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A Star Is Born

 

di Bradley Cooper. Con Bradley CooperLady GaGaSam ElliottAndrew Dice ClayAnthony Ramos  USA 2018

La rockstar Jack (Cooper) è al limite dell’alcolismo e una notte, alla fine di un concerto, chiede al suo autista Phil (Greg Grunberg) di portarlo in un posto dove possa bere. Trovano aperto un locale drag e Ramon (Ramos), che è all’ingresso, lo riconosce ed eccitato lo accompagna dentro; lì assiste ad alcune esibizioni en travestì, finché non arriva sul palco Ally (Lady Gaga), una cameriera di cathering con la passione per la musica, che canta La vie en rose.  Ramos  spiega a Jack che lei è una sua collega ed amica e lo accompagna a conoscerla; lui la invita ad andare con lui a bere in vari bar; lei accetta finché in un locale un fan strafatto (Andrew Michaels) gli chiede un autografo e lo strattona e Ally lo atterra con un pugno; fuori dal locale, lui le cura la mano ammaccata con dei surgelati e le racconta un po’ della sua vita: figlio dell’amore senile del padre con una ragazza di campagna, morta poco dopo, è cresciuto in un ranch affidato – dopo la scomparsa del padre – al fratellastro, dal quale ha preso l’amore per la musica. Ally, alla fine del racconto, gli fa sentire una canzone che ha composto, The shallow, e gli confessa di aver avuto risposte negative da parte dei discografici che trovavano interessanti le sue composizioni ma lei, per via del naso troppo pronunciato, inadatta ad esibirsi. Jack, cerca di rassicurarla ma lei non si fida e si fa portare a casa, rifiutando il suo invito ad accompagnarlo al concerto che l’indomani lui terrà a Memphis. Il padre della ragazza, Lorenzo (Dice Clay), è un ex crooner di nessun successo, ancora convinto di essere migliore di Frank Sinatra (sembra glielo avesse detto, anni prima, Paul Anka) e che spera che la figlia possa riscattarlo; così quando la mattina Phil bussa per portarla al concerto, cerca invano di convincerla ad accettare; l’autista, però, la segue fino al lavoro e lei, di fronte all’ennesimo sgarbo del boss (Jacob Schick), si licenzia, accompagnata da Ramon sale sulla limousine di Jack e con un aereo privato arriva al backstage del concerto. Jack soffre di acufene ed è reduce da una discussione con il fratello e manager Bobby (Elliott), il quale cercava di convincerlo a mettere delle cuffie protettive, che lui rifiuta perché lo isolerebbero dal pubblico. Inizia il concerto e, ad un certo punto dell’esibizione, lui attacca The shallow e la invita sul palco; lei inizialmente si ritrae ma poi va al microfono e canta con lui. Fioccano applausi e lui la porta nella sua stanza ma, ubriaco, cade addormentato, lei gli dorme accanto e l’indomani mattina fanno l’amore. Ora sono insieme e lei partecipa a tutti suoi concerti. Un giorno sono a pranzo da un loro amico e vicino di casa, George “Noodles” Stone (Dave Chappelle) e lui gli chiede un paio di pinze per fare un anello con un pezzo di corda di chitarra, lo mette al dito di Ally e George li porta dal fratello (Eddie Griffin), pastore di un proprio rito, che li sposa all’istante. Ally viene invitata dal potente manager Rez (Rafi Gavron) a far parte della sua scuderia; lei, dopo essersi consultata con Jack, accetta e il suo primo singolo è un successo, tanto da farle guadagnare una candidatura ai Grammy come miglior esordiente. Jack continua a bere ed a drogarsi e Bobby, esasperato, lo lascia, mentre lui vive con alterni sentimenti la carriera di Ally: da un lato, le è vicino e l’aiuta ma, dall’altro, non riesce a non esserne geloso. Per la sera dei Grammy è prevista una sua partecipazione ma, mentre lui si aspettava di cantare un suo pezzo, alle prove gli comunicano che dovrà solo suonare la chitarra e accompagnare Chris Issak e Brandi Carlie; è un brutto colpo e lui la sera della premiazione è completamente sbronzo e, accompagnando i due solisti che cantano Oh! Pretty woman, fa delle violente svisate con la chitarra, disturbandone la performance. Quando poi Ally, che ha vinto, sale sul palco, lui l’accompagna ma incespica e, in diretta mondiale, si piscia sotto. Lei è distrutta e lui accetta di andare nella clinica di Carl (Ron Rifkin) per disintossicarsi. Quando torna a casa, lei, per stargli vicino, cancella un importante tour in Europa; Rez va da lui e, spietatamente, gli rivela che la carriera di lei aveva rischiato di interrompersi per le sue intemperanze e che l’amore per lui ancora potrebbe rovinarla definitivamente. Jack le lascia una canzone, I’ll never love again, e si suicida. Lei, nel concerto in sua memoria, la canta con dolorosa commozione.

Tutto è cominciato nel 1932 con A che prezzo Hollywood di George Cukor, nel quale una cameriera (Constance Bennett) viene notata da un regista (Lowell Sherman) in declino che fa di lei una star e poi si suicida; 5 anni dopo William A. Wellman scrive e dirige il primo E’ nata una stella con Fredric March nel ruolo di attore-Pigmalione e Janet Gaynor in quello di stellina in ascesa,  i due personaggi saranno ripresi da James Mason e Judy Garland nello splendido remake del 1954 di George Cukor; poi nel 1976 Frank Pierson dirige Kris Kistofferson e Barbara Streisand nella non certo memorabile versione rock del plot. Questo terzo remake (escludendo Ci troviamo in galleria del’53, diretto da Mauro Bolognini con Carlo Dapporto e Nilla Pizzi, che ha una storia identica – qui ci sono un comico di avanspettacolo ed una cantante – ma con un finale meno tragico) ha avuto un inizio un po’ travagliato: il progetto vedeva inizialmente la regia di Clint Eastwood e Beyoncé come protagonista, poi è spuntato Bradley Cooper che ha firmato la sua prima regia ed ha chiesto Lady Gaga come partner e, insieme a lei, ha scritto ed interpretato (cantandole dal vivo) molte delle canzoni del film. Il risultato è un costoso e piatto “musicarello” (come venivano chiamati i film italiani con cantanti e canzoni di successo degli anni’60), con buone musiche ma – tranne The shallow e la canzone finale –  non particolarmente memorabili e – come appunto i film di Morandi, Al Bano e Littlle Tony, che erano tenuti su dal mestiere di Bramieri, Taranto, Franchi e Ingrassia, Nino Taranto e Montesano – con ottimi caratteristi. Cooper sembra più concentrato nel rendersi musicalmente credibile che nella prima prova di regia; svetta Lady Gaga, ottima cantante e anche intensa interprete. Probabilmente i buoni incassi del film si devono soprattutto a lei.

 




Non è vero ma ci credo

di Stefano Anselmi. Con Nunzio Fabrizio RotondoPaolo VitaElisa Di EusanioMicol AzzurroGiulia Di Quilio   Italia 2018

Nunzio (Rotondo) e Paolo (Vita) sono due amici costantemente alla ricerca del colpo di fortuna; le loro mogli, la rampante avvocato divorzista Cristina (Di Eusanio) e la donna d’affari Maria Chiara (Di Quilio), sono stanche di finanziare i loro business sbagliati e li minacciano di buttarli fuori da casa se non trovano una sistemazione. Mentre si lambiccano il cervello seduti al bar, i due vedono arrivare un trafelato avventore, Armando (Maurizio Mattioli), che, in preda d un attacco di colite, si precipita alla toilette, lasciando incustodito il proprio suv, del quale si impadronisce subito un incapacissimo ladro, Rocco (Paolo Gattini) che non sa guidarla, consentendo a Nunzio e Paolo di riprenderla. Il riconoscente Armando li porta nel suo takeaway vegetariano e racconta fiero di possedere una catena di quegli esercizi e che gli affari gli vanno a gonfie vele. I due, che sono vegetariani, sono ammiratissimi e non capiscono che le strane bustine di polvere bianca che i clienti ritirano non sono affatto farina di riso e che i due involti che il truce gestore, Omar The King (Omar Monno), dà loro scambiandoli per spacciatori sono due panetti di hashish e decidono di aprire a loro volta un ristorante vegano. Hanno però bisogno di un capitale di partenza ed è escluso che le loro mogli li finanzino ancora ma, poiché la superstiziosa Maria Chiara crede ciecamente all’oroscopo, hackerano il sito cui lei presta fede assoluta, postandovi una previsione di grande fortuna legata all’investimento su di un affare proposto dal marito; lei si convince a investire una grossa somma e coinvolge anche Cristina. I due acquisiscono un agriturismo alle porte di Roma e si mettono alla ricerca di personale; prima di tutti, rintracciano lo stellato chef Ciro (Yari Gugliucci), che ora, a causa di un divorzio, ha perso casa e ristorante e vive in macchina; vanno poi in un night a parlare con la sexi Morena (Azzurro), pole-dancer cugina di Nunzio, per assumerla come cameriera, lei sulle prime rifiuta ma, quando Omar, che gestisce anche quel locale la caccia perché “è troppo vecchia”, accetta; mentre escono dal locale, vedono Rocco che scappa con la loro macchina, di nuovo lo raggiungono facilmente e, appreso che era stato cuoco in carcere, lo arruolano come sous chef; lui, a sua volta, propone come sguattero il suo ex aiuto-cuoco Nino (Leonardo Sbragia) e con il lavapiatti cinese (in realtà romano da tre generazioni) Ndong (Yoon Cometti Joyce)  l’organico è completo. Il ristorante però non decolla e la notizia dell’arresto di Armando chiarisce ai due quale era la sua vera fonte di ricchezza. L’unica speranza è attirare l’attenzione del grande critico culinario francese Michel De Best (Maurizio Lombardi), ora in missione a Roma ma il loro primo invito viene respinto con malgarbo: Michel è un convinto carnivoro ed odia il vegetariano. L’unica soluzione, per non fallire e non far del male agli animali, è quella di riciclare il locale in una bisteccheria con carni finte, create dalle verdure dall’abile Rocco, riempiendo le stalle adiacenti al locale di animali in apparenza pronti ad essere cucinati. Ora De Best accetta l’invito del locale, – rinominato per l’occasione “Ar macello da Nunzio e Paolo” – e, conquistato da una “bistecca”, scrive una recensione entusiastica. Ora il locale è pieno di clienti, ai quali vengono propinate anche scene grandguignolesche di uccisioni di bestiole ma il video di Ndong che insegue un agnellino con una katana scatena l’indignazione degli animalisti, che, capeggiati da Loredana (Loredana Cannata), organizzano una manifestazione davanti al locale, proprio nella sera in cui vi torna, goloso, De Best, e arriva Armando, evaso dai domiciliari e pronto a ricattare i due per i due panetti di hashish. Due rapimenti, l’intervento di un pasticcere di strada (Piotta/Tommaso Zanello) e la nascita di un vitellino segneranno il lieto fine.

Anni fa Aurelio De Laurentiis, dandomi la sceneggiatura di un suo film di Natale, mi aveva detto: “Leggila ma non è la definitiva: è la sedicesima stesura, ne dovremo fare almeno altre tre”. Parliamo degli ingiustamente bistrattati cinepanettoni e, però, questa è una delle ragioni del pessimo stato di salute del nostro cinema: l’approssimazione e la fretta – necessitata da un mercato drogato – con la quale i progetti vengono licenziati. Fatta questa necessaria premessa, va riconosciuto a Non è vero ma ci credo il merito di riproporre il sapore delle vecchie commedie italiane degli anni ’50, quelle, per intenderci figlie del vecchio varietà con Billi e Riva (Accidenti alle tasse!!, Abracadabra, Siamo tutti milanesi) o con Taranto e Croccolo (Libera uscita, Licenza premio, Tizio, Caio e Sempronio); alcune gag sono carine, il cast di contorno non può certo essere paragonato agli eccellenti caratteristi dei vecchi film ma è scelto con intelligenza, il produttore Gianluca Curti è figlio d’arte (il padre era il produttore Ermanno e la mamma l’attrice Eleonora Ruffo) e ha già al suo attivo due riuscite proposte di film con comici televisivi emergenti (Ciao brother con Pablo e Pedro e Finalmente sposi con gli Arteteca), Anselmi, infine, al suo primo lungometraggio, dà una bella prova: lui ha diretto ottimi corti e ha collaborato con registi importanti ed è un buon saggista di cinema (che spiega la capacità di ricreare l’allure del cinema di Mattoli e Simonelli); la vera incognita erano i due protagonisti, noti come animatori e creatori di divertenti format prevalentemente dedicati alla musica ma non certo attori (anche se già protagonisti del tv-movie Sky Innamorati di me) – e si vede – ma le buone intuizioni di casting compensano bene i loro limiti. Non è certo un film privo di difetti ma è genuino e pervaso di una contagioso entusiasmo. Ci basta.

 




The Nun – La Vocazione del Male (The Nun)

 

di Corin Hardy. Con Taissa FarmigaBonnie AaronsCharlotte HopeDemián BichirLili Bordán USA 2018

 

1952.  Nel convento di Santacarta in Romania, situato in un vecchio castello isolato e diroccato, sorella Jessica (Ani Sava) affida, prima di essere massacrata da una presenza demoniaca, alla giovane sorella Victoria una pesante chiave cesellata ma quest’ultima, inseguita da una suora spaventosa (Aarons), capisce di non avere scampo e, legatasi una corda al collo, si getta dalla finestra della propria cella. In Vaticano viene convocato Padre Anthony Burke (Bichir), uno “scopritore di miracoli” con il compito di recarsi al convento insieme alla novizia Irene (Farmiga) – a quel che gli viene detto, buona conoscitrice della zona del convento – per indagare su quel suicidio. In realtà lui è un esorcista, gravato dai sensi di colpa per aver causato la morte del giovane Daniel (Jack Falk) – il suo primo caso – liberandolo dal demonio e lei (che non è mai stata in Romania) sta prendendo i voti in seguito a delle visioni durante le quali sentiva una frase-guida: “Maria mostra la via”. Arrivati al paese del convento, vanno dal Francese (Jonas Bloquet), giovane contadino che, portando come sempre le provviste alle monache, aveva trovato il corpo della suora suicida e, non potendo –a causa del loro voto – comunicare con le altre consorelle lo aveva lasciato disteso sul pavimento della dispensa. Lui li accompagna con il suo carretto ma l’ultimo tratto di strada lo debbono fare a piedi perché il cavallo si rifiuta di andare nei pressi del convento. Dopo essere passati per il cimitero – nel quale tutte le tombe sono dotate di un campanello (antico retaggio della peste medievale, quando data l’enorme quantità di sepolture, succedeva che qualcuno venisse sotterrato ancora vivo) – entrano dalla dispensa dove trovano il cadavere non più disteso in terra ma seduto su di una panca. Dentro il castello li accoglie la Madre Superiora (Lynette Gaza) velata, che dà loro ricetto per quella notte ma li invita ad andarsene il mattino successivo. Quella notte il Francese vede aggirarsi suor Victoria e, spaventato, la segue ma, quando la raggiunge, lei, con le sembianze feroci della suora assassina, lo aggredisce – poco dopo nella locanda del paese, confermerà alla cameriera (Bordàn) ed agli altri avventori che il monastero è maledetto – mentre Padre Anthony, al quale appare Daniel, lo segue e dalla bocca del ragazzo esce un serpente, lottando con il quale finisce in una tomba con il suo nome; suona disperatamente la campanella e irene riesce a sfondare la bara che è piena di antichi manoscritti. Ritiratosi nella sua stanza, il sacerdote li esamina e scopre che sono opera del vecchio padrone del castello, il duca di Santacarta (Mark Steger), ossessionato dal Demone Valak. Irene, a sua volta, avverte presenze minacciose e quando va in chiesa a cercare aiuto trova Suor Ruth (Sandra Teles) in preghiera che non risponde alle sue richieste di aiuto; la soccorre suor Oana (Ingrid Bisu), che le spiega come il marchese avesse involontariamente evocato il demone Valak e che il castello – dopo che il maligno era stato ricacciato e che il varco da cui questi era uscito era stato sigillato con il sangue di Cristo – era diventato un convento; durante l’ultima guerra, però, i bombardamenti avevano riaperto il varco e le monache, da allora, si alternavano in costante preghiera per allontanare la maledizione. La suora-demone si fa sempre più minacciosa e Anthony (che ha con se un’ampolla con il sangue di Cristo) ed Irene si salvano da un primo assalto anche grazie al ritorno del Francese; successivamente una statua della Madonna indica loro la strada per arrivare alla tana del demone e, dopo una strenua lotta, la suora/Valak viene ricacciata negli inferi. Vediamo però, nel finale spostatosi agli anni ’70, i due investigatori del paranormale, Lorraine (Vera Farmiga) ed Ed (Patrick Wilson) Warren raccontare in una lezione universitaria di come avevano, poco prima, sconfitto la suora-demone che era stata rievocata da un suo adepto, il Francese.

L’horror, letterario o cinematografico, si è spesso alimentato di religione e satanismo (in fondo, il Frankenstein di Mary Shelley – e così i suoi nipotini cinematografici – altro non è che la storia della blasfemia di uno scienziato che voleva sostituirsi, creando un essere umano, a Dio); a spanne possiamo citare L’esorcista, Constantine, Giorni contati – End of days, Carrie, i vari Grano rosso sangue, Omen, Scontro finale.  Nel 2013 un piccolo horror di ottimo valore produttivo e con un buon cast, The conjuring ebbe un grande successo commerciale; ovviamente ebbe un seguito ma, poiché le vicende dei film erano incentrate sulle indagini di Ed e Lorraine Warren, esperti in fenomeni paranormali (ispirati a due persone reali), i due creatori del format James Wan (regista dei due Conjuring ma anche dei due Insidous) e Gary Dauberman (sceneggiatore del secondo e del recente It) hanno dato vita a già tre spin-off, ispirati alle indagini dei Warren: sono arrivati così i due blockbuster Annabelle 1 e 2 (Wan produce e Dauberman scrive) e The nun (prodotto e sceneggiato da entrambi); questo nasce come un prodotto di routine: un budget contenuto, grazie alle poche location e all’ambientazione nella conveniente Romania e a un cast professionale ma non certo costoso (protagonisti: la sorella minore di Vera Farmiga e il messicano – ancorché candidato all’Oscar per A better life – Bichir), mentre la presenza nel prologo e nell’epilogo di Vera Farmiga e di Patrick Wilson probabilmente (i loro nomi non appaiono mai) è una partecipazione amichevole. La scelta di affidarne la regia al semi-esordiente Corin Hardy, in parte, rientra anche nella logica di contenimento dei costi ma è stata anche una bella idea: già con il suo precedente The Hallow, Hardy si era fatto notare ai festival di Sundance e di Torino (a proposito, il film non ha una distribuzione in Italia ed è un peccato perché è di ottima fattura e funzionerebbe) e qui mette insieme un bell’horror all’antica, con i giusti effettacci e gli strilli del pubblico al momento giusto e con in più una sorpresa finale, presa da qual capolavoro assoluto che è Per favore, non mordermi sul collo di Polanski. In Usa ha incassato 93 milioni di dollari, nel mondo sono ad oggi circa 240. Poco?

 




La casa dei libri (The Bookshop)

di Isabel Coixet. Con Emily MortimerBill NighyHunter TremayneHonor Kneafsey , Patricia Clarkson.            Spagna, Gran Bretagna, Germania 2017

Negli anni ’50 la vedova di guerra Florence Green (Mortiner) acquista un piccolo immobile, sfitto da anni, nel centro della cittadina di Hardborough nel Suffolk inglese, The Old House, intenzionata ad aprirvi la prima libreria della zona. Poco dopo viene invitata ad una festa dalla potente Violet Gamart (Clarkson); la sarta (Frances Barber) le confeziona, per l’occasione, un improbabile abito rosso, che le aggiunge imbarazzo in quell’ambiente snob nel quale è totalmente estranea; durante il party le si accosta Milo North (James Lance) – funzionario della BBC con molto tempo libero – che, con fare sgradevole e mellifluo, la sconsiglia dall’aprire la libreria e, subito dopo,  il padrone di casa, il generale (Reg Wilson), la accompagna dalla moglie, che le chiede esplicitamente di cederle l’immobile, avendo lei l’intenzione di aprirvi un centro culturale. Lei rifiuta ma il giorno dopo tutto il paese sembra informato della sua presunta rinuncia ed anche il suo avvocato, mr. Thorton (Jacques Suquet), e il direttore della sua banca, mr. Keble (Tremayne) debbono essere sollecitati perché stanno ritardando la pratiche dell’acquisizione dell’immobile. Viene il giorno dell’apertura e Florence – che nel frattempo ha assunto la piccola Christine (Kneaffsey), figlia della signora Gipping (Lucy Tillet) la donna delle pulizie, per dare una mano dopo la scuola – riceve una lettera da Edmund Brundish (Nighy) – grande ed eccentrico lettore (brucia di tutti i libri le copertine, perché odia le note sull’autore), che da anni vive in reclusione solitaria nella propria villa (in paese si mormora che abbia, dopo solo 6 mesi di matrimonio, perso la moglie, annegata mentre raccoglieva dei lamponi per lui) – che le chiede di mandargli dei libri a suo gusto; lei incarta tre volumi tra i quali Farheneit 451 e glieli fa recapitare e lui le chiede di inviargli altri titoli di Bradbury. Un giorno lei legge Lolita, appena uscito, e se ne entusiasma ma, prima di esporlo in libreria, lo fa recapitare ad Edmund chiedendogli per lettera se ritenesse quel testo adatto alla sua clientela. Lui, poco dopo, incarica mrs. Gipping di invitarla per un tè, rompendo un isolamento pluridecennale; in villa la invita ad esporre il libro di Nabokov – lei ne farà arrivare 250 copie – e le confessa di non essere vedovo, poiché la moglie – con la quale non aveva avuto nessun legame sessuale – era andata a Londra, dove viveva con un altro uomo. Lolita ha un gran successo ma questo dà il destro ai nemici della libreria a metterla in difficoltà per il piccolo assembramento che si era formato davanti al negozio. Florence incontra Kattie (Charlotte Vega), la convivente di Milo, che lavora nel ufficio del personale della BBC e ne copre le assenze, che le confessa di essere in crisi per le ambiguità del carattere del fidanzato. Tra Florence e Christine si è instaurato un bel rapporto e lei, piano, piano, la ha anche avviata alla lettura (che inizialmente lei diceva di aborrire) ma la visita a sorpresa di un ispettore scolastico (Barry Barnes), costringe la ragazzina a lasciare la libreria e al suo posto si offre Milo, sostenendo che Kattie lo ha lasciato e che lui – senza più coperture – debba arrotondare con un piccolo guadagno. Intanto mrs. Gamart, da un lato, ha ottenuto dal nipote deputato Lionel (James Murphy), che venisse approvata una legge che consentiva l’esproprio di residenze storiche rimaste sfitte per più di cinque anni (esattamente la condizione della Old House) e, dall’altro, ha fatto aprire un’altra libreria in paese. Florence è disperata ed Edmund si offre di aiutarla; va a fare una scenata alla Gamart ma fa un buco nell’acqua e, al ritorno l’emozione gli provoca un fatale infarto. Milo, mentre Florence era assente, ha sottoscritto a suo nome il documento di esproprio – togliendole così anche la possibilità di un ricorso –  e lei, dopo aver cacciato il generale che era andato a negozio a salutarla, lascia Hardborough ma Christine…

Le librerie hanno nel cinema, più o meno sempre, le stesse caratteristiche: sono piccole, accoglienti e gestite da sognatori fuori dal tempo. Era così nel meraviglioso 84 Charing Cross Road di David Jones, come in C’è post@ per te di Nora Ephron, in Notting Hill di Roger Michell e nel recente La stanza delle meraviglie di Todd Haynes (in quest’ultimo film il bokkshop era meno centrale ma le varie vicende lì si ricompongono). La casa dei libri, tratto da La libreria di Penelope Fitgerlad, non è da meno ed in Spagna, patria della regista e principale paese produttore, ha convinto parecchio, guadagnandosi tre Goya: regia, sceneggiatura e protagonista. Non si direbbe, in realtà, che siamo di fronte ad un’opera così incisiva ma ad un film piacevole e ben costruito, con una bella fotografia (Jean-Claude Larrieu), scenografie (Rebecca Comerma) e costumi (Mercè Paloma) di grande precisione e degli ottimi protagonisti, la Mortimer (anche se talvolta sembra rinverdire le mossette della segretaria/fidanzata di Clouseau/Steve Martin), Nighy (sempre mostruosamente bravo) e la Clarkson. Molti hanno sottolineato la capacità della Coixet di rendere perfettamente l’atmosfera inglese del romanzo. E’ vero e accontentiamoci (il nostro cinema spesso non riesce a dare credibilità neppure alle inutilmente strafrequentate borgate romane).




Un affare di famiglia (Shoplifters)

di Kore’eda Hirokazu. Con Lily FrankySakura AndôMayu MatsuokaKirin KikiJyo Kairi Giappone 2018

Osamu Shibata (Franky) è in un supermercato con il dodicenne Shota (Kairi) il quale ad un suo cenno, dopo aver fatto rapidi gesti scaramantici, ruba un po’ di merce. Tornando a casa vedono un bambina (Miyu Sazaki) affacciata nel freddo della notte ad un balconcino, chiaramente affamata. La portano nella loro misera casa – dove vivono con la moglie di Osamu, Nobuyo (Ando), nonna Hatsue (Kiki) e la di lei nipote Aki (Matsuoka) – e la rifocillano. Osama vorrebbe che la bambina rimanesse da loro (ha anche notato che ha lividi e tagli sulle braccine) ma Nobuyo lo convince e riportarla a casa per evitare guai; mentre la stanno per rimettere, addormentata, nel balcone, sentono i lamenti della madre della piccola, Nozomi Hojo (Moemi Katayama) picchiata dal marito Yasu (Yuki Yamada) e decidono di tenerla con loro. Gli Shibata sono una famiglia borderline e misteriosa: Osamu alterna lavori saltuari con taccheggi insieme a Shota (che non riesce a chiamarlo papà), Nobuyo lavora in una stireria, Aki guadagna qualcosa facendo intravedere le tette e il sedere attraverso un vetro in una casa specializzata e, di fatto, tutti vivono della pensione della nonna; quando, poi, i servizi sociali fanno un controllo nella casa, tutti spariscono, tranne quest’ultima. Inizialmente Shota è geloso della piccola che loro chiamano Yuri ma Osamu la convince a considerarla una sorellina e a portarla con sé nei taccheggi; e così anche lei, fiera di lavorare con il “fratello” grande, impara a rubare ed a compiere il piccolo rituale. La televisione dà, parecchie settimane dopo, la notizia della scomparsa della bimba e del fatto che i genitori non ne avevano denunciato la scomparsa; questo tranquillizza gli Shibata, ignari che di lì a poco – a causa della necessità di ridurre il personale della stireria – sarà quel servizio a causare, indirettamente, la perdita del lavoro per Osamu; questo però non altera l’umore dei due coniugi che, anzi, rimasti in casa, possono fare finalmente l’amore. Aki, intanto, si è innamorata di un giovane cliente (Sosuke Ikematsu) e la nonna la difende dalle frecciatine degli altri “parenti”. Hatsue va ogni tanto a trovare il figlio (Naoto Ogata) di secondo letto del marito defunto e sua moglie (Yoko Moriguchi), che sono convinti che la loro Aki stia studiando in Australia e alla fine della visita le danno – come d’abitudine –  una busta con dei soldi, che lei in parte spende per giocare al pachinko; un giorno lei muore e gli Shibata, per continuare a godere della sua pensione, la seppelliscono in giardino. I due ragazzi continuano coi furtarelli, finché un giorno il vecchio proprietario (Akira Emoto) di un negozietto, accortosi delle loro manovre, dà loro delle gelatine di frutta e dice a Shota di non insegnare alla sorellina a rubare. Lui è colpito da quelle parole e in un grande magazzino, quando vede Yuri fare il rituale, ruba rumorosamente della merce per farsi inseguire e, raggiunto, si butta da un cavalcavia, rompendosi una gamba. In ospedale gli Shibata trovano la polizia e con una scusa frettolosa vanno via ma, quando stanno per scappare dalla casa vengono raggiunti e fermati. I due poliziotti ( Kengo Kora e Chirizu Ikewaki) che si occupano del caso, scoprono due cadaveri nel giardino (oltre alla nonna c’è anche il corpo del suo ex-marito, ucciso per legittima difesa dagli Shibata), riportano Yuri dai genitori – che riprenderanno a maltrattarla – e mandano Shota in una casa-famiglia. Nobuyo, che – a differenza del marito – è incensurata, si accusa di tutto e subisce una condanna a cinque anni; Osamu passa un ultima giornata con Shota e, per una volta, si sentiranno padre e figlio.

Kore’eda Hirokazu è stato spesso associato al grande Ozu e, certamente, la sua attenzione per i ritratti di famiglia lo accostano all’autore dei, peraltro irraggiungibili, Viaggio a Tokyo o Tardo autunno ma il paragone si ferma qua: le famiglie di Ozu sono, in quanto tali, portatrici di grandi valori e di terribili sofferenze, Hirokazu, invece, si sofferma sulla presenza o assenza di affettività: in questo film, come in Father and son, Little sister e Ritratto di famiglia con tempesta, ci si riconosce in un nucleo familiare se si è amati, a prescindere dai legami di sangue; in realtà, il film del regista che più richiama questo è l’aspro Nessuno sa (una sorta di Ladybird, Ladybird giapponese) ma qui si avvertono gli echi della commedia italiana della decadenza e, soprattutto, di Brutti, sporchi e cattivi di Scola ma i suoi personaggi sono meno brutti (i bambini, anzi, bellissimi), meno sporchi (al massimo la nonna si taglia le unghie dei piedi mentre cena con gli altri) e molto, molto meno cattivi. Forse non è il film più riuscito del regista (ha comunque vinto la Palma d’Oro a Cannes) anche se la parte finale è di una intensità profonda e coinvolgente ma ha, come sempre, un cast di primordine – dal suo habituè Lily Franky, alla bravissima Kirin Kiki (già indimenticabile signora Toku) fino ai sorprendenti bambini. Per la prima volta Hirokazu ha come direttore della fotografia il celebrato Kondo Ryuto ma, onestamente, la differenza con i suoi consueti Mikiya Takimoto e Yutaka Yamizaki non mi sembra si colga particolarmente. C’è, comunque, l’anima di un grande regista.

 




Dark Crimes

di Alexandros Avranas. Con Jim CarreyRobert WieckiewiczAgata KuleszaCharlotte GainsbourgMarton Csokas USA, Polonia, Gran Bretagna 2016

Tadek (Carrey) è considerato ironicamente dai suoi colleghi – corrotti dal precedente regime comunista – “l’ultimo poliziotto onesto in Polonia” ed è in crisi: in un caso precedente è stato accusato di aver costruito delle prove false ed ora sta terminando la carriera tra le scartoffie del commissariato. Anche la sua vita privata va a rotoli: la moglie Marta (Kulesza) non ne sopporta più il maniacale attaccamento al lavoro, aggravato dalla cupezza del suo attuale stato lavorativo e sua madre (Anna Polony) è malata e gli chiede – ogni che lui va a trovarla –  di non lasciarla morire da sola. Ascoltando dei brani del libro di prossima uscita dello scrittore Kozlov (Csokas), vi associa il ricordo di un delitto irrisolto di qualche anno prima: il cadavere di un cliente abitale di The Cage, un locale nel quale veniva praticato sado-maso estremo, era stato trovato incaprettato in un bosco e il romanzo racconta un delitto identico con particolari che solo la polizia e l’assassino conoscevano. Incoraggiato dall’unico amico che ha, il collega Piotr (Vlad Ivanov), e affiancato dal giovane Victor (Piotr Glowacki) riprende il filo della vecchia indagine e, raccolte prove sufficienti, arresta lo scrittore all’uscita di una conferenza stampa di presentazione del nuovo romanzo. Durante l’interrogatorio Kozlov è sprezzante, rifiuta di chiamare un avvocato e quando accetta di sottoporsi al test della verità, durante il quale si proclama ancora innocente, il tecnico (Piotr Stramowski) conferma che, secondo la macchina, non avrebbe mentito; rilasciato, lo scrittore accusa il poliziotto di averlo picchiato e di aver costruito prove contro di lui. La superiore di Tadek, Malinowska (Kati Outinen), lo invita alla prudenza – oltretutto il caso era stato curato, ai tempi dell’omicidio, da Greger (Wieckiewicz), ora Capo della Polizia – ma lui è sicuro delle proprie intuizioni e lei gli consente di continuare, ufficiosamente, le indagini. Con l’apparato tecnico fornitogli, sottobanco, da Piotr, Tadek va a casa della donna di Kozlov, Kasia (Gainsbourg) – un ex-ragazza della Cage, drogata e fragile – per piazzarvi dei microfoni ma, mentre è lì, vede – forse non visto – i due amanti fare sesso con dolorosa rabbia. Mentre procede con le indagini, si accorge di essere seguito e, pedinando Kasia, scopre che si reca a casa di Greger. Ormai sicuro di aver messo alla luce un pesante scandalo (The Cage era frequentato anche da Greger, che aveva tutto l’interesse a chiudere in sordina il caso) va dalla ragazza e, minacciandola di farle togliere – per via della droga – la figlia Hanna (Julia Gdula), ottiene la sua testimonianza che incolpa dell’omicidio Kozlov. Questi viene arrestato e con lui Greger, Piotr diventa Capo della Polizia e lui viene riabilitato ma la verità è da un’altra parte e lui è destinato a scoprirla troppo tardi.

Da che esiste, Hollywwod ha ingaggiato registi promettenti da tutto il mondo (possiamo citare, a caso,  Michael Curtiz, Alfred Hitchcock, Douglas Sirk, Fritz Lang, Billy Wilder, Jean Renoir, Jules Dassin, Kenneth Branagh, Milos Forman, Paul Verhoeven, Andrej Konchaolowskij, Timur Bekmambretur Bruce Beresford, Peter Weir, George Miller, Richard Lester, John Woo, i fratelli Pang, Guillermo Del Toro, Alfonso Cuaron, Alejandro Inarritu e gli italiani Gabriele Muccino e Luca Guadagnino) e le prime due opere del greco Avranas – il fantascientifico Without e, soprattutto, il dolorosissimo e premiatissimo (Leone d’argento a Venezia) Miss Violence – hanno convinto di affidargli la regia del noir tratto da un articolo su The Newyorker . Gli orrori descritti nel pezzo dall’autore David Grann hanno, evidentemente, richiamato le insopportabili asprezze dell’orco protagonista di Miss Violence ma l’operazione non è riuscita. Intanto, nella sua opera seconda Avranas – dipanando con splendida, brutale e sfrontata verità una storia di incesti e pedofilia – ha raccontato l’agonia del suo Paese, distrutto dalla crisi economica e dalla antropofagia di un Europa disumanizzata; mentre Dark Crimes è un noir tutto sommato tradizionale (quanti poliziotti in crisi e sopraffatti dall’hammettiano Istinto della caccia abbiamo incontrato in letteratura ed al cinema?). La scelta, poi, di affidare il ruolo di Tadek a Jim Carrey non ha certo migliorato il risultato. Molti anni fa Giuseppe Marotta, nella sua veste di critico cinematografico de L’Europeo, scriveva a proposito del celebrato Glenn Ford: “Non metterei dieci lire in quella bocca a salvadanaio”. Ora, non è il caso di essere così severi con il (forse) sopravvalutato Carrey ma qui è certamente fuori ruolo (in alcuni momenti – quelli in cui dovrebbe mostrarsi sopraffatto dall’asprezza degli eventi – sembra Ace Ventura che ha provocato l’ennesima catastrofe), è surclassato dal villain professionista Csokas (The Equalizer) e non certo aiutato da una Gainsburg meno espressiva del solito e da un regista attento a portare a casa la pelle in un operazione che, evidentemente, non lo convinceva affatto.

 




Mamma mia – Ci risiamo! (Mamma Mia: Here We Go Again!)

di Ol Parker. Con Christine BaranskiPierce BrosnanDominic CooperColin FirthAndy Garcia

USA 2018

Sono passati circa 10 anni, Donna (Meryl Streep) è morta e sua figlia Sophie (Amanda Seyfried), che è rimasta nell’isola di Kolakairi, ha deciso di ristrutturare la taverna e di trasformarla nell’Hotel Bella Donna, in onore della coraggiosa madre. Mentre i lavori procedono, sotto la guida del manager Fernando Cienfuegos (Garcia), Sophie ha una burrascosa telefonata con il fidanzato Sky (Cooper): lui è all’estero per un master in Management Alberghiero dal quale dovrebbe tornare per occuparsi del Bella Donna ma ha ricevuto un’offerta di lavoro di grande prestigio e non se la sente di rifiutarla. Lei è disperata e, al ritmo di One of us (cantata in parallelo anche da Sky), si chiude in camera e lì ripercorre le vicende che hanno portato la madre in Grecia ed alla sua nascita: Donna (Lily James) si è appena laureata – e alla cerimonia di consegna dei diplomi, insieme alle amiche – e partner nel gruppo Donna Dynamos – Rosie (Alexa Davies) e Tanya (Jessica Keenan Winn), scatena un’allegra baraonda, cantando When I kissed the teacher;  saluta poi le amiche e comunica loro di aver deciso di andarsene in giro per il mondo. A Parigi conosce Harry (Hugh Skinner) e la sera stessa, intonando Waterloo, i due finiscono a letto. L’indomani mattina lei parte per la Grecia lasciandolo ancora addormentato; arriva al molo, appena in tempo per vedere l’ultimo traghetto che salpa per Kolakairi, dove era diretta; per sua fortuna incontra il giovane svedese Bill (Josh Dylan) che le dà un passaggio con la sua barca. Giunta all’isola e arrivata in una villetta abbandonata, Donna viene sorpresa da un temporale e si rifugia nella stalla e qui quasi travolta da un cavallo spaventato dai tuoni; dal nulla sbuca Sam (Jeremy Irvine), uno studente inglese in vacanza, che la salva. L’indomani – dopo una notte d’amore – vanno, innamorati persi, a far colazione nella cantina di Sofia (Maria Vacratsis), il cui figlio Lazaros (Panos Mouzourakis), leader di una band, dopo aver eseguito Kisses of fire, la sfida a cantare a sua volta; lei esegue Andante, andante e ottiene un ingaggio. Poco dopo Sam le confessa di avere una fidanzata e che la sua famiglia si aspetta che la sposi. Disperata, Donna lo caccia via, non consentendogli di parlare (entrambi cantano tristemente Knowing me, knowing you). Attracca all’isola Bill e le propone una gita consolatoria in barca e lì, dopo aver tentato di dormire in una scomoda cuccetta, lei va nella cabina di lui e ci dorme insieme. Tornata nell’isola, dopo poco scopre di essere incinta e chiama le due Dynamos per avere il loro appoggio; insieme cantano Mamma mia e, poco dopo, Sofia le rivela di essere la proprietaria della villetta dove lei è andata ad abitare, offrendole di regalargliela se lei la rimetterà a posto. Donna ha deciso: rimarrà nell’isola e lì crescerà sua figlia (il cui padre può essere uno qualunque dei tre recenti amori). Siamo di nuovo ai giorni nostri e Sophia, pur con il cuore in pezzi, si prepara per il giorno dell’inaugurazione, supportata da Cienfuegos e da Sam (Brosnan), che dopo la morte di Donna è rimasto in Grecia; di lì a poco aggiungono Rosie (Julie Walters) e Tanya (Chistine Baranski), insieme alle quali, con Angel eyes, lei commemorerà la mamma. La sera prima dell’inaugurazione, un nubifragio interrompe ogni possibilità di far arrivare i traghetti dalla terraferma e tutti i preparativi sembrano vanificarsi ma Harry (Firth) e Bill (Stellan Skarsgard), che – pur avendo inizialmente detto di non potere essere presenti per pressanti impegni – sono arrivati fino al molo, hanno un’idea: invitano alla festa tutti i pescatori purché li portino con le loro barchette a Kolakairi. L’inaugurazione si farà comunque e, inatteso, arriva anche Sky, che con Sophya, Tanya, Rosie, Sam, Bill ed Harry introduce la festa con Dancing Queen; tra la folla appare Ruby (Cher), la madre-diva, che con le sue assenze aveva fatto soffrire Donne e che ora cerca di rifarsi con la nipote. Mentre le parla, vede Cinfuegos e in lui riconosce il rivoluzionario che aveva amato e creduto morto da giovane; lo raggiunge e con lui canta la loro storia: Fernando. A Sophia appare Donna e madre e figlia – insieme a Donna giovane – intonano My love – My life. Ora tutto si è sistemato e tutti – giovani e vecchi – si esibiscono in Super Troupe

 

I sequel, si sa, non sono quasi mai all’altezza del primo film, a meno che non siano stati progettati sin dall’inizio. In questo caso non è certo così: Mamma mia! è di dieci anni fa e la sua forza – oltreché nel cast (Meryl Streep in testa) – era nella derivazione dal grande e consolidato successo del musical, con tutti i perfezionamenti e gli aggiustamenti che una lunga e ricca tournee comporta; oltretutto la regia era stata saggiamente affidata a Phyllida Lloyd che lo aveva portato al successo in teatro, che non ha fatto grande cinema ma ha dato la giusta ed indispensabile ritmica ai numeri musicali. Per Mamma mia – Ci risiamo! è stato scelto lo sceneggiatore Ol Parker, forte della scrittura dei due deliziosi Marigold Hotel ma regista di 3 dimenticabilissime commedie sentimentali. Il risultato è una faticosa rimasticatura con un cast (a parte coloro che erano già nel precedente film) quasi raccogliticcio: steso un velo sulla faticosa improbabilità di nonna Cher, i tre giovani possibili padri hanno la comunicativa dei manichini della Rinascente e Lily James – che era stata bravissima nel ruolo della segretaria di Churchill ne L’ora più buia e una trascinante Cenerentola nel film di Branagh (Branagh appunto!) – si stampa sulla faccia un fastidioso sorriso ottimistico e attraversa allegra ed inconsapevole il film; si fa notare solo Jessica Keenan Winn, nipote di tanto nonno (Ed Keenan Winn, insostituibile caratterista dei film Disney e, tra gli atri mille ruoli, impagabile generale ottuso nel Dottor Stranamore). Insomma: l’impressione e che i due astuti membri maschili degli Abba, Bjorn Ulvaeus e Benny Andersson, motori dell’operazione, abbiano messo insieme alla bell’e meglio un sequel/prequel per rinverdire altri titoli (nel film ne contiamo 21) della loro produzione musicale. Il box-office, alla fine, dà loro ragione; il film non eguaglierà certo i 615 miloni di dollari raggiunti da Mamma mia! ma sta già a 350 milioni. C’è un dio anche per gli svedesi con i pantaloni a zampa d’elefante! D’altronde era già un miracolo che i non eccelsi Abba abbiano avuto (come i Beatles con il fallimentare Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band e l’intellettualistico Across the Universe) due film ispirati alle loro poco più che orecchiabili canzoni.

 




Come ti divento bella (I Feel Pretty)

di Abby KohnMarc Silverstein. Con Amy SchumerMichelle WilliamsTom HopperRory ScovelAdrian Martinez  USA 2018

Renee Bennet (Schumer) è una ragazzona un po’ in soprappeso e insieme al rozzissimo collega Mason (Martinez), raccoglie in uno squallido scantinato le analisi di mercato dei prodotti della prestigiosa azienda di cosmetica Lilly Leclair che inoltra via internet alla casa madre. Un giorno il computer va in tilt e lei deve portare i file a mano; viene accolta da una splendida receptionist (Aina Adler) ed apprende che lei sta per cambiare lavoro e che quel posto sarà a breve vacante. Intanto Lilly Leclair (Lauren Hutton) è al lavoro con la nipote Avery (Williams) e il suo staff (Naomi Campbell, Caroline Day, Anastagia Pierre) per lanciare una linea di prodotti per il consumo di massa. Renee farebbe qualsiasi cosa per quel posto di receptionist – oltretutto è infatuata del bel nipote di Lilly, Grant (Hopper), famoso playboy – ma è tristemente consapevole del proprio aspetto, tanto che, quando le sua amiche, anche loro non delle top model, Vivian (Aidy Bryant) e Jane (Busy Philipps), le propongono di postare la loro foto insieme su un sito di appuntamenti, lei fa mille resistenze. Renee frequenta un centro di cyclette per mettersi un po’ in forma – e qui incontra la splendida Mallory (Emily Ratajkowski) che elegge a proprio irraggiungibile modello – ma si muove malissimo, tanto che cade dal biciclo, svenendo per la botta. Al risveglio, però, è convinta di essere un’altra: si vede bellissima ed è certa di aver avuto un miracolo. Ora partecipa alla selezione alla Lilly Leclair (e vince pure perché il lancio della nuova linea prevede un immagine molto più popolare dell’azienda), quando va con le amiche al bar si comporta come una strafica e, comicamente, le aiuta a rimorchiare, rendendole ridicole e furiose. Un giorno in tintoria, incontra Ethan (Scovel) e, scambiando la sua cortesia per un approccio, insiste perché si scambino i numeri di telefono. Poco dopo lo chiama e lui, per timidezza, non sa sottrarsi ad un appuntamento, che però si rileva molto piacevole: hanno scoperto di avere molte cose in comune. Qualche tempo dopo, lei lo invita a casa e si fa trovare nuda; di nuovo lui è in imbarazzo ma il sesso fra loro si rivela fantastico e decidono di mettersi insieme.  Al lavoro le cose vanno benissimo: Avery e Lilly apprezzano la sua competenza in fatto di donne medie e la promuovono sul campo, portandola in giro per l’America. Ad uno di questi viaggi partecipa Grant, che va nella sua stanza d’albergo per corteggiarla; lusingata ma fedele, lei si rifugia in bagno e, quando fa per un uscire, dà una tremenda capocciata sulla porta della doccia. Si rialza intontita e, guardandosi allo specchio, si vede di nuovo come è sempre stata. Disperata, scappa via e, dopo essere stata respinta dalle amiche ancora offese, si chiude in casa a bere e a mangiare schifezze. Dopo varie telefonate a vuoto, Ethan le strappa appuntamento a cena ma, una volta arrivata, lei – convinta che lui non possa riconoscerla nel suo reale aspetto – finge di essere un’altra, lasciandolo si stucco. Un giorno torna alla palestra e trova Mallory in lacrime: è stata lasciata brutalmente da fidanzato e, finalmente, Renee capisce che l’aspetto esteriore non è poi così importante e, dopo essere corsa da Ethan e aver fatto pace con Vivian e Jane, aiutata da Mason, interviene nella manifestazione di presentazione della nuova linea di cosmetici della Leclair e conquista tutti.

Amy Schumer – e con lei, Melissa McCarthy, Sarah Silverman, Kisten Wiig (il suo pompino mimato in Le amiche della sposa è da tempo virale), Rebel Wilson) – è la prova di quanto sia indispensabile alla comicità (e non solo) la scorrettezza politica. Non è che lei – e i suoi autori – siano dotati di un coraggio leonino; non a caso, parlando del suo primo film, Un disastro di ragazza, l’avevo paragonata ad un Doris Day un po’ sboccata; è, anzi, evidente lo sforzo di puntare ad un audience ampia; il suo secondo titolo, ad esempio, quello riuscito peggio artisticamente ed economicamente (secondo tradizione: dopo un successo, il secondo film lo sbagliano quasi tutti, con l’eccezione di Zalone), Fottute è un tentativo di   action comico. Il meglio la Schumer, come quasi tutti gli stand up comedians lo dà in sala o in televisione, più libere e aperte del grande schermo, tant’è vero che ha avuto, in passato, qualche problema per una battuta – azzeccata ma pesantuccia – sui messicani. In Come ti divento bella (il titolo originale riprende, ironicamente la canzone gorgheggiata da Natalie Wood in West Side Story) si intravede la strada che ha scelto di imboccare: quella di un Jerry Lewis al femminile che fa forza sui propri limiti e che, grazie ad una grande volontà, arriva al successo. E’ questo il tema di fondo de Le folli notti del dottor Jerryl, del Balio asciutto, del Delinquente delicato (per citare i titoli più significativi. Alla pur brava Amy manca una regia adeguata (qui in un paio di scene si usano i suoi primi piani come nel programma Inside Amy): quanto è stato importante Norman Taurog (grande regista multiuso: è stato anche l’artefice del successo al cinema di Elvis Presley) nella formazione anche regista di Jerry Lewis!? Tra i pregi del film c’è senz’altro – anche questo in aderenza con le modalità produttive dei film di Lewis – una bella presenza di comprimarie: dalle auto-ironiche top model (Naomi Campbell e Emily Ratajkowski in testa), ad un inedita Michelle Williams, all’iconica Lauren Hutton fino alle comiche emergenti Aidy Bryant e Budy Pilipps. Il film ha incassato bene in casa (89 milioni di $) e si sta muovendo bene all’estero: è (quasi) nata una stella. E in Italia? Aspettiamo di vedere la prima prova di Velia Lalli (la migliore tra le nostre comedian di quella scuola).

 

 




Shark – Il primo squalo (The Meg)

di Jon Turteltaub. Con Jason StathamBingbing LiRainn WilsonRuby RoseWinston Chao USA – CINA  2018

Un modernissimo batiscafo con a bordo Jaxx (Rose) e i suoi uomini – DJ (Page Kennedy), The Wall (Olafur Darri Olafson) e Toshi (Masi Oka) – scende nel Pacifico, vicino alle coste cinesi, per convalidare la teoria del dottor Zhang (Chao), secondo cui quelle acque sarebbero più profonde del Fosso delle Marianne. Quando però la navicella arriva a toccare il fondo, qualcosa la urta non consentendone il rientro, mentre i suoi occupanti hanno solo poco tempo di autonomia di ossigeno. Nella nave-laboratorio che guida la missione nasce una discussione su come intervenire: il ricercatore Mac (Cliff Curtis) propone di rivolgersi al suo amico Jonas Taylor – specialista di fondali marini ed ex-marito di Jaxx – ma il dottor Heller (Robert Taylor) è contrarissimo perché, a suo dire per vigliaccheria, in una precedente operazione di salvataggio assai simile, non aveva portato indietro tutti i dispersi ed inoltre, proprio in seguito al trauma per quell’episodio, si era messo a bere, vivendo alla giornata in Thailandia. Mac convince Morris (Wilson), il finanziatore dell’operazione, che Jonas è l’unico in grado di portare a termine una missione così rischiosa. Jonas all’inizio non intende ragioni: nell’ultima missione ha visto qualcosa di mostruoso che lo aveva costretto a salvare solo una parte delle persone ma tutti lo credono vigliacco e alcolizzato; quando, però, apprende che nel batiscafo c’è la sua ex-moglie accetta l’incarico. Quando scende in mare vede che un enorme squalo è in agguato sul fondo; riesce ad agganciare il batiscafo e a salvare solo tre degli occupanti mentre Toshi, consapevole dell’impossibilità di sbarcare tutti nella navicella di Jason, si sacrifica. A bordo Suyin (Li), la scienziata figlia di Zhang, lo aggredisce, incolpandolo della morte dello scienziato giapponese ma gli altri testimoni le chiariscono l’accaduto e lei va a scusarsi nella sua cabina, trovandolo nudo (e la cosa non sembra dispiacerle).  Poco dopo sua figlia Meying (Shuya Sophia Cai), giocando in una galleria della nave, viene aggredita dal mostro che lascia i segni dei denti sulle pareti trasparenti del cunicolo e a questo punto tutti decidono di andare a catturare il bestione. La prima spedizione sembra avere successo ma quando issano sulla nave il gigantesco corpo un altro megalodonte li attacca: quello che avevano ucciso era la femmina di una coppia. A questo punto, con la nave distrutta, i superstiti decidono di rientrare e Morris si impegna a chiamare le autorità portuali cinesi perché distruggano il mostro ma, invece, all’insaputa degli altri, si fa portare in elicottero sopra il tratto di mare nel quale compare lo squalo e getta varie cariche esplosive; tutto quello che ottiene è di uccidere una balena e di essere divorato dal megalodonte. Ora il mostro si dirige verso una spiaggia affollatissima di bagnanti e Jason, mentre Suyin lo distrae con urla registrate di delfini, lo abbatte definitivamente.

 

https://www.youtube.com/watch?v=iFouH6p5sCc

 

Non ci sarebbero particolari ragioni per dilungarsi su questo film se non fosse l’assoluto campione di incassi di questo scorcio di stagione. L’argomento non è certo nuovissimo: oltre al fortunatissimo Lo squalo (1975) di Spielberg, capofila di una serie di sequel anche apocrifi (compreso Il cacciatore di squali – 1979 – del grande Castellari), ricordiamo Quattro bastardi per un posto all’inferno (1969), pasticcio a budget bassissimo dell’altrimenti geniale Samuel Fuller, l’assurdo Sharknado (2013) con gli squali che fanno scempio di passanti nelle strade di New York, mentre nel 1999 in Blu profondo gli squali si ribellano ad essere usati per esperimenti contro l’Alzheimer (!), il successo del film a basso budget Open water (2003) – coppia dispersa in mare in balia degli squali – ha creato due mediocri sequel (Alla deriva – Adrift del 2003 e Open water 3 – Cage drive del 2017) e un clone come Paradise beach – Dentro l’incubo del 2013. I megalodonti poi hanno una loro library: si va da Mega Shark vs/ Giant Octopus (2009), filmetto di serie B con la cantante Debbie Gibson e lo specialista di action Lorenzo Lamas al suo sequel Mega Shark vs/ Crocosaurus fino a Megalodon del 2014. Certo, a parte il film di Spielberg, abbiamo elencato prodotti a basso-bassissimo budget mentre Shark – Il primo squalo è costato 150 milioni di $, Turtletaub è un regista di buon mestiere (Intinct, Il mistero dei templari, L’apprendista stregone), la sceneggiatura è basata sul libro dell’autore di best-seller Steve Alten e Stathman è un garanzia di azione ed ironia ma il successo del film sembra essere soprattutto nel fatto di essere una coproduzione con il fiorentissimo mercato cinese; questo non solo garantisce fortissimi incassi in Cina ma anche impone un prodotto, da un lato, di alto valore produttivo e, dall’altro, un racconto estremamente semplice ed essenziale negli snodi psicologici; questa sembra essere la chiave: mentre, ridicolmente, abbiamo letto contestazioni sulla credibilità scientifica (sic!) del plot, il pubblico se ne frega e si diverte senza problemi a vedere Strathman abbattere, quasi a cazzotti, il mostraccione preistorico. Come nel buon cinema di una volta (quello che affascinava Nando Moriconi e i suoi amici in Un giorno in pretura: “Americà, facce Tarzan!”).

 




Le Guerre Horrende

di Giulia BrazzaleLuca Immesi. Con Cosimo CinieriDésirée GiorgettiDario LeoneLivio PacellaMilton Welsh Italia 2018

In un bosco Scudiero (Giorgetti) bussa al carrozzone da circo dove dorme Capitano (Pacella), che si sveglia imprecando perché non è riuscito, nel sogno che capiamo essere ricorrente, a rompere la testa ad un nemico. I due si apprestano a dare, come ogni mattina, una rappresentazione agli animaletti del bosco, raccontando la tremenda guerra tra le mosche della città di Merdia, guidate dal re Moschide, contro le formiche della regina Formicuzza. Intanto arriva con un paracadute Soldato (Leone) e Capitano lo prende alle spalle e lo colpisce alla testa con una pietra, facendolo svenire. Scudiero, che è affascinato dal giovane sconosciuto, gli presta le prime cure e lo porta nei pressi del carrozzone, nonostante le proteste dell’altro. Dopo poco Capitano racconta, come sempre, i suoi ricordi di guerra – la Grande Guerra – e del Generale (Cosimo Cinieri) che mandava a morire i suoi soldati con fanatica noncuranza. Nel racconto, lui si identifica nella madre, vedova di guerra sconvolta dal dolore e costringe gli altri due ad accompagnare come prefiche i lamenti della donna. Poco dopo il racconto, sempre con lui protagonista, si sposta nella Seconda Guerra e lo vede partire con i partigiani, avendo lasciato l’amata Maria che gli aveva promesso di aspettarlo. Ora è con due compagni, il disincantato Lupo (Simone Longo) e un ragazzo (Fabio Benetti); in uno scontro a fuoco con i tedeschi guidati dal Maggiore Mayer (Welsh) il giovane muore e l’ufficiale ordina di uccidere 30 italiani (10 per ogni militare morto ucciso dai tre partigiani). E’ notte e Soldato decide di scappare dal bosco, seguito di lì a poco da Scudiero; non trova, però, la via d’uscita ma solo un balilla (Giovanni Calapai) che lo porta per mano in una radura dove stanno il Generale ed altri morti nelle guerre. Poco dopo si materializza un altro ricordo: Soldato, in divisa da milite fascista sposa Maria (Giorgetti) ma, quando durante il pranzo di nozze, lei va nella sua stanza a frugare tra i propri ricordi, lui la sorprende con le lettere d’amore di Capitano e le fa una scenata. L’indomani Soldato, convinto che nel carrozzone sia nascosta la mappa per uscire dal bosco, vi entra e porta via una scatola di metallo che però contiene solo delle lettere, una pistola ed un vestito da donna, Scudiero prende il vestito e se lo mette, rivelandosi – anche a sé stessa –  come Maria. Arriva Capitano e racconta di come, tornato dalla guerra civile, si fosse precipitato da Maria – che aveva indosso proprio quel vestito – e avendola trovata sposata, avesse spaccato la testa con una pietra a Soldato, e poi sparato a Maria e a sé stesso.

Dopo l’intenso e magico Ritual la Esperimentocinema di Brazzale ed Immesi si avventura in un nuovo progetto di grande visionarietà e coraggio. Partendo dal testo teatrale del veneto Pino Costalunga, Le guerre orrende  ricco di riferimenti colti, con citazioni di Ruzante e Folengo, Govoni, la Batracomiomachia attribuito ad Omero e ripresa da Leopardi, Apollinaire – i due autori, con l’aggiunta di un’acca ad Orrende, come da lezione machiavellica, hanno dato il loro senso – in questo riconducibile a Jodorowsky, che in Ritual era fisicamente e autoralmente presente – di un film non tanto e non solo pacifista ma portatore di un segnale (artistico e stilistico) di pacificazione:  non si esce dall’(h)orrenda guerra che è in noi, negandola ma accettandola, né si può realmente raccontarla senza trasfigurarla in arte. Le guerre horrende non è solo questo: è un bel film con una regia solida e matura e, per molti aspetti, richiama le splendide realizzazione del Carmelo Bene cineasta, un Bene ammorbidito, ammodernato (pacificato appunto) ma con una capacità di trasformare materiali poveri (anche se la produzione conferma la capacità di reperire tutto ciò che serve con i mezzi a disposizione) in perfetta attrezzeria; così come sono notevoli sul piano artistico le capacità di agire su più piani; per esemplificare: il ferino personaggio della prostituta Celestina (Francesca Trincia) è certamente memore della Saraghina di Fellini ma è anche – sin dal nome – parente della meretrice cinquecentesca di Fernando de Rojas. Una citazione merita il bel passaggio dal colore al bianco e nero dei ricordi del Direttore della Fotografia Ivo Lucchin. Il pregio maggiore del film è però nei tre bravissimi protagonisti, Livio Pacella, Dario Leone e Désirée Giorgetti; lei, in particolare, si conferma come uno dei talenti più veri e forti di queste ultime stagioni, un’attrice nata che vorremmo continuare a vedere sullo schermo, dove, spesso, ci dobbiamo accontentare di scialbe e ripetitive performance.