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Godzilla II – King of the Monsters

di Michael Dougherty. Con Kyle ChandlerVera FarmigaMillie Bobby BrownKen WatanabeZiyi Zhang USA 2019

Alla Monarch, la società incaricata di studiare e tenere sotto controllo le Orche (i mostri giganti) dopo la cattura di Godzilla, la direttrice, dott.ssa Emma Russell (Farmiga), entra nella zona blindata dove è ibernata la larva del mostro alato Motra e lo risveglia; quando il vermone sta per attaccarla, si precipita da lei la figlia adolescente Madison (Bobby Brown); le onde di un apparato ancora sperimentale si rivelano efficaci nel placarlo ma in quel momento  fa irruzione con i suoi armati il pirata Jonah Allan, che, dopo un rapido combattimento, porta con se le due donne. Poco dopo chiede, in cambio, della loro incolumità, l’accesso a tutte le centrali Monarch, nel quale sono tenute in cattività le Orche. La dottoressa Ilene Chen (Zang) e il dottor Sam Coleman (Thomas Middleditch) accompagnano il dottor Rick Stanton (Bradley Whitford) dal suo vecchio amico Mark Russell (Chandler), ex marito e compagno di lavoro di Emma che da quando Godzilla ha ucciso il loro figlioletto, dopo un periodo di alcolismo, si è allontanato da tutto, covando un odio feroce per il drago gigante. Russell lo porta nel laboratorio e qui il vecchio dottor Serizawa (Watanabe) gli spiega che l’unica possibilità di salvare Emma e Madison è risvegliare Godzilla e usarlo per fermare i piani di Allan, che intende vendere alle multinazionali le fenomenali energie che i mostri sprigionano. A Mark, che è l’unico che conosce Godzilla a fondo è può coglierne i segnali, viene chiesto di collaborare e lui accetta. Godzilla liberato si indirizza verso l’Antartide; qui è arrivato Allan con Emma e la figlia che libera King Ghidorah, un enorme drago a tre teste. Mentre l’operazione è in corso, la dottoressa Russell parla con l’equipe della Monarch, chiarendo che lei non è prigioniera ma sta collaborando con Allan, nella convinzione che solo i mostri potranno riequilibrare il mondo rovinato dalle insensate ferite inferte dall’uomo. Mark e gli scienziati, affiancati dalle truppe al comando del colonello Diane Foster (Aisha Hinds) e del suo braccio destro, l’eroico ufficiale Barnes (O’Shea Jackson jr., arrivano al Polo ma la battaglia tra loro e i pirati volge al peggio e King Ghidorah si inabissa. Di lì a poco viene disibernato anche lo pterodattilo Rodan. Intanto in pieno oceano infuria la battaglia tra Godzilla e King Ghidorah e quest’ultimo sembra avere la meglio, così viene inviato contro i mostri un potente missile atomico ma l’effetto che sortisce è quello di far inabissare Godzilla e di rendere ancora più forte il suo avversario. Nel covo di Allan, Madison è in forte tensione con la madre e cerca di convincerla che, accecata dal dolore per il figlio morto, si sta rendendo complice di un piano criminoso. Quando la madre libera tutte le Orche (mostri preistorici, insetti erettili giganti) provocando distruzioni e costringendo le popolazioni di varie città ad evacuare, la ragazzina riesce a fuggire per raggiungere la sede Monarch e cercare di limitare i danni. Intanto Chan, esperta di antiche leggende orientali, capisce che Gidorah è un extraterrestre arrivato secoli prima sul nostro pianeta per regnarvi e che le armi terrestri non possono distruggerlo; l’unica possibilità è quella di rintracciare Godzilla e di moltiplicarne la forza. Il mostro viene localizzato in una specie di città morta sottomarina – vestigia di un’antica civiltà – e Serizawa lo raggiunge e, sacrificando la propria vita, gli piazza una potente carica nucleare. Emma, minacciando con una pistola Allan, esce alla ricerca della figlia e, insieme a Mark, che è sceso a Terra con le truppe per guidare Godzilla, la trova. Mentre infuria la battaglia tra i mostri e, di nuovo, Godzilla sembra soccombere, Emma fa esplodere, morendo, una nuova carica. Il drago si rialza e fa a pezzi il mostro tricipite. Motra, Rodan e tutte le altre creature si inchinano al nuovo re.

In principio erano i giapponesi Kaiju Eiga (cinema di mostri) ed un maestro indiscusso, Ishiro (o Inishiro) Honda che nel 1954 dirige il primo Godzilla; il film ha tale successo che gli Stati Uniti lo acquistano e, per compiacere il pubblico americano di allora (non propriamente esterofilo), furono tagliate alcune scene, sostituite da altre girate dal regista Terry O. Morse con Raymond Burr nei panni di un giornalista. Dopo di allora il drago gigante è apparso in altri 33 film, alcuni dei quali del creatore Honda (Godzilla, Il trionfo di King Kong, Watang! Nel favoloso regno dei mostri, Ghidorah! Il mostro a tre teste, L’invasione degli astromostri, Gli eredi di King Kong). La cinematografia giapponese ha prodotto molti altri film con Godzilla spesso eroe di epiche battaglie contro tremende minacce alla Terra (talora anche contro o a fianco di King Kong) e Honda ha inventato altri Kaju come Rodan (Rodan il mostro alato), Mothra (Mothra), Magma (Gorath), Gotengo e Manda (Atragon), Varan (Daijkaiu Baran), Matango (Matango il mostro), Dogora (Dogora – Il mostro della grande palude). Nel 1998 Emmerich dirigeva il costosissimo remake americano di Godzilla e il Giappone rispose con la produzione Millennium che mise sul mercato 6 nuovi capitoli della saga e la Reboot che produsse 4 cartoni animati. Nel 2014 la produzione americana Legendary ebbe un buon successo con il Godzilla di Gareth Edwards e decise un creare la MonsterVerse, un franchise dedicato a Godzilla, Kong e altri mostri della tradizione giapponese, producendo nel 2017 Kong: Skull Island e ora questo (è annunciato il prossimo: Godzilla vs/ Kong). Il segno produttivo di queste nuove produzioni è quello di affidare la drammatizzazione ad effetti speciali sempre più invasivi, lasciando uno spazio limitato al racconto (un po’ come è successo nel porno che ha reso, via via, quasi inesistente la trama per inanellare una serie di, inevitabilmente ripetitivi, atti sessuali). Per Godzilla II – King of the Monsters, il più specializzato Edwads è stato sostituito da Dougherty, che mette in fila una serie di battaglie tra mostri, con i protagonisti umani che, poco più che comparse, vanno qua e là quasi a caso. Gli effetti sono magniloquenti ma il paragone con i corpaccioni di cartapesta, i mimi (il più noto era Haru Nakajima) che li muovevano e le geniali trovate registiche con cui Honda sopperiva al basso budget e alle scarse tecnologie dell’epoca è assolutamente impietoso per il ripetitivo e a tratti noioso film di Dougherty e non aiutano certo i pistolotti ecologisti che fanno di Godzilla una Greta in versione lucertolone (ma – chissà – in un prossimo sequel sarà ricevuto dal papa).




Dolor y Gloria

di Pedro Almodóvar. Con Antonio BanderasAsier EtxeandiaLeonardo SbaragliaNora NavasJulieta Serrano  Spagna 2019

Il famoso regista Salvador Mallo (Banderas) da qualche anno ha smesso di lavorare; ad una crisi creativa ed esistenziale si accompagnano vari malori (in parte, ma non solo, psicosomatici): ha forti dolori alle schiena, persistenti mal di testa e soffoca deglutendo. La Cineteca Nazionale ha appena restaurato Sabòr, un suo vecchio film che – per dissapori con l’interpretazione del protagonista Alberto Crespo (Etxeandia) – da allora non ha più voluto rivedere ma, quando gli viene proposto di presenziare alla proiezione insieme all’attore, lui accetta e va dall’amica attrice Zulema (Cecilia Roth) per farsene dare l’indirizzo. La prima accoglienza è ostile ma, via via, il loro rapporto si scioglie (in passato erano stati anche amanti) e quando Alberto fuma un crack di eroina, Salvador gli chiede di provarla, scoprendone le qualità lenitive. Sotto l’effetto della droga, Salvador ricorda la propria infanzia di bambino (Asier Flores) povero e molto versato nello studio e nel canto, che insieme al padre (Raùl Arévalo) e alla madre Jacinta (Penelope Cruz) si era trasferito dal paese a Paterna, dove si erano ritrovati a vivere in una grotta intonacata, che la volenterosa madre rende il più decorosa possibile, anche grazie all’aiuto del muratore analfabeta Eduardo (César Vicente), al quale in cambio Salvador insegna a leggere, scrivere e far di conto. Riaffiora anche il ricordo della dama di carità Beate (Susi Sanchez) che, sollecitata dalla madre che voleva che lui studiasse ma non poteva permettersi di mandarlo a scuola, era riuscita a farlo entrare in seminario, provocando la sua rabbia perché temeva lo facessero diventare prete. Salvador e Alberto ricominciano a frequentarsi e l’attore va spesso da lui a portargli la droga; un giorno, mentre il regista dorme, questi gli apre il computer e trova un racconto dal titolo Addiciòn (Dipendenza) e gli chiede di poterlo rappresentare a teatro ma Salvador rifiuta. Il giorno della proiezione di Sabòr, i due sono pronti ed eleganti ma Salvador non se la sente di affrontare il pubblico, così parla attraverso il telefono col presentatore (Julian Lopez) e con il pubblico e rivela la rabbia che aveva provato per l’interpretazione di Alberto, troppo drogato per rendere le sfumature del personaggio; questi si arrabbia e se ne va ma, poco dopo, Salvador, per farsi perdonare, gli dà il copione purché lo porti in scena firmandolo come suo (lui non se la sente di affrontare, anche solo indirettamente, le luci della ribalta). Il monologo ha successo e una sera arriva a teatro Federico (Sbaraglia), il vecchio amore di Salvador cui Addiciòn è dedicata; lui si riconosce perfettamente nel giovane drogato tanto amato e curato dall’allora esordiente regista e chiede ad Alberto i recapiti di Salvador. Va da lui in piena notte e i due vecchi amanti, bevendo tequila, si raccontano con affetto le rispettive vite. Federico, prima di andarsene gli propone di fare, per una volta ancora, l’amore ma lui con garbo rifiuta. La sua agente Mercedes (Navas) lo convince ad andare dal medico (Pedro Casablanc) che, oltre a dargli nuove cure per aiutarlo ad uscire e dalla dipendenza dall’eroina, gli prescrive una risonanza magnetica per accertare le cause – che potrebbero essere tumorali – della disfagia che lo fa soffocare. L’analisi accerta che si tratta solo di una calcificazione risolvibile con un semplice intervento. Salvador, che anche grazie a questa notizia sta riprendendo la forza di vivere, rivela a Mercedes di non aver mai superato la morte di sua madre che, in tarda età (Serrano), dopo avergli confessato la sua delusione per la sua vita sregolata e per il suo stare troppo poco con lei, gli aveva chiesto di essere portata al paese per chiudere la vita nel proprio letto ma la repentina morte in ospedale, non gli aveva consentito di mantenere neanche quella promessa. In una galleria di arte naif trova un acquerello che lo ritrae bambino e lui lo acquista, riconoscendolo come il disegno che gli aveva fatto Eduardo il giorno in cui era andato a casa sua e si era lavato, dopo aver montato le piastrelle della cucina; alla vista del corpo nudo del giovane, il piccolo Salvador era svenuto e si era svegliato febbricitante. L’operazione va a buon fine e Salvador ha deciso: scriverà e dirigerà un film, dal titolo El primero deseo (Il primo desiderio), ispirato a quel primo, decisivo turbamento d’amore.

“Il cinema della mia infanzia sapeva di pipì. Di gelsomino. E di brezza d’estate.” In questa frase c’è il senso profondo dell’ispirazione del film: Almodovar non fa Almodovar ma è Almodovar; il cinema non è più solo il regno di trasgressivi e melodrammatici sogni ma è anche la concretezza delle proiezioni in piazza su di un muro bianco, con Pedro e gli altri bambini che non volevano perdere nemmeno un istante delle emozioni di Natalie Wood in Splendore nell’erba o di Marilyn Monroe in Niagara per rispondere ad una banale necessità fisiologica. Queste ultime citazioni, come il video di Mina che canta Come sinfonia, sembrano essere rimandi alle fantasmagorie di Tacchi a spillo con le strepitose rivisitazioni di Un anno d’amore e di Piensa en mi o allo scatenarsi dei tre steward di Amanti passeggeri nell’interpretazione ultragay di I’m so excited o all’esplodere di Caetano Veloso con Cucurrucucù Paloma nel tenero dramma di Parla con lei ma non è così. Qui la musica ha la tradizionalissima funzione di accompagnamento e tutto è un racconto dolente e personalissimo di un autore in fuga dalla maniera e alla ricerca di sé. Anche Banderas (già ritrovato in La pelle che abito) non è più il simbolo della seduzione sottilmente perversa di Matador, de La legge del desiderio o di Legami ma l’alter ego perfetto del regista come – per dichiarazione dello stesso regista – Mastroianni con Fellini. A Cannes il film è stato accolto con pareri discordi: gli almodovariani duri e puri sono stati delusi, chi sa amare il cinema senza etichette lo ha saputo apprezzare. Il premio quale miglior attore a Banderas sembra essere – magari involontariamente – un compromesso tra le due scuole di pensiero: lui (certamente con la di gran lunga migliore interpretazione della sua carriera) è talmente Almodavar da far diventare il suo riconoscimento un premio al film e al regista. Se “l’amore non basta a salvare chi ami”, come ci dice il disperato e disilluso Salvador, un film sincero e potente può, per due ore, risarcirci di questa mancanza.

 

 




John Wick 3 – Parabellum (John Wick: Chapter 3)

di Chad Stahelski. Con Keanu ReevesHalle BerryIan McShaneAsia Kate DillonJerome Flynn USA 2019

Nel precedente episodio il superkiller John Wick (Reeves) era stato scomunicato dalla Grande Tavola (l’Organizzazione mondiale dell’eccellenza del crimine) per aver ucciso nel territorio neutrale dell’hotel Continental il capo-cupola Santino D’Antonio (Riccardo Scamarcio). Ora l’ora di tregua che il gestore dell’albergo Winston (McShane) gli aveva concesso sta per scadere, dopodiché partirà la taglia di 14 milioni di dollari che la Tavola ha messo sulla sua testa. Il tempo è scandito dall’asettica voce dell’Operatrice (Margaret Daly) e, per lui, dal vagabondo Tick Tock (Jason Mantzoukas) affiliato alla Bowery, la capillare rete di criminali vagabondi guidati dal King (Laurence Fishburne). Un disperato (Kristoffe Brodeur) cerca di ammazzarlo prima del tempo ma riesce solo a ferirlo; lui va a farsi curare dal Dottore (Randall Duk Kim), che lo rabbercia come può e, alla scadenza dell’ora di tregua, gli chiede di sparagli due colpi per giustificarsi con l’organizzazione. Lui va alla Biblioteca Centrale e alla bibliotecaria (Susan Blommaert) chiede un volume raro di fiabe russe; dentro il libro ci sono alcune monete d’oro, un crocifisso e un talismano; dopo averli presi, usa il grosso tomo per uccidere il gigantesco Ernest (Boban Marjonovic) che lo aggredisce. Fuori dalla biblioteca dovrà vedersela con una banda di assassini motociclisti; li uccide tutti e vola a Mosca. Nella capitale russa  va al Teatro del Balletto  dalla Direttrice (Anjelica Houston) che sta duramente addestrando una giovanissima ballerina-killer (Unity Phelan) e, ricordandole le proprie origini bielorusse, le consegna le monete e le mostra il crocifisso che gli dà diritto di assistenza. La Direttrice, a malincuore, gli fornisce un passaggio fino a Casablanca. Intanto al Continental arriva la Giudicatrice (Dillon), che comunica a Winston che, per aver concesso un’ora di tregua a Wick, dovrà entro una settimana lasciare l’albergo e, poi, si reca dal King e anche lui impone di dimettersi ma il capo dei vagabondi le ride in faccia. Wick, arrivato in Marocco, ammazza un po’ di killer e va da Sofia (Berry), ex ballerina divenuta un boss della Tavola e le dà il talismano, nel quale lei aveva impresso il proprio sangue quando, in passato, John le aveva salvato la figlia. Per saldare il debito, lo porta da Berrada (Flynn), il tramite al Grande Vecchio e questi, dopo aver generiche indicazioni, chiede a Sofia di lasciargli, in segno di obbedienza, uno dei due feroci cani che lei porta sempre con se, al suo rifiuto, spara all’animale e Sofia lo uccide, dopodiché, insieme a John, fa fuori tutti gli uomini di Berrada e lo accompagna nel deserto e lì lo lascia con un sorso d’acqua che ha sputato in una bottiglia. La Giudicatrice, intanto, va nel chiosco di Zero, il capo della più potente setta di assassini asiatici, che, dopo averle servito un pezzo di pericoloso pesce palla, si mette al suo servizio; insieme vanno prima dalla Direttrice, alla quale Zero recide le mani e poi dal re del Bowery, cui somministra sette tagli con la katana. Wick viene raccolto svenuto nel deserto e portato al cospetto del Grande Vecchio (Said Taghmaoui), che gli offre la salvezza se tornerà a servire la Grande Tavola e ucciderà Winston. Lui accetta e torna a New York e qui i due Shinobi (Cecep Arif Rahman e Yayan Ruhian) di Zero uccidono tutti quelli che lo vogliono ammazzare, mentre fugge da loro, due macchine lo investono sotto il Continental e, quando Zero sta per finirlo, lui posa la mano sui gradini dell’albergo e il concierge Charon (Lance Reddik) lo porta dentro e lo accompagna da Winston, che gli chiede se voglia ucciderlo. Lui nega – facendo infuriare la Giudicatrice –  e, fornendosi alla ricchissima armeria del Continental, affronta insieme a Charon le decine di sicari mandati dalla Tavola. Li uccidono tutti e lui, pur sfibrato dalla guerra e dai combattimenti con i due abilissimi Shinobi, ha la meglio anche su Zero. Ora Winston è pronto a trattare con la Giudicatrice e…

John Wick 3 – Parabellum è il terzo capitolo di una serie fortunata. Il primo episodio era divertente ma si capiva che era nato come una specie di gioco: era un comic-movie senza un comic (è stato ridotto a fumetto dopo il successo del film), il racconto poteva tranquillamente terminare lì, Reeves – dopo il successo di Matrix – non era più una vera garanzia di successo e Stahelski era alla sua prima regia. Gli incassi hanno indotto i produttori a serializzare il brand, lasciando un finale aperto nel secondo capitolo (che ha registrato una performance economica molto più interessante del precedente). Se il primo era poco più che un action di buon livello e il secondo un aggiustamento di tiro con qualche appesantimento (la poco credibile mafia nelle terme romane, le non chiarissime motivazioni di Wick, i combattimenti risolti, talora, alla bell’e meglio), questo è un film maturo, ricco e assai sfaccettato ed è, oltretutto, la prova che – al di là delle intenzioni commerciali – esiste un’estetica del cinema che deriva dai games: John Wick è un idea cinematografica ma, appunto, ha tutte le caratteristiche del gioco di successo, con in più alcune grandi idee di regia: Stahelski nasce stuntman esperto di arti marziali (ha esordito come controfigura di Brandon Lee ne Il Corvo), poi è stato coordinatore e coreografo di stunt e successivamente regista della seconda unità di colossal action (Capitan America – Civil war, Hunger Games, Ninja Assassin) e qui ha una rara maestria nel dirigere le sequenze di lotta, che si alternano come vere e proprie scene di sanguinoso balletto (per renderle più danzate agli espertissimi killer raramente viene concesso di uccidere l’avversario al primo colpo: lo stesso Wick deve ogni volta quasi esaurire un caricatore per ogni nemico), con alcune geniali trovate (vedi il gigantesco Ernest ammazzato a librate). Gli sceneggiatori Derek Kolstad, Shay Hatten, Chris Collins e Marc Abram, per consentire un ulteriore livello di lettura, inseriscono poi svariati riferimenti cinematografici: Tarkovsky, Lawrence d’Arabia, Indiana Jones, Leone, Bullit, Matrix, Bruce Lee, Il giustiziere della notte, La signora di Shangai, tra gli altri, vengono citati a conferma che siamo ad un nuovo traguardo del racconto cinematografico. Possiamo, perciò, passare sopra a qualche svista, come la resurrezione del cane di Sofia.  I primi incassi sono ottimi e non ci libereremo tanto presto del killer in vestito e cravatta nera. Meno male.




Stanlio e Ollio  (Stan & Ollie)

di Jon S. Baird. Con Steve CooganJohn C. ReillyNina AriandaShirley HendersonDanny Huston  USA, Gran Bretagna 2002

Siamo ad Hollywwod nel 1937. Stan Laurel (Coogan) e Oliver Hardy (Reilly) sono all’apice del successo ma Stan morde il freno: è convinto che il loro produttore, Hal Roach (Huston), li sfrutti e che lui – vero creatore delle gag del duo – dovrebbe avere un ruolo creativo più evidente; così, poiché il suo contratto è in scadenza, durante la lavorazione de I fanciulli del West, lo affronta con decisione, mentre Oliver è molto più prudente perché, pur guadagnando molto, le donne e le scommesse lo depauperano costantemente.  Hal non sente ragioni ma, quando Laurel conclude un vantaggioso accordo per loro due con la 20th Century Fox, il pavido Hardy non si presenta alla firma del contratto. 16 anni dopo, i due sono in Inghilterra per una tournee teatrale ma il loro impresario inglese, Bernard Delfont, poco convinto delle loro possibilità di raccogliere ancora pubblico, li fa recitare in teatrini minori e li alloggia in squallidi alberghetti. Dopo una serie di recite a teatri semivuoti, Delfont tenta la carta di promuovere il loro spettacolo con interviste e presenze a manifestazioni popolari. E’ un trionfo. Il pubblico inglese, finalmente avvertito della loro presenza sulle scene, affolla i teatri, tantoché a Londra si apre per loro il prestigioso Lyceum Theatre, che esaurisce i posti disponibili con due settimane di prenotazioni. Ora i due sono felici; hanno ritrovato il loro pubblico e alloggiano al Savoy, dove li raggiungono le loro mogli, Lucille Hardy (Henderson) e Ida Laurel (Arianda).  Lo scopo principale della massacrante tournee (sono entrambi anziani e, anche a causa di antichi problemi di alcolismo, malandati), però, è quello di incontrare il produttore inglese Harold Miffin, per conclude l’accordo per un film comico su Robin Hood, alla cui sceneggiatura Laurel lavora continuamente. Miffin è però irraggiungibile e, quando Stan, rotti gli indugi, va da lui e, dopo una lunga anticamera, fa irruzione nel suo ufficio – tra le proteste della receptionist (Stephanie Hyam) – trova solo la responsabile di produzione (Susy Kane) che gli comunica seccamente che il film non si farà.  Lui non ha il coraggio di dirlo all’amico ma ad un party in loro onore, loro (anche un po’ insufflati dalle mogli che si sopportano poco) cominciano a litigare: Oliver ha saputo che Stan è ancora offeso del suo comportamento di 16 anni prima – e soprattutto che lui abbia girato il film Zenobia con Harry Langdon (Richard Cant) come partner – e, a sua volta, lo rimprovera di essere arido, dedito solo al lavoro e di non volergli bene. Continuano ad esibirsi, senza rivolgersi la parola fuori dal palcoscenico sino a che, durante la premiazione in un concorso di bellezza, Oliver ha un attacco di cuore. L’amico lo soccorre e lo porta in albergo e qui il medico (Roger Ringrose) che lo visita lo diffida dal continuare a recitare: il suo cuore è troppo affaticato. Lui decide di ritirarsi e lo comunica, con dolore, a Stan. Questi vorrebbe, a sua volta, interrompere gli spettacoli ma Delfont lo convince a continuare con un comico inglese, Nobby Cook (John Henshaw), che ha un buon successo. Lui accetta ma la sera del debutto, il direttore del teatro (Tony Sedgwick) è costretto a restituire i soldi dei biglietti: Laurel non se la sente di andare avanti senza Hardy. Mentre prepara le valigie, entra in stanza Oliver che gli comunica che, a dispetto delle prescrizioni mediche, ha deciso di riprendere la tournee, che, come da contratto, prosegue in Irlanda.  Sul traghetto Stan trova il coraggio di dirgli che il film non si farà più ma Oliver lo rassicura: la aveva capito benissimo. Ora sono a Dublino e Oliver è assai provato ma non rinuncia, a sorpresa, a chiudere lo show con il mitico balletto de I fanciulli del west, At the ball, that’s all.

 

Osvaldo Soriano, nel suo Triste, solitario, y final aveva sottolineato la tristezza del loro declino e alluso sottilmente ad un loro relazione. Il film di Baird – e lo script di Jeff Pope (Philomena) ispirata al libro biografico di A.J.Mariott Laurel & Hardy – The british tour – anch’esso pervaso di malinconia non riprende del tutto il tema ma la litigata con i toni di due vecchi amanti, l’uno risentito per un vecchio tradimento (il film “dell’elefante”, cioè Zenobia) e l’altro che gli rinfaccia di non averlo mai davvero amato, e, soprattutto, la tenerissimo zoomata che riprende Stan entrato nel letto dell’amico malato per scaldargli le mani raccontano qualcosa di assai simile all’amore. Stanlio & Ollio erano, va ricordato, quanto di più simile a due melanconici clown il cinema abbia mai presentato; le loro gag erano divertentissime ma anche crudeli: in almeno due film Ollio (I diavoli volanti) o tutti e due (Ronda di notte) muoiono e, comunque, erano maltrattati, spesso con violenza invalidante, da un mondo che non accettava il loro essere infantili, inadeguati, in una parola “diversi”. Il film è ben attento a non caricaturare i due personaggi ma, pur raccontando il declino, i tic e la grandezza di due artisti (grazie anche alla eccezionale bravura di Coogan e Reilly), ha continui rimandi alle loro trovate: il baule che cade dalle scale come il pianoforte de La scala musicale, le gag di Stan per intrattenere la receptionist del produttore inglese e le due mogli, impressionantemente ricalcate su Mae Bush e Dorothy Christy, le attrici che impersonano mogli virago de I figli del deserto. Stanlio e Ollio è uno dei migliori film biografici sulla vita di comici (i precedenti su Chaplin e Buster Keaton, ad esempio, erano molto più freddi ed illustrativi) e merita il buon successo che sta avendo. Notazione finale: mi ha intenerito sentire, durante la proiezione, un bambino ridere di gusto ad una delle loro gag. La loro comicità è davvero eterna.

Antonio Ferraro

 

 

 

 

 

 




Noi (Us)

di Jordan Peele. Con Lupita Nyong’oWinston DukeElisabeth MossTim HeideckerYahya Abdul-Mateen II

La bambina di colore Adelaide (Madison Curry) è in vacanza a Santa Cruz in California con i genitori Russell (Abdul-Maten II) e Rayne (Anna Diop); una sera al Luna Park, mentre il padre sta giocando a “caccia la talpa” e la madre è in bagno, lei entra in una casa degli specchi e all’improvviso le appare, minaccioso, il suo doppio. Lo shock la renderà afasica per qualche tempo e anche ora che è adulta (Nyong’o) ha un idiosincrasia per quei luoghi; perciò quando il marito Gabe Wilson (Duke) propone a lei e ai loro due figli – l’adolescente Zora (Shahadi Wright Joseph) e il piccolo e nevrotico Jason (Evan Alex) – di andare in vacanza proprio a Santa Cruz, lei cerca di opporsi ma, per affetto verso i suoi che sono entusiasti, accetta. E’ lì in vacanza anche la famiglia wasp Tyler – Josh (Heidecker), collega e amico di Gabe, con il quale è anche in costante competizione, Kitty (Moss) moglie e madre insoddisfatta ed alcolista e le loro gemelle Becca (Cali Sheldon) e Lindsey (Noelle Sheldon) – con la qual passano la prima giornata di mare. La sera, tornati nella loro villetta, notano in giardino quattro figure immobili che, quando Gabe esce per farli andar via, si rivelano dei loro doppi armati di grosse forbici, che prima lo aggrediscono, poi entrano a forza nella casa. Solo Red, la sosia di Adelaide parla (gli altri emettono suoni gutturali) e, dopo aver ammanettato Adelaide, spiega che lei, Abraham (doppio di Gabe), Umbrae (Zora) e Pluto (Jason) sono loro ombre, costrette ad una vita di buio e miseria e che ora sono qui per prendere il loro posto. Pluto, che è piromane, vuole giocare con Jason che riesce a chiuderlo in cantina, mentre Adelaide, approfittando dell’assenza di Red che è andata a liberare il figlio, si libera e la attera con un legno; Gabe, che Abraham aveva portato al largo in motoscafo per annegarlo, riesce ad ucciderlo e a tornare a terra con una gamba rotta. Anche Zora è riuscita a scappare ed arriva nella villa dei Wilson per scoprire che sono stati trucidati dai loro doppelganger. Arrivano anche gli altri familiari e riescono ad uccidere le ombre dei Wilson e a scappare con la loro auto. Scoprono che tutta la zona è stata messa a ferro e fuoco dai doppi che ora stanno formando una lunga catena umana. Arrivati in paese trovano Pluto che, dopo aver incendiato la loro macchina, si prepara a dar loro fuoco ma Jason, facendosi imitare, fa in modo che, camminando all’indietro, perisca nell’incendio. Red rapisce il ragazzo e Adelaide la insegue fino ai sotterranei della Casa degli Specchi….

Il comico Jordan Peele fa di nuovo centro: dopo Scappa-Get out che, a fronte di un budget di $4.500.000, ha incassato $252.000.000, Noi-US, costato 5 milioni ne ha già raccolti, in pochi giorni, oltre 170.000.000. I due film hanno molti punti in comune e sono horror atipici: i due plot lo sono ma l’andamento, più che puntare sulla suspense, ha un retrogusto ironico; c’è la giusta quantità di sangue e di morti ma siamo lontani dallo splatter dei film di genere delle ultime generazioni; i protagonisti sono afroamericani della classe media. Proprio quest’ultima caratteristica ha dato il destro a gran parte della critica a focalizzare l’attenzione su di una sorta di messaggio sociale che Peele lancerebbe con le sue opere; in questo, va detto, c’è del vero; lui stesso, richiamandosi a La notte dei morti viventi di Romero, si attribuisce l’ispirazione ad un disagio permanente dei neri, ancora in qualche modo emarginati negli Stati Uniti (e l’Us del titolo è anche un acronimo per United States). Peele, inoltre era noto per la sua imitazione di Obama, rappresentato come un nero-bianco arruolato nel sistema. Non si spiega, però, un successo mondiale solo con una critica di sistema; a suo tempo L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel era stato interpretato come un segnale della paura dell’occidente verso l’inquietante e minaccioso universo comunista ma il film era – a prescindere – un capolavoro e tale è rimasto. I doppelganger degli Wilson in Noi saranno pure dei neri emarginati che presentano il conto ai loro fratelli integrati ma questa sola interpretazione (che è certamente una delle corde dell’ispirazione di Peele) annullerebbe gran parte del plot: anche i bianchissimi vicini hanno i loro doppi e la catena delle ombre è assolutamente multirazziale. Quello che fa di Noi un ottimo film e del regista una bella conferma è la capacità di trarre emozioni da piccoli segnali: una giostra che vortica sopra la testa della bambina sola sulla spiaggia, il primo piano della scala mobile che porta all’infernale dormitorio delle ombre sono due firme d’autore che segnano il film ben al di là degli inevitabili ammazzamenti. E’ probabile che – pur in seguito all’enorme successo commerciale di Scappa – Peele, pur potendo chiedere budget importanti abbia preferito mantenersi in un budget basso che gli consentisse di mantenere uno stile efficace proprio perché minimalista (anche a costo – ma in un horror questo è ordinaria amministrazione – di dare una spiegazione molto sommaria agli eventi). La piccola sorpresa finale, poi, è genialmente inquietante.

 

 




Scappo a Casa

di Enrico Lando. Con Aldo BaglioJacky IdoBenjamin StenderAngela FinocchiaroDino Longo

Michele (Baglio) è un meccanico bravissimo nel suo lavoro, scapolo, donnaiolo e razzista. Un giorno il suo collega Pasquale (Rocco Barbaro), che doveva partire per una fantastica vacanza sessuale a Budapest, ha un incidente e lui gli prende biglietto e prenotazioni e, a bordo della rombante Porsche rossa di un cliente, parte gasatissimo. Dopo una notte brava con tre bellissime escort (Mariia Pogrebiank, Claudia Motta, Flora Garai), mentre torna in albergo, viene derubato di macchina, telefono, soldi e documenti e quando, sconvolto, chiede aiuto è scambiato per un tunisino e portato ad un centro di accoglienza per migranti irregolari. Qui l’assistente sociale Agota (Lana Vlady), che non crede al suo proclamarsi italiano ma lo vuole aiutare, gli consiglia di far amicizia con il medico nigeriano Mugambi (Ido) che vuole scappare in Italia. Questi lo respinge ma Michele assiste al suo colloquio con il malconcio Umar (Hassani Shapi) che sta dandogli l’indirizzo di una stanza d’albergo in Slovenia, nella cui cassaforte sono custoditi i documenti necessari per espatriare; mentre Mugambi si allontana per prendere dell’acqua, lui riesce ad avere la combinazione prima che Umar esali l’ultimo respiro. Ora Mugambi lo deve portare con se e di notte fuggono insieme a Jamilah (Awa Ly), suo marito (Thierno Thiam) e allo zoppo Jamba (Mapunzo Betani); durante la fuga, vengono presi a fucilate dal contadino cieco Pavelic (Mario Pupella) e dal figlio Bojan (Stender) e il padre – pur non vedente – lo becca al sedere. Curandolo, il nigeriano gli dà un infuso che, oltre a guarirlo, gli fa rivelare la combinazione, dandogli inoltre la permanente impressione di essere nero di pelle. Mugambi, ottenuto quello che voleva, se ne va nella notte e gli altri tre trovano un passaggio per la Svezia. Rimasto solo, Michele ottiene un passaggio da Ursula (Finocchiaro) che sembra concupirlo; in realtà lei è il dirigente di un piccolo commissariato di paese e lo arresta; in cella trova Mugambi e gli rivela che la “combinazione” che l’altro pensava di avergli estorto era solo il suo codice fiscale. Ursula è in combutta con una fattoria alla quale fornisce i migranti irregolari che arresta e la stessa sorte tocca a loro due. Qui Michele conosce la bella Babelle (Fatou N’Diaye) e se ne innamora; lei è sempre sul chi vive e lo tiene a distanza ma una sera lui, dopo aver rimesso in sesto un vecchio camioncino abbandonato, la salva dalle pesanti avances di Seidovic (Longo) – il figlio di Ursula – e scappa con lei e Mugambi. Dopo varie peripezie, arrivano separatamente all’albergo gestito da Mrs. Wang (Jonathan Guerrero) e sarà Babelle, vestita da uomo, a scappare con i documenti. Un tafferuglio alla frontiera …

Scappo a casa avrebbe dovuto essere il film di lancio di Aldo come comico solista (anche se sembra che il trio – dopo un periodo di crisi e di minor successo – riprenderà a collaborare). L’operazione era complicata già sulla carta: in genere i componenti delle coppie o terzetti comici da soli non hanno lo stesso seguito; chiedendo scusa per l’abissale dislivello ma, ad esempio, anche l’immenso Groucho Marx e il bravissimo Oliver Hardy hanno avuto una sorte simile. Questo film ha poi altri handicap: nonostante la regia di Enrico Lando – che aveva portato ad un successo non scontato in partenza I Soliti Idioti (Mandelli e Biggio), Pio e Amedeo (Amici come noi) e Herbert Ballerina (Quel bravo ragazzo) – la sceneggiatura, per la quale lo stesso Baglio è accompagnato dai collaudati Bariletti e Bertacca, fa acqua da tutte le parti, con vari buchi di racconto coperti da frettolosi dialoghi (vedi la scena al fiume); il solo Baglio porta il peso della parte comica, contornato da attori anche bravi ma serissimi. Il vero, pesantissimo problema del film è poi la maledizione del politically correct: non si può immaginare di costruire una commedia sulle già non larghissime spalle di Aldo, soffocandola con luoghi comuni, birignao buonistici e discorsetti edificanti. Anche il più esilarante dei comici schianterebbe al suolo. E il pubblico con lui. Aleggia, minaccioso e tremendo, lo spirito del meraviglioso Alberto Sordi de Il moralista: “Scusi commissario ma che dice la legge? Tratta delle bianche! Queste so’ negre: o cambiate la legge o me rilasciate!” Scusaci Alberto, aveva ragione Moretti: non ti meritiamo!




Il Corriere – The Mule

Èdi Clint Eastwood. Con Clint EastwoodBradley CooperLaurence FishburneMichael PeñaDianne Wiest USA 2018

2002, Pearl, Illinois; l’ottantenne Earl Stone (Eastwood) coltiva emerocallidi (splendidi fiori che durano solo un giorno) e le vende con sistemi antichi: ha vecchi amici che glieli ordinano, gira tutta l’America con un vecchio pickup per farle conoscere e alle fiere regala i bulbi ai visitatori ma non tiene conto di internet e di come le modalità commerciali siano cambiate. E’ sempre stato talmente concentrato sul suo lavoro che ha perso la famiglia: la figlia Iris (Allison Eastwood) non gli parla da quando non si è presentato al suo matrimonio e la ex-moglie Mary (West) è ancora ferita per le sue assenze e i suoi tradimenti; solo la nipote Ginny (Taissa Formiga) gli vuole bene e ha conservato tutte le sue cartoline. Proprio da lei si presenta – dopo il fallimento e il conseguente sfratto – con un bel mazzo fiori il giorno in cui festeggia il fidanzamento. Quando, però, la moglie e la figlia vedono il pickup con i suoi mobili lo accusano di essere lì solo perché ha bisogno di un tetto; lui, ferito, fa per andarsene quando un giovane invitato (Cesar De Leòn) gli si avvicina e gli chiede come guidi; alla risposta che ha attraversato 41 Stati e non ha mai preso una multa, gli lascia un biglietto da visita e lo invita a contattarlo per un lavoro. Earl si trova così a fare il suo primo viaggio come corriere della droga, per conto di un cartello messicano: ha un valigia piena di coca sul retro e va tranquillamente al motel che gli è stato indicato. Quando esce dalla stanza la valigia non c’è più e nel cassetto portadocumenti c’è una busta gonfia di dollari. Earl con il ricavato riapre l’azienda ma, intanto, sta fallendo il bar dove i vecchi paesani (lui tra i primi) andavano a bere, a ballare e a rimorchiare e allora decide di fare un scendo viaggio per racimolare i 25.000 dollari che servono a riaprire. Ci prende gusto e, viaggio dopo viaggio, si compra un pick up nuovo, diventa l’idolo dei compaesani e aiuta la nipote a terminare gli studi (la figlia continua detestarlo ma Mary lo guarda con occhi leggermente diversi). Intanto alla DEA (l’Agenzia federale antidroga) locale è arrivato un nuovo brillante agente, Colin Bates (Cooper), per stroncare il sempre crescente traffico di stupefacenti nella zona; l’Agente Speciale (Fishburne), a capo della sezione, gli affianca il suo uomo migliore, Trevino (Pena) e i due arruolano, ricattandolo, come infiltrato lo spacciatore Luis (Eugene Cordero). Vengono così a sapere che c’è un nuovo corriere, che il Cartello chiama Tata che trasporta indisturbato milioni di droga. Earl si è fatto un nome ma il capo del cartello Laton (Andy Garcia), che ha qualche perplessità su quel vecchio che fa un ottimo lavoro ma non rispetta i tempi, fa deviazioni e, talora, si ferma a dormire o a fare l’amore con qualche prostituta, gli affianca il suo braccio destro Julio (Ignacio Serricchio), che lo dovrà seguire in macchina per tutto il percorso. Earl finge di sottostare al minaccioso comando del giovane gangster di rispettare la tabella di marcia ma, quasi a sfidarlo, si ferma ad aiutare un automobilista (Kareem J Grimes) in difficoltà e fa sosta in un baracchino per una birra e un panino. Julio è esasperato ma quando, in Texas, un agente (Alan Heckner) lo ferma, lui interviene e con quattro chiacchere e un regalino lo rabbonisce. Ora Laton, entusiasmato dai suoi risultati lo vuole conoscere e lo invita ad una festa, alla fine della quale – dopo aver inutilmente dato paterni consigli ad Julio – si apparta con due ragazze (Almendra Fuentes e Mia Rio). Di lì a poco, però, le cose precipitano: l”umano” Laton viene ucciso e sostituito dal feroce Gustavo (Clifton Collins jr.), la DEA centrale mette alle strette l’agenzia perché vuole risultati concreti e, durante, l’ultimo viaggio, Mary ha un aggravamento delle già precarie condizioni di salute. La fine è nota alle cronache (la storia di base è reale): Earl, rimasto vedovo, viene arrestato ma ritrova l’affetto della famiglia (che, in un quasi casuale incontro, lui aveva indicato a Bates come il valore primario della vita).

E’ tornato Clint! 10 anni dopo il meraviglioso “Gran Torino”, eccolo recitare in un suo film (la parentesi del non eccelso “Di nuovo in gioco” non vale: era un favore al suo ex braccio destro Robert Lorenz al suo debutto nella regia). D’altronde poteva lasciarsi sfuggire l’occasione di impersonare l’impunito vecchietto, scoperto in un intervista del New York Times all’agente della Dea Jeff Moore (nel film Colin Bates), che a novant’anni era diventato un efficiente corriere del Cartello di El Chapo? Non poteva ed eccolo regalare rughe, grande recitazione “in levare”, genialità registica e stupenda scorrettezza politica – apostrofa con un cordiale “Ciao lesbica” una mascolina biker (Becky Altringer), ferma i ringraziamenti formali della famiglia di colore in panne con un “Mi fa piacere aiutare i negri” per aggiungere un sorridente “No” alla loro replica “Siamo tutti persone”, offre un panino di maiale a Julio al suo braccio destro Rico (Victor Rasuk), dicendo: ”Voglio farlo conoscere a voi mangiafagioli”- al curiosissimo personaggio. E’ un aggiornamento easy del risentito e generoso Walt Kowalski di Grande Torino, con un piacere quasi sadomasochista nel raccontare con tenerezza e improntitudine – lui ora 89enne – la vecchiaia (anche quando è a letto con due ragazze, scherza sul rischio di una crisi cardiaca). Più passa il tempo e meno appare corretto il paragone di Eastwood con Sergio Leone (che semmai lo ha in parte ispirato nei suoi primi western da regista); I suoi film richiamano sempre più il grande cinema maturo di John Ford, da Sentieri selvaggi a Il grande sentiero. Per geniale che sia Eastwood (e lo è parecchio) il modello sarebbe irraggiungibile se non fosse che quando dirige se stesso è come avere – in una sola persona – Ford e John Wayne, serviti, inoltre, da un cast di grandissimo livello. È parecchio.  Antonio Ferraro




Il primo Re

di Matteo Rovere. Con Alessandro BorghiAlessio LapiceFabrizio RongioneMassimiliano RossiTania Garribba  Italia, Belgio 2019

I pastori Romolo (Lapice) e Remo (Borghi) vengono travolti dalla piena del Tevere e trascinati esanimi vicino al villaggio di Alba. Gli abitanti li catturano e insieme ad altri prigionieri li portano al centro delle capanne dove la vestale Satnei (Garribba) ordina che, a due a due, gli ostaggi combattano a morte fra di loro, acciocché il perdente sia offerto in sacrificio alla Triplice Dea. Viene selezionato anche Romolo che dovrebbe combattere contro Tefarie ma Remo chiede di sostituirlo e così, dopo che questi si è finto morto, i due combattono gli armigeri, liberano i prigionieri e scappano portando con loro la vestale. Nello scontro, Romolo è stato ferito gravemente ma quando, per sfuggire ai guerrieri di Alba, i fuggitivi decidono di attraversare il bosco dei feroci Velienses, Remo rifiuta di lasciarlo a terra e se lo fa legare addosso per portarlo con se. Tefarie convince gli altri che il ferito – che ha toccato Satnei – sia maledetto e che solo uccidendolo potranno salvarsi. Remo lo affronta e lo uccide ferocemente, proclamandosi capo degli spaventati compagni. Una notte, per sfamare e dissetare lo stremato fratello, Remo decide di andare a caccia e chiede alla vestale, in cambio della promessa di proteggerla, di vegliare su Romolo. Cai (Vincenzo Pirrotta) e Mamercus (Fiorenzo Mattu) – d’accordo con gli altri – provano ad ucciderlo ma Satnei lo circonda col fuoco sacro sino a che l’arrivo di Remo, che ha catturato un cervo, li ferma e ne consolida la preminenza; Remo, a questo punto, li invita a stare uniti sotto il suo comando: così, dice, potranno soggiogare tutti i villaggi intorno al Tevere, che sono divisi e sparpagliati. La prima battaglia contro i Velienses rivela il loro valore e l’efficacia della strategia di Remo. Così, poco dopo, sconfiggono le Teste di Lupo e si impadroniscono del loro villaggio, dove il vecchio re (Rongione) dà a Romolo la sua capanna, mentre Romolo, ancora malconcio, viene curato dalla vestale. Quella notte c’è una festa funebre per i guerrieri morti e a Satnei viene chiesto un aruspicio e lei, esaminando, le interiora di un agnello, dice che da un fratricidio sorgerà una città che formerà un immenso impero. Tutti sollecitano Remo ad uccidere il fratello ferito – compreso lo stesso Romolo – ma lui rifiuta e, preso da furore, incendia alcune capanne, spegne il fuoco sacro e trascina la vestale nel bosco, lasciandola legata e in balia delle fiere. Poco dopo, pentito, va a cercarla ma è tardi e lei, prima di morire, gli dice che entrambi sono stati guidati da un disegno degli dei. L’indomani Remo parte con i suoi e Romolo, già in grado d camminare, riesce miracolosamente a riaccendere il fuoco e, acclamato re dai superstiti del villaggio (per lo più donne e ragazzi) decide di armare tutti coloro in grado di combattere e di raggiungere gli altri. Remo ed i suoi sono stati aggraditi dai cavalieri di Alba e stanno soccombendo ma l’arrivo di Romolo cambia le sorti del combattimento. Ora i fratelli sono uno di fronte all’altro e Remo cerca di convincere l’altro a seguirlo in un destino di conquiste senza regole e senza divinità, mentre Romolo capisce di aver avuto la missione di fondare una città che, accogliendo chi voglia avere una sorte diversa e sottomettendo le popolazioni vicine, sia – nei secoli – al centro di un impero. Lo scontro tra i fratelli finisce come la storia insegna.

 

Matteo Rovere, che produce e dirige, è uno dei cineasti più brillanti della nuova generazione: ha diretto il notevole Veloce come il vento (uno dei pochissimi film drammatici italiani di questi anni ad aver ottenuto buoni incassi) e ha prodotto l’intelligente serie cinematografica Smetto quando voglio. Ora, con Il primo re, ha compiuto un’operazione coraggiosa sia dal punto vista produttivo – il film è costato più di 8 milioni ed è completamente fuori dagli schemi di commedia o di film di denuncia sociale che coprono la totalità (o quasi) della nostra produzione, scegliendo inoltre di far parlare i personaggi in un latino aulico, ricostruito dai classicisti della Sapienza – che da quello autoriale, rifacendosi ai non facili modelli di  La passione di Cristo e Apocalypto di Mel Gibson, di Revenant di Alejandro Inarritu, de Il nuovo mondo di Terrence Malick e, forse soprattutto, del glaciale Valhalla rising di Nicolas Refn. Giustamente, il sapiente critico Michele Anselmi invita a non lasciarsi andare a paragoni goliardici con Romolo e Remo di Sergio Corbucci con i forzuti Steve Reeves e Gordon Scott e Ornella Vanoni o Remo e Romolo – Storia di due figli di una lupa di Castellacci e Pingitore con Enrico Montesano, Pippo Franco e Gabriella Ferri; gli diamo retta e ci asteniamo anche da paragoni con 300 di Zack Snider (anche se la frase “Tremate: questa è Roma” ricorda parecchio il “Questa è Sparta” di Leonida/Gerard Butler) ma qualcosa ne Il primo re non ci convince; è tutto molto curato, gli attori sono molto ben scelti, la fotografia di Daniele Ciprì è perfetta ma, alla fine, nel film non ci entri (e non è un problema di lingua: il protolatino è forse una scelta un po’ snob ma non è distraente). Può darsi che lo penalizzi proprio un eccesso di perfezionismo: gli attori raccontano, ad esempio, di mesi di riprese nei disagi e la sporcizia del bosco. Detto questo, rimane e fa piacere ribadirlo, il rispetto per un tentativo intelligente e di buona qualità di tentare strade nuove per il nostro morente, morentissimo cinema.

 




Compromessi Sposi

di Francesco Miccichè. Con Vincenzo SalemmeDiego AbatantuonoDino AbbresciaRosita CelentanoElda Alvigini Italia 2019

Gaetano De Rosa (Salemme), sindaco cinquestelle di Gaeta, separato dalla moglie Mia (Alvigini), scopre, allarmato, dalle pubblicazioni che la figlia ventenne Ilenia (Grace Ambrose), fashion blogger che vive a Roma con la madre, sta per sposare il coetaneo Riccardo (Lorenzo Zurzolo), milanese con ambizioni musicali. Anche il padre del ragazzo, l’imprenditore Diego Loperfido (Abatantuono), quando la figlia Claudia (Valeria Bilello) gli dà la notizia, si preoccupa parecchio: lui – anche se il maschio è preso dalla musica, mentre la sorella lavora duramente in azienda – da bravo maschilista ha deciso che Riccardo gli succederà alla guida della fabbrica e un matrimonio prematuro non rientra in questo quadro; anche la moglie Amelia (Celentano), piena di prestigiosi cognomi, è contrariata da queste nozze “miste”. I Loperfido arrivano a Gaeta insieme ai due amici di Riccardo, Matteo (Federico Riccardo Rossi) e Francesco (Francesco Buttironi), preceduti da Mia, Ilenia e le sue due amiche Carolina (Carolina Rey) e Ilaria (Irene De Matteis) e al primo incontro i due padri si ricordano di aver già avuto un aspro diverbio un anno prima (inoltre, l’intransigente Gaetano ha bloccato il progetto della costruzione di un faraonico albergo, per il quale Diego  aveva ottenuto l’autorizzazione dalla precedente giunta). Da quel momento i due padri decidono, ciascuno per proprio cont, di far saltare il matrimonio: Gaetano incarica prima l’ispettore della Asl (Fabrizio Nardi) di far chiudere l’albergo dove dovrà aver luogo la cerimonia ma invano e, poi, convince Primo (Lorenzo Sarcinelli), suo assistente ed ex-fidanzato di Ilenia, di sedurla, mentre Diego si offre di pagare i debiti di Tito (Abbrescia) in cambio dell’organizzazione di un addio al celibato con escort. I maneggi dei due, dopo vari equivoci, vanno a buon fine, complici involontari il Comandante dei Carabineri (Sergio Friscia), il proprietario del trenino del Luna Park (Pasquale Palma) e la nevroticissima wedding-planner Michela (Susy Laude) ma può non trionfare l’amore?

Due giovani si amano e decidono di sposarsi ma le famiglie si oppongono ma, quando non finisce tragicamente (vedi Giulietta e Romeo), potranno coronare il loro sogno. Questa – per dirla con Borges (Storia universale dell’infamia) è la “storia particolareggiata e totale” di buona parte delle commedie da Aristofane a Plauto, passando per Molière, Shakespeare appunto, Goldoni, Donizetti, Rossini per poi arrivare al cinema: come non ricordare I prepotenti con Taranto e Fabrizi, Padri e figli di Monicelli, Amore e chiacchere di Blasetti, fino ai vari Matrimoni a.. del penultimo Boldi. L’ispirazione (o, meglio, l’aspirazione) di Compromessi sposi viene da Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi e I Tartassati ma non ne sfiora nemmeno il livello. Siamo, se mai, ad un Boldi più patinato ma non necessariamente più divertente. I film di Totò e Fabrizi raccontavano un Italia reale, un mondo nella cui necessaria deformazione comica ci si riconosceva. A Miccichè, dopo i non certo smaglianti successi Loro chi? e Ricchi di fantasia, viene affidata un ulteriore commedia (?) e lui lascia che Salemme e, soprattutto, Abatantuono inanellino i loro ripetitivi tic recitativi, mettendosi al servizio di una sceneggiatura pedissequa e a patchwork (c’è perfino un finale appoggiato mollemente e improvvidamente su Mamma Mia!). Gli incassi – ma ormai a chi decide nel nostro cinema il dettaglio non sembra interessare – sono nella modesta media di tante (troppe) commedie messe su tanto per fare. Unica nota positiva le belle prove della Alvigini e della Laude, caratteriste di razza.

 




Maria Regina di Scozia (Mary Queen of Scots)

di Josie Rourke. Con Saoirse RonanMargot RobbieJack LowdenJoe AlwynDavid Tennant Gran Bretagna 2018

     1651. La cattolica Maria Stuart (Ronan) torna in Scozia per occupare il trono che le spetta accompagnata dalle sue dame e dall’adorato musico italiano omosessuale David Rizio (Ismael Cruz Cordova) e scortata dal fedele Lord Bothwell (Martin Compston). La accoglie il fratellastro James, Conte di Moray (James McArdle), fino ad allora reggente della corona. I primi atti del suo governo (concedere libertà religiosa ai sudditi) fanno uscire dal Consiglio della Corona John Knox (Tennant) – la potente guida dei protestanti scozzesi, che si impegnerà ad infangarla nelle sue ascoltatissime prediche – e preoccupano il Segretario di Stato Lord Maitland (Ian Hart), sino a quel momento gestore del governo del paese, che comincia a tramare contro la sovrana. Intanto a Londra Elisabetta I (Robbie) teme che Maria, sua consanguinea, possa – in quanto diretta discendere dagli Stuart – spodestarla ma non accetta le sollecitazioni del suo Primo Consigliere William Cecil (Guy Pearce) a sposarsi e a mettere al mondo un erede (Maria appena arrivata al trono le ha subito proposto un’alleanza, chiedendole di garantirle la successione, nel caso lei, Elisabetta, non avesse figli): lei è paga del rapporto con il giovane Robert Dudley (Alwyn), che, per ragioni di rango nobiliare, non ha nessuna possibilità di sposare. Cecil le propone allora di inviare a Maria come ambasciatore il fidato Lord Randolph (Adrian Lester) per proporle un accordo basato sul matrimonio con un Lord inglese di fiducia di Elisabetta. Maria accoglie con gentilezza il messo e sembra disposta ad accettare l’accordo. Cecil allora dichiara il proprio piano: sarà proprio Dudley il marito prescelto (chi più di lui può garantire fedeltà alla sua amata regina?). Elisabetta – provata dal vaiolo che ha contratto – pur disperata, accetta la proposta ma, quando Dudley si presenta alla corte di Scozia, Maria lo respinge, rompendo clamorosamente con Londra. Poco dopo, accetta di sposare Henry Darnley (Lowden), figlio del Conte di Lennox (Brendan Coyle), cattolico inglese con solide ramificazioni nella nobiltà scozzese. Questo ulteriore colpo di testa della sorella, convince James a lasciare la corte e – con l’aiuto di armi inglesi e di Knox – a capitanare una sommossa. Le truppe di Maria, guidate da Bothwell, sconfiggono gli insorti e lei impedisce che il fratellastro sia ucciso. Il matrimonio, invece, si rivela un fallimento: Dudley è un ubriacone ed è diventato l’amante di Rizzo; Maria, in un frettoloso rapporto sessuale, riesce a farsi mettere incinta e a garantire così un erede che possa unificare sotto di sé Inghilterra e Scozia. Maitland, Knox e il padre di Dudley mettono a punto una nuova congiura: far apparire la affettuosa consuetudine di Maria con Rizzo come una storia d’amore e dichiararla indegna del trono; costringono Dudley a firmare il loro patto e, insieme a lui, trucidano Rizzo sotto gli occhi della regina, che subito dopo relegano nelle sue stanze. Dudley, a quel punto, si dà arie da re ma viene, a sua volta, ucciso. Ora il Consiglio impone a Maria di sposare Bothwell e lei – fidando nella sua consolidata fedeltà – accetta ma anche quest’ultimo si era schierato con i congiurati. Disperata, affida a James il figlio appena nato, chiedendogli di reggere per lui il trono e parte sul barcone di un pescatore (John Stahl) per l’Inghilterra. Qui incontra Elisabetta e le chiede aiuto: lei le promette solo di rispettare il suo erede ma la imprigiona per vent’anni, alla fine dei quali, venuta in possesso di documenti che comproverebbero sue manovre per ucciderla, la fa giustiziare. Il figlio di Maria, James I (Andrew Rothney) sarà il primo re di Inghilterra e Scozia.

Il primo film su Maria, The execution of Mary, Queen of Scots, è del 1895; da sempre, infatti, il cinema (e poi la televisione) è stato affascinato dalla storia delle due sorellastre regine e rivali: Katharine Hepburn, Zara Leander, Vanessa Readgreve, Annie Girardot, Joan Sutherland e Samantha Morton sono le più note tra le decine di attrici che hanno interpretato il ruolo della regina cattolica, così come Sarah Bernhardt, Flora Robson (3 volte), Bette Davis, Jean Simmons, Agnes Moorehead, Glenda Jackson, Miranda Richardson, Judy Dench e due volte ciascuna Vanessa Redgrave e  Cate Blanchett hanno vestito i panni di Elisabetta I. Questo nuovo film è tratto dal libro di John Guy Queen of Scots – The true life of Mary Stuart ma, soprattutto, è sceneggiato da Beau Willimon, l’autore di House of cards ed ha la sua forza  (e il suo limite) nel raccontare la storia come un insieme di intrighi, convinzioni etico-politiche e sentimenti equiparabili ai nostri tempi: le due rivali dichiarano le loro difficoltà a regnare in un mondo di uomini con accenti femministi e Maria si pone nei confronti dell’omosessualità dell’amato musico e della libertà di religione su posizioni e con toni di una liberal di questi tempi. A questi accettabili ma vistosi anacronismi, si aggiungono alcune forzature della regista. Lei ha alle spalle una bella carriera teatrale ma è al suo primo film e non sembra avvedersi che alcune forzature, che il palcoscenico accoglie tranquillamente, sullo schermo appaiono dissonanti: la scelta di far interpretare Lord Randolph – così come altri cortigiani  vistosamente multietnici – da un attore di colore è stilisticamente fuorviante (è vero che Branagh aveva fatto qualcosa di simile in Molto rumore per nulla, così come Reynolds in Robin Hood – Principe dei ladri ma il primo film è un giocoso girotondo sulla commedia più allegra di Shakespeare e nel secondo, peraltro opera di pura fantasia, il personaggio di Morgan Freeman è un valoroso ex-nemico di Robin, conosciuto durante le Crociate). E proprio la teatralità è il pregio e il difetto maggiore di Maria Regina di Scozia: splendidi costumi (di Alexandra Byrne), scenografie (James Merifield) adeguatamente cupe, bellissime riprese della aspra natura scozzese (John Mathieson) ed ottimi attori (anche se l’australiana Robbie – altrove bravissima – appare un po’ sfocata) ma più verbosità che colpi di scena; per non parlare nella scena clou – assolutamente inventata dagli autori – dell’incontro tra le due protagoniste, che diventa un quasi affannoso espediente teatrale con quel loro ricercarsi attraverso pesantemente simbolici veli.