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Baby Driver – Il genio della fuga (Baby Driver)

di  Edgar Wright. Con Ansel ElgortKevin SpaceyLily JamesEiza GonzalezJon Hamm USA 2017

Baby (Elgort) è in macchina con 3 gangster: il duro Griff (Jon Bernthal) e gli innamorati cocainomani Buddy (Hamm) e Darling (Gonzalez). I tre mascherati ed armati rapinano una banca e lui, con le cuffie eternamente alle orecchie, elude, a ritmo di Bellbottoms di Jon Spencer, con abilità prodigiosa tutte le auto della polizia che li inseguono. Nella fuga cambiano auto e Griff dimentica il fucile nella macchina che lasciano per strada. Arrivano al covo del loro capo Doc (Spacey) e si spartiscono in parti uguali i soldi ma quando scendono in garage, Doc, dopo avergli ordinato di portare allo sfascio la macchina dal cui portabagagli spunta il cadavere di Griff (che ha pagato per la sua pericolosa distrazione), si riprende la sua parte del bottino, tranne un mazzetto di banconote, comunicandogli che con il colpo successivo avrà saldato il debito – qualche anno prima, ancora ragazzetto, aveva rubato la macchina di Doc (ignorando chi fosse il proprietario e che contenesse un prezioso quantitativo di droga) e ora ripaga il danno facendo da autista nelle rapine che questi organizza. A casa Joseph (C.J. Jones) il vecchio sordomuto che lo aveva adottato quando, bambino (Hudson Meek), era stato coinvolto in un incidente nel quale i suoi genitori (Sky Ferreira e Lance Palmer) avevano perso la vita e a lui era venuto un costante fischio all’orecchio che solo la musica in cuffia riesce ad attutire. Joseph sa che lui corre dei pericoli ed è preoccupato ma Baby lo tranquillizza e va allo snack bar dove la mamma serviva ai tavoli e cantava. Qui incontra Debora (James), la nuova cameriera e se ne innamora ricambiato. Doc lo chiama per il nuovo colpo: dovrà accompagnare lo sciroccato Eddie (Flea), l’asiatico J.D. (Lanny Joon) e il rabbioso Bats (Jamie Foxx) ad una rapina ad un portavalori. Anche stavolta la sua guida li porta in salvo – lui ha anche deviato, sterzando, il colpo con cui Bats stava per uccidere un inseguitore. Doc gli conferma che ora il suo debito è saldato e lui, felice, telefona a Debora per invitarla a cena in un ristorante di classe; alla fine della cena, il cameriere (D.L. Lewis) comunica che il conto è stato saldato da Doc; preoccupato Baby lo raggiunge e il boss, minacciando ritorsioni su di lui, Debora e Joseph, lo costringe a ritornare a lavorare per lui. L’indomani vanno di fronte all’ufficio postale che Doc vuole rapinare dove, facendolo accompagnare dal nipotino Samm (Brogan Hall) per non destare sospetti, lo spedisce a valutarne le difese. Grazie anche all’aiuto di una gentile ed ignara impiegata (Allison King), Baby ha tutte le notizie che servono. Baby e i tre rapinatori – Bats, Budd e Darling – vanno dal Macellaio (Paul Williams) a ritirare le armi per il colpo ma Bats si accorge che i suoi uomini sono poliziotti e, insieme agli altri, ammazza tutti. Dopo essersi fermati a bere una Coca Cola nel locale dove lavora Debora (e qui, nonostante gli sforzi di Baby per dare a vedere di non conoscere l’esterrefatta ragazza, gli altri capiscono tutto), ritornano da Doc che arrabbiatissimo (gli uomini del Macellaio erano agenti corrotti da lui), vorrebbe far saltare tutto ma si convince a proseguire a patto che loro quattro dormano lì. Baby prova a scappare per fuggire con Debora ma Bats e Buddy lo bloccano. L’indomani mattina il colpo riesce ma al momento della fuga si frappongono vari intoppi e Bats spara ad un vigilante (Joe Loya), mentre Baby riesce a fermare la gentile impiegata che stava tornando al lavoro. Nella fuga a piedi (la macchina è sotto il tiro della polizia) Darling viene uccisa e Buddy, folle di dolore, fa una strage di polizotti. Muore anche Bats e Baby – che è riuscito a fuggire con la macchina di una anziana signora (Andrea Frye), alla quale restituisce, prima di sgommare, la borsetta – prima va a prendere Joseph e, lasciandogli tutti i soldi dei precedenti colpi, lo porta in una casa di riposo e poi va da Doc al quale chiede aiuto. Il boss, che in qualche modo gli si era affezionato, gli dà una macchina e una pistola ma, ferito e feroce, arriva Buddy che lo uccide. Baby riesce a scappare con Debora ma Buddy li segue ovunque, fino allo scontro finale. I due innamorati partono ma sulla strada un posto di blocco li ferma. Baby, per non coinvolgere Debora, ferma la macchina e si arrende. Al processo le testimonianze di Joseph, dell’impiegata delle poste e della proprietaria della macchina gli faranno avere una condanna relativamente lieve.

L’uscita di Bullitt di Peter Yates nel 1968 ha segnato una forte svolta nel poliziesco, instaurando una escalation di rocamboleschi inseguimenti in macchina, fino all’apoteosi dei Fast and Furious. In qualche modo anche il nostro poliziottesco ha avuto un percorso parallelo: nei primi anni ’70 i nostri registi di genere, quelli amati da Tarantino, hanno supplito alla mancanza di mezzi con geniali espedienti artigianali (nel suo godibile libro Il bianco spara Enzo G. Castellati ne elenca alcuni) e con degli stunt-men espertissimi e spericolati ma poi, le costosissime tecnologie americane hanno reso impossibile la realizzazione di action italiani. L’eclettico Edgar Wright (va dall’horror demenziale – L’alba dei morti dementi e il corto Don’t, finto trailer in Grindhouse di Tarantino e Rodriguez – alla commedia – Hot Fuzz– e al film per ragazzi – la trilogia Scott Pilgrim)  aveva già, realizzando il video di Blue Song dei Mint Royale, immaginato un autista-rapinatore musicomane e qui dà al suo protagonista una sorta di autismo: è bravissimo alla guida e, apparentemente, assente di fronte al mondo e gira tutte le scene in cui lui appare, in macchina o a piedi, virandole sulle canzoni che lui ascolta in cuffia. Le compilation nei suoi i-pad sono più che una colonna, sono una parte vitale del racconto: il citato Bellbottoms , Brighton rock dei Queen, Knocking on heaven’s door dei Guns n’ Roses, Let’s go away for a while dei Beach Boys e Harlem shuffle di Bob and Earl, tra gli altri, danno il tempo delle fughe in macchina, Tequila dei Bottom Down Brass, sottolinea la sparatoria dal Macellaio e i due innamorati si dedicano, rispettivamente, Debra dei Commodores , Debora dei T.Rex ,  Baby I’m yours di Barbara Lewis e Baby Driver di Simon and Garfunkel. Forse è poco più che una trovata ma l’impianto musica-azione, non certo nuovo, in questa chiave funziona benissimo e il film è una delle rare sorprese al botteghino americano di questa non eccelsa stagione.

 




7 Giorni

di Rolando Colla. Con Bruno TodeschiniAlessia BarelaGianfelice ImparatoAurora QuattrocchiMarc Barbé Italia, Svizzera 2016

Lo svizzero Colla non è un regista facilissimo. Non lo sono i suoi film che talora peccano di didascalismo (Oltre il confine), talaltra (Giochi d’estate) di sovraffollamento di personaggi e situazioni e – soprattutto, sin dall’esordio con Una vita alla rovescia – di astrattezza intellettualistica. Non è sempre agevole, inoltre, lavorare con lui: rigoroso al limite del maniacale, quasi incontentabile tanto da aver messo su una sua società di produzione – la Peackok – per essere sicuro di poter girare con la massima libertà. E’ però un regista vero e la sua capacità di girare e di raccontare con la macchina da presa è innegabile. 7 giorni è, in qualche modo, una vera svolta nella sua cinematografia: il tema della difficoltà di dichiarare ed accettare i sentimenti – molto centrale nella sua narrativa – qui esplode in un racconto molto più conchiuso e raccolto degli altri suoi film. L’erotismo delle scene d’amore – a differenza della freddezza, ad esempio, di Oltre il confine – rimanda una grande, rabbiosa, essenziale poeticità; cosi come le scarne scene subacquee (con i fiori finti che si depositano nel fondo) raccontano un mondo chiuso, povero ma non disperato. Anche alcuni limiti didascalici del racconto (gli abitanti dell’isola tutti buoni e generosi, il figlio piccolo teneramente down di Giuseppina, un incongruo pugno chiuso con il quale Ivan saluta il fratello), diventano accessori retorici accettabilissimi in un contesto di gran respiro.  Certamente il risultato è dovuto alla sua determinazione autorale (ha preteso che gli attori e la troupe rimanessero nell’isola – nella quale ha girato anche gli interni – senza confort, per tutto il periodo delle riprese più quattro settimane di prove), alla sua grande attenzione nella costruzione del cast, che vede attori professionisti (come la splendida Quattrocchi) e veri isolani ma anche alla saggezza produttiva della Solaria di Emanuele Nespeca (coproduttore) e della Movimento (produttore di Mario Mazzarotto (produttore esecutivo e anche distributore per l’Italia). Un film – è banale dirlo – è sempre un’opera collettiva e una seria capacità produttiva è importante e creativa quanto la scrittura e la regia. Queste considerazioni mi suggeriscono un’associazione di idee: la nuova legge sul cinema potrebbe, se non accompagnata da importanti correttivi nella stesura dei decreti applicativi, mortificare il tessuto artigianali di chi fa il cinema con capacità professionale. Speriamo proprio che non sia così.

Ivan (Todeschini) e Chiara (Barela) sbarcano nella piccola isola siciliana di Levanzo; lui è il fratello di Richard (Barbè) e lei la migliore amica di Francesca (Linda Olsansky), due ex-tossicodipendenti che si vogliono sposare lì perché la visone di una coppia di sposi sul faro dell’isola aveva dato a Richard la forza per uscire una prima volta dalla droga. Ivan e Chiara, che si sono presi l’incarico di preparare l’occorrente per le nozze in 7 giorni, vanno nell’unico albergo, ormai in disarmo, gestito da Giuseppina (Quattrocchi) per predisporre il pranzo e le camere degli ospiti. Lui è un botanico e lei una costumista teatrale – sarà lei a preparare il vestito di Francesca – e il loro incontro è molto poco cordiale; Ivan è scortese, scorbutico e polemico con l’idea di metter in piedi la cerimonia in quella terra quasi deserta e, apparentemente, senza nulla. Oltretutto, bisognerà anche rendere agibile il faro dove la coppia vuole passare la prima notte di nozze e quando lo vanno a visitare, accompagnati dal figlio di Giuseppina, Luigi (Fabrizio Pizzuto), lo trovano in completa rovina e, di nuovo, litigano aspramente. Cominciano, comunque, a darsi da fare e, mano a mano che lavorano, a provare una forte, reciproca attrazione. Prima di fare all’amore, però, lui le detta una condizione: passati i 7 giorni non si vedranno più, perché, lui dice, il tempo uccide l’amore. Lei ci pensa un po’ e poi accetta ma un scatto di rabbia di lui verso un negozio chiuso la fa fuggire via. Dopo poco però lei, dopo un primo approccio interrotto dalla donna delle pulizie, si fa trovare nuda nel suo letto e incomincia tra i due una storia di grande partecipazione sessuale tanto che Ivan le chiede di non tener conto del loro accordo e di stare insieme più a lungo. Ora è lei a rifiutare: ha una figlia ed un compagno, Stefano (Imparato), che forse non ama più ma al quale deve molto perché la ha salvata in un periodo difficile. Questo rifiuto – e la sofferenza che gli causa – mette Ivan di fronte alla propria incapacità di vivere l’amore, come confessa in una disperata telefonata alla sua ex Gertrud (Catriona Guggenbuhl) ma comunque lui e Chiara continuano ad alternare grandi momenti di passione erotica e malumori. Il giorno delle nozze tutto è pronto – ci sono anche musicisti e coristi ad accompagnare il pranzo di nozze con canti tradizionali – e, oltre agli sposi, arrivano i genitori di Ivan e Richard (Armen Godel e Laurence Montandon), gli ex-tossici del centro di riabilitazione nel quale Richard e Francesca si sono conosciuti e Stefano, che rapidamente intuisce l’intesa tra la compagna ed Ivan. Al pranzo tutti sono felici tranne Ivan che dovrà dire addio all’amore. La sera lui si appresta a partire con la barca che porta i musicisti a Trapani e Chiara si offre di seguirlo fino alla barca (lei però gli starà dietro e lui non dovrà voltarsi). Lui sale sull’imbarcazione e….




Transformers – L’ultimo cavaliere (Transformers: The Last Knight)

I giocattoli della Hasbro ne hanno fatta di strada dal 1984: sono da subito un cartoon, nel 1992 diventano un fumetto della Marvel, dal 1990 al 2000 sono – solo per i giapponesi – un manga, dal 2002 sono protagonisti di videogames di grade successo editati dalla Dreamwave e, successivamente, dalla IDW; dai videogames Steven Spielberg e la Universal hanno tratto nel 2007 il primo film della serie diretto, come tutti i successivi dal solidissimo Michael Bay (The Rock, Armageddon, Pearl Harbor). Ora siamo al quinto capitolo e gli alieni-macchina, che hanno fatto e visto di tutto, diventano un pezzo di Storia: combattono (con qualche anacronismo: il mito di Artù è collocato in po’ dopo il 484) al fianco dei Cavalieri della Tavola Rotonda, decidono, con una sortita nel quartier generale di Hitler, delle sorti della Seconda Guerra e sono alla base del mistero di Stonehedge. Gli autori, consapevoli dell’appesantimento che questa svolta dà alla storia, hanno accentuato le parti comiche, negli altri film affidate, principalmente, ai battibecchi tra i Transfomers soldatacci (Hound in testa): le gag del manierato Cogman che ad un certo punto viene chiamato da Cade: “Jeeves” (dal nome del celebre maggiordomo creato da Wodehouse ) e, soprattutto, una serie di doppi sensi tra Cade e Vivian; questi divengono addirittura vaudeville nella scena in cui la madre  (Sara Stewart), la nonna (Maggie Steed) e le zie (Phoebe Nicholls e Rebecca Front) della ragazza equivocano, eccitatissime, le esclamazioni dei due mentre cercano indizi nella stanza del padre (“Tiralo fuori!”, “Deve essere più duro!”). Anche questo è però un segno di stanchezza della serie che non sta producendo incassi incoraggianti (anche se, come il precedente, può sperare nel ricchissimo mercato cinese). Come sempre mi fa piacere constatare l’ottima resa del non facile adattamento e del doppiaggio, curati dal mago Carlo Cosolo. Non è forse un caso che, nonostante la difficoltà stagionale, in Italia il film stia reggendo bene.

 

 

 di Michael Bay. Con Mark WahlbergAnthony HopkinsLaura HaddockJohn TurturroStanley Tucci USA 2017

E’ il 484 e re Artù (Liam Carrigan), insieme a Lancillotto (Martin McCreadie) e ai suoi uomini sta strenuamente combattendo contro un esercito molto più numeroso del suo e aspetta Merlino (Tucci) che gli ha promesso di arrivare con un’arma potentissima; il mago, intanto, ubriaco fradicio è all’ingresso di una grotta e prega qualcuno di venire ad aiutarlo; ecco che arriva, in forma di drago meccanico, un Transformer/Drago che distrugge i nemici del re. Ora siamo in tempi moderni e l’America ha dichiarato fuorilegge i Transformers (sia i buoni Autobot che i perfidi Decepticon), creando un corpo speciale, il TFR, che li combatte e li tiene prigionieri in speciali recinti; in uno di questi, gestito dal capo del TFR, il colonnello William Lennox (Josh Duhamel), penetrano, curiosi, quattro bambini (Benjamin Flores jr.,Juliuscesar Chavez, Samuel Parker e Daniel Iturriaga); i militari li scoprono e del parapiglia che ne segue approfitta Izabella (Isabela Moner), un’orfana che vive in quel campo in compagnia di alcuni Autobot, per cercare di far scappare Bumblebee (voci: Eric Aadahl/Saverio Indrio) e il piccolo Topspin, un Transformer/Vespa Piaggio; gli uomini di Lennox li bloccano ma arriva Cade Yeager (Wahlberg), l’amico e protettore degli Autobot, con Hound (voci: John Goodman/Francesco Pannofino) e Drift (voci: Ken Watanabe/Andrea Lavagnino) e li salva. Giunto al suo deposito di auto, nel quale, aiutato dal recalcitrante assistente Jimmy (Jerrod Carmichael), nasconde e cura gli Autobot, con l’aiuto di Izabela rimette in sesto Bumblebee e la ragazzina ottiene il premesso di rimanere lì con lui ma, poco dopo, l’arrivo delle truppe del TFR li costringe a scappare. Intanto Optimus Prime (voci: Peter Cullen/Alessandro Rossi) è su Cyberthrone, un pianeta che si sta sfaldando e che lui pensa essere la sua patria, e la Trasfomer-Medusa Quintessa (Gemma Chen) lo convince che, solo distruggendo la Terra, che ne avrebbe provocato la rovina, il pianeta potrà risorgere. Lui rapisce due agenti della CIA e, per rilasciarli, chiede ed ottiene la liberazione di Megatron (voci: Frank Welker/Luca Biagini) e di altri pericolosi Decepticon; con il loro aiuto Quintessa spera di poter trovare il bastone di Merlino e, grazie alla sua potenza, di far sparire la Terra. Cade viene, intanto, prelevato dal Trasformer Cogman (voci: Jim Carter/Paolo Marchese) – un maggiordomo inglese pieno di sussiego e di manie – che lo porta al castello del suo padrone, sir Edward Burton (Hopkins). Qui c’è anche la giovane Professoressa di Storia Inglese Vivian Wembley (Haddock), il cui padre (Stephen Hogan) era stato un’autorità negli studi del mito di re Artù. Il lord spiga loro che il mondo è in pericolo e che solo loro (lui perché un Transformer morente gli aveva dato il talismano che lo indicava come l’ultimo Cavaliere della Tavola Rotonda e lei in quanto ultima erede del mago Merlino) possono salvare il mondo trovando il bastone del mago. Poco dopo da Cuba arriva al Pari una telefonata dell’ex-agente Simmons (Turturro), che si sta godendo lì con alcuni Transformers rifugiati i proventi del suo libro, che in cambio della nomina a baronetto rivela il luogo ove trovare la chiave del rapporto tra la Terra e Cyberthrone. Cade e Vivian – che sono un po’ cane e gatto ma anche molto attratti reciprocamente- e, guidati da Burton, si impadroniscono di un sommergibile   con il quale insieme a Cogman, scendono verso le coordinate che hanno trovate tra le carte del padre di lei, inseguiti da Lennox. Arrivano alla tomba di Merlino ma, appena prendono il bastone, Otimus Prime e i suoi li raggiungono e portano via l’arma. Quintessa ha già mosso i resti di Cyberthrone contro la Terra, che sta per essere distrutta e il generale Morshower (Glenn Morshower), il capo della difesa, è indeciso tra le indicazioni misticheggianti di Lennox (che ha deciso di fidarsi di Cade e Vivian) e i suggerimenti del fisico della Nasa (Tony Hale), che propone di usare una quantità enorme di energia nucleare. I nostri (anche sir Burton che viene ucciso dai Transformers) sono intanto arrivati ai dolmen di Stonehedge, indicati dalle profezie, quale luogo dell’impatto definitivo e qui Optimus Prime si scontra con Cade ma, quando sta per ucciderlo, si rende conto di essere stato raggirato da Quintessa e si rimette a capo degli Autobot.  Nella battaglia finale – nella quale Izabela e Topspin sono eroicamente decisivi – Vivian e Cade riescono a strappare il bastone alla Medusa e ad annientarla, salvando la Terra.

 

 




Lady Macbeth

Lady Macbeth del distretto di Mcensk è un romanzo scritto nel 1865 da Nicolaj Leskov e pubblicato quello stesso anno dalla rivista Epoch, diretta da Dostoeskij, che era un grande ammiratore dello scrittore. Nel 1934 Shostakovich ne trasse un’opera lirica, che il regime comunista bloccò (lo stesso Stalin scrisse di suo pugno un attacco contro la musica del compositore, considerata troppo “occidentalmente” moderna). Nel 1961 il regista polacco Andrzej Wajda ne trasse il film Lady Macbeth siberiana, trasposizione assai fedele del racconto originale. Oldroyd è un famoso regista teatrale inglese e dirige il prestigioso London’s Young Vic Theatre e per, questo suo primo lungometraggio ha usato, come sceneggiatrice, la brillante autrice di teatro Alice Birch, che ne ha modificato non solo l’ambientazione ma anche il finale: nel romanzo i due amanti vengono deportati in Siberia e lì lui la tradirà con un’altra reclusa. Nel film si avvertono anche echi di tragiche eroine della letteratura e del cinema francese: Madame Bovary, certamente, ma anche la Therese Desqueyroux di Francois Mauriac; in particolare Il delitto di Therese Desqueyroux di Franju del 1962 sembra aver suggerito l’atmosfera di rarefatta cupezza che si respira nel film. Lady Macbeth è certamente un’opera interessante ma non riesce a riscattarsi del tutto dall’imprinting teatrale dei suoi autori. Sono perfetti i costumi di Holly Weddington, gli attori (tutti poco noti) sono, a partire dalla bravissima Florence Pugh – che recita con tutto il corpo (il suo sedere offerto all’onanismo del marito è già un racconto di frustrazione) – sono perfettamente in parte e ottimamente diretti ma il racconto è, talora, più emblematico che scorrevole, più un insieme di belle scene che uno snodarsi di vicende conseguenti. Nel complesso, però, è un film che merita di essere visto ed una regia dalla quale si possono aspettare ottime cose.

di William Oldroyd. Con Florence PughCosmo JarvisPaul HiltonNaomi AckieChristopher Fairbank Gran Bretagna 2016

Inghilterra del nord, fine ‘800. La giovane Katherine (Pugh) va sposa al possidente Alexander (Hilton) e la prima notte di nozze, lui, dopo averle ordinato di spogliarsi, si caccia a letto lasciandola in piedi nuda e impietrita. E’ ben presto chiaro che in casa comanda il vecchio Boris (Fairbank), vero padre-padrone che tratta con disprezzo la nuora, rimproverandola di non ottemperare ai propri doveri coniugali; il realtà il sesso tra lei e il marito si riduce al suo stare in piedi nuda e con la faccia al muro, mentre lui si masturba furiosamente. Un giorno Alexander parte per un’incidente ad una miniera di proprietà della famiglia e il suocero continua a trattarla con disprezzo. Anche lui parte per affari e Katherine ha come unica compagnia la cameriera di colore Anna (Ackie), costantemente impaurita dalle durezze dei padroni. Un giorno Katherine sente dei rumori venire dalle stalle e sorprende Anna nuda, mentre lo stalliere Sebastian (Jarvis), insieme ad altri servitori la pesa per gioco con una rudimentale bilancia per maiali; lei ordina alla cameriera di andare a casa e agli uomini di riprendere il lavoro ma Sebastian le risponde sfacciatamente, prendendola in braccio. Poco dopo lui bussa alla porta della sua camera e, mentre lei lo sgrida aspramente, la abbraccia e, dopo poche resistenza della donna, i due fanno l’amore con violento trasporto. Ora sono amanti ma Boris torna e, avvertito dello scandalo – anche il Pastore (Cliff Burnett) aveva cercato di far ragionare Katherine ma era stato congedato con alterigia – prima cerca invano di far parlare la terrorizzata Anna, poi bastona selvaggiamente Sebastian e lo fa rinchiude in un fienile. Lei allora lo avvelena con i funghi e, sotto lo sguardo di Anna, lo chiude in una stanza a morire senza soccorsi. La povera serva, per lo shock diventa muta e lei corre a liberare il suo amato, leccandogli le ferite. I due adesso vivono apertamente insieme ma una notte torna Alexander e lei – dopo che Sebastian è uscito seminudo dalla stanza – lo riceve come se nulla fosse ma lui la insulta, dicendole che è divenuta “grassa e puzzolente” per aver aperto “le gambe e la fica” ad un estraneo ma, quando la minaccia di rinchiuderla per sempre in casa con un libro di preghiere, lei apre la porta e fa entrare il suo amante; i due uomini lottano e lei, armata di un pesante attizzatoio, spacca la testa al marito. Sebastian ne seppellisce il cadavere e lei spara al suo cavallo. Quando il marito scomparso è dato per morto, si presenta alla magione una donna di colore, Agnes (Golda Rosheuvel), con il nipotino Teddy (Anton Palmer) e documenti che comprovano che il bambino – la cui madre è morta da poco – è figlio di Alexander e che, quindi, è loro diritto vivere in quella casa. Katherine accetta, apparentemente di buon grado la situazione (con Teddy, che le si è subito legato, sembra esserci qualcosa di simile ad un affetto), mentre Sebastian, nuovamente relegato nelle stalle, è inferocito e quando lei cerca di comunicargli di aver scoperto di essere incinta non la fa nemmeno parlare. Un giorno lei lo vede passare e, per inseguirlo, spintona via il bambino che voleva giocare con lei. Il piccolo, angosciato, scappa nella brughiera e tutti gli abitanti del palazzo vanno a cercarlo. Lo trova Sebastian seduto su di una scogliera sopra una cascatella e lo spinge di sotto, per poi riportarlo a casa assiderato. Ad Agnes che lo veglia da ore, Katherine offre di sostituirla per lasciarla riposare un po’. La nonna accetta e lei, rimasta sola con il bambino, fa entrare Sebastian e, mentre lui lo tiene fermo, lo soffoca con un cuscino. Arrivano il detective Logan (Ian Conningham) ed il dottore (Bill Fellows) e questi rileva sul corpicino dei segni che comprovano i suoi tentativi di difendersi da un’aggressione. Sebastian, devastato dai sensi di colpa, confessa ed accusa Katherine anche degli altri due crimini ma lei ribalta le accuse contro di lui e la sua vecchia amante Anna, che non può parlare a propria discolpa; Agnes e gli altri le credono e lo stalliere e la serva sono condotti su di un carretto al carcere mentre lei allontana dal palazzo tutti e rimane lì sola come in una prigione.

 

 




Nessuno ci può giudicare vs. The Beatles: Sgt Pepper & Beyond

Nessuno ci può giudicare

di Steve Della Casa e Chiara Ronchini.  Italia 2016

vs.

The Beatles: Sgt Pepper & Beyond

di Alan G. Parker. Con Freda KellyPete BestRay ConnollyAndy PeeblesSimon Napier – Bell  Gran Bretagna 2017

Alla fine degli anni ’50 nacque in Italia il fenomeno degli “urlatori” (dall’inglese “shouter”, il termine con il quale venivano indicati i primi esecutori di Rhythm ‘n blues), cantanti che a piena voce cadenzavano i brani a ritmo terzinato, con evidenti influssi dal rock ’n roll. Arrivano al successo Tony Dallara, Betty Curtis, Mina, Jenny Luna e i rocker come Adriano Celentano, Little Tony, Ricky Gianco, Ghigo. Il cinema si interessò subito del fenomeno e così vennero fuori, ad opera del prolificissimo artigiano Lucio Fulci (divenuto poi uno dei grandi maestri dello splatter all’italiana: Quella villa accanto al cimitero, Lo squartatore di New York, Zombie 3, sono alcuni dei suoi titoli), due film corali con i più noti urlatori: I ragazzi del juke-box e Urlatori alla sbarra; a queste operazioni partecipava il giornalista, sceneggiatore e paroliere Piero Vivarelli, che firmò anche la regia del terzo film del filone: Io bacio, tu baci. Vivarelli è un curioso personaggio: ex-ragazzo repubblichino, poi fervente comunista (è stato l’unico italiano ad avere da Fidel Castro la tessera del partito Comunista Cubano) appare nel documentario con alcuni interventi, nei quali – in pieno godibilissimo stile cinematografaro e canzonettaro dell’epoca –  spiega di aver contribuito, con quelle opere, ad una rivoluzione di sinistra. Steve Della Casa lo prende, ironicamente ma affettuosamente, in parola e individua – attraverso preziose immagini di repertorio, commentate con il giornalista e P.R. Massimo Scarafoni, una imperdibile cavalcata che, tra canzoni, brani selezionati da alcuni film, immagini del Piper, dichiarazioni di Shel Shapiro, Rita Pavone, Gianni Pettenati, Tony Dallara, Ricky Gianco, Mal, Don Backy e Caterina Caselli e squarci del ’68 – un’ideale percorso tra quelle canzoni, quei film e le lotte studentesche della fine degli anni ’70. Steve Della Casa è il più geniale degli intellettuali di cinema italiani di questi anni – rimanendo all’ambito documentaristico, i suoi Uomini forti (sugli eroi del genere peplum) e I tarantiniani (sui registi italiani amati e citati da Quentin Tarantino) sono, contemporaneamente, tappe fondamentali nella costruzione di una storia del nostro cinema e film divertentissimi e colmi di ironia – e in questo film (complice il contributo della montatrice Chiara Ronchini, cui Steve fa firmare la co-regia) non si smentisce. Ci sono canzoni note: 24.000 baci e Ciao ti dirò di Celentano, Il Geghegè e Cuore di Rita Pavone, Non son degno di te di Gianni Morandi, Ma che colpa abbiamo noi dei Rokes, Yeeeeeeh! di Mal, Il cielo in una stanza di Mina, Bandiera gialla di Gianni Pettenati ma anche chicche imperdibili: Renato Zero giovanissimo e magrissimo che balla per Pettenati, il dimenticato Guidone che canta Ciao ti dirò e, soprattutto, il rocker Ghigo (che arrivò al successo con una scorrettissima Coccinella, dedicata a Coccinelle, il proto-trans francese divenuto di moda nei primi ’60), che alla maniera un po’ epilettica dei rocker post Presley, canta Jenny,Jenny. A chiosa del discorso vediamo, dal film Woodstock, Country Joe che incita la platea ad urlare contro la guerra in Vietnam e (in una sequenza che, da sola, vale il film) lo scrittore beat Gianni Milano recitare una sua poesia alla maniera di Ginsberg e Ferlinghetti. Insomma non è esattamente un film sui cosiddetti “musicarelli”( per questo aspettiamo ansiosi che Steve Della Casa ci metta mano, con la sua geniale e sapiente estrosità), infatti sono citati solo alcuni film (i due di Fulci, In ginocchio da te e Non son degno di te con Morandi, i due Zanzara della Wertmulller  e Rita, la figlia americana con Rita Pavone, I malamondo di Paolo Cavara per la canzone Sabato triste di Celantano, Io non protesto, io amo, Nessuno mi può giudicare e Perdono con Caterina Caselli, Pensiero d’amore con Mal e I ragazzi di Bandiera Gialla con Gianni Pettenati), funzionali all’idea di base: quando i giovani trovano una loro musica, non più mediata dai gusti degli adulti, comincia un cammino rivoluzionario.

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Pochi giorni prima usciva The Beatles: Sgt. Pepper and Beyond, presentato come un ideale sequel dello splendido Eight days a week di Ron Howard perché è incentrato sulla costruzione di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band, sull’incontro con il Maharishi e sulla morte di Brian Epstein. In realtà è un’accozzaglia di interviste, per lo più irrilenvantissime, con personaggi, spesso secondari: la segretaria di Epstein, Pete Best (il batterista sostituito da Ringo), che, pateticamente, cerca di entrare nella fotografia per aver donato un oggetto che è nella copertina del disco e un paio di critici, uno dei quali ripete più volte che Sgt. Pepper sarebbe stato assai migliore se vi avessero inserito Penny Lane e Strawberry fields forever (?!). Tutto questo senza neanche un brano delle musiche dei Beatles (oltretutto messo in giro al prezzo maggiorato di biglietto degli eventi speciali!).

Come non essere, una volta tanto, fieri della grande serietà, competenza e perfezione di confezione del film di Steve Della Casa e Chiara Ronchini?

 




Due uomini, quattro donne e una mucca depressa

Anna Di Francisca, dal suo film d’esordio (La bruttina stagionata) era apparsa come una delle autrici più interessanti del nostro cinema: era chiara la sua capacità di regia ma, soprattutto, appariva come uno dei pochi registi in grado di uscire dallo spazio chiuso del cinema nazionale: i suoi gusti da spettatrice – ma soprattutto il suo talento – sono chiaramente rivolti verso una platea più ampia, almeno europea. Questa vocazione appare non solo dalle scelte estetiche e di contenuto ma dalla capacità di organizzare il film e di governarne appieno il set. Due uomini, quattro donne e una mucca depressa sono la perfetta esemplificazione di questo assunto: il racconto di fondo non è la solita storia di cortile che continua a caratterizzare il cinema italiano (anche il migliore); l’ambientazione spagnola è un naturale portato del racconto e non un furbo espediente per rimediare soldi da un coproduttore; la sua capacità di coinvolgimento, le ha consentito di poter contare su di un cast di grandi nomi internazionali: il serbo-francese Manolovich (attore-simbolo del cinema di Kusturica), i divi spagnoli Verdù, Fernandez, Marull e, in un piccolo ruolo accettato per ammirazione per la regista, Antonio Resines. Anche il cast italiano segnala scelte non banali: da Marcorè che recita in perfetto spagnolo, all’affettuoso ed ironico recupero della Grandi, sino alla coraggiosa e vincente scelta di usare in un ruolo centrale Manuela Mandracchia, bravissima attrice teatrale, pochissimo usata dal nostro ambrangiolinicentrico cinema. Vale lo stesso discorso per il cast tecnico: la fotografia di Duccio Cimatti rende magico il paesino di Boicarent e il montaggio di Simona Paggi tiene il non facile tono di musical/non musical del film, che le belle musiche (in particolare la canzone della finale del coro, allegramente riassuntiva) e le orchestrazioni di Paolo Perna avevano sapientemente preparato. Il film, dopo un ottima accoglienza al Festival di Torino, esce solo ora, a causa di complesse vicende produttive e sarebbe un peccato perderlo.

di Anna Di Francisca. Con Predrag ‘Miki’ ManojlovicMaribel VerdúEduard FernándezLaia MarullAna Caterina Morariu Italia 2015

Il musicista Edoardo (Manojlovic) è in crisi: è stato lasciato dalla moglie, vede poco la figlia Alice (Marzia Bordi) e non ce la fa più – lui laicissimo ed anticlericale – a comporre musiche per fiction sulle vite dei santi. Dopo lo scontro con l’ennesimo produttore (A.F.) e un incontro con un vigile urbano/counselor psicologico (Massimo De Lorenzo) che lo blocca per una processione, decide di lasciare Roma e passare un periodo sabbatico dall’amico Emilio (Fernandez), ex-marito di una sua cugina ed ex-compagno di lotte sessantottine che ora vive in un grande podere a Boicarent, paesino della Valencia. Quando arriva alla villa trova solo la cameriera muta Irma (Serena Grandi) e la triste mucca Luisa. Lo trova in chiesa mentre sta provando con il coro della parrocchia, lo porta al bar e si stupisce del fatto che lui, mangiapreti e stonatissimo, canti in quel gruppo; Emilio gli confessa di andarvi perché è innamorato di una delle coriste, Victoria (Marull) che – oltre ad essere figlia del Generale (Hector Alterio), vecchio militare franchista e gran cacciatore (a dispetto dell’impegno animalista della figlia) – gestisce un’agenzia di viaggi, frequentata attivamente dal giovane Pablo (Hector Juezas), che spera di poter perdere la verginità in una crociera piena di milf. Mentre parlano, lei arriva e siede in un tavolo con altre tre coriste: Julia (Verdù), operaia con buone possibilità musicali, separata dal barbiere Carlos (Neri Marcorè), Manuela (Gloria Munoz), patronessa di tutte le attività sociali del paese e Sara (Manuela Mandracchia), fisioterapista gay, che tutte le sere va a guardare le stelle al telescopio della sua amica Marta (Morariu). Durante una prova il parroco (Ferran Gadea) cade e si rompe il femore ed Emilio ha una grande idea: sarà il famoso musicista Edoardo a dirigerli (spera così di farsi apprezzare dall’amata Victoria), al suo fermo diniego Emilio propone un patto: se dirigerà il coro, lui organizzerà una grande festa per il proprio cinquantesimo compleanno, alla quale inviterà Alice, della quale Edoardo ha una gran nostalgia. Questi accetta e comincia stravolgendo tutto il programma precedente, dando ai coristi, anziché noiose litanie di chiesa brani divertenti come Ragliabà (versione ritmatissima del vecchio Quando canta Rabagliati). Julia, intanto è presa tra due fuochi: la madre Aida (Luisa Gavasa), che la spinge a lasciare la fabbrica e tornare con Carlos – che per amore sarebbe disposto a trasferirsi a Madrid, dove lei potrebbe frequentare una scuola di canto – e le amiche, che la inducono a manifestare i sentimenti che comincia a provare per Edoardo. Lei lo invita a cena e lui la incoraggia a studiare musica ma quando lei gli chiede di darle qualche lezione, lui rifiuta: ha sempre odiato insegnare. Risultato: lei diserta il coro e lui è sempre più triste. La sera della festa diventa l’occasione di varie svolte: il grasso e timido Alvaro (Jorge Calvo), complice qualche bicchiere, chiede a tutte le donne presenti di fare un figlio con lui (nessuna però accetta); Manuela annuncia che il festival nazionale dei cori si svolgerà proprio nel loro paese; Alice e Pablo simpatizzano subito e sarà con lei che il ragazzo perderà la verginità; Julia balla con Edoardo e gli dice che tornerà a cantare se lui comporrà la canzone che il coro canterà al concorso; il gelosissimo Carlos – che tiene in pugno il Generale, avendo scoperto che ha un’amante nera, Ngari (Carmen Mangue)  – costringe il militare a tendere con lui un agguato ad Edoardo e a sparargli nel sedere con un fucile ad aria compressa (inutile dire che il Generale sarà fiero della prodezza come se avesse espugnato un fortezza in guerra); Sara, che non era stata invitata alla festa, decide di chiarirsi con Emilio e gli spiega che lei e la sua ex-moglie erano da sempre innamorate e che questa lo aveva sposato temendo le malelingue del paese, per poi fuggire in Italia da sola; Irma, infine, si mette a parlare: non è affatto muta ma la perdita di un amato torero le aveva tolto la voglia di comunicare. Arriva il giorno del concorso e per tutti – compresa la mucca Luisa, alla quale la nascita di un vitellino farà da rimedio alla depressione – arriva il lieto fine.




Ritratto di Famiglia con Tempesta  (After the Storm)

Da quando, nel 1983, uscì il libro dello psicoanalista americano Dan Kiley, La sindrome di Peter Pan, il cinema ha spesso avuto al centro protagonisti maschili chiusi in una eterna adolescenza; in realtà, gran parte dei personaggi inventati dai comici (da Buster Keaton a Stanlio e Ollio, da Sordi a Zalone) sono mossi dalla ferma volontà di rimanere ancorati al proprio mondo infantile, fuggendo dalle angosce e responsabilità dell’essere adulti. Dino Risi è stato forse il più efficace cantore dei bamboccioni all’italiana con titoli come Poveri ma belli, Il vedovo e Il sorpasso; il più esplicito e poetico esempio ne è il Walter Chiari del sottovalutato Il giovedì, che racconta gli ultimi fuochi di un padre separato che inventa mille espedienti per non sottomettersi alla routine di un lavoro fisso. Kore’eda Hirozaku probabilmente il film lo ha visto (molte situazioni sono simili, soprattutto nel rapporto di Ryota con la madre e con il figlio) ma ne ha fatto un’opera personalissima. Lui è tra i registi giapponesi quello che più possiamo considerare erede del grandissimo Ozu, maestro nel raccontare la quotidianità di piccoli uomini, delle loro gioie, dei loro disastri con un delicatissimo tratto. Certo, Kore’eda Hirokazu non ha l magica sapienza tecnica del maestro ma film come Father and son, Little sister e – sia pur, forse, in tono minore – questo sono soffusi di ispirata poeticità. Grande merito della riuscita va anche al cast: il divo Hirsohi Abe (ha dato voce al guerriero Ken nei cartoni a lui dedicati ed era il protagonista del buffo blockbuster  nippo-peplum Thermae Romae) è perfettamente in ruolo, così come Yoko Maki e Riri Furanki (presenze quasi fissi nei titoli del regista) mentre Kirin Kiki (nota da noi, soprattutto per il delizioso Le ricette della signora Toku), ad ogni apparizione, illumina lo schermo.

di Kore’eda Hirokazu. Con Hiroshi AbeKirin KikiYôko MakiRirî FurankîSôsuke Ikematsu

Giappone 2016

Siamo a Tokyo nel periodo delle tempeste. Shinoda Ryota (Hiroshi Abe) è stato uno scrittore promettente – ha anche vinto un importante premio letterario con il suo primo romanzo – ma ora, con l’alibi di cercare spunti per il suo nuovo libro, sbarca il lunario lavorando come detective in un’agenzia investigativa. Il poco che guadagna lo perde al gioco e così non può pagare gli alimenti per il figlio Shingo (Tayio Yoshizawa) alla moglie Kyoko (Yoko Maki), né a dare una mano alla madre Yoshiko (Kiki Kilin), che sogna una villetta in un bel quartiere e che, con le vicine segue le lezioni a domicilio di storia della musica di un vecchio professore (Isao Hashizume). Lui si arrangia, coinvolgendo il suo giovane collega (Sosuke Ikematsu), a guadagnare qualche extra ricattando coloro che sta pedinando: ad una moglie (Yuri Nakamura) adultera vende le foto che la ritraggono con l’amante, promettendole di portarle prove degli incontri sessuali del marito e si fa dare dei soldi da uno studente (Kazuya Takahashi) per non rivelare la sua relazione con la professoressa al marito (Kanjii Furutachi) di lei che si era rivolto all’agenzia. Ogni tanto si fa dare qualche yen dalla sorella (Satomi Kobayashi) o cerca nei cassetti della madre i soldi che lei nascondeva all’inconcludente marito e, soprattutto, un rotolo di grande valore artistico e commerciale (3 milioni di yen) di cui il padre favoleggiava. Ryota ama ancora la moglie, la pedina e, le poche volte che riesce a vederlo, chiede al figlio notizie del nuovo compagno di lei (Makoto Nakamura). Le cose non gli vanno certo bene: al gioco continua a perdere, l’uomo del banco dei pegni (Hisaya Hishiguro) gli rivela il rotolo che era un falso ma il padre, che lo aveva impegnato, era riuscito a frasi dare un po’ di soldi, inventando una grave malattia del sanissimo figlio. Inoltre, il suo capo (Riri Furanki) ha saputo dei suoi ricatti ai clienti e si fa dare gran parte dei quattrini; con il poco rimasto Ryota porta il figlio alle giostre ed a mangiare hamburger, portandolo poi a casa di Yoshiko. Qui li sorprende il tifone e la furente Kyoko è costretta ad andare a riprenderlo ma la tempesta non smette e così rimangono tutti a dormire dalla nonna. Di notte Ryota ci prova con la moglie che lo respinge e, dopo aver frugato nei possibili nascondigli e avervi trovato solo un vecchio calamaio, ripete una cosa che suo padre aveva fatto con lui: porta il figlio a nascondersi, mentre infuria il maltempo, nel vecchio scivolo monumentale davanti alla casa. Li raggiunge, preoccupata, Kyoko che sente, per la prima volta, l’ex-marito in un ruolo affettuosamente paterno. La mattina successiva una buona notizia: il calamaio è un pezzo raro di antiquariato e vale 300.000 yen. Con quei soldi, Ryota potrà pagare gli alimenti arretrati, saldare qualche debito e, accettando di scrivere sotto pseudonimo sceneggiature per i manga, lasciare l’agenzia investigativa e mettere davvero mano ad un nuovo libro.




Scappa – Get Out

di Jordan Peele. Con Daniel KaluuyaAllison WilliamsBradley WhitfordCaleb Landry JonesStephen Root  USA 2016

Jordan Peele è noto al grande pubblico americano come attore ed autore comico (in coppia con Keegan-Michael Key ha creato con grande successo la sitcom Key and Peele) ma è un grande fan dei film horro tanto che ha deciso di esordire alla regia con questa storia . Lui ha dichiarato di essersi ispirato a La notte dei morti viventi (1968) di George A. Romero ma nel racconto si trovano molti altri riferimenti: da L’isola degli zombies (1932), capofila del genere di Victor Halperin – con Bela Lugosi scienziato/stregone che comanda un esercito di morti viventi – a, tra le opere recenti, La notte del giudizio (2013) di James Del Monaco, prodotta dalla Blumhouse, la stessa di Scappa – Get out. Il film è già un caso: costato 4.500.000 $ ne ha già incassati nel mondo più di 200.000.000 e, come talora succede ai film horror, è già vsto come uno specchio delle angosce profonde di un periodo: come lo splendido L’invasione degli ultracorpi (1956) di Don Siegel apparve come una metafora della paura dell’invasione del comunismo, Scappa – Get out ci racconta dell’intrusione dei superpoteri finanziari nelle leve del comando, anche attraverso figure apparentemente tranquillizzanti come Obama. Detto questo, il film, di per sé, è un onesto prodotto con una buona suspense, la giusta dose di ironia (grazie soprattutto a Lil Rel Howey) e un bel cast, che ha raccolto varie nomination agli Mtv Awards.

Chris Washington (Kaluuya) è un brillante fotografo, è in procinto di andare con la fidanzata wasp Rose Armitage (Williams) a conoscere i genitori di lei in Alabama ed è un po’ sorpreso perché lei non ha detto ai suoi che lui è nero ma la ragazza taglia corto, dicendogli che a loro non importa affatto: non sono certo razzisti ma, anzi, fervidi elettori di Obama. In viaggio urtano con la macchina guidata da Rose contro un cervo e quando arriva la volante e il poliziotto (Tray Burvant) chiede con sgarbo i documenti di lui, la ragazza gli impone di non darglieli: non era lui al volante e la richiesta è un abuso. Arrivati nella enorme tenuta degli Armitage sono ricevuti dai festanti padroni di casa, il neurochirurgo Dean (Whitford) e la psicoterapeuta Missy (Catherine Keener) ma alcune anomalie inquietano Chris: loro sono molto liberal ma nei loro discorsi c’è un costante, sottile riferimento a parametri lievemente razzisti e la servitù è composta da due neri, il giardiniere Walter (Marcus Henderson) e la cameriera Giorgina (Betty Gabriel), entrambi con un espressione vacua. A cena il fratello minore di Rose, Jeremy (Landy Jones), è molto più esplicito dei genitori nel riempire Chris di razzistiche allusioni alla sua potenza sessuale e fisica e più tardi, a letto, Rose se ne scusa. Di notte lui si sveglia di soprassalto e scende in giardino a fumare – di nascosto: Rose è contrarissima al fumo – e viene quasi travolto da Walter che corre in tuta. Quando rientra Missy lo porta nel suo studio e lo sottopone ad una seduta del suo procedimento per far smettere di fumare: gli parla e, girando un cucchiaino in un tazza, lo ipnotizza e lui torna con la mente a quando, undicenne (Zailand Adams), aveva perso la madre. Si risveglia angosciato nel suo letto e Rose gli comunica che stanno arrivando gli ospiti per l’annuale cerimonia in onore dei suoi nonni, capostipiti della famiglia. Anche i nuovi arrivati sono, al contempo, cordiali ed imbarazzanti e Chris, dopo essere stato palpato dalla signora Philomena King (Geraldine Singer) – che ha un marito nero Andrew Logan (Lakeith Stanfield) di trent’anni più giovane di lei e, anche lui, con uno sguardo vacuo – e aver parlato con il gallerista cieco Jim Hudson (Root), che gli esprime ammirazione per le sue opere, si apparta e decide di scattare qualche foto ma, quando riprende Andrew con il flash, lui perde sangue dal naso e sviene, non prima di avergli urlato: “Scappa!”. Di lì a poco tutti i convenuti si ritirano in angolo del giardino per una specie di asta che ha come oggetto una gigantografia di Chris e il vincitore è Jim. In camera Chris, che ha la sensazione di aver già visto Andrew, ne manda la foto al suo grande amico Rod (Lil Rel Howery), agente aeroportuale che era contrario al suo viaggio in mezzo a tutti quei bianchi del sud e questi scopre che quello ritratto nella foto era un ragazzo del loro corso di studi scomparso sei mesi prima ma non riesce ad avvisare Chris perché il suo telefono suona a vuoto. Convinto che l’amico sia in mano a razzisti che vogliono farne il loro schiavo sessuale, Rod va alla polizia ma il tenente Latoya (Erika Alexander) e i suoi colleghi (Jeronimo Spinx e Ian Casselberry) gli ridono in faccia. Chris, in realtà, aveva deciso di partire quella sera con Rose ma, mentre si preparava, aveva trovato in un ripostiglio un serie di foto che la ritraevano in posa affettuosa con vari ragazzi neri (lei gli aveva detto che lui era il suo primo fidanzato di colore). Cercando di scappare, viene bloccato dall’ipnosi di Missy e si risveglia legato in una stanza davanti ad un monitor che gli comunica che – come altri prima di lui (in Walter e Giorgina, ad esempio, vivono i nonni di Rose) – sarà sottoposto ad un intervento chirurgico e gli verrà impiantata una zona del cervello di Jim, che potrà così fruire della sua vista e della sua prestanza fisica. Mentre Dean apre il cranio di Jim, lui riesce a sopraffare Jeremy che è andato a prenderlo e….




King Arthur – Il potere della spada (King Arthur: Legend of the Sword)

di Guy Ritchie. Con Charlie HunnamJude LawKatie McGrathAnnabelle WallisEric Bana USA 2017

Alla fine del V secolo, la fortezza di re Uther (Bana) è assediata dalle truppe del potente mago Mordred (Rob Knighton) ma lui, grazie alla sua potente spada Escalibur riesce a sconfiggerlo. La notte, però, viene avvertito del tradimento del fratello Vortigen (Law) che gli sta per usurpare il trono e scappa con la moglie Igraine (Poppy Delevingne) e il figlioletto Artù (Zac Barker). Mentre sta per salire su di una barca, viene assalito da un mostro – è lo stesso Vortigen che, in cambio del sacrificio della figlia Elsa (McGrath) ha ricevuto poteri magici dalle sirene (Lorraine Bruce, Eline Powell, Hermione Corfield) – che uccide Igraine. Lui, prima di soccombere, fa imbarcare il piccolo e lancia Excalibur e quando questa, ricadendo, gli si infilza addosso, si trasforma in una roccia e cade nell’acqua. La barchetta arriva a Londra e il bambino viene raccolto da alcune prostitute che lo crescono nel loro bordello. Da ragazzo (Hugh Robb) impara la dura legge della strada e, cresciuto (Hunnam), si addestra nell’arte della lotta dal maestro George (Tom Wu); diventando, in breve, un boss del suo quartiere così sfrontato da affrontare – insieme ai suoi amici Stecchino (Kinhsley Ben- Adir) e Mangiagalli (Nel Maskell) –  Kjartan (Mikael Persbrandt), il capo dei vichinghi di stanza a Londra, perché aveva picchiato la prostituta Lucy (Nicola Wren), una delle sue madri adottive. Nei suoi affari è in combutta col graduato delle Guardie Grigie (gli sgherri di re Vortigen), Jack l’Occhio (Michael McElhatton), che una volta aiuta a catturare il ribelle Bill “Grasso d’oca” (Aidan Gillen), così chiamato per la sua capacità ad evadere. Jack, però, lo tradisce non appena lui e i suoi sono ricercati per l’aggressione ai vichinghi (con i quali il re aveva stretto un’alleanza: la loro protezione in cambio dell’invio di 5.000 ragazzi); mentre fugge le guardie, non riconoscendolo, lo portano al luogo nel quale era affiorata la roccia con la spada: una profezia indica come legittimo re colui che fosse riuscito ad estrarla e Vortigen pretende che tutti i giovani del regno vi si cimentino per uccidere chi vi riuscisse. Artù, sotto lo sguardo di Trigger lo Sfregiato (David Beckham) e dei sui sbirri, estrae Excalibur ma quando le guardie gli si fanno contro, la spada agisce, quasi da sola; sopraffatto viene portato dal re che tiene prigioniere le donne del bordello e, dopo aver assassinato Lucy, si fa consegnare la spada e lo costringe a consegnarsi al boia, sotto la minaccia di uccidere tutte le altre ragazze. Al momento dell’esecuzione, però, la Maga (Astrid-Berges Frisbey) manda un aquila contro il carnefice e, nella confusione, alcuni uomini lo portano in salvo. Viene portato in una grotta dove l’ex-ufficiale fedele a Uther, Bedivere (Djimon Hounsou), Percival (Craig McGinlay), Rubio (Freddie Fox) e Bill con pochi fedeli aspettano l’arrivo del legittimo erede per detronizzare l’usurpatore. Artù accetta, poco convinto, di unirsi a loro e di addestrarsi al nuovo compito ma, quando la Maga lo spedisce nell’ Isola Nera che per l’ultima tremenda prova, dopo avervi sconfitto i mostri, annichilito, getta la spada in acqua per poi riaverla dalla Signora del Lago (Jacqui Ainsley): ora è pronto! Dalla cameriera personale di Vortigen, Maggie (Wallis), loro informatrice, i rivoltosi apprendono che questi sarà al porto di lì a poco ma il re aveva capito che la donna lo tradiva e tende loro una trappola. Artù e i suoi (a loro si sono uniti anche George, Mangiagalli e Stecchino) si rifugiano in una casa ma Mangiagalli, ferito, viene catturato e il re in persona lo interroga, minacciando di uccidergli il figlioletto Blue (Blue Landau) se non parlerà. Artù salva il ragazzino e con i suoi combatte strenuamente, riuscendo a sconfiggere le Guardie Grigie quando riesce a dominare e a guidare la potente Excalibur. Vortigen, dopo aver offerto alle sirene la sua ultima figlia (Cordelia Bugeja) per essere ancora più potente affronta Artù, che, ormai padrone dell’arte della spada sacra, lo uccide. Re Artù nomina cavalieri i suoi amici e costruisce la Tavola Rotonda.

Nel 1949 la Mondadori comincia a pubblicare nella collana Albo d’Oro Pecos Bill, scritto da Guido Martina e disegnato da Raffaele Paparella, un fumetto di grande successo che racconta le avventure dell’eroe dell’epopea west (che con il lazo deviava i fiumi e imprigionava i tifoni), con grande libertà anacronistica: lo accompagnavano Calamity Jane (non più fuorilegge ma pistolera innamorata) e Davy Crockett (l’eroe di Alamo, per l’occasione fanfarone e ubriacone). Questa citazione mi è venuta in mente perché è questo lo spirito del King Arthur di Ritchie (non nuovo, certo, a rivisitazioni ardite: sono suoi i due Sherlock Holmes, in cui il detective di Robert Downey jr. diventa un acrobatico action hero): la leggenda di re Artù è un pretesto per mischiare allegramente Amleto (il re ucciso dal fratello),Macbeth (le sirene come le tre streghe),Thor (Escalibur come il martello Mjollnir), il film di arti marziali (la scuola dell’orientale George) e i teppistelli (Artù giovane e i suoi amici) dei suoi primi film ( Lock e Stock – Pazzi scatenati e Snatch- Lo strappo), con mostri, serpentoni, elefanti in un grande circo high tech. Anche quando si richiama alla leggenda, Ritchie non resiste alla tentazione di strafare: nella scelta tra le due versioni della conquista della spada da parte di Artù: estraendola dalla roccia o avendola dalla Sirena del Lago, lui, per buon peso, le sceglie entrambe. Questi non sono necessariamente difetti ma il film, di fatto, non decolla, un po’ anche per colpa di un cast buono ma – a partire dall’imbronciato Artù/Hunnam – non coinvolgente, salvando il villain che Jude Law porta a casa con grande mestiere. Come altre volte, mi fa invece piacere – lo ripeto: è un’eccellenza italiana che non dobbiamo trascurare – segnalare l’ottimo lavoro di adattamento e di doppiaggio svolto da Carlo Cosolo e da suoi collaboratori. Gli incassi qui e in patria sembrano dar ragione alle perplessità e appare improbabile che il disegno della produzione di fare di King Arthur il capofila di una saga abbia un seguito.

 




Guardiani della Galassia Vol. 2 (Guardians of the Galaxy 2)

di James Gunn. Con Chris PrattZoe SaldanaDave BautistaVin DieselBradley Cooper

Nel 1980 un giovane alieno, Ego (Kurt Russell), fa l’amore con Meredith Quill (Laura Haddock) nei boschi del Missouri e lui pianta un seme nel terreno; da questo incontro è nato Peter Quill/Star Lord (Pratt). Trentaquattro anni dopo troviamo lui, Gamora (Saldana), Drax (Bautista) e il procione Rocket (Cooper/Christian Iansante, voce) che, assoldati dai Sovereign per proteggere delle preziose batterie, combattono con un mostro, mentre l’alberello Baby Groot (Diesel/Massimo Corvo, voce) partecipa giocosamente alla lotta ballando e affrontando insetti spaziali. Per ricompensa la regina Ayesha  (Elisabeth Debicki) consegna loro Nebula (Karen Gillan), la crudele sorella di Gamora. Quando sono a bordo della loro astronave, la Milano, i Guardiani sono attaccati dai Sovereign, perché l’incorreggibile Rocket ha rubato alcune batterie. La Milano precipita sul pianeta Berhart, dove un astronauta distrugge la flotta dei Sovereign. Si tratta di Ego, che rivela a Peter di essere suo il padre e lo invita sul suo pianeta; lui va con Gamora e Drax, mentre Rocket rimane con Groot per riparare la Milano e a sorvegliare Nebula. Intanto Yondu (Michael Rooker)  tenta di  rientrare nella consorteria corsara dei Ravager, dalla quale era stato radiato per aver trafficato bambini (tra i quali Peter, che aveva rapito su incarico di Ego, per poi tenerselo e crescerlo come un fuorilegge) ma viene scacciato dal capo Stakar Ogord (Sylvester Stallone). Subito dopo viene incaricato da Ayesha di catturare i Guardiani. Yondu e la sua banda catturano Rocket e Baby Groot ma i suoi uomini capiscono che lui non vuole consegnare Peter ad Ayesha e, guidati da Taserface (Chris Sullivan), si ammutinano e Nebula si aggrega a loro. Peter, Gamora e Drax sul nuovo pianeta conoscono Mantis (Pom Klementieff) un’aliena con poteri empatici, che è al servizio di Ego; questi rivela al figlio di essere un Celestiale: lui stesso è in realtà il pianeta e la sua forma umana è solo un avatar che gli consente di spostarsi nel cosmo e anche Peter, esercitandosi e abbandonando i suoi sentimenti umani, può usare il potere del pianeta. Tra Drax e Mantis nasce una sorta di sentimento e lei lascia capire che loro sono in un qualche pericolo. I Ravager imprigionano Rocket e Yondu, fanno di Groot il loro zimbello e indirizzano l’Elector la loro astronave, verso il pianeta di Ego, per catturare i Guardiani, mentre Nebula si propone di uccidere Gamora, per vendicarsi delle torture da lei subite dal loro padre Thanos (Josh Brolin), quando da piccole combattevano e lei soccombeva. Groot, con l’aiuto di Kraglin (Sean Gunn), rimasto fedele a Yondu, libera i due prigionieri. Insieme distruggono l’astronave, uccidendo tutti i Ravager ribelli e partono su di una capsula spaziale per il pianeta di Ego. Qui Nebula, giunta con un’altra capsula, affronta Gamora. Durante il combattimento le due sorelle cadono in una grotta con migliaia di scheletri e, capendo di trovarsi in un grave pericolo, decidono di allearsi. Ego, intanto, spiega a Peter di aver piantato dei semi su tutti i pianeti in cui era stato per poterli trasformare in proprie estensioni e, avendo bisogno di un altro Celestiale per compiere l’operazione, di aver ingravidato centinaia di donne, incaricando Yondu di portargli i bambini, nella speranza che almeno uno di loro avesse il gene celestiale. Solo Peter, però, sembra possederlo (degli altri si era brutalmente disfatto, così come aveva causato il cancro alle donne ingravidate, compresa la madre di Peter) e Ego lo ipnotizza e lo usa per attivare i semi, che cominciano a crescere e distruggere tutto quanto intorno a loro ma la rivelazione dell’uccisione della madre lo fa ridestare e fuggire lontano. Intanto Mantis ha informato Gamora, Drax e Nebula dei piani di Ego e del fatto che questi possa essere ucciso solo distruggendo il nucleo centrale del pianeta. Tutti loro, insieme a Rocket, Groot, Yondu e Kraglin atterrati sul pianeta, corrono in soccorso di Peter. La loro missione viene interrotta dall’arrivo della flotta dei Sovereign, avvisati da Taserface in punto di morte. Rocket crea una bomba usando le batterie rubate e incarica Baby Groot (abbastanza piccolo da entrare negli anfratti interni del pianeta) di farla esplodere, mentre Peter combatte con Ego e il resto dei Guardiani fugge dal pianeta. La bomba esplode, Ego muore e le navi Sovereign vengono distrutte. Yondu, che, a suo modo, ha amato Peter come un figlio e vuole riscattarsi, si sacrifica per salvarlo.  Nebula, riconciliata definitivamente con Gamora, parte con l’intento di uccidere Thanos. I Guardiani, ai quali si è unita Mantis, spargono le ceneri di Yondu nello spazio e vedono i guerrieri di Stakar, rendergli omaggio con un funerale solenne Ravenger.

Riecco i freaks dello spazio, nella stessa formazione e con lo stesso regista, in un sequel che sta raggiungendo gli stessi incassi stellari (è il caso di dirlo!) del precedente. Il meccanismo è tipicamente Marvel: eroi con problemi che vivono avventure al limite dei loro poteri, inframmezzate da storie melò. Il format del fumetto originale – tanti supereroi che si alternano nel formare la squadra dei Guardiani – aiuta a sviluppare il leit-motiv emotivo della serie: i cattivi di uno o più episodi, a un certo punto rivelano risvolti  inattesi e combattono con i buoni. In questo Guardiani della Galassia 2, a differenza del prequel allegramente fracassone, il rischio era di un eccesso di storia da romanzo d’appendice ma – oltre ai già sperimentati eroi/fool: il procione e il wrestler Bautista come Drax, – l’invenzione dell’alberello Groot (nei fumetti non c’era) consente di immettere nel racconto elementi da cartone animato che danno un tocco di ulteriore allegria e tenerezza.