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Non ci resta che il crimine

di Massimiliano Bruno. Con Alessandro GassmannMarco GialliniEdoardo LeoGianmarco TognazziIlenia Pastorelli Italia 2019

Moreno (Giallini), Sebastiano (Gassmann) e Giuseppe (Tognazzi), sono tre sfigati: il primo, costantemente in ritardo con l’assegno di mantenimento alla moglie (Sara Baccarini), coinvolge sempre gli altri due – un fessacchiotto succube della moglie ed un commercialista, che lavora per uno stipendio bassissimo nello studio del suocero (Antonello Fassari) – in imprese improbabili nelle quali “i soldi si fanno con la pala!”. L’ultima trovata è quella di vestirsi da duri degli anni ’80, con tanto di scacciacani, e per guidare i turisti in un tour nei luoghi delle imprese della Banda della Magliana, delle cui gesta Moreno è un fanatico esperto. Arrivati a Trastevere, un vigile (Maurizio Lops) li multa di 1.000 euro per divieto di sosta ed esercizio commerciale abusivo. Alla scena assiste, divertito, Gianfranco (Massimiliano Bruno) – loro vecchia vittima dei tempi della scuola: lo avevano soprannominato “Ventosa” perché li seguiva ovunque e lo bullizzavano – che è diventato ricco e, per mortificarli, offre loro di pagare la multa in cambio di un giro del tour. Arrivano al bar che era stato uno dei quartieri generali della Banda e, mentre Gianfranco prende il caffè, i tre, come ai tempi della scuola, scappano nel retro; qui si inoltrano in oscuri cunicoli e all’uscita si trovano in pieni festeggiamenti per una vittoria dell’Italia ai mondiali del 1982. Spaventati, rientrano nel bar ma trovano “Renatino” De Pedis (Leo) e i suoi che seguono una partita in televisione; fanno per andarsene ma Giuseppe (che sa a memoria centinaia di risultati di calcio) si lascia sfuggire una frase che anticipa l’azione sul teleschermo; i banditi si allarmano e li minacciano con le pistole ma i tre biascicano una scusa e riescono ad andarsene. Per strada, ormai rassegnati ad essere prigionieri del passato, decidono di sfruttare l’abilità di Giuseppe e, con 500.000 lire che Moreno aveva acquistato su eBay per rendere più realistico il tour, scommettono sui risultati dei mondiali con l’allibratore Fariseo (Marco Conidi); vincono 10 milioni con i quali si danno a spese pazze, finendo la serata in un locale notturno. Qui Sebastiano viene circuito dalla spogliarellista Sabrina (Pastorelli), che, leccandogli un dito, gli ingoia per sbaglio la fede; quando lui se ne accorge e va nel suo camerino, lei si innamora della sua ingenuità (lui le regala un lassativo che aveva comprato per la moglie per frale recuperare l’anello), mentre il coreografo del locale (Fabio Ferri), la mette in guardia ricordandole che è la donna del pericoloso Renatino. I tre fanno bisboccia, scolando con le entraineuse varie bottiglie di champagne e trovandosi con un conto di svariati milioni. Quando chiedono di parlare con il proprietario, si trovano davanti De Pedis, che sequestra Giuseppe e dice agli altri due che lo ammazzerà se entro la fine della partita dell’Italia dell’indomani non porteranno il dovuto. Nella disperazione, Sebastiano va a casa di Sabrina per recuperare almeno la fede e la ragazza lo corteggia pesantemente ma Renatino, che si era fatto accompagnare da Giuseppe per sorvegliarla, vede che non è sola e fa irruzione; Sebastiano, non visto, scappa e i due fidanzati fanno pace ma il boss ha un tarlo di gelosia. L’indomani Moreno ricordando che nella basilica di Sant’Apollinare è nascosto il tesoro della Banda va con Sebastiano – che tranquillizza sul pericolo di essere scoperti, perché i testi recitano che di lì a poco il Sorcio (Federico Galante) farà una soffiata e farà arrestare tutta la banda –   a prelevare i soldi per pagare il debito, mentre Giuseppe, nel tentativo di salvarsi la pelle, fa vincere parecchi milioni a Renatino, che scommette sul risultato della partita e sui gol con Fariseo. I due amici arrivano in tempo con i soldi ma succede che la canzone “Cuore, sole, amore”, che Sabrina canticchia, avendola sentita da Sebastiano, viene intonata anche dal Sorcio (che, a sua volta, l’aveva sentita da Sebastiano): Renatino si convince che è lui l’amante della sua donna e l’ammazza. Subito dopo decide di tenersi Giuseppe, rinchiudendo gli altri due, per fare soldi con il Totonero. Questa svolta rispetto alla storia, provocherà una scissione anticipata della banda guidata dell’insofferente Bove (Emanuel Bevilacqua) e coinvolgerà i tre malcapitati in una rapina. Tra sparatorie, fughe e finte morti, i tre amici verranno salvati da Gianfranco e, rafforzati dall’esperienza, potranno chiudere i loro conti in sospeso ma…

Massimiliano Bruno è uno dei pochissimi veri autori di commedie di questi ultimi anni, che hanno visto un’epidemia di pseudo-commedie all’italiana, scritte, dirette e interpretate da pensosi ed inadeguati autori ed attori, che, smessa – almeno apparentemente – la noiosa divisa engagè, si prodigano in improbabili farsette con morale “de sinistra” d’ordinanza, distruggendo quel poco di credibilità commerciale rimasta al nostro cinema. Bruno, dimenticando titoli meno riusciti (e, soprattutto, l’inutile Gli ultimi saranno ultimi), ha dimostrato con Nessuno mi può giudicare e Viva l’Italia di saper trovare spunti originali e talvolta anche politacally uncorrect (che è sempre una boccata di ossigeno, rispetto alla fanghiglia di conformismo nella quale siamo invischiati). L’idea di Non ci resta che il crimine viene da lontano: tanto per restare in casa nostra, pensiamo a O.K. Nerone di Mario Soldati del 1951, nel quale Walter Chiari e Carlo Campanini, dopo una botta in testa, si trovano nell’antica Roma alle prese con il dispotico imperatore (era Gino Cervi, mica il pur simpatico Edoardo Leo). La trovata però è sviluppata con buon mestiere (Bruno ha una bella storia di scrittura, spesso in collaborazione con Brizzi) e il cast funziona: i protagonisti sono in buona sintonia e i caratteristi – merito sicuramente della casting Giordani ma anche della solida esperienza teatrale di Bruno – sono azzeccatissimi. La Pastorelli, infine, sembra essere – dopo Elisabetta Rocchetti (la più spontanea e la meno fortunata) e l’onnipresente Micaela Ramazzotti – la nuova, inevitabile (perche?) coatta del cinema italiano. I primi incassi sono buoni per un film che – dopo vari inciampi – sembra averci fatto ritrovare il produttore Lucisano dei tempi migliori.




La casa delle bambole – Ghostland

 di Pascal Laugier. Con Crystal ReedTaylor HicksonRob ArcherEmilia JonesAdam Hurtig Francia, Canada 2018

La nevrotica adolescente Beth (Jones), ammiratrice di Lovecraft (a lui si ispira nello scrivere racconti gotici), con la sorella Vera (Hickson) e la madre Pauline (Mylène Farmer) sono in viaggio per andare a prendere possesso di una casa che una zia ha lasciato loro in eredità. Nel tragitto sono superate da un camion dei gelati, cui Vera (in piena ribellione adolescenziale) fa un gestaccio. Arrivati alla villa isolata, la trovano arredata pesantemente e piena di inquietanti bambole. Vanno a dormire un po’ in subbuglio; poco dopo il furgone dei gelati si ferma davanti alla casa e ne scendono un uomo agghiacciante (Kevin Power) con una parrucca nera e vestito come una strega punk e un laido grassone (Archer) claudicante. I due le aggrediscono e, mentre Vera e la madre si difendono come possono, Beth, nascosta, assiste alla scena paralizzata dal terrore. Pauline alla fine, pur ferita, accoltella la strega e Vera colpisce il grassone; sollecitata dalla madre, Beth scappa. Anni dopo Beth (Reed), ora adulta e diventata una scrittrice di best seller horror, vive una vita serena con il marito (Hurtig) e il figlio (Denis Cozzi), quando le arriva una telefonata allarmata dalla madre: lei, nonostante tutto, è rimasta nella casa del fattaccio ad accudire Vera che dopo quella notte è impazzita e che – di qui la telefonata – ha una nuova crisi. Beth – pur nel pieno della promozione del suo ultimo successo, che è ispirato ai fatti di quella notte – si precipita nella casa e trova la sorella in condizioni pietose e auto-reclusa in cantina e la madre che si fa forza come può. Di lì a poco tornano, forse fantasmi, la strega ed il grassone e l’incubo ricomincia (o non era mai finito?).

Lovecraft è, insieme a Poe (a cui si è ispirato per i primi racconti), il maggior autore di horror della tradizione statunitense. Stephen King lo considera un maestro è tutto il genere gotico moderno gli è debitore. A differenza di Poe, le cui opere sono state trasposte sullo schermo dal geniale Roger Corman in capolavori (La maschera della morte rossa, Il pozzo e il pendolo, I vivi e i morti, Sepolto vivo, La tomba di Ligeia, I racconti del terrore, I magni del terrore), Lovecraft ha ispirato, oltre a La città dei mostri (sempre un Corman notevole – peraltro tratto anche da una poesia di Poe – ma non il migliore), decine di film (Re-animator, Necronomicon, Chtulu, La fattoria maledetta, La morte dall’occhio di cristallo, tra i più noti) ma nessun titolo realmente memorabile, se non tra gli appassionati. In realtà, i suoi racconti – nei quali, a differenza dello psicologico Edgar Allan che l’orrore lo faceva nascere dalla condizione umana, era centrale l’elemento demoniaco o fantasmatico – hanno influenzato il filone riconducibile a La casa: un’abitazione sinistra che, colpita da una maledizione, distrugge chi vi dimora. Laugier è uno specialista (ha girato solo horror, tra i quali i notevoli Saint-Ange e Martyrs) e per questo film dichiara un debito di ispirazione a Tobe Hooper ai suoi Non aprite quella porta – in effetti il grassone deve molto a Leatherface (ma un po’ anche al buffo Sloth dei Goonies) – oltre, ovviamente, rifarsi a Lovecraft, che non solo ispira le opere di Beth ma appare in carne ed ossa (o quasi) quale saggio deus ex-machina. In conclusione, La casa delle bambole – Ghostland è un film riuscito a metà: un buon cast, con la bella intuizione di usare la famosa cantautrice Mylène Farmer (soprannominata l’Ange Rouge per la sua trasgressività), scenografie (di Gordon Wilding) di grande effetto, bei dialoghi ma paura quasi zero, con un viavai tra passato e presente, immaginazione e realtà, rimozione e angoscia un po’ meccanico e senza (qui ci vuole) quel senso lovecraftiano del male che lo avrebbe reso speciale.

 




Bohemian Rhapsody

di Bryan Singer. Con Rami MalekLucy Boynton, Gwilym Lee, Ben HardyJoseph MazzelloAidan Gillen Gran Bretagna, USA 2018.

A Londra nel 1970, alla fine di un concerto degli Smile, il bassista e cantante Tim Staffel (Jack Roth), se ne va e ai due musicisti restanti – il chitarrista Brian May (Lee) e il batterista Roger Taylor (Hardy) – si presenta Farrokh “Freddie” Bulsara (lui è Parsi e la sua famiglia zoroastriana è fuggita dalle persecuzioni mussulmane), che si offre come frontman. La sua improvvisata esibizione li convince e lui – seguito poco dopo dal bassista John Deacon (Mazzello) – entra nel gruppo, che assume il nome The Queen, e lui cambia il proprio cognome in Mercury. Dopo un po’ di concerti di routine, la band decide di vendere il furgone, mettere insieme i risparmi e incidere un disco. La demo incuriosisce il potente agente Ray Foster (Make Meyers), che li prende in agenzia, affidandoli al manager John Reid (Gillen). Cominciano i primi album e i primi successi, mentre Freddie si sposa con l’amatissima Mary Austin (Boynton). 4 anni dopo, i Queen, spinti dalla costante ricerca di nuove sonorità di Mercury, incidono l’album A night at the Opera, che contiene il complesso ed eccentrico Bohemian Rapsody: Freddie è convinto che vuole che questo brano debba essere il singolo di lancio dell’LP ma Foster è contrarissimo: il pezzo – oltre ad essere fuori dai canoni del rock –  dura 6 minuti e le radio non lo trasmetterebbero. Mercury non demorde e su questo si consuma la rottura con l’agenzia. Ora i Queen, rappresentati da Reid, entrano nella scuderia EMI e –anche grazie al brano incriminato – hanno un successo enorme. Mary è abituata alle sue lunghe assenze, dovute ai trionfali concerti nel mondo, ma comincia a sentire che in lui sta venendo fuori qualcosa: Freddy ha costanti e ripetuti incontri omosessuali e, quando, messo alle strette, confessa, dichiarandosi bisessuale, lei gli dice con chiarezza: “No! Sei gay!” e, con dolore, lo lascia. Per lui comincia un periodo di eccessi da tutti i punti di vista, nei quali lo accompagna Paul (Allen Leech), il mellifluo braccio destro di Reid, che gli altri Queen mal sopportano. Una sera Reid gli propone un vantaggiosissimo contratto da solista e lui, furioso, non solo rifiuta ma licenzia l’agente, affidando l’incarico all’avvocato della band Jim “Miami” Beach (Tom Hollander). Ora Freddie è completamente gestito dal Paul, che è il suo amante e che – dopo aver preso le distanze dalle proposta di Reid – riesce a fargli firmare l’impegno per due album da solista e a staccarlo dagli altri della band, nascondendogli, inoltre, le continue, preoccupate telefonate di Mary – che ha un nuovo compagno, David (Max Bennett) ma che gli vuole sempre bene – e anche i messaggi di Miami, che lo invita a partecipare, con i Queen, al Live Aid di Bob Geldorf (Dermot Murphy). Mary rompe gli indugi e lo va a trovare e, quando Freddie si rende conto dell’isolamento al quale lo stava riducendo Paul, lo scaccia di casa. Prega poi Miami di organizzare un incontro con May, Taylor e Deacon, durante il quale, dopo essersi scusato con loro, li convince a partecipare insieme all’evento di Geldorf. Mentre fervono le prove, gli viene diagnosticata l’AIDS; lui lo comunica ai membri della band, va a cercare un cameriere gentile che aveva amato, Jim Hutton (Aaaron McCusker), e con lui va dai suoi genitori (Ace Bhatti e Meneka Das), riconciliandoli con la propria eccentricità ed omosessualità. Il concerto è un trionfo e l’esibizione dei Queen registra il picco più alto di ascolto mondiale.

Le biografie di musicisti sono un capitolo importante della storia del cinema, non a caso il primo film sonoro accreditato è Il cantante di Jazz del 1927 sulla vita di Al Jolson, interpretato da lui stesso. Dopo di che Benny Goodman (Il re del jazz), George Gershwin(Rapsodia in blu), Glenn Miller (La storia di Glenn Miller), Cole Porter (Notte e dì), Rodgers e Hart (Parole e musica), Charlie Parker (Bird), The Four Season (Jersey Boys), Liberace (Dietro i candelabri), i Doors (The Doors), Brian Wilson (Love and Mercy), Johnny Cash (Quando l’amore brucia l’anima) , Ray Charles (Ray), i Sex Pistols (Sid and Nancy) Janis Joplin (The Rose) e John Lennon (Nowhere boy), per citarne solo alcuni, sono stati celebrati da film, spesso di bel successo popolare. Poteva mancare un omaggio ad una delle ultime grandi star del pop come Freddie Mercury? E così Bryan Singer (I soliti sospetti, X Men), dopo varie vicissitudini produttive, di scrittura e di ricerca del protagonista (doveva essere Sacha Baron Cohen ma ci sono state delle incomprensioni), sceglie l’emergente Malek (Mr. Robot, Papillon) e dà il via ad uno dei maggiori successi tra i biopic musicali (secondo solo, negli Stati Uniti agli incassi di Straight Outta Compton del 2015 sul gruppo rap N.W.A.). Boemiean Rapsody ha avuto anche critiche negative: da un lato, sono stati sottolineate vistose licenze temporali: tra tutte, l’aids nella realtà gli era stato diagnosticato due anni dopo il Live Aid; (di contro, del concerto vengono riprodotti con cura maniacale anche gli oggetti presenti sul palco); si è considerato il ruolo di May e Taylor quali produttori esecutivo un ostacolo per una narrazione meno agiografica; i dentoni (oggettivamente imbarazzanti) del trucco di Malek sono stati visti come un segnale di riproduzione quasi caricaturale del divo. Non sembra così importante tutto questo: è un omaggio ad una rockstar e ad una band mitica ed ha – Dio (o chi per lui) e renda merito a Singer – tutte le sane ingenuità di ogni musical: quando Fred Astaire sembra volare danzando a metà di un dialogo con Ginger Rogers o quando (in Accadde a Brooklyn) Frank Sinatra e Kathryn Grayson improvvisano Là ci darem la mano dal Don Giovanni di Mozart non ci importa di sapere quante prove e fatica abbia richiesto quell’esibizione, ce la godiamo e lasciamo che ce la presentino come una naturale esplosione di artisticità. Singer si è preso una pausa rilassata (sempre per mantenere la metafora) da assassini e mutanti e a noi sta bene così.

 




Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi) (Dead in a week: or your money back)

di Tom Edmunds. Con Tom WilkinsonAneurin BarnardFreya MavorChristopher EcclestonMarion Bailey  Gran Bretagna 2017

William Morrisson (Barnard) è un giovane scrittore senza successo e la sua vita è stata segnata da una tragedia: a 10 anni (Harry Collett) ha visto i suoi genitori (Keir Charles e Emma Campbell-Jones) morire schiacciati da un pianoforte. Ora è sul parapetto di un ponte sul Tamigi deciso – ma un po’ spaventato – a buttarsi di sotto (è il suo decimo – o settimo: i primi tre erano solo esperimenti – tentativo di suicidio), quando arriva uno sconosciuto, Leslie O’Neil (Wilkinson), che gli offre i suoi servizi nel caso anche questa volta non morisse, lasciandogli un biglietto da visita. Alla fine il ragazzo si lancia ma cade su di un battello. Il direttore (Tim Steed) della piscina comunale, nella quale lavora come bagnino, lo licenzia: un bagnino con tendenze suicide non dà proprio il massimo di sicurezze e, arrivato a casa, trova la solita pila di lettere di diniego degli editori; decide così di chiamare Leslie, che gli dà appuntamento in un bar periferico. Davanti ad una tazza di tè, viene firmato il contratto: al prezzo di 2.000 sterline, il killer (lui preferisce definirsi “una clinica ambulante per l’eutanasia”) lo farà fuori con un colpo d’arma da fuoco (William avrebbe preferito essere investito mentre salvava eroicamente un bambino ma costava troppo); se entro una settimana il contratto non venisse onorato, i soldi verrebbero restituiti. Leslie è anziano e negli ultimi tempi ha avuto pochi incarichi, rischiando di essere messo in pensione (e lui ama il proprio lavoro) dall’Associazione Assassini per la quale lavora; questo accordo gli consente di essere nel plafond di lavoro previsto; è quindi di ottimo umore quando va a depositare il contratto dalla segretaria dell’Associazione (Cecilia Noble). Poco dopo, a casa, la moglie Penny (Bailey) lo accoglie festosa, proponendogli una lunga crociera ma lui la delude un po’ dicendole che vuole continuare a lavorare; la delusione le passa subito perché è tutta presa dalla confezione di un cuscino con il quale parteciperà alla Fiera del Ricamo del quartiere. Al rassegnato e sostanzialmente sollevato William arriva una telefonata: è Ellie Adams (Mavor), redattrice di una importante casa editrice che si è entusiasmata del suo manoscritto e gli dà appuntamento per il giorno dopo a pranzo in un ristorante alla moda. Lui chiede a Leslie di non ucciderlo prima dell’appuntamento e questi, apparentemente, acconsente ma – temendo che una svolta positiva nella carriera di scrittore lo possa indurre a voler vivere – lo segue e, durante il pranzo – nel quale William scopre in Ellie un’anima gemella (anche lei ha assistito alla morte per incidente dei genitori ed ha avuto velleità suicide) – appostato su un tetto, spara, uccidendo per sbaglio il cafonissimo capo (Nigel Lindsay) di Ellie. I due ragazzi si nascondono sotto il tavolino e William le racconta del contratto. Il giorno dopo Ellie va a casa sua per lavorare sul libro e, mentre lui oppone un flebile resistenza (in fondo, dovrebbe morire di lì a poco), arriva Leslie; loro cercano di convincerlo a lasciar perdere ma lui non vuole certo perdere il lavoro; i ragazzi riescono a scappare con l’auto ma vengono fermati da una pattuglia per accertamenti; arriva Leslie, spara e colpisce un poliziotto (Parth Takerar); Ellie prende la moto della polizia e porta William nella sua casa di campagna, dove poco dopo fanno l’amore. Leslie viene convocato dal capo dell’Associazione, Harvey (Eccleston) che gli comunica che, dopo i guai che ha combinato, l’incarico passa al più giovane e spietato Ivan (Velibor Topic) e che lui, con tanto di orologio d’oro in regalo, è in pensione. Leslie non ci sta e….

Nel 1879 usciva il romanzo Le tribolazioni di un cinese in Cina nel quale Jules Verne immaginava un ricco cinese che, caduto in disgrazia e incapace di suicidarsi, incarica un suo amico di ucciderlo in cambio di una sontuosa ricompensa; quando una sua speculazione, a sorpresa, va a buon fine, il protagonista avrà un gran daffare per evitare di essere ammazzato dall’avido e caparbio sicario. Questa storia, una delle più umoristiche dello scrittore francese, ha ispirato vari film. Uno solo, L’uomo di Homg Kong di Philippe De Broca del 1965, però, dichiara, sin dal titolo originale la provenienza, mentre Omicidio a pagamento diretto nel 1957 da Maurice Regamey (che ha consolidato il personaggio paperinesco – tenero, iracondo e pasticcione – di Louis De Funès), l’ironicamente cupo Ho affittato un killer (1990) di Aki Kaurismaki e questo sono, evidentemente solo ispirati al plot di Verne. Il giovane sceneggiatore Tom Edmunds, qui alla sua prima regia, dichiara come fonti di ispirazione film drammatici come Leon, The American, Frank Costello, faccia d’angelo e soprattutto In Bruges – La coscienza dell’assassino, nei quali il sicario protagonista è in alle prese con un ultimo, definitivo incarico. Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi) non è però un film drammatico, anzi, tanto che, come aveva fatto Kaurismaki, parte con un’esplicita citazione di quel gioiello di umorismo nero che è La signora omicidi (1965) di Alexander MacKendrick; inoltre, a dirla tutta, il Leslie di Wilkinson ha molti punti in comune con il raffinato killer Hawkins, cui dà vita Alastair Sim in Assassino di fiducia di Robert Day nel 1956. Magari quest’ultimo film, Edmunds non lo ha visto ma quello che è certo è che Morto tra una settimana è un perfetto esempio di scrittura nel solco della miglior tradizione inglese del genere. La regia e il montaggio non fanno gridare alla scoperta di un genio del cinema ma la scrittura e le interpretazioni (il cast è semplicemente perfetto) sono divertentissime.




The Reunion (Aterträffen)


di Anna Odell. Con Anna OdellAnders Berg, Robert Fransson, Rikard Svensson, Niklas Engdahl, Minna Treutiger, Sanna Krepper.  Svezia 2013

Un gruppo di ex-compagni di scuola organizza una cena per ritrovarsi dopo vent’anni. Quando sono tutti a tavola, con un po’ di ritardo arriva Anna (Odell) che, alla fine del brindisi di Anders (Berg) pieno di retorica sui felici e formativi anni della scuola, si alza e ricorda come tutti loro, isolandola e ridicolizzandola, le avessero reso quegli anni un vero inferno, convincendola di essere brutta e inferiore; il goliardico Robban (Robert) cerca di buttarla sul leggero ma lei non ci sta e si rivolge a Rikard (Svensso), il bello della classe, e al protervo Nille (Engdahl) per rammentare come il primo durante una gita la avesse corteggiata per poi schernirla davanti a tutti mentre il secondo era solito dirle: ”Sei brutta. Perché non ti ammazzi?”. Ne ha anche per le ragazze: Minna (Treutiger) parlava con lei ma solo quando non c’era la sua amica del cuore Sanna (Krepper), altrimenti la ignorava completamente. La cena si interrompe e Rikard scommette che riuscirà di nuovo a farle credere di esserne innamorato. In effetti, apparentemente, la sua corte sembra rabbonirla ma, subito dopo, Anna va da Minna a chiederle conto del suo comportamento di allora; la ragazza scoppia a piangere e tutti gli altri, dopo averla spintonata, la caricano a forza su di un taxi. Ora siamo negli studi della produzione, dove la Odell sta lavorando al film e apprendiamo che le scene che abbiamo visto sono una finzione girata con attori; in realtà, lei alla festa non era stata invitata e ora sta cercando i suoi compagni per mostrar loro la scena e filmarne le reazioni. I pochi che raggiunge sono imbarazzati ma gentili, solo Malle (Malin Vulcano), colei che materialmente non le ha inviato l’invito, raggiunta sul lavoro le dice brutalmente che lei non era gradita. Comunque pacificata dall’aver messo su pellicola le sue frustrazioni, Anna sale su un tetto a godersi il panorama di Stoccolma con il suo aiuto-regista Erik (Erik Ehn).

Formalmente questo è il primo film della Odell ma, in realtà il suo saggio di fine corso del 2009, Okänd, kvinna 2009-349701, nel quale aveva inscenato un crollo nervoso e un tentativo di suicidio per essere internata in una clinica psichiatrica pubblica e mostrarne le carenze, era diventato un caso: lei ne aveva ricavato una piccola condanna per uso improprio di struttura pubblica e per resistenza alla polizia ma anche una certa notorietà e l’apprezzamento dell’intellighenzia svedese. Con La riunione lei si conferma – in qualche modo – erede del Situazionismo degli anni ’60 (il movimento di sinistra che con sortite provocatorie si proponeva di mostrare le falle della società), facendo anche scuola. Pochi anni più tardi (The reunion è del 2013), infatti, Robert Ostlund, dopo aver vinto nel 2017 la Palma d’Oro a Cannes, era stato candidato all’Oscar con The square, storia del direttore di una galleria d’arte moderna con varie opere di ispirazione post-situazionista; in particolare il nerboruto protagonista di una scultura vivente che picchia i partecipanti al suo vernissage ricorda da vicino la prima parte di questo film. Naturalmente il concept fa venire in mente uno dei capolavori del movimento Dogma, Festen (1988) del danese Thomas Vinteberg; però, al di là del modo assai diverso di effettuare le riprese, il film della Odell, pur non attraversato (come Festen) dal tragico tema dell’abuso familiare dei minori, ha una verità e una capacità di profondo coinvolgimento di rara efficacia. E’ certo un’opera sul bullismo ma, soprattutto, è il racconto della creatività che nasce e si stempera in una dolorosa e fecondissima solitudine (quella, nel contempo, universale ma anche peculiare del paese descritto da Erik Gandini nel suo La teoria svedese dell’amore). In Svezia The reunion ha vinto – cosa assai rara per un esordio – due premi Guldbagge (l’Oscar svedese). Non è facilissimo trovarlo ma, se potete, non perdetelo.




First Man – Il Primo Uomo

di Damien Chazelle. Con Ryan GoslingClaire FoyJason ClarkeKyle ChandlerCorey Stoll USA 2018

Los Angeles 1961, Neil Armstrong (Gosling), reduce dalla Guerra in Corea, partecipa come pilota agli esperimenti della Usa Air Force del programma Man in Space Soonest, distinguendosi per la coraggiosa freddezza con la quale affronta situazioni estreme. Lui e la moglie Janet (Foy) stanno intanto vivendo il dramma della grave malattia della loro figlioletta Karen (Lucy Stafford), che di lì a poco morirà. Nel 1962 la NASA lo convoca per una selezione – consistente anche in controlli medici particolarmente dolorosi – di astronauti, che lui supera brillantemente. Cominciano i corsi, coordinati dal comandante Deke Slayton (Chandler) e lui diventa amico di altri colleghi, in particolare di Ed White (Jason Clarke), pur mantenendo un’ombrosità di fondo (accentuata dal ricordo di Karen) che lo porta spesso ad isolarsi. Nel 1966, insieme a Dave Scott (Christopher Abbott), effettua il primo volo americano nello spazio (per i sovietici aveva già compiuto l’impresa Valentina Tereskova). L’esperimento – detto Gemini 8 – riesce solo in parte, perché un problema tecnico costringe i due piloti ad un atterraggio forzato. Sarebbe andata ben peggio se Armstrong non avesse mantenuto il sangue freddo e non avesse improvvisato scelte coraggiose ma l’incidente provoca qualche ripensamento nel Congresso (anche se i successivi lanci erano andati bene) e Armstrong, con Slayton e il loro capo Bob Gilruth (Ciaràn Hinds) debbono andare a Washington a rassicurare la politica; gli incontri vanno bene ma, rientrati in albergo, vengono raggiunti da una tragica notizia: la capsula spaziale Apollo 1, con a bordo Ed, Gus Grissom (Shea Whgham) e Roger Chaffee (Cory Michael Smith) a causa di un corto circuito è andata a fuoco e i tre piloti sono morti tra le fiamme. Al dolore per la perdita degli amici, Jane – che aveva dovuto, poco dopo, bloccare la moglie di Ed, Pat (Olivia Hamilton), che, in trance, sembrava animata da cupe intenzioni – aggiunge l’angoscia per i pericoli che corre il marito. Questi, dopo un breve periodo di dolorosa assenza, torna al lavoro, preparandosi alla missione che porterà i primi uomini sulla luna. La sera della partenza per la base spaziale, lui prepara silenziosamente il bagaglio ma Jane lo costringe a salutare i due figli, Rick (Gavin Warren) e Mark (Connor Blodgett), dicendo loro la verità sulla pericolosità della missione. Appena ultimate le ultime pratiche di preparazione, il 16 Luglio 1969, l’Apollo 11, con a bordo Armstrong, Buzz Aldrin (Stoll) e Michael Collins (Lukas Haas), viene lanciato dal Kennedy Space Center e il 20 Luglio Neil, seguito qualche ora dopo da Buzz, cammina sulla luna.

Dal meraviglioso Viaggio nella Luna del pioniere George Méliès, i viaggi nello spazio sono stati al centro di centinaia di film: dagli ingenui Uomini sulla Luna del 1950 e Space Man del 1960, agli improbabili La regina di Venere del 1958 (in cui il pianeta Venere è abitato da splendide e, per l’epoca, succinte aliene) e Il pianeta proibito del 1956 (sorta di prequel del barboso Solaris di Tarkovskij), agli horror L’astronave atomica del dottore Quatermass del 1955, Il mostro dell’astronave del 1958 e Alien del 1992, alle parodie con Bob Hope e Bing Crosby (Astronauti per forza, 1962), Gianni e Pinotto (Viaggio al pianeta Venere, 1953), Jerry Lewis (Stazione Luna, 1966), Totò e Ugo Tognazzi (Totò nella Luna,1958), ai cartoon Wallace & Gromit – Una fantastica gita, 1990 e Il pianeta del tesoro del 2002, ai colossal Apollo13 del 1995, Avatar del 2009 e Gravity del 2013, ad art-movie, come Agente Lemmy Caution, Missione Alphaville (1965) di Godard e i due Solaris (quello di Tarkovskij  del !972 e il remake di Soderberg del 2002), fino a capolavori acclamati come 2001 – Odissea nello spazio del 1968 e Interstellar di Christopher Nolan del 2014.Chazelle, però, fa dello storico allunaggio del ’69 (con tanto, per noi italiani, di Tito Stagno e Ruggero Orlando) l’occasione per ritrovare l’estro creativo del capolavoro della sua giovane carriera: Whiplash. Non è un caso se mi sono limitato all’essenziale nell’allineare gli accadimenti del plot di First man: la storia è nota ma Chazelle fa di Armstrong non l’agiografico eroe che ci è arrivato ma uno dei suoi personaggi tragicamente soli e dolenti; lui è segnato dallo stesso destino del batterista Andew, che in Whiplash si esercitava alla batteria fino a sanguinare: l’Armstrong di Chazelle (e di Gosling che, con una perfetta recitazione “in levare” ce lo rimanda) non ha tanto il richiamo dell’avventura o del destino storico che lo attende ma la masochistica caparbietà di dover essere lì, agito da inconsci eventi, sorretto da una perfezione tecnica che solo una smarrita e dolente solitudine può dargli. Il cast è perfetto ma il film decolla davvero quando ci sono solo lui e le apparecchiature spaziali. Dopo il corretto e pettinato La La Land, un nuovo graffio del regista trentatreenne.

 

 

 

 




Halloween

di David Gordon Green. Con Jamie Lee CurtisJudy GreerWill PattonHaluk BilginerVirginia Gardner USA 2018

Quarant’anni dopo la strage di Halloween ad Haddonfield in Illinois, i radiocronisti Aaron Korey (Jefferson Hall)  e Dana Haines (Rhian Rees) vanno allo Smith’s Grove Sanitarium, il manicomio criminale nel quale è ricoverato Michael Myers (James Jude Courtney e Nick Castle), l’assassino di quella notte; il Dr. Ranbir Sartain (Bilginer), che lo ha in cura, li accompagna nel cortile dove lui è incatenato ma li avverte che lui si rifiuta di parlare e infatti anche quando Aaron tira fuori la maschera da Ombra della Strega, che lui indossava durante gli omicidi, lui non apre bocca mentre gli altri internati, che avvertono la tensione, si agitano freneticamente. I due giornalisti si recano, poi, nella casa di Laurie Strode (Lee Curtis), l’unica sopravvissuta di quella notte, per intervistarla; lei si è costruita una specie di fortezza, con telecamere di sorveglianza e il giardino pieno di manichini-bersaglio sui quali si esercita quotidianamente; la sua ossessione difensiva, in passato, le ha fatto fallire due matrimoni e perdere la custodia della figlia Karen (Greer) quando aveva 12 anni. Durante l’intervista Aaron e Dana la informano che Michael sta per essere trasferito, insieme ad altri ricoverati, in un istituto di massima sicurezza. Laurie si precipita in casa della figlia – con la quale, con dolore della nipote Allyson (Andi Matichak), non parla da tempo – per mettere in guardia lei e il marito Ray (Toby Huss) ma ha un ennesimo scontro con la figlia. Al momento del trasferimento, il dottor Sartain insiste per accompagnare Michael. Poco dopo un padre (Brien Gregory) e un figlio (Vince Mattis), mentre tornano da un partita di caccia, vedono il bus che li trasportava in un fosso, con i cadaveri degli agenti sparsi intorno; entrambi vengono uccisi, non prima che il ragazzino, terrorizzato, spari a Sartain, ferendolo. L’indomani mattina è il giorno di Halloween e Michael, raggiunti Aaron e Dana in una stazione di servizio, dopo averli trucidati si riappropria della maschera della Strega e va ad Haddonfield; qui Allyson è ad una festa mascherata con il fidanzato Cameron (Dylan Arnold), che – un po’ bevuto – reagisce ad una sua scenata di gelosia buttandole il telefonino nel punch, mettendolo così fuori uso. Intanto, l’amica del cuore di Allyson, Vicky (Gardner) sta facendo la babysitter a Julian (Jibrail Nantabu) e, dopo averlo messo a letto, si fa raggiungere dal fidanzato Dave (Miles Robbins); qui arriva Michael (che ha già ammazzato due persone) con indosso la maschera, che li uccide, mentre Julian riesce a scappare e ad avvertire l’agente Hawkins (Patton), che nel ’78 aveva partecipato all’arresto dell’assassino. Laurie, che ha deciso di pattugliare le strade, capta un messaggio e, dopo aver sparato nel buio a Michael, facendolo fuggire, corre dalla figlia per convincere lei e il marito di rifugiarsi in casa sua, lasciando un messaggio sul telefonino – ormai inservibile- di Allyson. Quest’ultima, lasciata la festa, si fa accompagnare a casa dall’amico Oscar (Drew Scheid) ma quando lui prova a baciarla, se ne va da sola. Michael ha assistito alla scena e, dopo aver trucidato Oscar, lo appende ad un cancello. Quando Allyson lo vede e fa per fuggire, lui la insegue ma lei riesce a rifugiarsi in una casa, dove viene raggiunta da Hawkins, accompagnato da Sartain, che la fa salire in macchina. Durante il tragitto vedono Michael e Hawkins lo investe ma, quando scende per finirlo con la pistola, Sartain – che considera Meyers un caso da studiare e che spera che, lasciato libero di esprimere la furia omicida, potrà parlare e fornirgli preziose indicazioni scientifiche – lo accoltella e lo carica, svenuto, in macchina, dirigendosi verso la casa della nonna di Laurie. Quando Michael riprende conoscenza uccide il dottore e Allyson riesce a scappare. Il folle omicida – dopo aver ammazzato altri due poliziotti ed essersi impadronito della loro volante va da Laurie. Qui strangola Ray che, vedendo una macchina della polizia, era uscito di casa per raggiungerla ed entra in casa per la strage finale. Non finirà così.

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Halloween – La notte delle streghe del grande John Carpenter – pochi anni dopo Non aprite quella porta! di Tobe Hopper –  ha inaugurato una nuova stagione di saghe cinematografiche horror. Poco dopo arrivarono Nightmare di Wes Craven e Venerdì 13 di Sean S. Cunningham. Hopper, Carpenter e Craven, peraltro, non erano solo bravi artigiani (come l’onesto Cunningham) ma veri maestri di cinema. Questi film hanno segnato un’evoluzione nell’horror: il cattivo (Michael Meyers per Halloween, Leatherface per Non aprite quella porta!,  Freddy Krueger per Nightmare e Jason Voorhees per Venerdì 13, tutti personaggi divenuti di culto per generazioni) prevalentemente uccide ragazzi che fanno sesso o si fanno una canna, come una nemesi di una civiltà repressiva dura a morire. Il primo Halloween ha avuto, prima di questo, sette sequel, una serie tv e un reboot (cioè un remake con modifiche nella storia), che a sua volta ha prodotto un sequel; Carpenter ha diretto solo il primo e ha scritto il soggetto di Halloween II (nel quale si scopriva che Laurie era sorella di Mike) ma si è dichiarato scontento del film, diretto dal non eccelso Nick Rosenthal. La Blumhouse Productions, specializzata nel genere (Insidious, Paranormal activity, Sinister, La notte del giudizio) in accordo con Malek Akkad (il figlio di Moustapha Akkad produttore dei precedenti titoli della serie) e con Carpenter ha prodotto questo film, che è, sostanzialmente, un sequel del primo, ignorando completamente i capitoli successivi della saga (il fatto che i due protagonisti siano fratello e sorella, ad esempio non è mai menzionato). Al professionale e multi-genere (la sua filmografia va dai giovanilistici Strafumati e Lo spaventapassere ai drammatici Joe e Stronger) David Gordon Green è stata affidata una sceneggiatura all’antica, più thriller che splatter, e un cast di buona qualità (molti dei protagonisti sono apparsi in serie tv di recente successo), arricchito da attori di peso come la Greer e Patton, dal cinefilo ritorno Nick Castle (Mike Meyers solo nei primi minuti, poi sostituito dal giovane attore-stuntman James Judeb Courtney) e soprattutto dal ritorno di Jamie Lee Curtis. Lei, dopo i primi due episodi, era riapparsa con due poco più che camei in Halloween- 20 anni dopo e in Halloween – La resurrezione ma di questo film è il fulcro, tanto che il plot – segnato da un susseguirsi di ben congegnati, anche se talora volutamente telefonati, colpi di scena – diventa una sanguinaria storia d’amore (una sorta di L’inverno ti farà tornare – piccolo capolavoro di Henri Colpi su di una moglie che attende per anni l’amato marito –  con massacro) tra lei e Michael. Le scelte sono state azzeccate: il film (costato 15 milioni di dollari) non fa morire di paura ma è piacevolissimo e gli incassi sono già da record, la prima in USA ha raccolto più di 33 milioni di dollari (solo il debutto del recente It aveva fatto di più) e sta battendo il già miracoloso Venom. Avesse ragione Sergio Sollima che ha dichiarato che il nostro cinema sta morendo di autorialità e che avrebbe bisogno di ritrovare i generi?

 

 




Soldado (Sicario: Day of the Soldado)

di Stefano Sollima. Con Benicio Del ToroJosh BrolinIsabela MonerJeffrey DonovanCatherine Keener USA, Italia 2018

Al confine con il Messico, una pattuglia blocca un gruppo di Immigrati clandestini e uno di loro si fa saltare insieme agli agenti con una bomba; il giorno dopo gli investigatori trovano tappeti di preghiera musulmani stesi sul terreno. Poco dopo a Kansas City un gruppo di terroristi suicidi fa esplodere un grande magazzino, uccidendo quindici persone. L’agente CIA Matt Graver (Brolin) va in Somalia, cattura il pirata Bashiir (Faysal Ahmed) e, dopo aver fatto bombardare la casa di uno dei suoi fratelli, lo costringe a confessare di fornire lui le navi ai terroristi islamici che, d’accordo con il cartello delle immigrazioni clandestine di Carlos Reyes, sbarcano in Messico per poi entrare negli Stati Uniti. Il Sottosegretario alla Sicurezza degli Stati Uniti, James Riley (Matthew Modine), convoca Matt e il suo capo Cynthia Foards (Keener) e li autorizza ad istigare, con qualsiasi mezzo, la guerra tra i maggiori cartelli messicani.  Graver recluta il sicario Alejandro Gillick (Del Toro), al quale gli uomini di Reyes avevano ucciso la famiglia, il quale – come primo atto –  uccide a Città del Messico un potente avvocato (J.D.Garfield) dei cartelli, mentre Graver, con il fido Steve (Donovan) e la sua squadra rapiscono la figlia di Reyes, Isabel (Moner). Ciascuna di queste operazioni deve apparire ai due principali cartelli – quello di Reyes e i Matamoros – come un atto di guerra dell’altro. Intanto, in Messico, il giovanissimo Miguel (Eliah Rodriduez) viene convinto dall’amico Hector (David Castaneda) a lavorare con Gallo (Manuel Garcia-Ruffo) – uno dei capi dei Matamoros – nel business delle immigrazioni. Isabel viene portata, incappucciata, in Texas, dove Matt e Alejandro, vestiti da agenti della DEA, mettono in scena un salvataggio, per farle credere di essere stata rapita dai rivali del padre; il piano è quello di riportarla a Città del Messico e di lasciarla in una zona controllata dai Matamoros per inasprire la guerra tra le bande. Durante il viaggio, però, la pattuglia di polizia messicana – che è al soldo dei cartelli – li attacca. Nello scontro a fuoco muoiono 25 poliziotti messicani; Isabel, terrorizzata, riesce a scappare nella campagna circostante e Gillick, d’accordo con Matt, decide di inseguirla da solo. Le indagini in America, intanto, sembrano portare ad una pista interna per alcuni degli attentati, rendendo meno urgente la guerra ai cartelli; la morte dei poliziotti messicani ha, inoltre, creato una tensione con il governo di quel paese e, quindi, Riley ordina di cancellare tutte le prove della missione, facendo fuori Isabel, come pericolosa testimone. Graver chiama Gillick – che ha raggiunto la ragazzina – e gli dà l’incarico di ucciderla ma lui rifiuta e, con l’aiuto del contadino sordomuto Angel (Bruno Bichir), dopo aver fatto tagliare i capelli alla ragazza perché sembri un maschio, nelle vesti di un peone messicano che vuole immigrare con il figlio raggiunge un punto di raccolta dei Matamoros. Mentre sta per salire sul pullman che porta i clandestini in America, però, viene riconosciuto da Miguel, che lo aveva visto in Texas con la divisa della DEA. Gallo, in cambio della promessa di promuoverlo a sicario, convince il ragazzo a sparare ad Alejandro, dopodiché parte portando via Isabel. Miguel, ancora scombussolato per il suo primo omicidio, durante il viaggio lascia gli altri per stare un po’ da solo. Cynthia – temendo che Matt possa avere degli scrupoli – ordina a Steve di recarsi, con due elicotteri pieni di agenti armati, ad uccidere Isabel e Alejandro ma Graver decide di guidare personalmente la missione. Con l’aiuto di un trasmettitore GPS, che Alejandro aveva infilato nella scarpa della ragazzina, Gallo e i suoi vengo raggiunti ed uccisi, mentre Graver – contravvenendo agli ordini – risparmia Isabel.  Gillick, che era solo ferito, riesce a raggiungere il confine e un anno dopo rintraccia Miguel e gli chiede se vuole ancora diventare un sicario.

Il film è un sequel di Sicario del canadese Dennis Villeneuve e, come il precedente, è scritto da Taylor Sheridan che dopo qualche ruolo da attore ed aver firmato varie sceneggiature di serie televisive di successo (CSI, NCIS, Veronica Mars, Yellowstone) si è subito imposto con lo script del film del 2015. Questo secondo capitolo, umanizza in qualche modo i due protagonisti, Matt e Alejandro, pur lasciando ad entrambi la freddezza necessaria per le missioni-limite cui sono chiamati. Questa – oltre la stima professionale che si è guadagnato dirigendo le migliori e più esportabili serie italiane degli ultimi anni: Romanzo criminale e Gomorra – è probabilmente la ragione per la quale è stato chiamato a dirigerlo Stefano Sollima, che all’ottima mano nel filmare la violenza, unisce la capacità di dare umanità a personaggi, che per definizione dovrebbero esserne privi. Lui ha dichiarato di essersi approcciato al progetto con qualche timore (“Mi stupivo, all’inizio, che il mio idolo Del Toro facesse quello che gli dicevo”, ha detto in un intervista) ma l’operazione è riuscita: il film – ancora in uscita in molti mercati – ha già superato in incassi Sicario. E’ improbabile che Sollima abbia potuto mettere mano più di tanto alla sceneggiatura di Sheridan ma l’ambientazione nel confine tra Texas e Messico e l’aria western che ha il film a noi, vecchi cinefili, fa pensare che lo abbiano anche ispirato i suggestivi western del padre Sergio – in particolare La resa dei conti e Corri, uomo, corri – con Del Toro/Alejandro che richiama Milian/Cuchillo senza i suoi ingenui (e un pochini ridondanti) ammiccamenti rivoluzionari.




A Star Is Born

 

di Bradley Cooper. Con Bradley CooperLady GaGaSam ElliottAndrew Dice ClayAnthony Ramos  USA 2018

La rockstar Jack (Cooper) è al limite dell’alcolismo e una notte, alla fine di un concerto, chiede al suo autista Phil (Greg Grunberg) di portarlo in un posto dove possa bere. Trovano aperto un locale drag e Ramon (Ramos), che è all’ingresso, lo riconosce ed eccitato lo accompagna dentro; lì assiste ad alcune esibizioni en travestì, finché non arriva sul palco Ally (Lady Gaga), una cameriera di cathering con la passione per la musica, che canta La vie en rose.  Ramos  spiega a Jack che lei è una sua collega ed amica e lo accompagna a conoscerla; lui la invita ad andare con lui a bere in vari bar; lei accetta finché in un locale un fan strafatto (Andrew Michaels) gli chiede un autografo e lo strattona e Ally lo atterra con un pugno; fuori dal locale, lui le cura la mano ammaccata con dei surgelati e le racconta un po’ della sua vita: figlio dell’amore senile del padre con una ragazza di campagna, morta poco dopo, è cresciuto in un ranch affidato – dopo la scomparsa del padre – al fratellastro, dal quale ha preso l’amore per la musica. Ally, alla fine del racconto, gli fa sentire una canzone che ha composto, The shallow, e gli confessa di aver avuto risposte negative da parte dei discografici che trovavano interessanti le sue composizioni ma lei, per via del naso troppo pronunciato, inadatta ad esibirsi. Jack, cerca di rassicurarla ma lei non si fida e si fa portare a casa, rifiutando il suo invito ad accompagnarlo al concerto che l’indomani lui terrà a Memphis. Il padre della ragazza, Lorenzo (Dice Clay), è un ex crooner di nessun successo, ancora convinto di essere migliore di Frank Sinatra (sembra glielo avesse detto, anni prima, Paul Anka) e che spera che la figlia possa riscattarlo; così quando la mattina Phil bussa per portarla al concerto, cerca invano di convincerla ad accettare; l’autista, però, la segue fino al lavoro e lei, di fronte all’ennesimo sgarbo del boss (Jacob Schick), si licenzia, accompagnata da Ramon sale sulla limousine di Jack e con un aereo privato arriva al backstage del concerto. Jack soffre di acufene ed è reduce da una discussione con il fratello e manager Bobby (Elliott), il quale cercava di convincerlo a mettere delle cuffie protettive, che lui rifiuta perché lo isolerebbero dal pubblico. Inizia il concerto e, ad un certo punto dell’esibizione, lui attacca The shallow e la invita sul palco; lei inizialmente si ritrae ma poi va al microfono e canta con lui. Fioccano applausi e lui la porta nella sua stanza ma, ubriaco, cade addormentato, lei gli dorme accanto e l’indomani mattina fanno l’amore. Ora sono insieme e lei partecipa a tutti suoi concerti. Un giorno sono a pranzo da un loro amico e vicino di casa, George “Noodles” Stone (Dave Chappelle) e lui gli chiede un paio di pinze per fare un anello con un pezzo di corda di chitarra, lo mette al dito di Ally e George li porta dal fratello (Eddie Griffin), pastore di un proprio rito, che li sposa all’istante. Ally viene invitata dal potente manager Rez (Rafi Gavron) a far parte della sua scuderia; lei, dopo essersi consultata con Jack, accetta e il suo primo singolo è un successo, tanto da farle guadagnare una candidatura ai Grammy come miglior esordiente. Jack continua a bere ed a drogarsi e Bobby, esasperato, lo lascia, mentre lui vive con alterni sentimenti la carriera di Ally: da un lato, le è vicino e l’aiuta ma, dall’altro, non riesce a non esserne geloso. Per la sera dei Grammy è prevista una sua partecipazione ma, mentre lui si aspettava di cantare un suo pezzo, alle prove gli comunicano che dovrà solo suonare la chitarra e accompagnare Chris Issak e Brandi Carlie; è un brutto colpo e lui la sera della premiazione è completamente sbronzo e, accompagnando i due solisti che cantano Oh! Pretty woman, fa delle violente svisate con la chitarra, disturbandone la performance. Quando poi Ally, che ha vinto, sale sul palco, lui l’accompagna ma incespica e, in diretta mondiale, si piscia sotto. Lei è distrutta e lui accetta di andare nella clinica di Carl (Ron Rifkin) per disintossicarsi. Quando torna a casa, lei, per stargli vicino, cancella un importante tour in Europa; Rez va da lui e, spietatamente, gli rivela che la carriera di lei aveva rischiato di interrompersi per le sue intemperanze e che l’amore per lui ancora potrebbe rovinarla definitivamente. Jack le lascia una canzone, I’ll never love again, e si suicida. Lei, nel concerto in sua memoria, la canta con dolorosa commozione.

Tutto è cominciato nel 1932 con A che prezzo Hollywood di George Cukor, nel quale una cameriera (Constance Bennett) viene notata da un regista (Lowell Sherman) in declino che fa di lei una star e poi si suicida; 5 anni dopo William A. Wellman scrive e dirige il primo E’ nata una stella con Fredric March nel ruolo di attore-Pigmalione e Janet Gaynor in quello di stellina in ascesa,  i due personaggi saranno ripresi da James Mason e Judy Garland nello splendido remake del 1954 di George Cukor; poi nel 1976 Frank Pierson dirige Kris Kistofferson e Barbara Streisand nella non certo memorabile versione rock del plot. Questo terzo remake (escludendo Ci troviamo in galleria del’53, diretto da Mauro Bolognini con Carlo Dapporto e Nilla Pizzi, che ha una storia identica – qui ci sono un comico di avanspettacolo ed una cantante – ma con un finale meno tragico) ha avuto un inizio un po’ travagliato: il progetto vedeva inizialmente la regia di Clint Eastwood e Beyoncé come protagonista, poi è spuntato Bradley Cooper che ha firmato la sua prima regia ed ha chiesto Lady Gaga come partner e, insieme a lei, ha scritto ed interpretato (cantandole dal vivo) molte delle canzoni del film. Il risultato è un costoso e piatto “musicarello” (come venivano chiamati i film italiani con cantanti e canzoni di successo degli anni’60), con buone musiche ma – tranne The shallow e la canzone finale –  non particolarmente memorabili e – come appunto i film di Morandi, Al Bano e Littlle Tony, che erano tenuti su dal mestiere di Bramieri, Taranto, Franchi e Ingrassia, Nino Taranto e Montesano – con ottimi caratteristi. Cooper sembra più concentrato nel rendersi musicalmente credibile che nella prima prova di regia; svetta Lady Gaga, ottima cantante e anche intensa interprete. Probabilmente i buoni incassi del film si devono soprattutto a lei.

 




Non è vero ma ci credo

di Stefano Anselmi. Con Nunzio Fabrizio RotondoPaolo VitaElisa Di EusanioMicol AzzurroGiulia Di Quilio   Italia 2018

Nunzio (Rotondo) e Paolo (Vita) sono due amici costantemente alla ricerca del colpo di fortuna; le loro mogli, la rampante avvocato divorzista Cristina (Di Eusanio) e la donna d’affari Maria Chiara (Di Quilio), sono stanche di finanziare i loro business sbagliati e li minacciano di buttarli fuori da casa se non trovano una sistemazione. Mentre si lambiccano il cervello seduti al bar, i due vedono arrivare un trafelato avventore, Armando (Maurizio Mattioli), che, in preda d un attacco di colite, si precipita alla toilette, lasciando incustodito il proprio suv, del quale si impadronisce subito un incapacissimo ladro, Rocco (Paolo Gattini) che non sa guidarla, consentendo a Nunzio e Paolo di riprenderla. Il riconoscente Armando li porta nel suo takeaway vegetariano e racconta fiero di possedere una catena di quegli esercizi e che gli affari gli vanno a gonfie vele. I due, che sono vegetariani, sono ammiratissimi e non capiscono che le strane bustine di polvere bianca che i clienti ritirano non sono affatto farina di riso e che i due involti che il truce gestore, Omar The King (Omar Monno), dà loro scambiandoli per spacciatori sono due panetti di hashish e decidono di aprire a loro volta un ristorante vegano. Hanno però bisogno di un capitale di partenza ed è escluso che le loro mogli li finanzino ancora ma, poiché la superstiziosa Maria Chiara crede ciecamente all’oroscopo, hackerano il sito cui lei presta fede assoluta, postandovi una previsione di grande fortuna legata all’investimento su di un affare proposto dal marito; lei si convince a investire una grossa somma e coinvolge anche Cristina. I due acquisiscono un agriturismo alle porte di Roma e si mettono alla ricerca di personale; prima di tutti, rintracciano lo stellato chef Ciro (Yari Gugliucci), che ora, a causa di un divorzio, ha perso casa e ristorante e vive in macchina; vanno poi in un night a parlare con la sexi Morena (Azzurro), pole-dancer cugina di Nunzio, per assumerla come cameriera, lei sulle prime rifiuta ma, quando Omar, che gestisce anche quel locale la caccia perché “è troppo vecchia”, accetta; mentre escono dal locale, vedono Rocco che scappa con la loro macchina, di nuovo lo raggiungono facilmente e, appreso che era stato cuoco in carcere, lo arruolano come sous chef; lui, a sua volta, propone come sguattero il suo ex aiuto-cuoco Nino (Leonardo Sbragia) e con il lavapiatti cinese (in realtà romano da tre generazioni) Ndong (Yoon Cometti Joyce)  l’organico è completo. Il ristorante però non decolla e la notizia dell’arresto di Armando chiarisce ai due quale era la sua vera fonte di ricchezza. L’unica speranza è attirare l’attenzione del grande critico culinario francese Michel De Best (Maurizio Lombardi), ora in missione a Roma ma il loro primo invito viene respinto con malgarbo: Michel è un convinto carnivoro ed odia il vegetariano. L’unica soluzione, per non fallire e non far del male agli animali, è quella di riciclare il locale in una bisteccheria con carni finte, create dalle verdure dall’abile Rocco, riempiendo le stalle adiacenti al locale di animali in apparenza pronti ad essere cucinati. Ora De Best accetta l’invito del locale, – rinominato per l’occasione “Ar macello da Nunzio e Paolo” – e, conquistato da una “bistecca”, scrive una recensione entusiastica. Ora il locale è pieno di clienti, ai quali vengono propinate anche scene grandguignolesche di uccisioni di bestiole ma il video di Ndong che insegue un agnellino con una katana scatena l’indignazione degli animalisti, che, capeggiati da Loredana (Loredana Cannata), organizzano una manifestazione davanti al locale, proprio nella sera in cui vi torna, goloso, De Best, e arriva Armando, evaso dai domiciliari e pronto a ricattare i due per i due panetti di hashish. Due rapimenti, l’intervento di un pasticcere di strada (Piotta/Tommaso Zanello) e la nascita di un vitellino segneranno il lieto fine.

Anni fa Aurelio De Laurentiis, dandomi la sceneggiatura di un suo film di Natale, mi aveva detto: “Leggila ma non è la definitiva: è la sedicesima stesura, ne dovremo fare almeno altre tre”. Parliamo degli ingiustamente bistrattati cinepanettoni e, però, questa è una delle ragioni del pessimo stato di salute del nostro cinema: l’approssimazione e la fretta – necessitata da un mercato drogato – con la quale i progetti vengono licenziati. Fatta questa necessaria premessa, va riconosciuto a Non è vero ma ci credo il merito di riproporre il sapore delle vecchie commedie italiane degli anni ’50, quelle, per intenderci figlie del vecchio varietà con Billi e Riva (Accidenti alle tasse!!, Abracadabra, Siamo tutti milanesi) o con Taranto e Croccolo (Libera uscita, Licenza premio, Tizio, Caio e Sempronio); alcune gag sono carine, il cast di contorno non può certo essere paragonato agli eccellenti caratteristi dei vecchi film ma è scelto con intelligenza, il produttore Gianluca Curti è figlio d’arte (il padre era il produttore Ermanno e la mamma l’attrice Eleonora Ruffo) e ha già al suo attivo due riuscite proposte di film con comici televisivi emergenti (Ciao brother con Pablo e Pedro e Finalmente sposi con gli Arteteca), Anselmi, infine, al suo primo lungometraggio, dà una bella prova: lui ha diretto ottimi corti e ha collaborato con registi importanti ed è un buon saggista di cinema (che spiega la capacità di ricreare l’allure del cinema di Mattoli e Simonelli); la vera incognita erano i due protagonisti, noti come animatori e creatori di divertenti format prevalentemente dedicati alla musica ma non certo attori (anche se già protagonisti del tv-movie Sky Innamorati di me) – e si vede – ma le buone intuizioni di casting compensano bene i loro limiti. Non è certo un film privo di difetti ma è genuino e pervaso di una contagioso entusiasmo. Ci basta.