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Joker

 di Todd Phillips. Con Joaquin PhoenixRobert De NiroZazie BeetzFrances ConroyMarc Maron USA 2019

1981, in una Gotham City inasprita, degradata e sommersa dalla spazzatura – forse gestita da un sindaco di nome Rays? (battutona!),  – Arthur Fleck (Phoenix), giovane disagiato, afflitto da un disturbo che, nei momenti di tensione, lo fa esplodere in una irrefrenabile risata, campa facendo il clown di strada. Un giorno, mentre lavora, quattro teppisti (Adam James, Xavyer Urena, Evan Rosado e Damin Emmanuel) gli rubano il cartello pubblicitario che esibiva e, dopo essersi fatti rincorrere nei vicoli, glielo rompono addosso e lo riempiono di calci. Torna nello scalcinato appartamento nel quale vive con la madre malata Penny (Conroy) e, in ascensore, una giovane vicina, Sophie (Beetz), che gli fa un sorriso di comprensione lo fa immediatamente innamorare. La madre continua a mandare lettere con richiesta di aiuti al miliardario Thomas Wayne (Brett Cullen), nella cui casa aveva lavorato anni prima, fiduciosa nella sua generosità e, quando, l’anchor-man Murray Franklin (De Niro) lo presenta nel suo show televisivo come probabile candidato alle prossime elezioni comunali, lei si entusiasma e lui – che vorrebbe essere uno stand up comedian – fantastica di essere, a sua volta, ospite d’onore nello show. L’indomani – dopo che l’assistente sociale (Sharon Washington) gli ha comunicato che, per effetto di tagli al welfare, non potrà più seguirlo né fargli avere i medicinali indispensabili per i suoi disturbi nervosi – si reca come ogni mattina, all’agenzia di artisti da strada Haha, dove il nano Gary (Leigh Gill) gli esprime solidarietà per l’aggressione subita, il collega Randall (Glenn Flescher) gli dà di nascosto una pistola per difendersi ma Josh (Hoyt Vaughn), il padrone dell’agenzia, gli chiede di rimborsare il cartello che  si era rotto. Mentre si esibisce in un ospedale pediatrico, la pistola gli cade di tasca e perde il posto. Ancora vestito e truccato da pagliaccio, in metropolitana ha uno dei suoi accessi di riso quando vede tre yuppies (Carl Lundstedt, Michael Benz e Ben Warheit) ubriachi infastidire una ragazza (Mich Szall); i tre lo aggrediscono e lui, estratta la pistola, li ammazza. Il giorno dopo, Wayne – quale datore di lavoro dei tre – dichiara in tv come il costume da clown dell’assassino sia emblematico della qualità morale di chi ha ucciso dei bravi giovani benestanti per odio sociale. Queste parole scatenano la rivolta dei disagiati di Gotham che, vestiti da clown, manifestano, sempre più violentemente, per le strade. Ora Arthur, gasato dagli omicidi compiuti e dall’essere preso come esempio di rivalsa, perde sempre più il senso della realtà: immagina di conquistare Sophie e trasforma, nella sua fantasia, una esibizione da cabarettista, nella quale era riuscito solo a ridere nervosamente, in un successo di ilarità. Un giorno, leggendo l’ennesima lettera dalla madre a Wayne, scopre che lei motiva la richiesta di aiuto sostenendo che lui è il figlio di una loro relazione; quando ne parla a Penny, questa ha un malore e viene ricoverata. All’ospedale lo raggiungono i detective Burke (Shea Whigham) e Garrity (Bill Camp), per interrogarlo sugli omicidi della metropolitana, lui li liquida rapidamente e va alla villa di Wayne; qui parla con il piccolo Bruce (Dante Pereira-Olson) ma viene brutalmente allontanato dalla guardia del corpo (Alfred Pennyworth). La sera, riesce ad infilarsi in una proiezione di beneficienza di Tempi moderni e a parlare con il magnate ma questi gli spiega con durezza che lui non è suo padre e che la madre, malata di mente, lo aveva adottato prima di finire nel manicomio criminale Arkham. A conclusione della tremenda giornata, Arthur vede Franklin che usa la sua catastrofica esibizione per far ridere gli spettatori. Il giorno dopo va all’Arkham Asylum e scopre la verità: la madre lo aveva adottato, fingendo che fosse il figlio di Wayne e aveva lasciato che il suo convivente di allora lo abusasse, ledendogli la mente. Ora Arthur non ha più limiti e uccide la madre con un cuscino e accoltella Randall, che aveva indirizzato i sospetti della polizia su di lui. Poi, con un nuovo costume da clown, un nuovo trucco e il nome d’arte Joker va allo show di Franklin – che, contro il parere del suo produttore (Maron), lo aveva invitato per divertire il pubblico alle sue spalle – e qui…

Joker è l’esempio perfetto di come il voler classificare i film (ma vale per tutte le manifestazioni artistiche) secondo astratte categorie valoriali sia limitativo e fuorviante. Alcuni critici, dopo la vittoria a Venezia, lo hanno definito cinecomic d’autore ma, allora, cosa dire della trilogia su Batman di Chistopher Nolan (Batman begins, Il cavaliere oscuro, Il cavaliere oscuro – Il ritorno)? Da che parte mettiamo il variegato e sulfureo Suicide Squad? In realtà il cinema è cinema: ci sono buoni film e film meno buoni, ci sono opere dichiaratamente autoriali e operazioni strettamente commerciali ma quasi ogni film è una storia a sé e va visto con lo sguardo scevro da preconcetti incasellamenti. Certo, in questo caso, il Leone d’Oro – meritato ma anche, probabilmente, anche necessitato dall’esigenza di far uscire la Biennale Cinema dalla nicchia minimalista nella quale si stava chiudendo – ha aiutato a dimenticare che Todd era stato il regista dei 3 Una notte da leoni (più o meno del livello, per i nostri miopi puristi, degli aborriti cinepanettoni) e in più la magistrale interpretazione di Phoenix – a Venezia gli hanno preferito il Marinelli di Martin Eden (?) – chiude la bocca a qualsiasi obiettore. Lui è il quinto Joker cinematografico e ha precedenti illustri (Cesar Romero in Batman nel 1966, Jack Nicholson in Batman nel 1989, Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro nel 2008 e Jared Leto in Suicide Sqaud del 2016) ma riesce a dare una coinvolgente intensità al personaggio sino a farlo lievitare al di sopra del carattere di origine fumettistica ed assurgere a fool dolente e simbolo di angoscia universale. Per farlo, secondo le indicazioni più stringenti del Metodo Strasberg, è dimagrito paurosamente di decine di chili ed ha “vissuto” il personaggio per tutto il periodo delle riprese (d’altronde mentre interpretava il detective hippie di Vizio di forma non si è lavato i piedi per due mesi perché la loro sporcizia non fosse solo un trucco di scena). Todd Philips, oltre a firmare la regia di solido servizio ne ha scritto l’ottima sceneggiatura insieme all’”intellettuale” Scott Silver (8 mile, The fighter) e – insieme alle citazioni cinefile di Tempi moderni, Voglio danzar con te e Zorro mezzo e mezzo – cura la colonna musicale, con l’esplodere di That’s life di Frank Sinatra, il contrappunto di Smile di Chaplin nell’ironica e dolente interpretazione di Jimmy Durante e le irridenti incursioni di Slap that bass  di Fred Astaire e di Send in the clowns di Sinatra. Il film va benissimo da noi e negli USA.

 




Tutta un’altra vita

di Alessandro Pondi. Con Enrico BrignanoIlaria SpadaPaola MinaccioniMaurizio LombardiMonica Vallerini Italia 2019

Gianni (Brignano) è un tassista romano con problemi di tutti: una famiglia – la moglie Lorella (Minaccioni), e i figli Annibale (Gabriele Lustri) e Gaetano (Giordano Di Cola) – da mantenere, il mutuo, i soldi che non bastano mai; l’unica sua distrazione è la partecipazione, insieme alla partner sovrappeso Erminia (Daniela Terreri), a gare di ballo nelle quali non vince mai. Un giorno d’estate accompagna all’aeroporto una coppia in lite, Temistocle (Paolo Sassanelli) e Marta (Vallerini), che dimentica le chiavi di casa nel suo taxi. Lui va nella loro villa per riportarle ma non trova nessuno; si fa tentare dalla loro splendida piscina e, dopo una nuotata rinfrescante, si stende al sole. Torna a casa rosso come un gambero ma contento e il giorno dopo decide di concedersi un altro tuffo. Incuriosito entra in casa e si esalta per le meraviglie tecnologiche (il light follow: la luce che ti segue passo passo), le delizie della dispensa, il garage con varie fuoriserie e il ricco guardaroba; qui si prova un’elegante smoking e trova l’invito all’esclusiva festa di Lisa Von Schiele (Margherita Remotti). Con una rombante Lamborghini arriva alla festa ma il concierge (Elio Salvatore Pagano) lo blocca: il party prevede che tutti siano vestiti di bianco e il suo smoking è nero; arriva a salvarlo la splendida Lola (Spada) che con un abito bianco scollatissimo lo prende sottobraccio ed entra con lui. Tra gli invitati c’è il famoso stilista Manuel Del Grande (Maurizio Lombardi) che, riconosciuto nel vestito di Gianni una sua creazione lo prende in simpatia; lui corteggia Lola – che lo prende un po’ in giro perché voleva pagare i drink al barman (Emiliano De Martino) – e la conquista lanciandosi con lei in un travolgente ballo figurato; Manuel, entusiasta, li invita al party che darà la sera successiva. Gianni fa guidare a Lola la Lamborghini che la spinge al massimo, mettendolo nel panico quando due poliziotti (Fabio Vasco e Daniel Baldock) li fermano ma per fortuna lei li conosce e loro li lasciano andare. Arrivati alla villa, dopo una notte di fuoco, Gianni si precipita a casa per accompagnare i ragazzini al pullman per il mare dove li aspetta il loro vicino cinese (Jasper Gonzales Cabal), impapocchiando che la fuoriserie è una vettura di cortesia fornita dall’officina che avrebbe in riparazione il taxi. La sera del party dello stilista, Gianni si diverte come un pazzo (vince anche 2.000 euro alla roulette) ma, dopo un’altra notte di passione, lei blocca la sua dichiarazione d’amore chiedendogli i duemila euro quale tariffa per la marchetta. Gianni, disperato, torna alla sua routine (non può nemmeno consolarsi con la gara di ballo perché Erminia si è slogata una caviglia per un incidente di macchina). Una notte, però, lei gli telefona in lacrime: ha bisogno del suo aiuto perché il padre è tornato dall’Australia dove era emigrato anni prima e pensa che lei sia laureata e fidanzata con un ottimo partito. Lui si precipita alla villa e …


Alessandro Pondi nasce come sceneggiatore e, insieme a Paolo Logli, Riccardo Irrera e Paolo Graiani (che firmano con lui lo script questo film) ha fondato il team creativo 9mq Storytellers, imponendosi come una delle più interessanti novità nel panorama – da anni spesso asfittico – della scrittura cinematografica e televisiva. Tutti insieme – ma anche firmando a coppie o, talora, singolarmente ma sempre collaborando fra di loro – hanno lavorato a successi come Don Matteo, Il commissario Manara, Il restauratore, Diritto di difesa, I signori della truffa per la televisione e a film come Poli opposti, Copperman, Mio papà. Il loro metodo è, sostanzialmente, appoggiato al lavoro degli sceneggiatori del grande cinema italiano del dopoguerra: allora registi e scrittori lavoravano generosamente insieme, spesso contribuendo a progetti che non avrebbero firmato in una festosa creatività e, almeno i migliori, senza steccati culturali: scrivere una commedia di successo era gratificante ed importante quanto sottoscrivere una pensosa opera d’autore. Così Pondi e Logli, dopo l’uscita di Fausto Brizzi e Marco Martani, lavorano a due film di Natale: Natale in Sudafrica e Natale a Beverly Hills (ed è nota la accuratezza che il produttore De Laurentis metteva nella scrittura dei suoi film, chiedendo non meno di 20 revisioni per ogni sceneggiatura). Questa scuola (compresi gli inizi con Vincenzoni e Guerra) ha portato Pondi alla regia: dopo l’interessante esordio in Chi m’ha visto? – bel racconto, in parte limitato dal troppo attore Favino e dall’assai meno efficace Fiorello – ora firma una commedia della grande, vecchia scuola con una trovata iniziale, nel contempo, originale e tradizionalissima. Infatti, dall’impetuoso Una poltrona per due, infatti, allo sponsorizzato Filofax – Un’agenda che vale un tesoro, al tenero Borotalco, all’immortale Miseria e nobiltà, al reiterato Il conte Max, al solidamente popolaresco La famiglia Passaguai fa fortuna, fino a Totò a Parigi (“Vuoi un whisky o un Pernod” “Si: fammi un fischio e un pernacchio!”), per citare alla rinfusa, al cinema l’abito fa sempre il monaco (e Pondi lo ribadisce con una piccola sorpresa finale). Qui Brigano, la Minaccioni e la Spada sono – come è giusto in queste operazioni – al meglio del loro consolidato cliché, così come il resto del cast; va segnalata, a parte, la godibilissima performance di Maurizio Lombardi, notevole attore ed autore teatrale, che dà un suo tocco personale al personaggio – anche troppo collaudato – dello stilista gay. Gli incassi – considerando la concorrenza monstre de Il re Leone e di It – Capitolo secondo – sono più che discreti: il film è terzo con quasi un milione nel primo weekend.




It – Capitolo 2 (It: Chapter Two)

di Andy Muschietti. Con James McAvoyJessica ChastainIsaiah MustafaJay RyanJames Ransone

A ventisette anni dalla morte di Pennywise (Bill Skarsgard), a Derry il giovane gay Adrian Mellon (Xavier Dolan) viene pestato da alcuni bulli (Brandon Crane, Erik Junnola, Josh Madyga) e buttato nel fiume, dove, sotto gli occhi del suo compagno (Taylor Frey) è fatto a pezzi dal clown, mentre i soliti palloncini rossi – segnali della presenza di It – volano in cielo. Mike (Mustafa), l’unico del Club dei Perdenti rimasto a Derry, decide di chiamare gli altri che sono andati a vivere lontano e hanno rimosso i tragici accadimenti precedenti, compreso il giuramento di tornare insieme per combattere It qualora si fosse ripresentato. La telefonata provoca forti reazioni a tutti: Bill (McAvoy) ora è uno scrittore e sceneggiatore di successo e, di nuovo preda all’antica balbuzie, lascia il set del suo ultimo fllm; Eddie (Ransone), nevrotico analista di rischi con una moglie obesa (Molly Atkinson) identica alla opprimente madre, provoca uno spettacolare incidente; l’ex grassoccio Ben (Ryan), ora atletico uomo di successo, lascia precipitosamente una riunione d’affari; Richie (Bill Hader), brillante comedian, ha una crisi di vomito e non riesce a terminare uno sketch; Beverly (Chastain) lascia per sempre il marito (Will Beinbrink) violento, dopo l’ennesima scenata; il fragile Stanley (Andy Bean) consapevole – apprenderemo da una sua lettera ai vecchi amici – che la sua paura avrebbe indebolito il gruppo, si taglia le vene. Giunti a Derry, i Perdenti si incontrano in un ristorante cinese e la cena parte come un’allegra rimpatriata ma, alla fine, i biglietti dei biscotti della fortuna li avvertono della morte di Stanley mentre la stanza si riempie di minacciosi insetti. Sono, a quel punto, tutti decisi a tornare a casa ma Mike, convince Bill a seguirlo e gli mostra un piccolo braciere indiano, che i nativi americani del luogo gli avevano donato per compiere il rito di Chud: ciascuno di loro dovrà mettervi un oggetto significativo del proprio passato, che bruciando con gli altri darà ad It la sua vera forma, consentendo loro – purché rimangano uniti –  di distruggere il demone. Insieme convincono gli altri e ciascuno si reca nei luoghi del precedente incubo; Beverly, tornata nella casa dove, ragazzina (Sophia Lillis), veniva abusata dal padre (Stephen Bogaert), vi trova una malvagia strega (Joan Gregson) e riesce a portar via una poesia che Ben (Jeremy Ray Taylor) le aveva scritto; Eddie nella cantina della farmacia dove, ragazzo (Jack Dylan Krazer), prendeva le sue medicine, trova la madre (Molly Atkinson) legata ad un divano, nel tentativo di liberarla, viene sommerso dal viscido vomito di un mostro ma riesce a scappare con il suo inalatore; Mike, nella biblioteca del paese è tormentato da figure oppressive che gli ricordano quando, decenne (Chosen Jacobs), perse i genitori drogati in un incendio e porta con sé il sasso che Beverly lanciò contro i bulli, capitanati da Henry (Nicholas Hamilton), che lo tormentavano; Ben va nella sua vecchia scuola e, per portar via una pagina del suo diario d’adolescente (Jeremy Ray Taylor), se la deve vedere con Pennywise; Bill torna alla caditoia nella quale era scomparso il fratellino Georgie (Jackson Robert Scott) e ne trae la barchetta di carta che lui gli aveva costruito, qui incontra Dean (Luke Roessler), un bambino che vive nella sua vecchia casa che gli racconta di sentire strane voci; allarmato cerca di convincerlo a scappare con i suoi da Derry ma riesce solo a spaventarlo; Richie, ritrova un gettone del videogame del quale, bambino (Finn Wolfhard), era appassionato; per Stanley viene usata una cuffia con la quale, da giovanissimo (Wyatt Oleff) ipocondriaco, si proteggeva dagli insetti nel loro covo di allora. Intanto Henry Bowers (Teach Grant) evade, aiutato da It, dal manicomio criminale nel quale era rinchiuso per l’uccisione, 27 anni prima, del padre e, con una machina guidata dallo zombie di Patrick Hockstetter (Owen Teague) – suo accolito di allora, vittima di Pennywise – si mette sulle tracce dei Perdenti e, dopo aver attaccato Eddie e Mike, viene ammazzato da Ben. Pennywise continua a mietere vittime, tra le quali una bambina, Victoria (Ryan Kiera Armstrong) e Bill capisce che Dean è in pericolo; lo raggiunge al Luna Park ma, nel labirinto degli Specchi, il clown lo divora sotto i suoi occhi. Vanno alla casa di Neibolt Street, nei cui sotterranei avevano sconfitto It e compiono il rito ma, solo dopo un lunga lotta e il sacrificio di uno di loro, riescono a distruggerlo definitivamente.

Avevamo già sottolineato, parlando del primo It, come la regia di Andy Muschietti, messosi in luce con l’ottimo horror non splatter La madre, fosse riuscita a dare corpo agli incubi dell’infanzia/adolescenza con una forza narrativa, che richiamava le gotiche atmosfere delle favole tradizionali (spesso crudelissime) senza grandi concessioni agli effettacci che normalmente puntellano questi racconti. It – Capitolo 2, naturalmente, conferma questa chiave stilistica ma è gravato da due handicap: i protagonisti sono ora adulti – e talora (vedi l’Eddie dello specialista James Ransone) vagamente macchiettistici – facendo perdere al plot la suggestione di fiaba iniziatica del primo capitolo; qui, inoltre, viene ripresa la tecnica narrativa del romanzo di Stephen King che salta nel racconto dall’infanzia alla maturità dei personaggi senza un ordine cronologico: sulla carta funziona benissimo ma sullo schermo appare un po’ farraginoso e distraente. E’ evidente comunque come questa versione di Muschietti si sia consegnata al mito cinefilo: non a caso, oltre a Xavier Dolan (che ritrova nella prima vittima del clown i dolenti gay dei suoi film), si sono prestati ad un cameo Peter Bogdanovich nel ruolo di se stesso e Stephen King medesimo quale avido bottegaio. Il pubblico risponde anche se in misura leggermente minore rispetto al miracoloso precedente (a riprova, se mai ce ne fosse bisogno, che l’audience è sempre molto più attenta e competente di quanto si usi – quasi sempre in malafede – pensare).

 




Serenity – L’Isola dell’Inganno

di Steven Knight. Con Matthew McConaugheyAnne HathawayDjimon HounsouDiane LaneJason Clarke  USA 2019

Baker Dill (McConaughey) vive nell’isola tropicale di Plymouth e si guadagna da vivere pescando ed accompagnando i turisti a pesca di grandi prede con la sua barca Serenity. Da qualche tempo si è fissato nel volere catturare un grossissimo tonno, da lui battezzato Justice, che sfugge sempre alla sua lenza. Un giorno è in mare con il suo secondo Duke (Hounsou) e con due turisti (Michael Richards e David Butler) sbronzi di birra e il tonno abbocca; i due passeggeri si svegliano dal torpore e reclamano (come da contratto) di tirarlo su loro ma Baker, quasi in trance, li minaccia con un coltello e continua a dare lenza al pesce ma, quando fa per tirarlo su, ancora una volta il filo si spezza e Justice nuota via. I due turisti, ovviamente, non lo pagano e tutta l’isola – come sempre gli accade – è a conoscenza dell’accaduto. Ape (Ron Hobbs), il proprietario dell’unico bar-ristorante, cerca di dissuaderlo dall’accanimento della pesca al tonno che (così dice) “esiste solo nella tua mente” e la sua amante, la matura Constance (Lane), dopo aver fatto l’amore e avergli dato un po’ di soldi, gli dice più o meno la stessa cosa. Lui non intende desistere e, per non coinvolgerlo nella propria ossessione e affinché trovi un lavoro più sicuro, accusa Duke di portare iella e di essere, perciò, la causa dei suoi fallimenti; l’amico, ferito da quelle parole, se ne va. Poco dopo arriva sulla barca, l’elegante e bellissima Karen (Hathaway), ex-moglie di Baker (lei però lo chiama John) e madre del loro figlio Patrick (Rafael Sayegh); lei fa la carina ma lui – ancora inasprito per come la fine del loro amore – le chiede quale sia il vero motivo del suo arrivo. Karen, messa alle strette, gli racconta che il ricchissimo e potente marito Frank Zariakas (Clarke) è violento e alcolizzato, la picchia spesso e terrorizza Patrick, il quale, per difesa, sta sempre chiuso in camera davanti ad un computer; lei lo ha convinto ad andare nell’isola per una battuta di pesca, avendo in mente un piano: una volta in alto mare, Baker lo getterà agli squali, salvando così il figlio e guadagnando 10 milioni di dollari. Lui rifiuta, non solo di ucciderlo ma anche di portarlo a pesca. Passa una notte agitata e tutti gli isolani sembrano a conoscenza della vicenda. L’indomani mattina, Frank è sul molo con in tasca 10.000 dollari d’ingaggio e Baker, strada facendo, incontra Duke che, dicendogli di aver capito che lui lo aveva offeso per lasciarlo libero, lo convince ad accettare il cliente ma solo per andare a pescare. Durante la traversata, il milionario racconta con disprezzo e rabbia del figliastro, pronunciando, nei fumi dell’alcool, vaghe minacce. Baker ha – come sempre – la sensazione che Patrick gli parli da lontano. Giunti a terra, lui girovaga angosciato mentre Frank va nel quartiere povero alla ricerca di prostitute-bambine. In piena notte Baker va alla barca e lì lo raggiunge Karen con la quale fanno sesso e lui, che ha visto i segni delle frustate sulla sua pelle e che continua ad essere ossessionato dalle richieste di aiuto che sembrano giungergli da figlio, si convince ad eseguire il piano omicida. Tornando a casa, trova sulla porta il rappresentante Reid Miller (Jeremy Strong), che da giorni lo cercava affannosamente. Questi dice di essere lì per dargli in prova uno scandaglio per tonni ma, messo alle strette, lascia intendere di sapere che quello che sta succedendo è parte di un oscuro disegno. Duke, per impedire a Frank di salire sul peschereccio, ha ingaggiato dei teppisti che lo massacrano; ora lui è troppo malconcio per uscire ma Karen lo convince. Intanto Baker caccia Duke per essere solo con Frank ma Samson (Garion Dowds), il figlio di Constance si infila nella barca e, quando sono in mare, si offre di fare da secondo….

https://www.youtube.com/watch?v=Ya02NetKI5Q

Steven Knight è uno sceneggiatore di successo: ha esordito con Piccoli affari sporchi di Stephen Frears e ha partecipato, tra gli altri, agli script di La promessa dell’assassino di David Cronenberg, Allied – Un’ombra nascosta, Millennium – Quello che non uccide. Ha esordito alla regia con Redemption – Identità nascoste, regalando a Jason Statham la prima vera occasione attoriale nella sua carriera di action-hero, ha poi scritto e diretto il sorprendente Locke ed ora si cimenta con una sorta di doppio film. Serenity, infatti, parte come un noir tradizionale: c’è la dark lady e l’uomo che lei ha distrutto e che continua a voler usare per i propri fini. Siamo, diremmo, dalle parti de La fiamma del peccato di Billy Wilder, de Le catene della colpa  di Jacques Tourneur, del suo remake  Due vite, una svolta di Taylor Hackford, di Brivido caldo  di Lawrence Kasdan  ma segnali sempre più insistenti ci portano nel paranormale con echi di vari film: The game di David Fincher, The Truman show  di Peter Weir, Il sesto senso di M. Night Shyamalan, Frequency – Il futuro è in ascolto  di Gregory Hoblit, Shutter Island  di Martin Scorsese, I guardiani del destino di George Nolfi. Tutte queste citazioni non sono un mero esercizio cinefilo ma sottolineano come Knight- autore anche di romanzi fantasy – si sia lasciato prendere la mano da un elaborato troppo confuso. Probabilmente se si fosse accontentato di un onesto thriller con la sorniona Hathaway, il cattivo doc Clarke, la sensuale milf Lane e un McConaughey, che – smessi i tratti stravolti da Oscar di Dallas buyer club e The wolf of Wall Street – sembra aver voglia di tornare ai vecchi ruoli di maschio oggetto di desiderio, avremmo avuto un film ben fatto e una storia di solido stampo. Così non è e, in patria, il pasticciato Serenity è stato un flop epocale.




Domino

di Brian De Palma. Con Nikolaj Coster-WaldauCarice van HoutenGuy PearcePaprika SteenThomas W. Gabrielsson Danimarca, Francia, Spagna, Belgio 2019

Christian (Coster-Waldau) e Lars (Soren Malling) sono due poliziotti di Copenaghen, lavorano insieme e sono molto amici. Una mattina debbono prendere servizio all’alba e Christian, che ha passato un intensa notte di sesso, dimentica a casa la pistola. Mentre sono in macchina arriva la segnalazione di una violenta lite in un appartamento. Giunti sul luogo si scontrano per le scale con Ezra (Eriq Ebouaney) e lo ammanettano. Mentre Christian, con la pistola del compagno, sale all’appartamento, Lars telefona alla centrale. Nella casa c’è il cadavere del gestore (Joshua Joziah) del negozio di frutta Prima sottostante che è stato evidente torturato (gli sono state, tra l’altro, mozzate le dita) e Christian si precipita di sotto per avvertire Lars della pericolosità del prigioniero. Troppo tardi: Ezra si è liberato delle manette, ha tagliato la gola del poliziotto ed è saltato sul tetto. Lars incita l’amico ad inseguirlo. Lui si lancia e, dopo varie acrobazie, insieme all’arabo precipita da una grondaia sulle cassette di frutta e, semisvenuto, vede degli uomini portare via Ezra. Lars è in gravissime condizioni e in ospedale lo raggiungono la moglie Hanne (Steen), Chistian e la poliziotta Alex (Von Houten). A questi ultimi il capo Wold (Gabielsson) affida provvisoriamente – lui sta per finire sotto inchiesta per aver dimenticato la pistola e per avere (sia pure su sua sollecitazione) abbandonato il compagno ferito –  le indagini del caso. Intanto L’agente CIA Joe Martin (Pearce), che insieme ai suoi uomini (Bert Verbeke e Kurt Vandendriessche) aveva preso Ezra, ora lo sta torchiando: lui sa che l’arabo vuole vendicare il padre (Eric Goode) che era stato decapitato dall’Isis ed è alla caccia dello sceicco Salah Al Din (Mohammed Azaay), esponente di spicco del terrorismo islamico che aveva personalmente effettuato l’esecuzione, postandola poi in rete. Il commando americano ha sequestrato la famiglia di Ezra e lui è costretto, per liberarla, a collaborare. Intanto, lo sceicco sta dando a distanza le ultime istruzioni ad una donna, Fatima (Sachli Gholamalizad), alla quale ha fornito un mitra dotato di telecamera ed una cintura esplosiva perché compia un attentato suicida durante il Festival di Amsterdam. Portata a termine la strage, Salah consegna dei biglietti e un telefono ad un altro giovane fanatico, Yussuf (Ilias Addab), che aspetta ordini nel suo appartamento di Copenaghen. Ezra – che si è rasato barba e capelli per essere meno riconoscibile – lo individua e lo butta dalla finestra, per poi scoprire che era pronto ad andare ad Almeria. Christian ha, a sua volta, scoperto la destinazione di Omar e decide – ignorando gli ordini di Wold (che è in costante contato con Martin) di uscire dall’indagine – di partire con Alex alla volta della Spagna. Durante il viaggio vengono a sapere che Lars è morto e lei gli confessa di essere stata la sua amante. Lui – che non ne sapeva nulla e che è molto affezionato a Hanne (che è anche molto malata) – sulle prime si infuria e lei, furibonda a sua volta, gli lascia il telefono nel quale stava guardando le foto del loro amore e un’immagine dell’ecografia dalla quale lei risulta incinta. Per tutto il viaggio non si parlano ma arrivati in Spagna, si sfogano picchiando un piccolo spacciatore (Ilias Ojja) che si era avvicinato offrendo dell’erba. Nell’autostrada vedono lo sceicco, con due uomini (Tarik Rmili e Ibrahim Ibnou Goush) su di una camion della Prima; capiscono che le casette di frutta sono il tramite che usano per far passare l’esplosivo e lo seguono. Ad Almeria sono arrivati anche Ezra e Joe, che, dopo aver fatto fuori il proprietario (Younes Bachir), si mettono in attesa nel bar Miguel che è la base locale dei terroristi. Chistian e Alex, seguendo il camion, arrivano all’ingresso della Plaza de Toros e vedono Salah che dà una cassetta di bibite (chiaramente carica di esplosivo) al giovane Omar (Ardalan Esmaili) che entra nella Plaza. Alex lo segue mentre Christian segue gli attentatori fino al terrazzo di un palazzo adiacente da cui fanno partire un drone che farà brillare l’esplosivo ….

https://www.youtube.com/watch?v=x9j3WQpoVbk

De Palma non è un autore classificabile; talora lo si definisce frettolosamente come hitchockiano e lui non ha certo fatto mistero della sua ammirazione per il regista inglese, che ha ispirato sequenze e stilemi, ad esempio, de Le due sorelle, di Blow out o di Omicidio a luci rosse ma altri titoli (Scarface, Vittime di Guerra, Gli intoccabili) sono fuori dalla poetica di Hitchcock ma depalmiani a pieno titolo. Venendo a Domino non si può non tener conto che il regista l’ha parzialmente (la firma, però, la ha lasciata) disconosciuto, sostenendo che la produzione danese Schonne Film si sarebbe rilevata inadeguata e che lo avrebbe rimontato, tagliando scene fondamentali. Non posiamo che prendere atto delle sua dichiarazioni e notare i limiti del film: lo scritto – cui De Palma non ha minimante partecipato (come del resto in Mission Impossible ma è un’altra storia e un altro budget) – è poco più che un compitino da diploma di sceneggiatore (tema: “ Il candidato immagini di scrivere un film per Brian De Palma”), i due protagonisti – un po’ troppo bistrattati da alcuni critici – sono divi de Il trono di spade e un po’ di fissità televisiva la mantengono (lei però si porta sul set il marito Guy Pearce e non è poco) e, aldilà della solvibilità del produttore danese, una coproduzione che coinvolga 4 Paesi è sicura fonte di difficoltà di composizione realizzativa. Anche i due precedenti film del regista, Redacted (che pura aveva vinto il Leone alla regia a Venezia) e Passion non hanno avuto gran fortuna (il primo in Italia ed in altri Paesi importanti è uscito solo in home video). Il quasi ottantenne De Palma è convinto di aver ancora qualcosa da dare al cinema e, a mio avvio, ha ragione: anche lo sconciato Domino lascia intravvedere, ogni tanto, la zampata di un grande maestro che sa dare suspense con pochi, magistrali tocchi di regia. E’ vero le sequenze più riuscite sono richiami ad Hitchock (l’agguato sul tetto di Caccia al ladro) e dello stesso De Palma (la Plaza de Toros come la Boxing Arena di Omicidio in diretta) ma funzionano benissimo.

 

 

 




Annabelle 3 (Annabelle Comes Home)

di Gary Dauberman. Con Mckenna GracePatrick WilsonVera FarmigaMadison IsemanKatie Sarife USA 2019

California, primi anni ’70. Gli esperti di occultismo e sensitivi Ed (Wilson) e Lorraine Warren (Farmiga) prendono in consegna la bambola Annabelle e, mentre la portano a casa, un incidente li costringe ad una deviazione, la loro macchina ha un improvviso guasto in una notte nebbiosa, delle inquietanti visoni minacciano Lorraine, mentre il marito, che stava riparando il guasto, viene quasi travolto da un camion fuori controllo. Giunti in casa la fanno benedire da padre Gordon (Steve Culter) e la chiudono a chiave in una teca della stanza nella quale tengono i reperti più pericolosi. Debbono partire per una nuova missione e affidano la loro figlia undicenne Judy (Grace) alla baby-sitter Mary Ellen (Iseman). A scuola la ragazzina continua a vedere un prete (Gary-7) che sembra invitarlo a seguirlo ed è bullizzata da un gruppo di coetanei, guidati da Anthony Rios (Luca Luhan), per le sue stranezze. Daniela (Sarife), sorella di Anthony e amica di Mary Ellen, convince quest’ultima – minacciandola di rivelare la sua cotta per Bob (Michael Cimino) – a portarla con se nella casa che vuole assolutamente visitare. Lei non è mossa solo da curiosità: un anno prima il suo adorato padre (Anthony Wemyss) era morto per un incidente in un auto guidata da lei e spera di incontrarne l’anima per pacificare i propri sensi di colpa. Mentre Judy e Mary Ellen sono andati a fare una commissione, lei trova le chiavi ed entra nella stanza proibita; vede Annabelle ed apre l’armadio ma, sentendo rientrare le altre due, chiude alla bell’e meglio. La sera, insieme al fattorino (Bill Kottkamp) che porta le pizze, arriva l’imbranato Bob per salutare Mary della quale anche lui è innamorato; lei è contenta ma non lo può far entrare (i Warren erano stati chiari nel raccomandarle di non ricevere ragazzi). Dopocena le tre ragazze cominciano a sentire strani rumori e Annabelle appare e scompare nei vari angoli della casa, per finire nel letto di Judy. Di lì a poco, Mary Ellen, che l’aveva sentita lamentarsi nel sonno, va nella sua camera e se la deve vedere con la Sposa Assassina, un’apparizione con un abito nuziale che rende violenta chi lo indossa. Bob, su consiglio del rider, si mette sotto le finestre e improvvisa una sgangherata serenata rock ma l’arrivo del feroce Cane Fantasma lo costringe a rifugiarsi nel pollaio. Daniela (che aveva preso nella stanza un medaglione che evocava i morti e vi aveva messo una foto di lei con il papà) vede il padre che si reca nella stanza dei cimeli e – dopo aver raccolto, terrorizzata, le monete che cadano dagli occhi dei cadaveri opera del Traghettatore –  lo segue ma lui, con il volto fracassato, la aggredisce dicendole: “Guarda cosa mi hai fatto!”, dopodiché la porta si chiude e gli oggetti mortali le si appressano minacciosi. Intanto Judy e Mary Ellen – che Bob ha salvato dalla Sposa con un colpo di chitarra -….

Tutto è cominciato nel 2013 con L’evocazione – The Conjuring ottimo horror prodotto e diretto da James Wan basato sulla storia vera dei coniugi Warner. Il successo del film ha creato una piccola factory di sequel e spin off; è stato subito imbarcato lo specialistico sceneggiatore (It, La Llorona) e regista Gary Dauberman e sono arrivati The Conjuring 2 – Il caso Enfield, The nun e i tre Annabelle. Tutti – anche questo, stando ai primi segnali – notevoli blockbuster e le ragioni sono varie: tutti sono ben prodotti, con budget contenuti ma sufficienti, l’ambientazione a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 nella provincia americana dà un tono di sotterranea repressione (che la religiosità, non bigotta ma forte, dei Warren sottolinea), le storie sono adrenaliniche – e ben interpretate – ma più shoccanti che sanguinolente e si vede che vengono, titolo dopo titolo, aggiornate alle reazioni del pubblico. In Annabelle 3 le emozioni arrivano, così come gli strilli e le risate per farsi coraggio dei ragazzi in sala ma, alla fine, non si fa male nessuno (o quasi). E’ una nuova frontiera del genere: il soft-horror (con un precedente illustre: Gli invasati di Robert Wise del ’63).




Sir – Cenerentola a Mumbai (Sir)

di Rohena Gera. Con Tillotama ShomeVivek GomberGeetanjali KulkarniRahul VohraDivya Seth Shah India, Francia 2018

Ratna (Shome) è una giovanissima vedova e, nel piccolo villaggio in cui vive, le si prospetta un’esistenza di stenti e isolamento. Decide di andare in città a fare la cameriera e va così a vivere dal giovane costruttore Ashwin (Gomber), che, a un passo dal matrimonio, ha appena lasciato la fidanzata che lo aveva tradito; la madre (Seth Shah) cerca invano di convincerlo a ripensarci mentre la altezzose sorella Nandita (Dilnaz Irani), convinta che con la servitù ci vogliano modi spicci, dà secche disposizioni a Ratna. Ashwin è stato in America (voleva diventare uno scrittore) e ha assunto molte caratteristiche occidentali: nel lavoro si impone al padre (Vohra), adottando criteri di costruzione più moderni ed ecologici e con Ratna e l’autista Raju (Akash Shina) è gentile ed educato. Ratna lavora sodo e riesce a mandare ogni mese dei soldi al paese perché la sorella Choti (Bhagyashree Pandit) possa studiare e fare una vita diversa dalla sua e ha un sogno: diventare stilista; con il permesso di Ashwin frequenta un corso di cucito e, quando lui le regala una macchina da cucire, per riconoscenza gli confezione una camicia come dono di compleanno. Ratna ha un’amica, Laxmi (Kulkami) anche lei cameriera, che l’accompagna nelle compere e, talora, le confida l’amarezza per come viene trattata dalla famiglia presso cui lavora. Una mattina Ratna, rientrando in casa, vede uscire dalla camera da letto di Ashwin una ragazza (Ahmareen Anjum) in un succinto abito da sera e ci rimane un po’ male. Con il suo Sir il rapporto è rispettoso ma cordiale: talora si confidano i rispettivi sogni e, una volta che lei era andata ad aiutare la sorella di Ashwin che dava un party, lui l’aveva difesa dagli insulti di quest’ultima perché, senza colpa, le aveva versato del vino sul vestito. Choti, a pochi mesi dal diploma, le comunica che lascia gli studi e che sta per sposarsi; lei cerca di dissuaderla ma invano: appena sposati si trasferiranno anche loro a Mumbai e la ragazza non vede l’ora di lasciare il paese. Ratna si impegna a confezionarle l’abito per le nozze ed entra, per prendere ispirazione, nell’elegante boutique della creatrice Sabina (Rashi Mal) che, vedendola povera, la fa scacciare. Ha avuto tempo, comunque, di guardare un abito e di copiarlo per la sorella. Durante la cerimonia lei, come vedova, si deve tenere in disparte e dopo pochissimi giorni torna al lavoro. Un giorno Ashwin che – ricambiato – si è innamorato, la bacia; lei risponde al bacio ma, riavutasi, gli spiega (mentre lui le chiede di non chiamarlo più “Sir” ma con il suo nome) che il loro amore, se dichiarato, li esporrebbe al ludibrio generale e che, per la famiglia di lui, lei sarebbe rimasta la serva da disprezzare Lascia il lavoro e va a viver nella modestissima casa di Choti. Dopo poco le arriva una telefonata di Sabina che, sollecitata da Ashwin, le chiede di vedere l’abito che ha confezionato per le nozze e, apprezzatane la fattura, la assume. Di lì a poco un’altra telefonata…

E’ naturale (e forse un po’ provinciale) di fronte al primo lungometraggio di un’autrice indiana pensare alla prima regista star di quel paese: Mira Nair. Certamente la Nair ha aperto la strada ma i loro percorsi sono diversi: entrambe (inevitabilmente) provenienti da famiglie benestanti, hanno in comune una attenzione all’occidentalizzazione dell’India progredita e uno sguardo attento sugli usi  sugli usi del proprio Paese ma, mentre la prima (che ora vive a New York) li racconta con una sorta di ironico distacco, la Gera – che viene da un lavoro di sceneggiatrice di film “bollywoodiani” (Un pizzico d’amore e di magia, Un padre per mio figlio) –   nelle sue prime due regie si pone in modo più critico: satireggia i tic delle donne indiane della classe media nel documentario What love got to do with it? e in Sir, sia pur in una cornice di storia d’amore, sottolinea la permanente divisone in caste di un Paese che, sulla carta, la avrebbe abbandonata da decenni. Lei, nelle interviste (in particolare a Cannes dove il film è stato ben accolto nella Semaine de la Critique) dichiara di essersi ispirata in parte al riflessivo Wong Kar Wai (e, in particolare, a In the mood for love) più che alla Nair; aggiunge di aver fortemente contrastato l’ipotesi della produzione di usare un’attrice bollywoodiana nota e ha avuto ragione: la espressiva Tillotama Shome rende tutte le sfaccettature di un personaggio complesso e ce ne fa emotivamente partecipi. Di lei e della regista sentiremo ancora parlare.

(Antonio Ferraro)




La bambola assassina (Child’s Play)

di Lars Klevberg. Con Aubrey PlazaBrian Tyree HenryGabriel Bateman  USA 2019

L’industria elettronica Kaslan, ha delocalizzato in Vietnam la costruzione del richiestissimo bambolotto tecnologico Buddy e qui un operaio, licenziato dal supervisore (Johnson Phan), prima di suicidarsi disabilita per vendetta tutte le funzioni di sicurezza del pupazzo sul quale stava lavorando. A Chicago, Karen Barclay (Plaza), commessa del reparto giocattoli in un grande magazzino della catena Zed-Mart, si è appena trasferita con il figlio Andy (Bateman) in un nuovo quartiere e lui soffre per l’assenza di amici e per la relazione della madre con il mellifluo Shane (David Lewis). Lei ha il suo daffare nel lavoro per contenere le richieste dei clienti che aspettano con ansia l’arrivo del nuovo modello di Buddy e, quando una signora ne restituisce uno, che ha strani difetti di fabbrica, lei – ricattando un sorvegliante (Amro Majzoub) – lo porta al figlio. Andy, lì per lì, è un po’ freddo ma quando il bambolotto comincia a parlare, dicendo di chiamarsi Cucky, gli promette eterna amicizia e, soprattutto, pronuncia vietatissime (nel modello corrente) parolacce, lui ne è conquistato. Chucky è molto protettivo con il suo nuovo amico: sentendolo ostile, spaventa Shane sbucando all’improvviso, lo aiuta a fare amicizia con due ragazzini del palazzo, Falyn (Beatrice Kitsos) e Pugg (Ty Consiglio) ma, quando il gatto di casa graffia Andy, lui gli stringe il collo e starebbe per finirlo se il ragazzo non glielo levasse di mano. Una sera, mentre Andy e i suoi nuovi amici guardano Non aprite quella porta, ridendo da perfetti adolescenti alle efferatezze, Chucky immagazzina informazioni e, armatosi di un coltellaccio da cucina, ammazza lo scontroso micio. Andy riesce a buttarne il corpo nello scarico del condominio, dopo di che chiude il bambolotto in un armadio. Lui riesce a uscire e continua a spaventare Shane, ripetendogli a cantilena le lagnanze di Andy. L’uomo affronta con rabbiosa aggressività nella sua stanza il ragazzo e lui, quando questi esce, sbotta che vorrebbe che scomparisse. Chucky segue Shane, scopre che vive con un’altra famiglia e, dopo averlo fatto cascare da una scala, lo fa a fette, comandando a distanza un tagliaerba.  Del caso è incaricato, insieme all’agente Willis (Nicole Anthony), il detective Mike Norris (Tyree Henry) – figlio di Doreen (Carlease Brurke), una simpatica vicina di Karen e Andy – che nota come dal cadavere sconciato sia stata asportata la faccia. E’ stato Chucky che la ha messa su di un cocomero e portata nella stanza del suo amico, per dimostrargli il suo affetto. Ora il ragazzo è terrorizzato e, insieme a Falyn e Pugg, lo disattiva e lo getta nello scarico; vorrebbe gettare anche il macabro cocomero ma, per l’arrivo della madre e del detective è costretto a coprirlo con carta regalo e a darlo a Doreen, con preghiera di aprirlo solo dopo due settimane (giorno del suo compleanno). L’indomani, con la scusa di voler gustare i suoi pranzetti, si fa invitare dalla donna e trova modo di gettare l’involto tra la spazzatura. Il laido custode del palazzo Gabe (Trent Redekop) trova il bambolotto e lo aggiusta con il risultato di essere maciullato da una sega elettrica guidata da Chucky. Ora Chucky – che è stato preso dal ragazzino Omar (Marlon Kazadi), è pazzo di gelosia e – manovrando un taxi senza pilota brevettato dalla Kaslan – uccide Doreen, rea di essere amica di Andy. Andy capisce tutto ma quando cerca di riprendersi Chucky per distruggerlo, Omar, Pugg e Falyn lo scacciano, credendolo un esaltato. Né gli va meglio a casa: la madre, che ha trovato il collare del gatto, lo accusa di avergli fatto del male e lo porta con se allo Zed-Mart, per tenerlo d’occhio mentre impazza la frenesia per l’arrivo di Buddy/2, che il signor Kaplan (Tim Matheson) in persona sta pubblicizzando da settimane. Qui arriva Mike che – sospettandolo autore degli omicidi – ammanetta Andy. Il finale vedrà Chucky – attraverso i suoi poteri di controllo – manovrare droni e bambole contro la polizia e i clienti, contrastato da Andy e i suoi amici che hanno capito la verità.

Nel 1988 lo sceneggiatore Don Martini aveva inventato il bambolotto Chucky, innocuo giocattolo elettronico nei cui meccanismi era entrato lo spirito di un serial killer. Il film che ne era stato tratto, La bambola assassina, diretto da Tom Holland (reduce del successo de L’ammazzavampiri) aveva registrato in tutto il mondo incassi record, tanto da generare 6 sequel – gli ultimi tre diretti da Don Martini – con alterne fortune (il più avvincente era stato La sposa di Chucky che immaginava l’anima della compagna del serial killer – a sua volta assassina seriale – trasferirsi in una bambola vestita da sposa e farne di tutti i colori insieme al fidanzato). Dopo essersi accoppiato, sdoppiato e clonato il bambolotto assassino aveva bisogno di una nuova vita ed ecco pronto il reboot (più o meno letteralmente: riavvio). Ora Chucky non è più posseduto da un anima dannata ma è – sulla falsariga di Io robot – un colposo difetto di fabbrica, in linea, in fondo, con lo spirito della serie che ha sempre avuto un sguardo (vedi La sposa di Chucky che rimandava a La moglie di Frankenstein) al mito di Frankenstein, al quale certamente pensava anche Asimov. Dirige il giovane norvegese Lars Klevberg, che si è fatto notare nel recentissimo horror Polaroid (versione lunga di un suo corto). Lui non ha le astuzie di genere di Tom Holland e la sua compassata anima nordica si fa talora intravvedere ma il risultato è gradevole: non si salta sulla sedia, né si prova colpevole empatia per il sanguinario Chucky ma si segue il buon ritmo del racconto.

 




I morti non muoiono (The Dead Don’t Die)

di Jim Jarmusch. Con Bill MurrayAdam DriverTilda SwintonChloë SevignySteve Buscemi USA 2019

Nel minuscolo paese Centreville, il Capo della Polizia Cliff Robertson (Murray) e il suo vice Ronnie Peterson (Driver) sono nel bosco per diffidare l’Eremita Bob (Tom Waits), che il possidente Frank Miller (Buscemi) ha accusato del furto di un suo pollo. Il vagabondo li accoglie con un rozzo e quasi innocuo fucile e, dopo una breve ramanzina, i due se ne tornano in ufficio. Lì c’è l’agente Mindy Morrison (Sevigny), che è un bel po’spaventata perché in una cella c’è il cadavere dell’ubriacona Mallory O’Brien (Carol Kane), che la stravagante impresaria delle pompe funebri Zelda Winston (Swinton) non ha ancora ritirato. I due agenti escono e il Capo va a dormire nella cella rimasta libera. L’indomani al bar del paese la barista Fern (Rosal Colon) sta servendo la colazione allo scorbutico Frank che non risparmia sarcasmo razzista al proprietario dell’emporio Hank Thompson (Danny Glover). Poco dopo nel negozietto di dvd e gadget vintage del nerd Bobby “Frodo” Wiggins (Caleb Landry Jones) arrivano, a bordo di una rombante Pontiac Le Mans del ’68, tre hipster, Jack (Austin Butler), Zack (Luka Sabbat) e Zoe (Selena Gomez), e lui – che si è subito innamorato della ragazza- li indirizza al motel di Danny Perkins (Larry Fessenden). Intanto, nel locale riformatorio, il recluso Geronimo (Jahi Winston) se la deve vedere con il duro custode (Kevin McCormck) perché sgattaiola nella sezione femminile a trovare le sue amiche Stella (Maya Delmont) e Olivia (Taliyah Whitaker). Ronnie e L’Eremita – Bob perché coglie i segni della natura e l’agente perché ha letto il copione (sic) – percepiscono un pericolo imminente e infatti dalle tombe vengono fuori due zombie (Iggy Pop e Sara Driver)  assetati di caffè che vanno al bar e – dopo aver sbranato Fern e la sua aiutante Posie (Rosie Perez) – ne portano via vari bricchi. L’indomani i tre poliziotti accorrono sulla scena del crimine e lanciano l’allarme: una o più bestie selvagge si aggira nei paraggi e si attivano per convincere tutti (o quasi: Cliff non avverte l’odioso Miller) a barricarsi in casa. La notte – sotto lo sguardo divertito dell’Eremita – dalle tombe escono zombie a frotte; uccidono Danny, Frank, i tre hipster e i custodi del riformatorio, consentendo ai tre ragazzi di fuggire. Ronnie e Bobby sanno cosa fare (“bisogna ammazzargli la testa”) e quest’ultimo si barrica con Hank nel suo negozio con fucili a pompa, asce e cesoie da giardino. Zelda, dopo essersi allenata nelle arti marziali, trucca di colori vivaci due cadaveri ma, quando questi cercano di alzarsi, tronca loro di netto la testa con la katana e, facendosi largo in quel modo tra i morti viventi, raggiunge l’Ufficio di Polizia, dove Murray ha decapitato Mallory che si era destata chiedendo dello chardonnay; qui convince i tre agenti a recarsi in pattuglia mentre lei si tiene in contatto radio con il comando centrale. Appreso che – probabilmente a causa dello spostamento dell’asse terrestre, dovuto all’inquinamento atmosferico – tutto il Paese (e forse il mondo) è assediato dai non-morti, prende la due posti di Ronnie e, tagliando la testa a vari zombie, va incontro ad una sorprendente salvezza. Ronnie, intanto, continua a ripetere che la faccenda si metterà male e i fatti gli daranno ragione.

Jarmush, dopo il delicato e poetico vampyr movie Solo gli amanti sopravvivono, ci riprova con gli zombie ma non gli va altrettanto bene: il film è stato accolto malissimo a Cannes e, oggettivamente, è poco più di un gioco cinefilo. Però va detto che l’audience della Croisette (probabilmente delusa nelle alte aspettative sulla ritrovata vena del regista che Solo gli amanti e, soprattutto, l’inteso Paterson avevano creato) è stata un po’ ingiusta: anche se è un divertissement lo è ad un piacevolissimo livello: le prodigiose inquadrature tipiche del genere negli anni ’50 e ’60 sono riprodotte miracolosamente bene e senza la pesantezza splatter del Rodriguez di Dal tramonto all’alba o di Grindhouse–Panet Terror, le musiche del gruppo del regista (che nasce musicista), gli SQURL, e la coinvolgente Dead men don’t die scritta e cantata da Sturgill Simpson danno un bel ritmo al racconto e infine non si può non amare il cast che vede volti storici (Tom Waits, Steve Buscemi, Sara Driver, Eszter Balint, Iggy Pop, Bill Murray, Chloe Sevigny, Rosie Perez) e nuovi (Adam Driver, Tilda Swinton)  dei film di Jarmush, insieme a vecchie glorie (Danny Glover, Carol Kane), ad attori emergenti (Caleb Landry Jones) e musicisti prestati al cinema (RZA, Selena Gomez), oltre a top model, tenniste  e lo stesso Sturgill Simpson nei ruoli di se stessi in versione zombie. E’ vero: è un’operazione di pura cinefilia (anche se alla fine la tirata anticapitalista dell’Eremita Bob cerca di dare un tono di serietà distopica al racconto) ma il livello è altissimo: la zampata del raffinato Jarmush si sente eccome! Basti pensare al nome del regista Samuel Fuller messo su di una tomba; pochi hanno colto l’allusione: lui non ha mai diretto horror ma ne ha interpretato nel 1987 uno, il dimenticatissimo (ma non da Jarmush) I vampiri di Salem’s Lot. Forse, invece, il gioco di uscire dalla finzione scenica per raccontare il dietro le quinte (i commenti di Driver che ha letto l’intero copione e la stizza di Murray che ha avuto solo le sue scene) come in Helzapoppin’ e nei vecchi Road to.. con Bob Hope e Bing Crosby è un poco disturbante ma non fino a guastare il divertimento.

 




American Animals

di Bart Layton. Con Evan PetersBarry KeoghanJared AbrahamsonBlake JennerAnn Dowd  USA 2018

2014, Lexington, Kentucky. Spencer Reinhard (Keoghan) è un brillante studente d’arte, lavora in un supermarket per pagarsi gli studi e ha un ottimo rapporto con il padre (Robert C. Treveiler), la madre (Jane McNeill) e la sorella (Dorothy Reynolds), suo unico, perdonabile, neo è l’amicizia con lo scapestrato Warren Lipka (Peters). Un giorno, con alcuni compagni di università, partecipa alla visita alla biblioteca della Transylvania University e la bibliotecaria Betty Jean Gooch (Dowd) mostra loro, tra gli altri, lo splendido Birds of America di John James Audubon e un’edizione rarissima dell’Origine della specie di Darwin. Nell’apprendere che valore del solo libro di Audubon si aggirava sui dodici milioni di $, Spencer comincia a fantasticare e, per gioco, condivide con l’amico il sogno di compiere una rapina nella biblioteca. Warren – che ha una borsa di studio per meriti sportivi e vive una situazione di disagio, a causa della recente separazione dei suoi (Gary Basaraba e Lara Grice) – comincia a prendere sul serio il progetto e, via via, coinvolge anche Spencer ad elaborare realmente il colpo. I due ragazzi studiano i vecchi film di gangster (Rapina a mano armata di Kubrik, Rififi di Dassin), Spencer disegna una pianta particolareggiata della Biblioteca e Warren si fa dare da un amico malavitoso (Anthony J. Police) il contatto per vendere i libri; vanno prima a New York e lì ottengono avventurosamente un indirizzo di Amsterdam. Spencer, a questo punto, starebbe per lasciare il progetto – deve studiare e non avrebbe modo di andare in Europa – ma Warren – che si è volutamente fatto espellere dal suo tutor (Bill Welton) – lo convince e parte per l’Olanda. Qui incontra il ricettatore Van Der Hoek (Udo Kier) che, con il suo braccio destro (Fedor Steer), non sembra prenderlo troppo sul serio ma, comunque, gli garantisce che pagherà il 20/30% del valore dei volumi se provvisti del certificato di autenticazione. Il piano si sta perfezionando ma sono necessari altri complici, Warren contatta Eric Borsuk (Abarhamson), uno studente di economia che vuole diventare un agente FBI specializzato in truffe finanziarie, e Chas Allen (Jenner), giovanissimo e ambizioso imprenditore, abilissimo nella guida veloce. Ora sono pronti e, dopo aver preso un appuntamento con la bibliotecaria, truccati da anziani vanno alla Transylvania ma mrs. Gooch è in riunione e con tutte le impiegate e loro debbono rinunciare. Warren propone di posticipare il colpo ma gli altri tre, spaventati dal pericolo di altri imprevisti, vorrebbero lasciar perdere; Spencer ed Eric, oltretutto, hanno per il giorno in cui si potrebbe fare il colpo importanti prove d’esame ma alla fine Warren convince loro e Chas ad andare avanti, accettando di essere lui quello che immobilizzerà la bibliotecaria. Così con Chas in auto, Spencer di vedetta e Eric fuori dalla porta della sala riservata, Warren entra e con un defribillatore cerca di far perdere i sensi alla Gooch; lei reagisce e ci vuole l’aiuto del recalcitrante Eric per bloccarla (lei per l’emozione si fa la pipì addosso); anche prendere i due enormi tomi è più complicato di quanto sembrasse e, nella fuga, sono costretti a lasciarli, tenendo solo altri volumi più piccoli comunque di un qualche valore Le loro ingenuità – Spencer ha, per esempio, lasciato i libri rubati e il suo vero numero di cellulare – li fanno agevolmente identificare ed arrestare, con una condanna a 7 anni di carcere.

Bart Layton è al suo secondo film e, di nuovo, racconta, in chiave semi-documentaristica le gesta di giovani criminali: il precedente, L’impostore, era incentrato sulla figura del camaleontico Frédéric Bourdin che, cambiando identità più di 500 volte, aveva raggirato servizi sociali e famiglie in tutto il mondo e, come questo, lui e gli altri protagonisti sono interpretati da attori ma compaiono anche di persona a raccontarsi. L’impostore – che aveva avuto vari riconoscimenti – era però una vera docu-fiction mentre American Animals ha la struttura di un film di finzione, con i veri quattro improvvisati rapinatori e la vera bibliotecaria, che intervallano con commenti la narrazione. Questa tecnica è, da qualche tempo, molto in uso ad Hollywood (basti pensare ai recenti Bling ring – con il quale American Animals ha qualche affinità – American Hustle o The wolf of Wall Street) e Layton la padroneggia bene, aggiungendovi di suo un vero coinvolgimento drammaturgico delle persone reali mentre negli altri casi citati ne vediamo, nei titolo di coda, il volto o poco più.   Del resto lui si rivela un ottimo regista di thriller che ha ben raccolto la lezione dei grandi autori del genere (oltre alla citazione dei classici su cui si preparano, i ragazzi per comunicare durante il colpo si danno nomi di colori come ne Il colpo della metropolitana del’74 di Joseph Sargent o ne Le iene del ’92 di Quentin Tarantino): il racconto dei due tentavi di rapina è molto serrato e ci fa palpitare per la sorte dei pavidi ed insicuri criminali dilettanti. Alla fine, come in una sorta di autocensura, qualche pentimento moralistico dei veri protagonisti appesantisce un po’ ma, probabilmente, è il risultato di un inevitabile accordo, con cui loro hanno concesso il diritto di raccontare la loro storia purché risultassero redenti. E’ giusto menzionare il merito della distribuzione Teodora del dotto cinefilo Vieri Razzini che aggiunge un piccolo gioiello alla sua library (dopo, tra molti altri, Irina Palm, Amour, Roma, La favorita e Green book). Quello di distributore non è un lavoro facile e comodo e farlo con questa competenza è indubbiamente lodevole.