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Assassinio sull’Orient Express (Murder On the Orient Express)

di Kenneth Branagh. Con Kenneth BranaghPenélope CruzWillem DafoeJudi DenchJohnny Depp USA 2017

Nel 1974 Sidney Lumet aveva diretto la prima, fortunatissima, trascrizione del romanzo di Agatha Christie, con un cast spettacolare – Albert Finney, Ingrid Bergman (che per il ruolo vinse l’Oscar), Anthony Perkins, Richard Widmark, Vanessa Readgrave,Lauren Bacall, Sean Connery, per citare i più noti – ottenendo la piena approvazione della scrittrice presente alla premiere (lei aveva sempre detestato le riduzioni cinematografiche dei suoi libri). Nel 2001 e nel 2010 seguirono due TV Movies ed ora Branagh si cimenta in quello che possiamo considerare un sostanziale remake del primo film, con pochi, non strutturali cambiamenti (ad esempio Aburthnot è un medico di colore mentre nel film di Lumet – come nel romanzo – è un ufficiale bianco e la missionaria svedese della Bergman diventa, per aderire alla Cruz, spagnola e poco altro). Vista la scelta registica non è scorretto riconoscere che il film di Lumet aveva una forza narrativa che all’odierno in parte manca. E’ anche chiaro il motivo: Lumet – insieme a Martin Ritt, Delbert Mann, Arthur Penn, Robert Mulligan – appartiene alla prima generazione di registi che si era fatta le ossa con la televisione, traendone una grande capacità di sintesi narrativa e di drammatizzazione e il suo Assassinio sull’Orient Express deve molto alla sua prima efficacissima opera cinematografica: La parola ai giurati, anche lì un ambiente chiuso e un gruppo di splendidi attori che, con la sola forza della loro recitazione, rende il pathos di un dramma. Branagh è, come è noto, grande attore e regista scespiriano che, mentre quando porta sullo schermo il bardo (Enrico V, Hamlet, Molto rumore per nulla) fa un’opera di, sia pur rispettosa, divulgazione, quando entra in contatto con testi meno accademici (Thor, Cenerentola – a mio avviso il suo capolavoro – e questo) dà loro una solida aura di classicità. Se si esce dal paragone, però, non si può non riconoscere che siamo di fronte ad un ottimo film con una cast degno (la Pfeiffer, in particolare, è in una delle sue performance migliori), una sceneggiatura – di Michael Green (autore degli ultimi Alien e Wolverine e Blad Runner) – di grande efficacia e la maestosa fotografia (con la complessa cinepresa a 65 mm. la stesa di Dunkirk) di Harris Zambarloukos. Certo, aiuta l’operazione, di (per così dire) scespirizzazione della Christie, il dramma di partenza, ispirato al recente caso Lindbergh, che ha i toni di una vera tragedia elisabettiana.

Il famoso investigatore belga Hercule Poirot (Branagh) è a Gerusalemme in vacanza ma si trova a dover individuare chi, tra il rabbino (Elliot Levey), il prete (David Anney) e l’imam (Joseph Long), ha compiuto un furto sacrilego; una piccola crepa sul muro lo porta alla soluzione: il colpevole è l’Ispettore Capo (Michael Rouse). Risolto il caso, decide di partire per Instanbul per riposarsi con un viaggio nel favoloso Orient Express. In battello incontra l’istitutrice Mary Debenham (Daisy Ridley) e il medico di colore Aburthnot (Leslie Odom jr.), anche loro in procinto di prendere l’Orient Express e nota che tra i due c’è del tenero (anche se loro cercano di nasconderlo). Arrivato in Turchia incontra il suo vecchio amico Bouc (Tom Bateman), che ora dirige la compagnia ferroviaria e che riesce, fortunosamente (la prima classe è insolitamente completa, nonostante sia un periodo di bassa stagione) a trovargli una cabina sul treno. Qui viene accolto dal capo-carrozza Jean Michael (Marwan Kenzari) e conosce gli altri compagni di viaggio: oltre a Bouc e alla coppia incontrata nel traghetto, ci sono la missionaria laica Pilar Estravados (Cruz), la dispotica principessa russa Dragomiroff (Dench) con la servizievole dama di compagnia Hildegrade Schmidt (Olivia Colman), il commerciante d’auto Biniamino Marquez (Manuel Garzia-Rulfo), lo sprezzante e razzista professore austriaco Gerhard Hartman (Dafoe), una coppia di nobili etoile ungheresi della danza, i conti Rudolph (Sergei Pulonin) e Helena (Lucy Boynton)  Andrenyi, la chiassosa vedova americana Carolyn Hubbard (Michelle Pfeiffer) e l’ambiguo e volgare antiquario  Edward Ratchett (Depp), con al seguito il segretario Hector McQueen (Josh Gad) e il maggiordomo Edward Henry Masterman (Derek Jacobi). Ratchett cerca più volte, invano, di parlare con Poirot e, quando ci riesce (complice un dolce al quale l’investigatore non sa resistere), gli dice di essere nel mirino di un boss della mafia per un quadro falso che gli aveva venduto e gli offre una grossa somma perché gli guardi le spalle; lui naturalmente rifiuta. Una notte, Poirot sente un gran trambusto e, affacciandosi dalla sua cabina, vede una dona in kimono rosso che si allontana dalla cabina di Ratchett. L’indomani mattina, notando l’assenza di questi a colazione, se ne fa aprire da Bouc la porta e ne scopre il cadavere, trafitto da tredici pugnalate; sparsi nella stanza vi sono alcuni indizi: un fazzoletto di lino con ricamata una H, un nettapipe, un bottone di una divisa da capotreno e l’orologio da taschino di Ratchett, fermo all’una e quarantacinque. Il treno è bloccato perché una tempesta di neve ne ha ostruito i binari e Bouc prega Poirot, per il buon nome della compagnia, di indagare sul delitto, cosicché, all’arrivo dei soccorsi, il colpevole sia assicurato rapidamente alla giustizia. Senza entusiasmo lui accetta e, ben presto, scopre che il morto in realtà era il gangster Cassetti, autore di un famoso kidnapping. La storia era stata a lungo al centro dell’attenzione della cronaca statunitense: Daisy, la figlia piccola del Colonnello John Armstrong (Phil Dunster) e di sua moglie Sonia (Miranda Raison) era stata rapita e, nonostante il pagamento del riscatto, uccisa; la madre, incinta, per lo shock aveva prima abortito e poi si era uccisa, imitata poco dopo dal marito, travolto dal dolore di quelle perdite; il giudice (Rami Nasr) incaricato del caso, pressato dai media aveva messo sotto processo la cameriera Susanne (Hayat Kamille), la quale, pur prosciolta, si era, a sua volta, suicidata per la vergogna e i sensi di colpa (al momento del rapimento non era al suo posto perché si era appartata con il fidanzato) e quando era arrivato a Cassetti e questi, ricco e potente, era riuscito ad eclissarsi la sua carriera e la sua onorabilità erano stati definitivamente compromessi. Mano a mano, il detective scopre che ciascuno dei passeggeri aveva un legame con quella vicenda: Mary era la nurse di Daisy al momento del rapimento, il dottore aveva potuto studiare grazie all’aiuto di Armstrong, suo comandante in guerra, Marquez era lo chauffer degli Armstrong, Masterman il maggiordomo e Hildegarde la cuoca, la principessa era amica ed ammiratrice della grande attrice Linda Arden madre di Sonia, della quale era madrina, la contessa era la sorella di Sonia – e il marito viveva con immenso dolore il decadimento psicologico e fisco che la tragedia le aveva procurato –  mentre McQueen è figlio del giudice rovinato dal caso, Jean Michael il padre di Susanne e il professore (in realtà un ex-poliziotto inglese) il fidanzato della ragazza e la Hubbard altri non è che Linda Arden. Ora Poirot ha due alternative: o chiudere le indagini indicando un fantomatico sicario della mafia, che si è allontanato nella notte oppure tirare le fila di un intricato complotto, nel quale sembra che nessuno possa essere innocente od estraneo.

 




Caccia al tesoro

di Carlo Vanzina. Con Vincenzo SalemmeCarlo BuccirossoChristiane FilangieriGennaro GuazzoFrancesco Di Leva  Italia 2017

Anni fa, intervistando per radio Castellano e Pipolo (allora autori di grandi campioni d’incasso, Mani di velluto, Il bisbetico domato, Innamorato pazzo, pieni di riferimenti a film e commedie famosi), Luigi Magni li rimproverava, scherzosamente, di copiare dai grandi successi altrui e loro, sempre scherzando, rispondevano: “Perciò, sta tranquillo, da te non copieremo mai!”. Anche i Vanzina nella loro lunga carriera (questo è – mi pare – il loro sessantesimo film) hanno preso in prestito situazioni e gag da altri; le loro serie televisive Anni ’50 e Anni ’60, ad esempio erano una miniera di citazioni, esplicite ed affettuose del cinema di quegli anni. In questo film il riferimento alla situazione di base di Operazione San Gennaro di Dino Risi è così voluto che alla domanda di Ferdinando/Buccirosso, quando Domenico/Salemme gli illustra il piano: “Ma non è un plagio?”, quest’ultimo risponde: “No. E’ una citazione, un omaggio!”. Non è solo il film di Risi ad essere omaggiato, c’è, ad esempio, anche una gag (la truffa al negoziante) che è molto vicina ad un episodio di Totòtruffa ’62. D’altronde i Vanzina, sono cineasti di razza con una bella tradizione familiare e anche i loro riferimenti al cinema del passato sono anche prova di una solida cultura e sensibilità cinefila. Loro – come abbiamo altre volte notato – passano da belle idee e buoni esiti di botteghino a film meno riusciti ma, alla fine, continuano a mantenere un buon livello qualitativo, rispetto ad altri “forzati della commedia” – registi costretti da una fraintesa astuzia commerciale a cimentarsi in un genere che non governano – o a autori più affini ma globalmente meno dotati di loro. Insomma, rielaborando la geniale definizione del regime data allora dal fascista ma sui generis e liberissimo Longanesi: “Sbagliando s’impera”, i Vanzina, talora, citando mantengono la loro autorevolezza.

Domenico Greco (Salemme), sfortunato attore di teatro, vive in casa della vedova di suo fratello Rosetta (Serena Rossi) il cui figlio decenne soffre di una grave disfunzione cardiaca; una lettera dagli Stati Uniti li informa che un famoso chirurgo si è dichiarato disponibile a operare il bambino ma che, tra trasferta, spese cliniche e parcella, bisognerà spendere 180.000 dollari. Disperati i due vanno a chiedere un miracolo e mentre pregano almanaccano sulla possibilità di rubare un singolo gioiello della tiara conservata con il resto del tesoro del santo; la voce di un parcheggiatore, proveniente dall’esterno, li illude dell’assenso del santo e decidono di fare il colpo. A fianco a loro però Ferdinando (Buccirosso), un separato che ha perso il lavoro e la casa e non sa come pagare gli alimenti alla moglie e al figlio Gennarino (Guazzo), ha sentito e li ricatta: se non lo ospitano e non lo fanno partecipare al colpo, lui li denuncia. Racimolati con una piccola truffa i soldi per le prime spese, Domenico si fa dare da un costumista (Enzo Casertano) una statua cava, raffigurante un santo e un costume da pope, con questo travestimento consegna la statua (con dentro Ferdinando) a don Luigi (Benedetto Casilio), il parroco della Chiesa di San Gennaro. I due, quella notte, riescono a scendere nella cripta ma hanno due sorprese: il tesoro non c’è più e da un buco del muro arrivano altri due ladri: Cesare (Max Tortora) – un piccolo professionista romano del furto – e Claudia (Filiangieri) – ex spogliarellista ed escort in cerca di una vita più “onesta”. Da un cartello fuori dalla chiesa scoprono che il tesoro è esposto a Torino. Domenico e Ferdinando (con figlio annesso: è il suo turno di affidamento) partono per Torino e, ovviamente, di lì a poco arrivano anche i due romani e, dopo qualche schermaglia, decidono di fare il colpo insieme. Scoperto che il museo, dove il tesoro è custodito è confinante con lo studio di un avvocato (Mario Zucca) della Juventus, i tre lo vanno a incontrare, fingendosi avvocati del Napoli che vogliono trattare il riacquisto di Hinguaìn e riescono ad individuare il muro dal quale si può accedere alla mostra. La notte mettono in azione il piano ma una banda più organizzata – mentre loro con un drone (rubato da Gennarino a un bambino) spiano la sala – porta via la tiara. Claudia che era di vedetta ha però riconosciuto in uno dei rapinatori un suo vecchio cliente (Pippo Lorusso) e li porta all’hotel dove alloggia; lui, messo alle stette da Domenico che si finge commissario, rivela che il suo capo ha portato il prezioso oggetto a Cannes per venderlo ad un collezionista. Il povero Cesare, colpito da un violento colpo della strega è ricoverato ma nella sua corsia arriva, per un infortunio, l’avvocato della Juve che, riconosciutolo, lo fa arrestare ma la polizia continua a brancolare nel buio e fa un accordo con il boss camorrista Mastino (Di Leva): se lui ritroverà il maltolto, suo fratello (Antonio Fiorillo), attualmente detenuto al nord, sarà trasferito a Poggioreale, dove la mamma potrà portargli gli ziti e la mozzarella che tanto ama. I nostri eroi arrivano a Cannes dove, con molta più fortuna che abilità, riescono a impadronirsi della tiara ma, mentre si godono il trionfo sulla spiaggia, arriva O’ Mastino. Tutto sembra perduto ma il cuore del camorrista farà il miracolo.




The Big Sick

di Michael Showalter. Con Kumail NanjianiZoe KazanHolly HunterRay RomanoAnupam Kher  USA 2017

Kumail Nanjiani ha scritto con la moglie, la scrittrice Emily V. Gordon, questa storia completamente autobiografica, basata sul loro amore e sulle difficoltà che hanno dovuto superare; la regia è andata, saggiamente, a Showalter alla sua terza prova come autore di commedie sentimentali con un retrogusto amaro-intellettuale. Il risultato è un Romeo e Giulietta wasp o, se volete, un Indovina chi viene a cena? multietnico, comunque gradevole, arricchito da un cast azzeccatissimo, a partire dalla nipote di Elia Kazan, Zoe, credibilissima nel personaggio e dai grandi Holly Hunter e Ray Romano. The big sick è stato presentato al Sundance Festival ed ha vinto il Premio del Pubblico nel recente Locarno e, con un budget di partenza bassissimo (5 milioni – quasi niente negli USA), ha superato i 40 milioni di incasso negli States ed è stato venduto in decine di Paesi. Ecco come un racconto di integrazione e di superamento delle barriere culturali può essere affrontato con toni lievi o – talora – drammatici ma mai predicatori e saccenti ed arrivare al pubblico ovunque nel mondo.

Chicago, Kumail (Nanjiani), un giovane comico, mentre sta eseguendo il suo numero incentrato sulle proprie origini pakistane, viene interrotto da un grido di incoraggiamento dalla studentessa Emily (Kazan); la avvicina dopo lo spettacolo, la porta nella casa che divide con un altro comedian, Chris (Kurt Braunohler), ci fa l’amore e, quando lei chiama Uber per tornare a casa è il suo telefono a rispondere (il suo lavoro per vivere è quello). Nel ritorno a casa si scambiano promesse di non vedersi più per evitare complicazioni sentimentali ma, naturalmente, di lì a poco, hanno una relazione. Kumail, va regolarmente a pranzo dalla propria famiglia – la madre Sharmeen (Zenobia Shroff), il padre Azmat (Kher), il fratello Naveed (Adeel Akhtar) e la cognata Fatima (Shenaz Tresury) – ed ogni volta (per caso!) arriva in visita una ragazza pakistana: i suoi lo vorrebbero sistemato secondo l’abitudine dei matrimoni combinati della loro terra d’origine e – già provati dalla sua vocazione (insistono perché studi legge e divenga un avvocato) – non accetterebbero mai una relazione con una occidentale; lui, per non essere  espulso dalla famiglia, finge cordialità e poi ripone le foto delle pretendenti in una scatola. Quando i genitori di Emily – Beth (Hunter) e Terry (Romano) – vengono a trovarla, lui trova modo di evitarli ma, poco dopo, lei trova la scatola delle foto e nella discussione che segue, Kumail ammette di non avere il coraggio di mettersi definitivamente con lei per non causare un dolore alla propria famiglia. Emily allora tronca la relazione e lui si butta sul lavoro, ottenendo dal talent-scout Bob Dalavan (Jeremy Shavos) un’audizione per il Festival della Comicità di Montreal. Una sera una telefonata lo informa che Emily è stata portata in ospedale dopo essere svenuta. Si precipita da lei e un dottore (Jeff Blumenkrantz) gli comunica che lei ha una grave infezione ai polmoni e dev’essere immediatamente posta in coma farmacologico; lui firma il modulo di consenso fingendosi suo marito e chiama i genitori della ragazza. All’inizio Beth e Terry lo trattano freddamente e gli chiedono di andarsene ma lui resta e, mentre la malattia di Emily non sembra regredire, imparano a conoscerlo ed a capire quanto ami la loro figlia, tanto che, assistendo ad un suo show, Beth viene quasi alle mani con un bulletto (Spencer House) che gli aveva rivolto epiteti razzisti. I medici intervengono chirurgicamente ma l’infezione, che era inizialmente regredita, si allarga. Beth vuole trasferire Emily a un altro ospedale ma Kumail ha saputo dall’infermiera (Myra Lucretia Taylor) che accudisce Emily che sarebbe assai rischioso spostarla e convince Terry; i due coniugi litigano e lei gli rinfaccia qualche grave colpa. La notte Terry va a dormire da Kumail e gli confessa di aver tradito Beth, di averglielo confessato e che per questo il loro matrimonio è in crisi. Quando arriva il giorno dell’audizione per il Festival, Kumail, anziché recitare il pezzo che aveva preparato, racconta la sua disperazione e le sue paure per la sorte della ragazza e viene scartato. Si precipita in ospedale e trova che Beth ha convinto Terry a firmare per il trasferimento; tenta invano di fermarli ma è la direttrice sanitaria (Linda Edmond) ad opporsi e a convincerli ad avere fiducia nel suo staff. Infatti, di lì a poco, Emily si risveglia dal coma. A Kumail la bella notizia arriva mentre è a casa; quando sta uscendo arrivano i suoi genitori indignati perché lui ha scaricato la ragazza (Vella Lovell) che loro avevano scelto come nuora; lui confessa la verità e loro lo disconoscono. Arrivato all’ospedale, però, Emily, che non sa nulla della sua dedizione e che è ancora amareggiata con lui, gli chiede di andarsene. Quando lei esce dall’ospedale, Beth le organizza una festa di bentornato e lo invita; Kumail le chiede ad Emily di rimettersi insieme, ma lei non se la sente.  Allora lui – dopo essere andato a pranzo dai suoi e aver loro comunicato che non accetta il loro disconoscimento – decide di trasferirsi a New York con due amici comici, C.J. (Bo Burnham) e Mary (Aidy Bryant). Dopodiché si presenta a cena dai suoi, parla loro dei suoi piani e comunica che si rifiuta di permettere loro di disconoscerlo. Ad Emily capita di vedere su you-tube la registrazione della sua performance alle audizioni e va a trovarlo per dirgli quanto apprezzi quello che ha fatto per lei e lui le comunica che sta per partire. Durante un numero a New York, Kumail viene disturbato da qualcuno del pubblico…




The Place

di Paolo Genovese. Con Valerio MastandreaMarco GialliniAlessandro BorghiSilvio MuccinoAlba Rohrwacher Italia 2017

Dopo il successo di Perfetti sconosciuti Genovese (che pure veniva dagli ottimi incassi dei due Immaturi  e de La banda dei Babbi Natale) ha scelto di percorrere di nuovo la strada del racconto drammatico, corale ed emblematico. Per farlo ha preso le mosse dalla serie americana The booth at the end, riproponendone il format – l’uomo con l’agenda (nella serie è Xander Berkeley) seduto in fondo al caffè che propone scambi, spesso inumani, par realizzare i desideri – ma anche molte delle storie. Il tema, dal Faust in poi, non è nuovissimo: al cinema da Il milione di Renè Clair, a Se avessi un milione (film ad episodi, diretto da Ernst Lubitsch ed altri 7 registi), a Il carnevale della vita di Julien Duvivier più volte sono state sviluppate storie che scaturivano dalla possibilità magica di esaudire i propri desideri. Anche la commedia musicale, con il delizioso Un Mandarino per Teo (Soldi, soldi, soldi: ricordate la canzone?) aveva immaginato un tentatore che promette la felicità in cambio, in quel caso, della morte di uno sconosciuto (nel 2009 Richard Kelly aveva proposto un tema molto simile, traendo il suo The box da un racconto di Richard Matheson). Nella serie e nel film l’Uomo non è chiaramente (come nei titoli che abbiamo citato) un angelo o un demone ma piuttosto la rappresentazione dell’es (il termine psicanalistico dell’istintualità contrapposta all’Io) dei personaggi. Il cast è uno dei pregi ma anche uno dei difetti del film: sono tutti buoni attori ma si portano appresso un inevitabile alone di già visto e l’eccessiva teatralità del congegno narrativo (che era già nella serie televisiva ma i 23 minuti di durata di ogni episodio aiutavano ad asciugare il racconto) li porta ad una recitazione un po’ troppo d’accademia (la Lazzarini ce l’ha di suo e già in Mia madre di Moretti appariva in parte fuori contesto). Non a caso sono più credibili Mastandrea e la Ferilli che al teatro sono arrivati dopo il cinema, mentre la migliore, la meno scontata appare Silvia D’Amico. E’ comunque una buona prova, della quale la regia, le musiche di Maurizio Filardo – con l’irrompere di A chi di Fausto Leali e di Sunny di Bobby Hebb – e la fotografia di Fabrizio Lucci sono di veri punti di forza; disturba (ma forse solo me) il depistante moralismo delle varie conclusioni e qualche concessione al conformismo impegnato (l’allusione a Cucchi, il femminicidio). Rimane la voglia di una qualche ribalda libertà di ispirazione ma The place ha un suo coraggio e una lodevole voglia di novità.

Nel tavolino di un bar anonimo chiamato The Place un Uomo (Mastandrea) riceve persone che gli confidano i loro desideri; lui promette di realizzarli, in cambio di missioni – spesso ignobili – che affida loro, traendole da un’agenda piena di scritte. La signora Marcella (Giulia Lazzarini) –  -che vorrebbe far uscire dall’Alzheimer che lo affligge il marito – ha il compito di costruire una bomba per metterla in un luogo affollato; il professionista Gigi (Vinicio Marchioni), padre di un bambino leucemico, in cambio della sua guarigione deve uccidere una bambina; il poliziotto Ettore (Giallini) per ritrovare una refurtiva, che si è lasciato scappare, dovrà picchiare a sangue uno sconosciuto; ad Azzurra (Vittoria Puccini) per risvegliare l’antica passione nel marito l’Uomo chiede di mettere in crisi una coppia; il cieco Fulvio (Borghi) riavrà la vista se violenterà una donna; il garagista Odoacre (Rocco Papaleo) sogna una notte di sesso con la pin-up appesa nella sua officina: potrà averla se salverà una bambina in pericolo (quella del compito di Gigi); suor Chiara (Rohrwacher) ha perso Dio e per ritrovarlo dovrà rimanere incinta;  Martina (Silvia D’Amico), ragazzotta coatta, vuole diventare più bella e le viene chiesto di metter in atto una rapina che frutti 100.000 euro e spicci; di lì a poco lei porterà con se il teppistello Alex (Muccino), che l’aiuterà nella rapina se l’Uomo farà sparire dalla sua vita l’odiato padre.  L’Uomo è sempre schivo e stanchissimo ma la cameriera Angela, la sera quando sono soli, riesce a strappargli qualche rarefatta confidenza. Le storie dei personaggi si dipanano e spesso si intrecciano: Marcella, terminata la bomba, ha mille scrupoli; Gigi si accorge di Odoacre e, questi, dopo un maldestro tentativo dell’altro di travolgere la bimba con la macchina, decide di rapirla per tenerla al sicuro (intanto la modella della foto va nella sua officina e fa la carina con lui); Ettore ha picchiato brutalmente un fermato e trova la refurtiva ma il ladro – si tratta di Alex ed è suo figlio-  gli sfugge e lui cambia il desiderio: per rivederlo e cercare di recuperarlo (lui è stato un pessimo padre) accetta di nascondere una denuncia di stupro; Azzurra seduce un vicino di casa e fa in modo che la moglie lo sappia e, quando lui se ne va di casa e lei lo confessa al marito, questi ha una reazione, dapprima, solo passionale ma, via via, si fa sempre più violento e ossessivamente geloso; Fulvio incontra proprio suor Chiara e, dopo una serie di appuntamenti, arriva la sera in cui dovrebbe stuprarla.




La ragazza nella nebbia

di Donato Carrisi. Con Toni ServilloAlessio BoniLorenzo RichelmyGalatea RanziMichela Cescon  Italia, Francia, Germania 2017

Carrisi è uno dei nostri giallisti più tradotti in Europa, ha alle spalle un solido lavoro di sceneggiatore (Casa famiglia, Nassirya, Moana) ed è un accanato cinefilo come ben si vede in questa sua opera prima, nella quale abbondano le citazioni: da quelle dichiarate al Fincher diSeven e de L’amore bugiardo, a I soliti sospetti (la serie di finali a sorpresa) e a Fargo (la poliziotta con il colbacco, che nel romanzo era un uomo), alle atmosfere di The village di Shyamalan ma anche dei due Fiumi di porpora con Reno poliziotto scontroso, forse anche l’assai meno riuscito La ragazza del lago di Molaioli. Sicuramente meno voluti sono i riferimenti a Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda e al recentissimo L’uomo di neve, anche se l’allegra satira sui format televisivi sanguinolenti del primo, qui, prendendosi sul serio, rischia di sfociare nel moralismo conformista, mentre la solitudine delle valli innevate di Carrisi è più efficace della stucchevole neve norvegese di Alfredson. Quest’ultima notazione aiuta a capire che siamo davanti ad un buon film, con un cast europeo notevole (anche se Servillo, come talvolta gli capita, sembra compiacersi troppo della propria a scapito della credibilità del personaggio), una regia nient’affatto insicura e soprattutto la scommessa vinta di fare un’opera di genere di qualità (anche commerciale – vengono in mente gli ottimi esordi di Petri con L’assassino e di Damiani con Il rossetto) .La trama gialla è ben calibrata anche se, nelle ultime scene, appesantita da finali via via un po’ telefonati. Insomma, però, ben venga un “whodunit” (poliziesco con scoperta finale dell’assassino) italiano non televisivo e di buon impatto. Avercene.

Ad Avechot, piccolo paese di montagna, l’agente Mayer (Cescon) porta l’ispettore Vogel (Servillo) dallo psichiatra Flores (Reno) perché, a seguito di un incident, sembra aver perso la memoria. Già dalle prime battute del colloquio, al medico appare chiaro che l’uomo finge l’amnesia e lo fa parlare; lui è un poliziotto famoso per aver risolto casi importanti sempre con grande clamore giornalistico ma che è incappato in un guaio giudiziario: l’ultimo suo arrestato, sospettato di essere un serial killer, era stato assolto in appello e aveva ottenuto un risarcimento milionario. Chiamato, insieme al suo braccio destro Borghi (Richelmy) ad Avechot per indagare sulla scomparsa dell’adolescente Anna Lou (Ekaterina Buscemi), una ragazzina dai lunghi capelli rossi tutta casa e comunità religiosa, si era subito messo all’opera chiamando la sua amica/nemica Stella Honer (Renzi), star giornalistica televisiva specializzata in casi criminali. La presenza della televisione convince la Polizia a mandare uomini, apparecchiature ed elicotteri per aiutare l’ispettore. Viene fuori che un ragazzo nevrotico, Mattia (Jacopo Olmo Antinori), era solito riprendere di nascosto la ragazzina e che in un video da lui girato il giorno della scomparsa vicino alla casa di Anna Lou si veda aggirarsi la macchina di Loris Martini (Boni), professore di liceo trasferitosi da poco dalla città nel villaggio, decisione non indolore, nata dal tentativo di ricucire il rapporto con la moglie Clea (Lucrezia Guidone) reduce da una relazione adulterina. Ora loro e la loro figlia Monica (Marina Occhionero) – che è furiosa con il padre per aver dovuto lasciare la città ed i suoi amici – vivono alla meglio con il magro stipendio di insegnante di lui e sono pieni di debiti. Vogel, sollecitato dai media e dai disperati genitori (Daniela Piazza e Thierry Toscan) di Anna Lou, si convince che gli indizi che portano a Martini – il filmato di Mattia, la mancanza di un alibi per il giorno della scomparsa, una misteriosa ferita alla mano e un sms ambiguo ad una sua allieva (Sabrina Martina) – siano prove sufficienti e comincia a costruirgli intorno un muro di sospetti, lasciando parte del lavoro sporco alla Honer  In paese si appalesa il famoso avvocato Levi (Antonio Gerardi) che si offre di difendere Martini, mettendolo in guardia contro la pericolosità e il cinismo del poliziotto ma dopo un drammatico incontro a due con il suo persecutore, a seguito del ritrovamento dello zaino di Anna Lou con tracce del sangue del professore, questi viene arrestato. Vogel si gode la ritrovata fama mediatica ma la telefonata di una giornalista tedesca (Greta Scacchi), che si è rovinata la carriera per inseguire l’Ombra (un serial killer che trent’anni prima uccideva in tutta la valle adolescenti dai capelli rossi rimetterebbe tutto in discussione ma…




It

It è uno dei titoli di maggior successo di Stephen King, sia commerciale che di critica. Certamente è uno dei più personali tra i suoi successi, ambientato (come altri romanzi dell’autore), nella immaginaria cittadina di Derry, assai prossima a Portland, sua città natale, negli anni ’50 della sua adolescenza (il film sposta, però, gli avvenimenti negli ’80, più vicini all’immaginario del pubblico di oggi). La New Line -Warner, nel decidere di produrre un remake cinematografico della miniserie del 1990, ne aveva inizialmente offerto la regia a Cary Joji Fukunaga che aveva predisposto di accentuare gli elementi splatter della storia, in disaccordo con la produzione. Il progetto è cosi passato a Muschietti che già con l’ottimo La madre aveva dimostrato di saper raccontare una storia terrorizzante, senza ricorrere a sanguinolenti effettacci (anche l’iniziale morte di Georgie, molto più raccontata in dettaglio di quanto non facesse la miniserie, ha – come accadeva con l’uccisione della bambina all’inizio di Distretto 13 – Le brigate della morte di Carpenter – il compito di immetterci nell’incubo, non di colpirci allo stomaco). Il coté del film è, infatti, più quello di Stand by me, splendido, malinconico film che Rob Reiner aveva tratto dal racconto autobiografico di King Il corpo, che dei thriller più duri. La vera qualità narrativa di Muschietti è, infatti, quella di farci vedere tutto attraverso gli occhi di adolescenti, immersi nel mondo spaventoso e misterioso di adulti crudelmente incomprensivi e violenti (fisicamente o psicologicamente). Il film è il campione di incassi in USA nella storia dell’horror e, anche da noi, è partito con grandi numeri e forse la ragione è proprio nel fatto che sa raccontarci le nostre paure e ce le esorcizza, come per qualunque essere fragile, proponendoci il modello di un insieme di debolezze che forma una forza invincibile, cioè l’uscita dal sé per entrare nel mondo dei sentimenti e delle relazioni (che altro sono le favole se non questo?).

di Andy Muschietti. Con Bill SkarsgårdOwen TeagueJaeden LieberherFinn WolfhardWyatt Oleff   USA 2017

Nel 1988 a Derry, cittadina del Maine, il piccolo Georgie Denbrough (Jackson Robert Scott) esce sotto la pioggia e fa navigare lungo un rigagnolo la barchetta di carta, regalatagli dal fratello Bill (Lieberher); quando questa finisce in uno scarico fognario, dal quale appare un pagliaccio (Skarsgard) che si presenta come “Pennywise il clown ballerino” e gli offre un palloncino ma, quando Georgie cerca di recuperare la sua barchetta, prima gli strappa via il braccio con un morso, poi lo divora. Qualche mese dopo, ultimo giorno di scuola, Bill e i suoi amici – il logorroico Richie Tozier (Wolfhar), l’ipocondriaco Eddie Kaspbrak (Jack Dylan Grazer) e l’ebreo Stanley Uris (Oleff) – vengono maltrattati, come sempre, dal bullo Henry Bowers (Nicholas Hamilton) e i suoi accoliti, Patrick (Owen Tegue), Belch (Jake Sim) e Victor (Logan Thompson). Nei bagni della scuola, intanto, Beverly Marsh (Sophia Lillis) dopo essere stata umiliata dalle compagne – guidate dalla gelosa Gretta (Megan Charpentier) – che la accusano di essere una sgualdrina, si scontra, urtandolo, con Ben Hanscom (Jeremy Ray Taylor), il nuovo arrivato sovrappeso e segretamente innamorato di lei. Di lì a poco il ragazzo nero Mike Hanlon (Chosen Jacobs) – un orfano che vive con il nonno (Steven Wiiliams) allevatore di ovini che gli rimprovera di non avere il coraggio di uccidere le pecore – mentre sta consegnando della carne, vede arrivare Henry e i suoi (che sono soliti aggredirlo con frasi razziste) e, nascondendosi, viene minacciato da Pennywise. Bill non si dà pace per la scomparsa del fratellino ed è convinto – inconsapevolmente esacerbando il dolore dei genitori (Geoffrey Pounsett e Pip Dwyer) – che sia ancora rintracciabile e che potrebbe essere finito in un terreno collegato alle fogne chiamato i Barrens. Ben, mentre è in biblioteca a leggere un libro sulla storia di Derry che descrive le tragedie e le sparizioni inspiegabili che, nei secoli, l’hanno tormentata, viene attirato da un palloncino e, seguendolo nel seminterrato, incontra Pennywise, che si è materializzato in un ragazzo senza testa (Carter Musselman). Scappato dalla biblioteca in preda al terrore, Ben finisce nelle mani dei bulli ed Henry gli incide con il coltello una H sulla pancia, lui riesce a fuggire nei Barrens dove trova Bill, Richie, Eddie e Stanley che, cercando Geoorgie, hanno trovato la scarpa di una ragazza scomparsa; intanto Patrick, che lo cerca in una discarica vicina, viene ucciso da Pennywise. Ben, viene medicato dai ragazzi, aiutati da Beverly che, facendo gli occhi dolci al farmacista (Joe Bostick), consente loro di prendere i medicamenti di cui Ben ha bisogno. Più tardi, mentre sta tornando a casa, Eddie passa davanti alla casa abbandonata di Neibolt Street e viene attaccato da Pennywise sotto forma di un lebbroso (Javier Botet). Stanley, invece, dopo essere stato rimproverato dal padre rabbino (Ari Cohen) per non aver studiato abbastanza la torah, vede materializzarsi la donna modiglianesca (Tatum Lee) soggetto di un quadro che lo ha sempre spaventato, mentre Beverly, che si era rifugiata in bagno per fuggire alle attenzioni lubriche del violento padre (Stephen Bogaert), sente le voci di molti bambini scomparsi provenire dal lavandino, dal quale sgorga una quantità di sangue. Bill, a sua volta, viene attirato nella cantina di casa dall’apparizione di Georgie e, qui, attaccato da Pennywise. L’indomani, tornati nei Barrens, Bill, Beverly, Ben, Richie, Stan ed Eddie salvano Mike dalla banda di Henry, affrontandoli con una sassaiola. E’ ora completo il “Club dei Perdenti”(come hanno deciso di chiamarsi) e i ragazzi capiscono di essere stato attaccati – ciascuno nel proprio punto debole (quello di Richie è direttamente la paura dei clown) – da It, l’entità che, con l’aspetto di Pennywase, si risveglia per alcuni mesi ogni 27 anni per nutrirsi dei bambini di Derry prima di riscomparire e che si serve delle fogne per spostarsi senza essere visto. Mentre nel garage di Bill esaminano le mappe della rete fognaria, i Perdenti vengono aggrediti dal clown ma riescono a scacciarlo e decidono di andare a stanarlo nella casa in Neibolt Street; qui It riesce a separarli e, dopo aver fatto cadere Eddie, che si rompe un braccio, si prepara a mangiarlo ma gli amici arrivano in tempo a salvarlo. L’apprensiva madre (Molly Atkinson) di Eddie – che, per ansia di protezione, lo ha reso ipocondriaco – giunge sul posto e porta via il figlio mentre Richie, Stan, Ben e Mike cedono alla paura e lasciano Bill e Beverly soli. Qualche tempo dopo Beverly, per difendersi dall’ennesima violenza del padre, lo uccide e, subito dopo, arriva Pennywise che la rapisce. Henry, intanto, svergognato di fronte agli amici dal padre (Stuart Huges) poliziotto, soggiogato da It lo uccide e parte alla caccia dei Perdenti. Bill, che è stato a casa di Beverly e ha capito cosa è successo, va a chiamare gli altri e con loro giunge nella casa di Neibolt per salvare la ragazza e con loro si cala nel pozzo che è al centro della costruzione; arriva Henry, che si scaglia contro Mike che era l’ultimo a scendere ma, nella lotta, è lui a soccombere, cadendo dal pozzo e sfracellandosi al suolo. Il gruppo giunge alla tana di Pennywise e, dopo un primo scontro con lui,trovano Beverly in stato catatonico sospesa nel vuoto con accanto i corpi degli altri bambini scomparsi; i ragazzi riescono a tirarla a terra e a rianimarla. It compare sotto forma di Georgie ma Bill non ci casca e lo ferisce con la sparachiodi di Mike; dal corpo del bambino riappare Pennywise che prende in ostaggio Bill, offrendo agli altri Perdenti salva la vita se gli lasceranno l’amico; loro non accettano e liberano Bill e sconfiggono Pennywise, che non avendo più il potere di spaventarli, comincia a disintegrarsi. Un mese dopo i ragazzi fanno un giuramento di sangue: se fra 27 anni It sarà tornato, anche loro torneranno a Derry per distruggerlo una volta per tutte.

 




L’uomo di neve (The Snowman)

di Tomas Alfredson. Con Michael FassbenderRebecca FergusonCharlotte GainsbourgChloë SevignyVal Kilmer   Gran Bretagna 2017

Jo Nesbo è – insieme a Stieg Larsson, Anne Holt, Camilla Lackeberg e Henning Mankell – uno degli esponenti di punta della scuola del giallo scandinavo e a Harry Hole ha dedicato sino ad ora 11 romanzi; L’uomo di neve è il settimo e alcuni dei personaggi (in particolare, l’assassino, che non riveliamo, erano già presenti nel precedente La ragazza senza volto. Lo svedese Tomas Alfredson si era rivelato autore capace di proporre una cupa profondità nell’interessantissima vampire-story Lasciami entrare, confermata dal successivo La talpa (da Le Carrè). L’uomo di neve, invece, è una delusione: un cast di grandi nomi e un romanzo di successo servono solo a mettere insieme un giallo poco più che televisivo. Forse è anche colpa dei sopravvalutati gialli nordici: tanta tristezza, tanta cupa violenza e, soprattutto, tanta neve ma un compiacimento narrativo (vale un po’ per tutti), senza il nerbo di un andamento narrativo potente in sé (come se gli eccessi di cui si nutre spesso quella letteratura poliziesca coprissero, per accumulazione, una carenza di ritmo). Nel ridurre al formato cinematografico il film, poi, gli sceneggiatori, Hossein Amini, Peter Straughan e Soren Sveistrup, hanno lasciato buchi e semplificazioni narrative evidenti (Nesbo ne ha preso le distanze). Fa freddo, insomma, ci sono tanti morti ma pochissime emozioni.

Ad Oslo l’ispettore Harry Hole (Fassbender), alcolista e depresso ma grande investigatore, specializzato nella caccia di serial killer, viene affiancato dalla giovane Katrine Bratt (Ferguson) e, mentre indagano sulla scomparsa di Edda (Jaime Clayton), giovane mamma di una bambina, Josephine (Jetè Laurence), in crisi con il marito Filip (James D’Arcy). Harry vede che Rebecca ha con sé i file di casi simili – che non sarebbe autorizzata a tenere – in particolare, la morte a Bergen di una donna (Sofia Henlin), il cui cadavere era stato trovato scomposto e vicino ad un pupazzo di neve (in tutto simile a quello che era stato messo da qualcuno di fronte alla casa di Edda). Harry vive solo perché è finita da un pezzo la sua relazione con Rakel (Gainsbourg), che ora vive con Matias Lund-Elgesen (Jonas Karlsson) – medico molto affermato – ma il cui figlio Oleg (Michael Yates) ancora gli è legato profondamente. Quando anche Edda viene trovata morta, le indagini conducono al dottor Vetlesen (David Dencik), che lavora in una clinica che pratica aborti (e le due donne si erano rivolte a lui prima di scomparire) e che è in relazione con l’ambiguo uomo d’affari e seduttore Arve Stopp (J.K. Simmons), che è al centro dei sospetti di Katrine. Ai due detective arriva la denuncia della scomparsa di una donna in campagna, Sylvia Ottersen (Sevigny); quando però arrivano alla fattoria la trovano viva e sorpresa ma, mentre stanno tornando indietro, un telefonata ripete la denuncia. Tornano alla fattoria dove vengono accolti dalla gemella Anne (Sevigny) e Harry rinviene, in fondo a un pozzo, un pupazzo con sopra la testa di Sylvia. Anche lei era andata da Vetlesen e Katrine decide di tentare il tutto per tutto e si presenta ad una festa di Stopp, riuscendo a farsi notare e a farsi dare la chiave della sua stanza per un appuntamento galante; mentre, aspettandolo, si guarda attorno viene, però, aggredita ed uccisa dal serial killer. Harry, che era andato a Bergen, scopre che la sua partner è la figlia del detective Gert Rafto (Kilmer), che aveva indagato sul misterioso assassino ed era stato ucciso. Tornato ad Oslo e avvertito della scomparsa di Katrina, si precipita nella villa di Vetlesen ma la trova morta insieme al dottore. Distrutto torna a casa e, dopo poco, viene raggiunto da Rakel, che lo ama ancora e vorrebbe fare l’amore con lui. Una telefonato di Matias li interrompe ma…

 




Ammore e malavita

dei Manetti Bros.  Con Giampaolo MorelliSerena RossiClaudia GeriniCarlo BuccirossoRaiz Italia 2017

Non si può dire che il musical abbia in Italia una grande tradizione, se si escludono i “musicarelli”( e, prima ancora,  i vecchi film interpretati da cantanti di successo, Claudio  Villa e Luciano Tajoli tra gli altri, che erano flebili storie funzionali all’ascolto dei loro successi) e la sceneggiata (che sono però tutti film con canzoni) e, sul coté autoriale, Tano da morire di Roberta Torre e Belluscone- Una storia siciliana di Franco Maresco (in entrambi, peraltro, i brani neo-melodici hanno una funzione di contrappunto sociale). Ha avuto, certamente, punte importanti: il capolavoro Carosello napoletano di Ettore Giannini, il bel La Tosca di Luigi Magni, il colpevolmente dimenticato Per amore… per magia di Duccio Tessari e, in qualche modo, il recentissimo bel cartoon La Gatta Cenerentola ma ci volevano Antonio e Marco Manetti per dare alla nostra cinematografia un vero, grande musical. Loro, cinefili appassionati, ultimi eccezionali epigoni del nostro cinema di genere (Zora la vampira, L’arrivo di Wang, Paura), avevano già raccontato, con successo, Napoli e la sua musica (neomelodica in quel caso) in Song ‘e Napule; con Ammore e malavita compiono un passo più importante: mettono insieme un cast di cantanti e musicisti di generi diversissimi – dal re dei “cantanti di giacca” Pino Mauro, al vecchio Antonio Buonomo,  ai giovani (ciascuno innovativo a suo modo) Andrea D’Alessio, Tia Architto, Franco Ricciardi, Ivan Granatino, Ronnie Marmo e Claudia Federica Petrella, al percussionista Ciccio Merolla fino al sorprendente Raiz,  leader degli Almanegretta e musicista a tutto tondo e, qui, bravissimo attore – e, grazie alle coreografie di Luca Tommassini e alle musiche di Pivio e Aldo De Scalzi, dànno vita ad un film che rimarrà nella storia del nostro cinema. Io ho avuto difficoltà nel non alzarmi ad applaudire alla fine dell’esibizione di Pino Mauro, che canta Chiagne femmena seduto su di un trono di cornetti rossi in Piazza Plebiscito. Ovviamente, onnivori ed attenti, i bros. Non si sono fatti mancare il Rispo di Un posto al sole e Antonella Morea, la mamma della serie web Casa Surace, che come gli altri tasselli (tra cui l’ottima ressa di Buccirosso e Morelli) contribuiscono a definire un grande mosaico. Presentato a Venezia, con vari premi, era stato denominato Na Na Land (per dire: il La La Land napoletano) ma, in realtà Ammore e malavita è molto più musical del trattenuto film di Damien Chazelle). Gli incassi sono un bel segnale di controtendenza, in un periodo complicato per il cinema in Italia.

In una Napoli – nella quale la malavita è talmente centrale che l’operatore turistico Aniello (Andrea D’alessio) organizza una visita alle Vele e una delle turiste, appena scippata (Tia Architto), si mette a cantare e a ballare, felice dell’esperienza – ha luogo il funerale del boss Don Vincenzo Strozzalone (Buccirosso), “’o re d’o pesce”, ma mentre la vedova Donna Maria (Gerini), la madre Filomena (Graziella Marina), la sorella Bettina (Lucianna De Falco) e il nipote Franco Luigi (Antonio Fiorillo) lo piangono, il cadavere nella bara canta la sua sorpresa nel vedersi circondato da sconosciuti. In realtà nella bara c’è un sosia di Vincenzo, Francesco De Rosa, che il boss aveva fatto ammazzare dal suo braccio destro Gennaro (Franco Ricciardi). Qualche giorno prima Pistillo (Ivan Granatino), nipote del boss del clan rivale Nunzio (Gennaro Esposito), era andato con un gruppo di pistoleri nella pescheria per uccidere Vincenzo, ferendolo al sedere, mentre l’intervento di due killer in moto, le Tigri, Rosario (Raiz) e Ciro (Giampiero Morelli), lo aveva messo in fuga, convinto di averlo ucciso. Donna Maria, stanca come il marito degli stress di quella vita e appassionata di cinema, si ispira ad Agente 007 – Si vive solo due volte e concepisce il piano di uccidere lo scarparo Francesco e organizzare il finto funerale per potere fuggire e godersi la ricchezza accumulata, investita in alcuni preziosissimi diamanti. Con la complicità del dottor Spadafora (Marco Mario De Notaris), la notte Vincenzo si fa estrarre il proiettile in ospedale, dopo aver lasciato la guida della banda a Gennaro e la pescheria alle Tigri; l’infermiera Fatima però lo vede e lui ordina ai due killer di ammazzarla. Ciro la intercetta ma lei, a sorpresa, gli si butta tra le braccia: quando erano ragazzi (Lorena Russo e Andrea Saporito) si erano giurati eterno amore ma poi lui, arruolatosi nella malavita per vendicare l’uccisione del padre, era scomparso. Anche in Ciro si riaccende l’amore e, dopo aver sparato alle ruote della moto di Rosario per non farsi inseguire, porta in salvo Fatima, rifugiandola dallo zio Mimmo (Antonio Bonomo), un ex-contrabbandiere ora venditore di botti. Lei sta nascosta in casa di Mimmo e lui di notte affronta, via via, tutti i sicari mandati da Don Vincenzo e ne uccide parecchi, finché Rosario – interrogando la donna (Rosalia Porcaro) che ha cresciuto Fatima e, soprattutto, il cartolaio (Patrizio Rispo) del quartiere, che è arrabbiato con Mimmo per dei botti che da giorni doveva consegnare – capisce tutto. Arrivato in casa dell’ex-contrabbandiere, non trova nessuno ma una foto e delle lettere gli forniscono l’indirizzo di Mariellina (Claudia Federica Perella), la figlia di Mimmo che studia a New York; al cugino di Don Vincenzo, Frank (Ronnie Marmo) che gestisce lì una pizzeria, viene dato l’incarico di andare a casa della ragazza e di minacciare per telefono il padre che se non consegnerà Ciro e Fatima, vivi o morti, lui ucciderà Mariellina.  Fatima – che, stanca di stare chiusa in casa si era nascosta nel motoscafo – sente tutto e corre da Ciro, che è al porto per sistemare i conti con altri killer. Lei cerca di fermarlo ammanettandolo ma è costretta a fuggire con lui e ad assistere ad una sparatoria nel corso della quale lui uccide Gennaro e tutti i suoi uomini. Ora però sarà lei a prendere in mano la situazione: ruba i diamanti, fa arrestare Don Vincenzo e Donna Maria e, grazie ai trucchi teatrali di Hope (Juliet Essey Joseph), fa credere Ciro ucciso da Mimmo. Ora loro e lo zio possono partire, ricchi e liberi, ma ovunque vadano … Nun è Napule.




Baby Driver – Il genio della fuga (Baby Driver)

di  Edgar Wright. Con Ansel ElgortKevin SpaceyLily JamesEiza GonzalezJon Hamm USA 2017

Baby (Elgort) è in macchina con 3 gangster: il duro Griff (Jon Bernthal) e gli innamorati cocainomani Buddy (Hamm) e Darling (Gonzalez). I tre mascherati ed armati rapinano una banca e lui, con le cuffie eternamente alle orecchie, elude, a ritmo di Bellbottoms di Jon Spencer, con abilità prodigiosa tutte le auto della polizia che li inseguono. Nella fuga cambiano auto e Griff dimentica il fucile nella macchina che lasciano per strada. Arrivano al covo del loro capo Doc (Spacey) e si spartiscono in parti uguali i soldi ma quando scendono in garage, Doc, dopo avergli ordinato di portare allo sfascio la macchina dal cui portabagagli spunta il cadavere di Griff (che ha pagato per la sua pericolosa distrazione), si riprende la sua parte del bottino, tranne un mazzetto di banconote, comunicandogli che con il colpo successivo avrà saldato il debito – qualche anno prima, ancora ragazzetto, aveva rubato la macchina di Doc (ignorando chi fosse il proprietario e che contenesse un prezioso quantitativo di droga) e ora ripaga il danno facendo da autista nelle rapine che questi organizza. A casa Joseph (C.J. Jones) il vecchio sordomuto che lo aveva adottato quando, bambino (Hudson Meek), era stato coinvolto in un incidente nel quale i suoi genitori (Sky Ferreira e Lance Palmer) avevano perso la vita e a lui era venuto un costante fischio all’orecchio che solo la musica in cuffia riesce ad attutire. Joseph sa che lui corre dei pericoli ed è preoccupato ma Baby lo tranquillizza e va allo snack bar dove la mamma serviva ai tavoli e cantava. Qui incontra Debora (James), la nuova cameriera e se ne innamora ricambiato. Doc lo chiama per il nuovo colpo: dovrà accompagnare lo sciroccato Eddie (Flea), l’asiatico J.D. (Lanny Joon) e il rabbioso Bats (Jamie Foxx) ad una rapina ad un portavalori. Anche stavolta la sua guida li porta in salvo – lui ha anche deviato, sterzando, il colpo con cui Bats stava per uccidere un inseguitore. Doc gli conferma che ora il suo debito è saldato e lui, felice, telefona a Debora per invitarla a cena in un ristorante di classe; alla fine della cena, il cameriere (D.L. Lewis) comunica che il conto è stato saldato da Doc; preoccupato Baby lo raggiunge e il boss, minacciando ritorsioni su di lui, Debora e Joseph, lo costringe a ritornare a lavorare per lui. L’indomani vanno di fronte all’ufficio postale che Doc vuole rapinare dove, facendolo accompagnare dal nipotino Samm (Brogan Hall) per non destare sospetti, lo spedisce a valutarne le difese. Grazie anche all’aiuto di una gentile ed ignara impiegata (Allison King), Baby ha tutte le notizie che servono. Baby e i tre rapinatori – Bats, Budd e Darling – vanno dal Macellaio (Paul Williams) a ritirare le armi per il colpo ma Bats si accorge che i suoi uomini sono poliziotti e, insieme agli altri, ammazza tutti. Dopo essersi fermati a bere una Coca Cola nel locale dove lavora Debora (e qui, nonostante gli sforzi di Baby per dare a vedere di non conoscere l’esterrefatta ragazza, gli altri capiscono tutto), ritornano da Doc che arrabbiatissimo (gli uomini del Macellaio erano agenti corrotti da lui), vorrebbe far saltare tutto ma si convince a proseguire a patto che loro quattro dormano lì. Baby prova a scappare per fuggire con Debora ma Bats e Buddy lo bloccano. L’indomani mattina il colpo riesce ma al momento della fuga si frappongono vari intoppi e Bats spara ad un vigilante (Joe Loya), mentre Baby riesce a fermare la gentile impiegata che stava tornando al lavoro. Nella fuga a piedi (la macchina è sotto il tiro della polizia) Darling viene uccisa e Buddy, folle di dolore, fa una strage di polizotti. Muore anche Bats e Baby – che è riuscito a fuggire con la macchina di una anziana signora (Andrea Frye), alla quale restituisce, prima di sgommare, la borsetta – prima va a prendere Joseph e, lasciandogli tutti i soldi dei precedenti colpi, lo porta in una casa di riposo e poi va da Doc al quale chiede aiuto. Il boss, che in qualche modo gli si era affezionato, gli dà una macchina e una pistola ma, ferito e feroce, arriva Buddy che lo uccide. Baby riesce a scappare con Debora ma Buddy li segue ovunque, fino allo scontro finale. I due innamorati partono ma sulla strada un posto di blocco li ferma. Baby, per non coinvolgere Debora, ferma la macchina e si arrende. Al processo le testimonianze di Joseph, dell’impiegata delle poste e della proprietaria della macchina gli faranno avere una condanna relativamente lieve.

L’uscita di Bullitt di Peter Yates nel 1968 ha segnato una forte svolta nel poliziesco, instaurando una escalation di rocamboleschi inseguimenti in macchina, fino all’apoteosi dei Fast and Furious. In qualche modo anche il nostro poliziottesco ha avuto un percorso parallelo: nei primi anni ’70 i nostri registi di genere, quelli amati da Tarantino, hanno supplito alla mancanza di mezzi con geniali espedienti artigianali (nel suo godibile libro Il bianco spara Enzo G. Castellati ne elenca alcuni) e con degli stunt-men espertissimi e spericolati ma poi, le costosissime tecnologie americane hanno reso impossibile la realizzazione di action italiani. L’eclettico Edgar Wright (va dall’horror demenziale – L’alba dei morti dementi e il corto Don’t, finto trailer in Grindhouse di Tarantino e Rodriguez – alla commedia – Hot Fuzz– e al film per ragazzi – la trilogia Scott Pilgrim)  aveva già, realizzando il video di Blue Song dei Mint Royale, immaginato un autista-rapinatore musicomane e qui dà al suo protagonista una sorta di autismo: è bravissimo alla guida e, apparentemente, assente di fronte al mondo e gira tutte le scene in cui lui appare, in macchina o a piedi, virandole sulle canzoni che lui ascolta in cuffia. Le compilation nei suoi i-pad sono più che una colonna, sono una parte vitale del racconto: il citato Bellbottoms , Brighton rock dei Queen, Knocking on heaven’s door dei Guns n’ Roses, Let’s go away for a while dei Beach Boys e Harlem shuffle di Bob and Earl, tra gli altri, danno il tempo delle fughe in macchina, Tequila dei Bottom Down Brass, sottolinea la sparatoria dal Macellaio e i due innamorati si dedicano, rispettivamente, Debra dei Commodores , Debora dei T.Rex ,  Baby I’m yours di Barbara Lewis e Baby Driver di Simon and Garfunkel. Forse è poco più che una trovata ma l’impianto musica-azione, non certo nuovo, in questa chiave funziona benissimo e il film è una delle rare sorprese al botteghino americano di questa non eccelsa stagione.

 




7 Giorni

di Rolando Colla. Con Bruno TodeschiniAlessia BarelaGianfelice ImparatoAurora QuattrocchiMarc Barbé Italia, Svizzera 2016

Lo svizzero Colla non è un regista facilissimo. Non lo sono i suoi film che talora peccano di didascalismo (Oltre il confine), talaltra (Giochi d’estate) di sovraffollamento di personaggi e situazioni e – soprattutto, sin dall’esordio con Una vita alla rovescia – di astrattezza intellettualistica. Non è sempre agevole, inoltre, lavorare con lui: rigoroso al limite del maniacale, quasi incontentabile tanto da aver messo su una sua società di produzione – la Peackok – per essere sicuro di poter girare con la massima libertà. E’ però un regista vero e la sua capacità di girare e di raccontare con la macchina da presa è innegabile. 7 giorni è, in qualche modo, una vera svolta nella sua cinematografia: il tema della difficoltà di dichiarare ed accettare i sentimenti – molto centrale nella sua narrativa – qui esplode in un racconto molto più conchiuso e raccolto degli altri suoi film. L’erotismo delle scene d’amore – a differenza della freddezza, ad esempio, di Oltre il confine – rimanda una grande, rabbiosa, essenziale poeticità; cosi come le scarne scene subacquee (con i fiori finti che si depositano nel fondo) raccontano un mondo chiuso, povero ma non disperato. Anche alcuni limiti didascalici del racconto (gli abitanti dell’isola tutti buoni e generosi, il figlio piccolo teneramente down di Giuseppina, un incongruo pugno chiuso con il quale Ivan saluta il fratello), diventano accessori retorici accettabilissimi in un contesto di gran respiro.  Certamente il risultato è dovuto alla sua determinazione autorale (ha preteso che gli attori e la troupe rimanessero nell’isola – nella quale ha girato anche gli interni – senza confort, per tutto il periodo delle riprese più quattro settimane di prove), alla sua grande attenzione nella costruzione del cast, che vede attori professionisti (come la splendida Quattrocchi) e veri isolani ma anche alla saggezza produttiva della Solaria di Emanuele Nespeca (coproduttore) e della Movimento (produttore di Mario Mazzarotto (produttore esecutivo e anche distributore per l’Italia). Un film – è banale dirlo – è sempre un’opera collettiva e una seria capacità produttiva è importante e creativa quanto la scrittura e la regia. Queste considerazioni mi suggeriscono un’associazione di idee: la nuova legge sul cinema potrebbe, se non accompagnata da importanti correttivi nella stesura dei decreti applicativi, mortificare il tessuto artigianali di chi fa il cinema con capacità professionale. Speriamo proprio che non sia così.

Ivan (Todeschini) e Chiara (Barela) sbarcano nella piccola isola siciliana di Levanzo; lui è il fratello di Richard (Barbè) e lei la migliore amica di Francesca (Linda Olsansky), due ex-tossicodipendenti che si vogliono sposare lì perché la visone di una coppia di sposi sul faro dell’isola aveva dato a Richard la forza per uscire una prima volta dalla droga. Ivan e Chiara, che si sono presi l’incarico di preparare l’occorrente per le nozze in 7 giorni, vanno nell’unico albergo, ormai in disarmo, gestito da Giuseppina (Quattrocchi) per predisporre il pranzo e le camere degli ospiti. Lui è un botanico e lei una costumista teatrale – sarà lei a preparare il vestito di Francesca – e il loro incontro è molto poco cordiale; Ivan è scortese, scorbutico e polemico con l’idea di metter in piedi la cerimonia in quella terra quasi deserta e, apparentemente, senza nulla. Oltretutto, bisognerà anche rendere agibile il faro dove la coppia vuole passare la prima notte di nozze e quando lo vanno a visitare, accompagnati dal figlio di Giuseppina, Luigi (Fabrizio Pizzuto), lo trovano in completa rovina e, di nuovo, litigano aspramente. Cominciano, comunque, a darsi da fare e, mano a mano che lavorano, a provare una forte, reciproca attrazione. Prima di fare all’amore, però, lui le detta una condizione: passati i 7 giorni non si vedranno più, perché, lui dice, il tempo uccide l’amore. Lei ci pensa un po’ e poi accetta ma un scatto di rabbia di lui verso un negozio chiuso la fa fuggire via. Dopo poco però lei, dopo un primo approccio interrotto dalla donna delle pulizie, si fa trovare nuda nel suo letto e incomincia tra i due una storia di grande partecipazione sessuale tanto che Ivan le chiede di non tener conto del loro accordo e di stare insieme più a lungo. Ora è lei a rifiutare: ha una figlia ed un compagno, Stefano (Imparato), che forse non ama più ma al quale deve molto perché la ha salvata in un periodo difficile. Questo rifiuto – e la sofferenza che gli causa – mette Ivan di fronte alla propria incapacità di vivere l’amore, come confessa in una disperata telefonata alla sua ex Gertrud (Catriona Guggenbuhl) ma comunque lui e Chiara continuano ad alternare grandi momenti di passione erotica e malumori. Il giorno delle nozze tutto è pronto – ci sono anche musicisti e coristi ad accompagnare il pranzo di nozze con canti tradizionali – e, oltre agli sposi, arrivano i genitori di Ivan e Richard (Armen Godel e Laurence Montandon), gli ex-tossici del centro di riabilitazione nel quale Richard e Francesca si sono conosciuti e Stefano, che rapidamente intuisce l’intesa tra la compagna ed Ivan. Al pranzo tutti sono felici tranne Ivan che dovrà dire addio all’amore. La sera lui si appresta a partire con la barca che porta i musicisti a Trapani e Chiara si offre di seguirlo fino alla barca (lei però gli starà dietro e lui non dovrà voltarsi). Lui sale sull’imbarcazione e….