione ha visto qualcosa di mostruoso che lo aveva costretto a salvare solo una parte delle persone ma tutti lo credono vigliacco e alcolizzato; quando, però, apprende che nel batiscafo c’è la sua ex-moglie accetta l’incarico. Quando scende in mare vede che un enorme squalo è in agguato sul fondo; riesce ad agganciare il batiscafo e a salvare solo tre degli occupanti mentre Toshi, consapevole dell’impossibilità di sbarcare tutti nella navicella di Jason, si sacrifica. A bordo Suyin (Li), la scienziata figlia di Zhang, lo aggredisce, incolpandolo della morte dello scienziato giapponese ma gli altri testimoni le chiariscono l’accaduto e lei va a scusarsi nella sua cabina, trovandolo nudo (e la cosa non sembra dispiacerle).  Poco dopo sua figlia Meying (Shuya Sophia Cai), giocando in una galleria della nave, viene aggredita dal mostro che lascia i segni dei denti sulle pareti trasparenti del cunicolo e a questo punto tutti decidono di andare a catturare il bestione. La prima spedizione sembra avere successo ma quando issano sulla nave il gigantesco corpo un altro megalodonte li attacca: quello che avevano ucciso era la femmina di una coppia. A questo punto, con la nave distrutta, i superstiti decidono di rientrare e Morris si impegna a chiamare le autorità portuali cinesi perché distruggano il mostro ma, invece, all’insaputa degli altri, si fa portare in elicottero sopra il tratto di mare nel quale compare lo squalo e getta varie cariche esplosive; tutto quello che ottiene è di uccidere una balena e di essere divorato dal megalodonte. Ora il mostro si dirige verso una spiaggia affollatissima di bagnanti e Jason, mentre Suyin lo distrae con urla registrate di delfini, lo abbatte definitivamente.

 

https://www.youtube.com/watch?v=iFouH6p5sCc

 

Non ci sarebbero particolari ragioni per dilungarsi su questo film se non fosse l’assoluto campione di incassi di questo scorcio di stagione. L’argomento non è certo nuovissimo: oltre al fortunatissimo Lo squalo (1975) di Spielberg, capofila di una serie di sequel anche apocrifi (compreso Il cacciatore di squali – 1979 – del grande Castellari), ricordiamo Quattro bastardi per un posto all’inferno (1969), pasticcio a budget bassissimo dell’altrimenti geniale Samuel Fuller, l’assurdo Sharknado (2013) con gli squali che fanno scempio di passanti nelle strade di New York, mentre nel 1999 in Blu profondo gli squali si ribellano ad essere usati per esperimenti contro l’Alzheimer (!), il successo del film a basso budget Open water (2003) – coppia dispersa in mare in balia degli squali – ha creato due mediocri sequel (Alla deriva – Adrift del 2003 e Open water 3 – Cage drive del 2017) e un clone come Paradise beach – Dentro l’incubo del 2013. I megalodonti poi hanno una loro library: si va da Mega Shark vs/ Giant Octopus (2009), filmetto di serie B con la cantante Debbie Gibson e lo specialista di action Lorenzo Lamas al suo sequel Mega Shark vs/ Crocosaurus fino a Megalodon del 2014. Certo, a parte il film di Spielberg, abbiamo elencato prodotti a basso-bassissimo budget mentre Shark – Il primo squalo è costato 150 milioni di $, Turtletaub è un regista di buon mestiere (Intinct, Il mistero dei templari, L’apprendista stregone), la sceneggiatura è basata sul libro dell’autore di best-seller Steve Alten e Stathman è un garanzia di azione ed ironia ma il successo del film sembra essere soprattutto nel fatto di essere una coproduzione con il fiorentissimo mercato cinese; questo non solo garantisce fortissimi incassi in Cina ma anche impone un prodotto, da un lato, di alto valore produttivo e, dall’altro, un racconto estremamente semplice ed essenziale negli snodi psicologici; questa sembra essere la chiave: mentre, ridicolmente, abbiamo letto contestazioni sulla credibilità scientifica (sic!) del plot, il pubblico se ne frega e si diverte senza problemi a vedere Strathman abbattere, quasi a cazzotti, il mostraccione preistorico. Come nel buon cinema di una volta (quello che affascinava Nando Moriconi e i suoi amici in Un giorno in pretura: “Americà, facce Tarzan!”).

 




Le Guerre Horrende

di Giulia BrazzaleLuca Immesi. Con Cosimo CinieriDésirée GiorgettiDario LeoneLivio PacellaMilton Welsh Italia 2018

In un bosco Scudiero (Giorgetti) bussa al carrozzone da circo dove dorme Capitano (Pacella), che si sveglia imprecando perché non è riuscito, nel sogno che capiamo essere ricorrente, a rompere la testa ad un nemico. I due si apprestano a dare, come ogni mattina, una rappresentazione agli animaletti del bosco, raccontando la tremenda guerra tra le mosche della città di Merdia, guidate dal re Moschide, contro le formiche della regina Formicuzza. Intanto arriva con un paracadute Soldato (Leone) e Capitano lo prende alle spalle e lo colpisce alla testa con una pietra, facendolo svenire. Scudiero, che è affascinato dal giovane sconosciuto, gli presta le prime cure e lo porta nei pressi del carrozzone, nonostante le proteste dell’altro. Dopo poco Capitano racconta, come sempre, i suoi ricordi di guerra – la Grande Guerra – e del Generale (Cosimo Cinieri) che mandava a morire i suoi soldati con fanatica noncuranza. Nel racconto, lui si identifica nella madre, vedova di guerra sconvolta dal dolore e costringe gli altri due ad accompagnare come prefiche i lamenti della donna. Poco dopo il racconto, sempre con lui protagonista, si sposta nella Seconda Guerra e lo vede partire con i partigiani, avendo lasciato l’amata Maria che gli aveva promesso di aspettarlo. Ora è con due compagni, il disincantato Lupo (Simone Longo) e un ragazzo (Fabio Benetti); in uno scontro a fuoco con i tedeschi guidati dal Maggiore Mayer (Welsh) il giovane muore e l’ufficiale ordina di uccidere 30 italiani (10 per ogni militare morto ucciso dai tre partigiani). E’ notte e Soldato decide di scappare dal bosco, seguito di lì a poco da Scudiero; non trova, però, la via d’uscita ma solo un balilla (Giovanni Calapai) che lo porta per mano in una radura dove stanno il Generale ed altri morti nelle guerre. Poco dopo si materializza un altro ricordo: Soldato, in divisa da milite fascista sposa Maria (Giorgetti) ma, quando durante il pranzo di nozze, lei va nella sua stanza a frugare tra i propri ricordi, lui la sorprende con le lettere d’amore di Capitano e le fa una scenata. L’indomani Soldato, convinto che nel carrozzone sia nascosta la mappa per uscire dal bosco, vi entra e porta via una scatola di metallo che però contiene solo delle lettere, una pistola ed un vestito da donna, Scudiero prende il vestito e se lo mette, rivelandosi – anche a sé stessa –  come Maria. Arriva Capitano e racconta di come, tornato dalla guerra civile, si fosse precipitato da Maria – che aveva indosso proprio quel vestito – e avendola trovata sposata, avesse spaccato la testa con una pietra a Soldato, e poi sparato a Maria e a sé stesso.

Dopo l’intenso e magico Ritual la Esperimentocinema di Brazzale ed Immesi si avventura in un nuovo progetto di grande visionarietà e coraggio. Partendo dal testo teatrale del veneto Pino Costalunga, Le guerre orrende  ricco di riferimenti colti, con citazioni di Ruzante e Folengo, Govoni, la Batracomiomachia attribuito ad Omero e ripresa da Leopardi, Apollinaire – i due autori, con l’aggiunta di un’acca ad Orrende, come da lezione machiavellica, hanno dato il loro senso – in questo riconducibile a Jodorowsky, che in Ritual era fisicamente e autoralmente presente – di un film non tanto e non solo pacifista ma portatore di un segnale (artistico e stilistico) di pacificazione:  non si esce dall’(h)orrenda guerra che è in noi, negandola ma accettandola, né si può realmente raccontarla senza trasfigurarla in arte. Le guerre horrende non è solo questo: è un bel film con una regia solida e matura e, per molti aspetti, richiama le splendide realizzazione del Carmelo Bene cineasta, un Bene ammorbidito, ammodernato (pacificato appunto) ma con una capacità di trasformare materiali poveri (anche se la produzione conferma la capacità di reperire tutto ciò che serve con i mezzi a disposizione) in perfetta attrezzeria; così come sono notevoli sul piano artistico le capacità di agire su più piani; per esemplificare: il ferino personaggio della prostituta Celestina (Francesca Trincia) è certamente memore della Saraghina di Fellini ma è anche – sin dal nome – parente della meretrice cinquecentesca di Fernando de Rojas. Una citazione merita il bel passaggio dal colore al bianco e nero dei ricordi del Direttore della Fotografia Ivo Lucchin. Il pregio maggiore del film è però nei tre bravissimi protagonisti, Livio Pacella, Dario Leone e Désirée Giorgetti; lei, in particolare, si conferma come uno dei talenti più veri e forti di queste ultime stagioni, un’attrice nata che vorremmo continuare a vedere sullo schermo, dove, spesso, ci dobbiamo accontentare di scialbe e ripetitive performance.




La stanza delle meraviglie (Wonderstruck)

di Todd Haynes. Con Julianne MooreOakes FegleyMillicent SimmondsJaden MichaelCory Michael Smith USA 2017

1977, Minnesota. Il bambino Ben (Fegley) ha da poco perso la mamma (Michelle Williams), non ha mai conosciuto il padre, vive dalla zia Jenny (Amy Hargreaves) e con i cugini Robbie (Sawyer Nunes) e Hanna (Ekaterina Samsonov) ed è tormentato dal sogno ricorrente di lupi che lo inseguono. In una notte di temporale vede una luce provenire dalla baita nella quale prima abitava e trova la cugina che si sta provando dei vestiti di sua madre; rimasto solo cerca tra gli oggetti che gli sono cari (è sempre stato un appassionato collezionista) e trova un libro da titolo Wonderstruck con le immagini dell’Armadio delle Meraviglie esposto al Museo Storia Naturale di New York, che all’interno ha uno scontrino di una libreria di New York con scritto un messaggio d’amore di un certo Dannie; Ben telefona al numero che appare nello scontrino ma in quel momento un fulmine colpisce il cavo del telefono e la scarica elettrica lo rende sordo. Poco dopo, aiutato da Hanna, portando il libro, il biglietto e un gruzzoletto che la mamma teneva in una scatola di latta, scappa per andare a cercare il padre. 1927, New Jersey. La dodicenne Rose (Simmonds), sorda dalla nascita, vive nel ricordo della madre Lilian Mayhew (Moore), famosa attrice del muto che, dopo il divorzio, la ha lasciata con il severo padre, il dottor Kincaid (James Urbaniak); un giorno, mentre sta per arrivare il famoso logopedista Dr. Gil (Anthony Natale), si taglia i lunghi capelli per rendersi irriconoscibile e fugge a New York, dove la madre sta per debuttare in un dramma teatrale. Arrivata al teatro, però, la madre le fa una sfuriata e la chiude in camerino; lei riesce a filarsela da una finestra sulla strada e, avventurosamente, a raggiungere il Museo di Storia Naturale dove lavora suo fratello Walter (Michael Smith). Qui si mette nei guai perché mette un bigliettino su di un meteorite esposto ma un sorvegliante (Damian Young) crede che voglia rubare le monetine che, auguralmente, i visitatori vi depongono. Viene portata via dal fratello e a casa sua si addormenta, dopo avergli strappato la promessa che la terrà lì con lui. Anche Ben è arrivato a New York e – dopo aver dormito alla stazione e essere stato derubato da uno scippatore (Asa Liebman) – arriva alla libreria ma è chiusa da tempo; un ragazzino, Jamie (Michael), gli dice che si è spostata dietro l’angolo ma lui non lo può sentire così lo segue mentre accompagna al lavoro il padre (Raul Torres), che è inserviente al Museo. Qui i due ragazzi fanno amicizia e Jamie lo porta a rifugiarsi in una stanza chiusa. Di notte Jamie lo conduce in giro per il museo e Ben vede un plastico con i lupi che è identico ai suoi incubi, dei disegni che riproducono la baita dove ha vissuto e, tirando una corda, scopre di essere nella Stanza delle Meraviglie, paradiso dei primi collezionisti, della quale sua madre gli parlava spesso. Jamie, vedendolo sconvolto, gli confessa di non avergli detto subito dove si trovava la libreria perché lui era il primo amico della sua vita solitaria e voleva che stesse un po’ con lui. Ben si arrabbia e corre verso la libreria, entra ma il libraio (Tom Noonan) è nel retrobottega e lui, stanchissimo, si addormenta al piano superiore. Poco dopo arriva la sorella (Moore) sorda del libraio e mentre i due parlano a segni, Ben si sveglia e fa cadere lo zaino, dal quale esce il libro Wonderstruck; Rose (è proprio lei) gli dice di essere sua nonna e gli racconta la storia di Danny (John Boyd), suo figlio e padre di Ben, morto dopo aver creato il plastico dei lupi.

Todd Haynes, sin dal suo film d’esordio, Superstar – The Karen Carpenter Story era stato celebrato – ed etichettato (lui non ha mai condiviso la definizione) – come autore per eccellenza del New Queer Cinema (il cinema della diversità). In realtà il suo cinema immaginifico, talora visionario ed elegantissimo non è solo questo; c’è sempre nei suoi film una grande capacità di racconto – non a caso è stato spesso paragonato al grande maestro del melò Douglas Sirk – e una accuratezza tecnica esemplare. Era naturale che la sua filmografia incontrasse lo scrittore e disegnatore Brian Selznick, dal cui La straordinaria invenzione di Hugo Cabret Scorsese aveva tratto Hugo Cabret, e che scegliesse Wonderstruck come testo da trasferire sullo schermo. Il romanzo si adatta benissimo al perfezionismo – quasi viscontiano – di Haynes, così come la storia di due ragazzini audiolesi – un po’ come nel 1948 aveva fatto Joseph Losey con Il ragazzo dai capelli verdi – diventa un bel pretesto per raccontare l’isolamento di due “diversi”, esattamente come i suoi Lontano dal paradiso e Carol collocavano negli anni ’50 la discriminazione sessuale per dare un sapore di favola lontana a un problema ancora attuale. Non si può dire che sia un film completamente riuscito; alcune delle caratteristiche del cinema di Haynes sono un po’ esasperate: un trovarobato raffinatissimo ma prevaricante, una qualche algidità letteraria nel racconto (quest’ultima potrebbe nascere dalla scelta – in genere non consigliabile al cinema – di affidare la sceneggiatura all’autore del romanzo, che si è fatto aiutare da John Logan che aveva già curato lo script di Hugo Cabret ma poi ha firmato da solo). Un film non è però opera di un solo autore e, per La stanza delle meraviglie dobbiamo riconoscere che il perfezionismo del regista (che, non solo, ha voluto nel ruolo di Rose una giovane attrice sorda ma la affiancata ad altri interpreti audiolesi come Lauren Ridloff – ex Miss Deaf America – nel ruolo della cameriera Pearl) ha ritrovato una squadra di tecnici eccezionali: lo scenografo Mark Friedberg, il direttore della fotografia Ed Lacham (cui si devono le belle alternanze di prezioso bianco e nero e squillanti colori), il musicista Curter Buwell e il prezioso montatore Affonso Goncalves. Belle immagini insomma ma talvolta, si vorrebbe veder spuntare il Ben Stiller e le sculture animate di Una notte al museo.




La Terra dell’Abbastanza

di Damiano D’InnocenzoFabio D’Innocenzo. Con Andrea CarpenzanoMatteo OlivettiMilena ManciniMax TortoraLuca Zingaretti Italia 2018

Nel desolato scenario di Ponte di Nona a Roma, Mirko (Carpenzano) torna a casa in macchina di notte insieme all’amico Manolo (Olivetti), dopo aver consegnato per 30 euro delle pizze; mentre i due ragazzi parlano dei loro progetti, investono un passante che sbuca all’improvviso. Spaventati scappano e vanno a chiedere aiuto al padre di Manolo, Danilo (Tortora), un balordo che vive ai margini della malavita che li tranquillizza e li manda a dormire. Poco dopo, però, Danilo viene a sapere che l’investito era un pentito del clan locale dei Pantano e, tutto eccitato, organizza un incontro del figlio con Simone (Giordano De Plano), fratello del boss Angelo (Zingaretti) perché lo faccia entrare nel giro. Così avviene e Manolo comincia ad evitare Mirko, il quale – arrabbiato ed insospettito dall’improvviso benessere dell’amico – lo affronta e gli fa dire la verità, chiedendogli di far entrare anche lui nel clan (in fondo era lui a guidare la macchina investitrice). Manolo recalcitra un po’ ma un giorno gli propone di accompagnarlo nel suo primo incarico importante: ammazzare un marocchino che non pagava il pizzo. Simone fornisce loro le pistole e l’incarico viene portato a compimento. Ora i due ragazzi sono a pieno titolo nella banda e svolgono vari lavoretti, come portare preservativi e generi di conforto alle prostitute che battono per i Pantano. Mirko, con i nuovi guadagni, riempie di regali la fidanzata Ambra (Michela De Rossi) e la madre Alessia (Mancini), che con il lavoro saltuario di addetta alle pulizie campa se stessa, il figlio ed una bambina, nata dalla relazione con Carmine (Walter Toschi), che vive con la sua famiglia da un’altra parte e può fare pochissimo per aiutarli. Alessia, di fatto, capisce benissimo da dove vengono quei soldi e, per un po’, accetta le spiegazioni del figlio – sia pur con qualche sfuriata – ma quando questi si presenta alla festa di compleanno della sorellina con una quantità di oggetti costosi, lo aggredisce e lui, deluso ed arrabbiato, se ne va di casa. Ora anche lui – come Manolo che è a suo agio nella loro nuova vita e non si fa domande – si sforza di adeguarsi alla logica che lo circonda (tanto da essere lasciato da Ambra, perché ha cominciato a farci l’amore con la brutalità che ha visto nei Pantano quando “usano” le loro battone). I due condividono l’ambizione di uscire dal ruolo di manovali del crimine per essere promossi a killer del clan e l’occasione si presenta quando Angelo chiede a Simone di far ammazzare un rivale che si sta allargando troppo…

I fratelli D’Innocenzo sono degli esordienti assoluti: provengono dalla scuola alberghiera e sono totalmente autodidatti; la loro prima esperienza importante (avevano già scritto Two days per Romano Scavolini) è stata – avendo, dicono, incontrato Garrone in una pizzeria – quella di partecipare alla sceneggiatura di Dogman, grazie anche alla loro conoscenza della vita in borgata (sono nati a Tor Bella Monaca). La terra dell’abbastanza è stato selezionato a Berlino per la sezione Panorama, dove è stato accolto con buoni riscontri. I gemelli Damiano e Fabio hanno una buona vena – e certamente un cast tecnico di primordine, dalla fotografia di Paolo Carnera al montaggio di Marco Spoletini, ha contribuito non poco a limarne le imprecisioni – ma non sembra così giustificato il coro di entusiasmo, che si è levato all’apparire del film. Intanto, senza nulla togliere alla loro ispirazione, sembra che da un paio d’anni il nostro cinema si sia concentrato sulle borgate romane; l’elenco è lungo: si va dallo splendido Non essere cattivo al simpatico (e un po’ sopravvalutato) Lo chiamavano Jeeg Robot, ai pleonastici Fiore, Cuori puri, Il contagio, Et in terra pax, Manuel, Il permesso – 48 ore fuori e Il più grande sogno, al comico (e un po’ razzista) Come un gatto in tangenziale, al letterario Fortunata, per arrivare al pluripremiato e algido Dogman (c’è anche la versione gore della storia del canaro: Rabbia furiosa di Sergio Stivaletti). I due registi citano tra i loro ispiratori l’Abel Ferrara di Fratelli, il Rossellini di Paisà, Garrone, i quadri di Francis Bacon e- con giusto timore reverenziale – ovviamente Pasolini. Ed è proprio pensando a Pasolini che viene in mente la prima notazione critica: tra il suo primo romanzo Ragazzi di vita e il successivo Una vita violenta c’è una profonda differenza: nel primo si sente l’occhio –talora involontariamente giudicante e moralistico (‘’ … che je ne fregava della morale al Riccetto’’) dell’autore – il secondo è impetuosamente raccontato con un’empatia assoluta con il protagonista, qualunque cosa faccia. Questa empatia c’è tutta nei film “di borgata” di Pasolini, sino al capolavoro di scrittura de La notte brava diretto da Bolognini, come c’è nelle opere di Calligari, mentre La terra dell’abbastanza mantiene le distanze, con una pietas più raccontata che vissuta; in questo i fratelli mostrano di essere allievi di Garrone – che anche quando racconta le favole lo fa con sguardo esterno; anche se forse Marco e Ciro di Gomorra erano più “veri” di Mirko e Manolo. In conclusione: un interessante esordio ma aspettiamo di vedere come i due fratelli cresceranno.