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Elezioni amministrative 2016. Quale cambiamento?

Sala-consiliareSe 771 mila romani su un milione e 147 mila elettori, che consegnano una scheda votata validamente, decidono di affidare l’amministrazione del Campidoglio ad una esponente del M5S, significa che qualcosa di molto profondo pervade la società. E non riguarda solo Roma ma l’intero Paese. È vero, a Roma c’è stato lo scandalo di Mafia Capitale e il fallimento della giunta Marino. Ma da soli, questi elementi non bastano a spiegare quanto è avvenuto.  Già nel 2013 si erano manifestate le avvisaglie del ciclone. Non era mai accaduto che una forza politica alla prima esperienza elettorale raggiungesse il 25,5 per cento dei voti. Un consenso uniforme su tutto il territorio nazionale e proveniente da elettori di destra e di sinistra, da comuni ricchi e da quelli poveri, dalle grandi città e dai centri più piccoli e rurali. Un consenso proveniente dai giovani in misura maggiore rispetto al Pd e al Pdl che non a caso persero meno dove c’erano più vecchi. Al successo del M5S corrispose la scomparsa dei partiti identitari della Prima Repubblica e il serio ridimensionamento dei principali partiti sorti nella Seconda.

Poi è arrivato Matteo Renzi con le riforme istituzionali più alcune misure innovative sul terreno socioeconomico, messe a punto dal suo governo. E si è ravvivata la speranza. Già alle europee del 2014 sembrava che il PD avesse ripreso il suo percorso di cambiamento. Ma era un abbaglio. Era il canto del cigno. Qualcosa di molto simile a quanto capitato al PCI in occasione delle elezioni europee del 1984 sull’onda emotiva della morte improvvisa di Enrico Berlinguer. Non c’è da meravigliarsi se fino a qualche decennio fa i partiti duravano settanta anni e oggi meno di dieci.

Cosa non ha funzionato?

Il cambiamento ha bisogno di facce nuove e di politiche nuove che nascono da processi sociali che partono concretamente dalle comunità territori. Altrimenti l’elettorato s’accontenta delle facce nuove e non bada alle proposte. Non già perché sono di destra o di sinistra, ma perché non le avvertono come qualcosa che nasce nel dialogo che le comunità territori organizzano e orientano. Una politica è giusta non perché è astrattamente razionale ma perché nasce da esigenze reali. E tali esigenze devono essere lette con idonei strumenti. Una politica è giusta se viene sperimentata e monitorata socialmente, organizzando in modo scientifico l’analisi dei suoi impatti sociali con il coinvolgimento sistematico delle comunità territori.

Abbiamo imparato sulla nostra pelle che la giustizia sociale non è frutto di una teoria ma di un metodo. E il metodo è l’organizzazione dell’analisi sociale con la partecipazione democratica delle comunità territori. È per questo che i partiti e le organizzazioni di rappresentanza non hanno più senso se restano come sono. E la gente li percepisce e sempre più li percepirà come un intralcio e una zavorra.

Queste strutture nascono con la società di massa quando erroneamente si pensava che la giustizia sociale fosse frutto di una teoria o di un’ideologia e che le soluzioni derivassero da una razionale applicazione di ricette astrattamente e collettivamente elaborate sulla base di un progetto organico di società. Ma oggi anche la politica e non solo la sfera religiosa è stata inondata da una inarrestabile secolarizzazione e laicizzazione. Restano evidentemente i valori di libertà e di eguaglianza ad orientare l’approccio ai problemi. Ma questi sono appunto semplicemente dei valori che ci caricano e motivano sul piano etico ma non ci offrono in sé alcuna soluzione ai problemi. Da ricercare, invece, laicamente, con il dialogo paziente e l’ascolto reciproco.

Cosa cambiare allora?

Intanto, bisogna completare alcuni cambiamenti già avviati, scongiurando ripensamenti e arretramenti che ci farebbero tornare indietro. La riforma costituzionale va, dunque, confermata al referendum perché è attesa da decenni. Essa chiude la fase dell’instabilità dei governi e apre quella di una democrazia decidente, che si può realizzare solo rendendo più efficaci le funzioni dell’esecutivo e quelle legislative e di controllo del Parlamento. È bene semplificare il percorso per fare le leggi, superando il bicameralismo paritario che è causa di lentezze ingiustificabili. E poi non se ne può più dell’eterno conflitto tra Stato e Regioni che ritarda ogni decisione importante per i cittadini. È giusto, dunque, eliminare le competenze concorrenti tra Stato e Regioni e dare dignità costituzionale alle autonomie con il nuovo Senato.

Inoltre, i risultati elettorali dimostrano che il sistema maggioritario permette effettivamente il cambiamento – almeno quello che si realizza con l’alternanza di facce nuove – e non è affatto un modello che perpetua le rendite di posizione e il potere di chi già ce l’ha. La riforma costituzionale e l’Italicum, dunque, non sono affatto l’anticamera del fascismo ma costituiscono opportunità concrete per ricambiare i gruppi dirigenti del Paese.

Tuttavia, il cambiamento non è soltanto governabilità e facce nuove. È anche fatto di politiche nuove che permettano ai cittadini di migliorare le proprie condizioni di vita. E dunque si parta dalla sussidiarietà nei rapporti tra cittadino e istituzioni e tra i diversi livelli istituzionali, principio quest’ultimo introdotto nella riforma costituzionale del 2001 e non ancora attuato. Si dia all’individuo la possibilità di levarsi la veste di suddito e indossare quella di cittadino e così edificare da protagonista, dal basso e con vero spirito federalista, insieme agli altri cittadini, un’articolazione variegata degli istituti della democrazia, dalla comunità autogovernata di strada e di quartiere in cui vive e dal diversificato tessuto della società civile in cui opera al municipio metropolitano che deve poter acquisire la dignità di Comune, dal Comune piccolo o grande che deve volontariamente associarsi con altri per gestire funzioni complesse, alla Regione che deve dismettere improprie funzioni di gestione ed esercitare solo quelle di programmazione, dallo Stato che deve acquisire efficienza, semplicità e capacità di orientamento agli Stati Uniti d’Europa la cui utopia rimane, per ciascun europeo, la prospettiva concreta e realistica affinché si realizzi finalmente lo “status” di cittadino del mondo.

Ma queste proposte resteranno bei proponimenti senza alcuna possibilità di realizzazione, se non si introducono nel dibattito pubblico due riforme da fare urgentemente: quella dei partiti e quella delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi, che oggi costituiscono un blocco all’innovazione. I partiti devono diventare, con un’apposita legge, case di vetro capaci di accogliere tutti coloro che ne condividono programmi e regole. E le organizzazioni di rappresentanza degli interessi non devono temere che una legge dello Stato le regolamenti come lobby. Finendola una volta per tutte con la pretesa di rappresentare, contestualmente, interessi particolari di una categoria o di un gruppo e un interesse generale che inevitabilmente può entrare in conflitto con le esigenze di una cerchia ristretta di persone. C’è già il Terzo Settore che, con la riforma appena varata, dovrà mettere insieme e sviluppare esclusivamente le forme associative che sono tenute a svolgere – costituzionalmente – attività di interesse generale. I partiti, invece, sono per definizione delle parzialità che devono formare nuovi gruppi dirigenti da lanciare nelle consultazioni elettorali e devono saper intercettare i bisogni sociali delle comunità territori per elaborare politiche efficaci. Le lobby, a loro volta, devono dichiarare con precisione gli interessi che rappresentano e intendono tutelare, le risorse che utilizzano per farlo e sottoporsi a procedure trasparenti nel loro rapporto con le istituzioni. Nel frattempo, sia gli uni che le altre potrebbero autoriformarsi e contribuire spontaneamente al cambiamento. Altrimenti si prospetterà inevitabilmente per loro un destino di irrilevanza e marginalità. E la società civile, con le sue immense e vivide risorse, operanti spesso nel silenzio senza ricercare visibilità e contropartite, si abituerà a farne a meno e inventerà altre forme per supplirne le funzioni.

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Sviluppo locale e terzo settore

 

Per affrontare correttamente il tema del rapporto tra sviluppo locale, terzo settore e lavoro, vorrei allacciarmi al percorso di riflessione condotto con grande passione civile e sensibilità culturale dal compianto Alberto Valentini nel Comitato Scientifico del Forum Terzo Settore Lazio, da lui presieduto, in occasione dell’elaborazione – a seguito dello scandalo di Mafia capitale – di una “Carta dei Valori” da parte del Comitato medesimo, successivamente condivisa dal Forum.

Queste sono alcune formulazioni presenti nella “Carta dei Valori”:

“Il Forum Terzo Settore Lazio è una realtà aperta a tutte le organizzazioni che svolgano attività di interesse generale sulla base del principio di sussidiarietà…”

“Il Forum Terzo Settore Lazio opera in favore dello sviluppo dei territori sotto il profilo economico, sociale, culturale ed ambientale sulla base dei bisogni espressi dalle differenti comunità”

“Gli aderenti al Forum Terzo Settore Lazio declinano la propria azione in sintonia con i processi di integrazione internazionale tra i popoli e le organizzazioni di Paesi diversi

“Il Forum Terzo Settore Lazio promuove la relazionalità tra singoli, gruppi e organizzazioni e la cultura del ‘fare rete’ come motore di crescita e di sviluppo del territorio

“Gli aderenti si impegnano a rispettare i diritti e la dignità dei propri lavoratori, a tutelarne il lavoro, la sicurezza, la salute e le libertà sindacali. Ripudiano ogni forma di discriminazione, corruzione, lavoro nero, forzato e  minorile

La gestione e l’uso dei beni comuni – che per loro natura sono finalizzati al perseguimento dei diritti fondamentali e irrinunciabili della persona e al rafforzamento dei legami comunitari – deve essere fatta con responsabilità, nel rispetto della legalità, in modo etico e partecipato”.

Come si può notare, c’è uno stretto legame tra queste affermazioni e l’impianto culturale di uno degli ultimi lavori scientifici di Alberto Valentini: Maremma globale. Un progetto territoriale di sviluppo locale, 2011. In tale testo si afferma: “I tre fattori fondamentali da cui partire per realizzare un progetto di sviluppo locale sono: 1) la centralità dell’identità di appartenenza al territorio sentita dalla popolazione; 2) la valutazione proiettiva della domanda espressa dalle persone e dalle comunità, italiane e straniere, che guardano con interesse la Maremma; 3) la ‘vision’ a medio-lungo termine, capace di indicare la direzione di marcia dello sviluppo compatibile del territorio considerato”.

Lo sviluppo locale sta tornando ad essere l’approccio ineliminabile per affrontare i problemi complessi della società post-fordista. Emblematiche sono alcune esperienze nate a Roma e nel Lazio, alcune delle quali si sono proiettate sul piano nazionale.

L’associazione di promozione sociale Rete Fattorie Sociali è stata fondata a Roma nel 2005 e si confronta ogni giorno con il disagio sociale. Opera a livello nazionale e raggruppa diversi soggetti a vario titolo  coinvolti  in esperienze di agricoltura sociale: persone con svantaggi o disagi,  agricoltori, operatori sociali, ricercatori., professionisti,  tecnici, enti, cooperative, associazioni, fondazioni,  istituti. È articolata come una rete di persone e di organizzazioni  e pratica una metodologia d’intervento fondata sulla cittadinanza attiva e sulla progettazione partecipata. È diventata nel tempo un punto di riferimento di informazioni sulle buone prassi e di partecipazione attiva sul territorio.

L’associazione di promozione sociale Corviale Domani operativa nel Quadrante Corviale (Municipi XV e XVI) fin dal 2008 come aggregazione informale di un gruppo sempre più numeroso di associazioni, enti, istituzioni, istituti di ricerca, operatori ed esperti di diversi ambiti disciplinari, ha avviato in modo spontaneo un percorso di progettazione partecipata dal basso per coinvolgere l’insieme della Comunità di Corviale e dell’intero Quadrante  (Tenuta dei Massimi, Valle dei Casali, Casetta Mattei, Bravetta, Trullo, Magliana Vecchia).

L’associazione di promozione sociale Rete Economia Solidale in Ciociaria da alcuni anni opera per lo sviluppo locale. Un ruolo propulsivo per realizzare il progetto-cantiere  AGRICOLTURA EROICA vi svolge la Cooperativa sociale Bene Comune di Ripi (FR) in collaborazione con il Parco dei Monti Simbruini, l’Università della Tuscia, il Consorzio Valle del Simbrivio, l’Istituto Istruzione Superiore Angeloni, il Consorzio delle Pro-Loco Capo di Leuca, il Dipartimento Salute Mentale ASL Frosinone, il Consorzio Toscanapa, l’Istituto Alberghiero di Fiuggi e alcuni Comuni.

L’associazione  senza scopo di lucro Comitato di Sviluppo Locale di Piscine di Torre Spaccata opera alle spalle degli studi cinematografici di Cinecittà, nel VII Municipio di Roma. Il progetto LA FABBRICA DEI SOGNI è partito nel 2011  per iniziativa della Cooperativa Start-Up (con ruolo di coordinamento)),  della Cooperativa  Le Rose Blu,  dei Servizi Sociali del Municipio e del Dipartimento di Studi Urbani dell’Università Roma Tre. Nel luglio 2012 viene utilizzata una parte del mercato comunale  in stato di abbandono per insediare un centro anziani e due poli  autogestiti per l’artigianato e il biologico. Il Comitato Sviluppo Locale mette insieme il Comitato di quartiere , il centro anziani, l’agenzia diritti e 33 entità.

La cooperativa sociale Utopia 2000 onlus è nata a Sezze (LT) nel 1999 per promuovere sviluppo locale. Ha maturato diverse esperienze su tutto il territorio laziale e ha aperto due strutture di accoglienza in Umbria.  Nel 2008 ha insediato a Bassiano (LT) un gruppo appartamento per l’accoglienza di minori disagiati; la casa alloggio e gli uffici amministrativi. Collabora attivamente con diverse associazioni promuovendo manifestazioni di vario genere (sportive e culturali), sostenendo la storia e l’editoria locale.

L’associazione di promozione sociale CeSLAM (Centro Sviluppo Locale in Ambiti Metropolitani) è nata nell’autunno del 2015 a Tor Pignattara (Municipio V di Roma) per mettere insieme competenze multidisciplinari (sociologiche, economiche, storiche, creative, statistiche, urbanistiche, educative, gestionali, giuridiche, amministrative) e supporti nel campo della formazione, della comunicazione e delle tecnologie digitali. L’obiettivo è di attuare interventi territoriali finalizzati all’accompagnamento di attori sociali nel loro processo di riposizionamento strategico all’interno dei processi di competizione globale.

Guardando a queste esperienze, si può facilmente notare che, nel giro di alcuni decenni, siamo passati dalle antiche polarità urbano/rurale, centro/periferia, metropoli/aree interne alle comunità-territori policentriche, prive di adeguati corpi intermedi (in profonda crisi), ma animate da molteplici attività di interesse generale svolte da soggetti del terzo settore e caratterizzate da modelli innovativi di welfare (Agricoltura Sociale, PMI Index Welfare, ecc.).

Le nuove comunità-territori policentriche si caratterizzano oggi per una carenza di efficienti enti locali di prossimità. I Municipi di Roma sono del tutto privi di identità e rimasti, di fatto, mere strutture amministrative decentrate del Campidoglio. Nel contempo, i piccoli Comuni del Lazio sono entità con risorse finanziarie sempre più decrescenti e obbligati ad associarsi senza, tuttavia, potersi giovare di un’azione di accompagnamento e di una strategia territoriale da parte delle istituzioni che detengono compiti di orientamento e relative risorse.

Occorre, dunque, affrontare la crisi di fiducia tra le istituzioni con poteri di indirizzo programmatico (Regioni, Stati, UE) e la società locale ( che deve sempre essere composta – per definirsi tale – da comunità, società civile ed ente locale di prossimità). Siffatta crisi si affronta  colmando lo iato che si è prodotto tra il decisionismo istituzionale (come esito della riforma costituzionale approvata recentemente dal Parlamento) e la debolezza della società locale. Tale frattura non dipende solo dalla crisi dei corpi intermedi – come ha sostenuto recentemente Giuseppe De Rita – ma anche da profondi limiti di cultura politica e sociale da superare sviluppando la conoscenza in ogni ambito del sapere scientifico. L’eclisse dei corpi intermedi tradizionali è causa ed effetto di una più profonda decomposizione della società, la cui rivitalizzazione in forme nuove non può che ripartire da un processo di autoconsapevolezza dei cittadini e della società locale.

È per questo che lo sviluppo locale è essenzialmente autosviluppo della società in tutte le sue dimensioni e articolazioni, come ci ha insegnato Giorgio Ceriani Sebregondi. Ed è alla luce di questa visione sempre più attuale che va ricomposto il rapporto tra istituzioni (che mettono a disposizione prospettiva e mezzi) e società locale (intesa come insieme non indivisibile di comunità, società civile ed ente locale di prossimità in grado di riaccendere le tensioni al cambiamento e riorganizzarsi per trovare la strada e vincere la sfida dello sviluppo).

Se è questa la via da percorrere, bisogna allora lavorare alacremente su tre fronti: 1)  acquisire una chiara e convinta visione federalista e sussidiaria delle relazioni verticali (interistituzioni) e orizzontali (istituzioni/società); 2) favorire una disponibilità a creare istituti innovativi di democrazia diretta di stampo neo-comunitario (dal “condominio di strada” alle fondazioni di partecipazione, dalle cooperative di comunità ai demani civici); 3) riconoscersi reciprocamente e laicamente come soggetti che operano nell’interesse generale, sulla base di regole condivise, superando modelli fondati sull’antagonismo e sulla delegittimazione dell’interlocutore.

 

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Indulgenze e dialogo ecumenico

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Uno degli aspetti particolari del Giubileo è la questione delle indulgenze, su cui papa Francesco ha introdotto novità rilevanti che vanno sottolineate. Si tratta di un istituto di origine medievale che, nella teologia cattolica, rappresenta la remissione, per intervento della Chiesa, della pena corporea o spirituale che resterebbe da scontare (sulla terra o in purgatorio) in seguito ai peccati commessi, dopo che sia avvenuto il perdono della colpa e la riconciliazione nel sacramento della penitenza.

La prassi delle “commutazioni” permetteva di collegare un’indulgenza a pagamenti in denaro (elemosine) o a restauri di chiese. La predicazione delle indulgenze in cambio di elemosine per ricostruire la basilica di S. Pietro, con i connessi abusi (vendita delle indulgenze), fu uno dei motivi dello scontro di Martin Lutero con l’arcivescovo Alberto di Magonza e poi con la S. Sede.

Nel 1967 Paolo VI ha confermato la tradizione con la costituzione apostolica Indulgentiarum Doctrina, ripresa dal Catechismo del 1992.

Ora, nella Bolla di indizione del Giubileo, papa Francesco parla di “indulgenza” e non più di “indulgenze” e non si fa più riferimento alla “remissione della pena temporale dei peccati”.

Si può dire che siamo davvero di fronte ad una rottura rispetto al passato, come ce ne sono state altre nella storia della Chiesa?

Ce lo dirà il dialogo che nel 2017 si avvierà tra i cattolici e i cristiani evangelici, a 500 anni dall’inizio della Riforma protestante. Bisognerà forse fare un ulteriore passo avanti, superando nella riconciliazione tra l’uomo peccatore e Dio la dichiarazione dei propri peccati al confessore. Nella Bolla giubilare ancora permane la centralità “sacerdotale” del ministro del culto cattolico come luogo della misericordia. Nelle altre chiese cristiane la remissione del peccato avviene, invece, nella centralità del rapporto diretto con Dio.

Ma, intanto, qualcosa si è mosso e sembra andare nella giusta direzione. Per ben sperare, occorre rimuovere gli intralci nel percorso del dialogo ecumenico.

 

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Renzi e l’educazione a governare

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Il discorso che Matteo Renzi ha pronunciato alla Festa dell’Unità di Milano è stato il discorso di un leader che guarda ai problemi del Paese e dell’Europa in perfetta sintonia coi valori di libertà, equità e fraternità delle grandi correnti culturali e politiche del centrosinistra europeo.

Mi è piaciuto il modo come il premier ha legato l’uno all’altro i vari argomenti, partendo da quelli che riguardano le persone più in difficoltà. E mi ha colpito soprattutto la nettezza delle affermazioni. È apparso del tutto evidente che le scelte su cui il governo sta lavorando, non sono il frutto dell’improvvisazione, né di mediazioni estenuanti, tese ad annacquarne la portata fino a svilirle.

Emerge nello sfondo un paradigma nuovo che il Lingotto aveva abbozzato e che, purtroppo, le vicende interne al PD avevano fatto accantonare per tornare a più tranquilli percorsi di continuità con il passato.

Ma questo paradigma nuovo non è ancora diventato cultura politica diffusa nel partito. E soprattutto non si alimenta dell’apporto dei cittadini e della società. È questo il limite di fondo che oggi va superato. Manca nel Pd un’azione educativa e formativa che coinvolga tutti, una funzione di autoapprendimento collettivo che riguardi i gruppi dirigenti a tutti i livelli e i singoli circoli. Mancano centri diffusi di elaborazione di proposte e gruppi di studio che facciano inchiesta sociale nei quartieri  e nelle comunità, in relazione costante coi movimenti che operano nella società. Un partito riformista non può non dotarsi di questi strumenti.  Se non è soprattutto una palestra di educazione a governare non è niente. E la trasformazione in un covo mafioso diventa ineluttabile.

 

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Lo sviluppo dal basso in Sebregondi

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Chi vuole conoscere il pensiero critico, elaborato già negli anni Cinquanta, nei confronti della logica quantitativa e slegata dal capitale umano territoriale, che ha caratterizzato l’idea prevalente di sviluppo e il conseguente intervento pubblico nel Mezzogiorno e nelle cosiddette aree depresse, non può prescindere dalla figura straordinaria di Giorgio Ceriani Sebregondi. Egli maturò, precocemente e da autodidatta, una visione dello sviluppo del tutto originale e lungimirante che solo negli ultimi decenni si è andata affermando nel dibattito scientifico e istituzionale, in Europa e nel mondo. Chi oggi si occupa delle politiche regionali europee non può prescindere dalla sua opera che resta una delle riflessioni più lungimiranti sui temi dello sviluppo che si siano mai prodotte in Italia.

Perché il suo contributo non ha mai trovato spazio nel dibattito pubblico nazionale? Il motivo sta nella forte caratterizzazione ideologica degli interlocutori dell’epoca e, successivamente, nei loro eredi. Marxisti, liberaldemocratici, keinesiani, rigidamente fermi nei loro schemi, non comprendevano l’originalità della sua ricerca e né vollero prestare ascolto per afferrarne il senso. Il confronto sulle sue idee, di fatto, avvenne esclusivamente con interlocutori stranieri. Non è esagerato affermare che tra le cause del fallimento delle politiche industriali per il Mezzogiorno va annoverato anche l’isolamento e l’allontanamento di questo illustre studioso dalle sedi dove quelle politiche venivano elaborate.

L’esperienza politica

Sebregondi nacque a Roma nel 1916 da famiglia lombarda. Laureato in giurisprudenza, cattolico, partecipò alla Resistenza nelle fila del Cln lombardo. Forte fu il suo legame con il filosofo  Felice Balbo con il quale aderì al Movimento dei cattolici comunisti e al Partito della Sinistra cristiana. Quando questo movimento si sciolse alla fine del 1945, si iscrisse al Pci dal quale uscì nel 1950, insieme a Balbo, Ubaldo Scassellati, Mario Motta, Claudio Napoleoni e Sandro Fè d’Ostiani, per obbedire alle indicazioni della Chiesa che aveva scomunicato i cattolici aderenti a quel partito.

Nonostante vivesse in un contesto di forti scontri ideologici, la sua visione culturale e politica è sempre stata molto laica e deideologizzata. Egli si ispirava senza pregiudizi alle diverse esperienze storiche contemporanee, sia nel campo capitalistico che in quello socialista, e si affidava poi alle capacità politiche e alle dinamiche sociali quali erano empiricamente riscontrabili nella realtà. Al centro della sua attività intellettuale c’era l’impegno civile nel trovare le soluzioni tecnico-politiche per promuovere lo sviluppo della società.

Nel suo pensiero, la società è un ente storico, determinatosi intorno a motivazioni, con suoi caratteri strutturali, capace di evoluzione. Ed è la società stessa a produrre le funzioni dello Stato e dei cittadini. Il primo è promotore, garante, fornitore di strumenti finanziari e tecnici per l’attuazione dello sviluppo. I cittadini sono attori organizzati, che dialogano con lo Stato sul terreno delle scelte concrete di politica economica, sociale e culturale riguardanti il loro territorio (nazionale o locale), si appropriano delle opportunità e delle capacità rese disponibili, le interpretano, le gestiscono, e si sviluppano. Lo sviluppo di una società è, per lo studioso, un processo nel quale i suoi attori consolidano la propria “indipendenza”, la loro “non soggiacenza al ricatto della situazione, indipendenza rispetto alle parti politiche, economiche, culturali, che regolano la situazione presente”. Egli avverte per tempo la mancanza di una scienza capace di affrontare i problemi dello sviluppo in modo organico, ossia dal punto di vista dell’organizzazione di tutte le sue parti e funzioni ai fini di uno sviluppo unitario e omogeneo.

L’impegno civile

Dopo una prima esperienza al Servizio studi dell’IRI, nel 1947 Sebregondi fu chiamato all’Ansaldo di Genova da Angelo Saraceno, che ne era direttore, per svolgere la funzione di segretario generale. In tale veste, affrontò la delicata situazione creatasi con la smobilitazione delle industrie meccaniche genovesi. Si trattò di un tentativo di ristrutturazione in condizioni impossibili: c’erano 30.000 operai, di cui 18.000 in esubero. Dopo le elezioni del 18 aprile 1948, lui e Angelo Saraceno furono “cacciati via”. Ed è a questo punto che Angelo segnalò Giorgio al fratello Pasquale Saraceno e così passò alla SVIMEZ.  Nel giro di poco tempo tra i due si aprì una divaricazione sull’idea di sviluppo che presto li condurrà all’aperta rottura. Per Sebregondi, infatti, nel processo di sviluppo il sociale assume una valenza centrale. Per ridimensionare il ruolo dello studioso di cui non condivideva l’impostazione, Saraceno istituì allora una sezione sociologica nella SVIMEZ, affidandone a lui la responsabilità. E nei primi mesi del ’58 lo allontanò dall’Associazione. Sebregondi assunse un incarico presso la Commissione Europea a Bruxelles e nel giugno dello stesso anno morì, a soli 41 anni.

Le aree depresse

Sebregondi svolse la sua intensa attività di studioso alla luce di un pensiero fondato essenzialmente su due elementi rilevanti: 1) la convinzione che lo sviluppo di una determinata area, per non essere effimero, deve essere autopropulsivo; 2) il giudizio di inadeguatezza di una concezione che limita il concetto di sviluppo ad una dimensione economica.

Secondo la sua concezione, gli interventi per le aree depresse, individuata la dimensione territoriale più adeguata, devono favorire “ un sistema in cui si attuino e si sviluppino, per forza autonoma, i processi di agglomeramento e di cumulazione”. “È importante sottolineare – aggiunge Sebregondi – il concetto di autopropulsività, ossia della rottura in radice della situazione di ristagno”. Una politica di sviluppo quindi deve puntare a favorire la migliore combinazione dei diversi fattori, ma soprattutto influendo “sull’atteggiamento e sulla volontà delle popolazioni che devono sostenere ed orientare le politiche di sviluppo. Una politica di sviluppo che non riesca ad essere autosviluppo diviene un’imposizione o un’elargizione gratuita senza seguito. Lo sviluppo di una società non può essere né regolato né imposto. Ciò non significa che non debbono esservi interventi e assistenza dall’esterno. Anzi, senza questi interventi non può generalmente originarsi – almeno nelle società depresse o arretrate – l’avvio del processo di sviluppo, il passaggio dalla stasi e dall’involuzione allo sviluppo. Ma in che deve consistere, più precisamente, quest’apporto, per non essere a sua volta inefficace od oppressivo? Oggi in pratica, i paesi sviluppati – almeno nell’Occidente – si comportano come se fosse sufficiente l’apporto di capitali, di moderni strumenti di lavoro, di cognizioni tecniche. Tutto ciò è di certo indispensabile ma non sufficiente. Ciò che occorre in primo luogo è l’apporto di un principio motore, di motivazioni ideologiche che sollecitino a volere lo sviluppo, e quindi a procurarsi e utilizzare i mezzi propri e altrui per attuarlo”.

Molto interessante è la riflessione che Sebregondi compie sul sostegno pubblico alle iniziative imprenditoriali private. Se la difficoltà per iniziative imprenditoriali nelle aree depresse è conseguenza di una crisi generale del sistema istituzionale e politico l’ente pubblico non può “surrogare” l’iniziativa privata. L’ordinamento istituzionale non deve né sostituire l’iniziativa privata né “sanarne” le deficienze. Deve svolgere una funzione di garanzia, eliminando le strozzature che condizionano o impediscono l’iniziativa imprenditoriale privata.

“Il problema principale – egli scrive – non è quello del livello del reddito, ma delle fonti del reddito; ed il vero lavoro da fare, per sostenere lo sviluppo non è quello di puntare ad un rapido incremento di produzione di beni e redditi, ma a promuovere la migliore combinazione dei fattori produttivi, evitando il rischio che vi siano squilibri tra consumi e capacità produttiva, tra capitali tecnici e capitale umano; tra economia e istituzioni. Insomma lo sviluppo non è solo una categoria economica: nell’economia di piano, quindi, assumono preminente rilievo i livelli di occupazione, di investimenti, di reddito, ecc., come misurazioni statiche di disponibilità di fattori e come indicazione di traguardi successivi eteronomamente determinati. Viceversa, nel sistema autopropulsivo e autonomo, l’aspetto statico di tali livelli passa decisamente, come si è visto, in seconda linea rispetto alla problematica del movimento interno del sistema, dei suoi vizi e delle condizioni di riattivazione”.

In uno scritto del 1953 Appunti sullo sviluppo armonico, Sebregondi offre una definizione di reddito che anticipa temi divenuti oggi di moda: “La realtà è che non ci siamo ancora decisi a introdurre fra gli elementi formativi del reddito – inteso come complesso di beni e di valori reso disponibile per la soddisfazione dei bisogni umani – una serie di valori culturali, morali, religiosi, affettivi, che sono pur decisivi per il giudizio, la scelta e l’azione anche economica: valori che sono decisivi nell’uomo per giudicare dell’economicità o meno di una determinata azione. Finché dunque l’economia non potrà tenere sistematicamente conto di valori che entrano nel reddito reale degli individui e delle società, non potrà darne misura quantitativa o si sforzerà di valutare a prezzi di mercato valori che non sono oggetto di mercato, non avrà la possibilità di misurare con sufficiente approssimazione la convenienza di determinati impieghi di denaro, di forze di lavoro, di strumenti tecnici e di risorse naturali. Né potrà stabilire con sufficiente approssimazione una corrispondenza fra livello di reddito e grado di sviluppo”.

La sociologia

Accanto all’impegno nella SVIMEZ, Sebregondi continuò a svolgere una intensa attività in gruppi che agivano sul piano culturale e tecnico-politico intorno alla figura di Balbo. Nel 1951, si strutturò un gruppo multidisciplinare che si era dato il compito di ripensare le diverse discipline in vista di una rifondazione del quadro culturale ed economico nazionale, una fucina per la formazione di una nuova classe dirigente. Parteciparono in fasi diverse, oltre Sebregondi, Fè d’Ostiani, Motta, Napoleoni, Scassellati, anche Achille Ardigò, Aimone e Paolo Balbo, Ernesto Baroni, Bartolo Ciccardini, Gianni Baget Bozzo, Renzo Caligara, Franco Maria Malfatti, Italo Martinazzi, Nino Novacco, Ettore Sobrero.

Nel gruppo, Sebregondi era responsabile per l’area sociologica. Egli non aveva una preparazione specifica su tale materia e, nelle Università italiane, questa disciplina era stata di fatto bandita per iniziativa di Benedetto Croce, d’intesa con Giovanni Gentile. La sua curiosità intellettuale lo portò, dunque, ad attingere direttamente alle esperienze di altri Paesi. Dopo una prima produzione, il gruppo fu costretto a rinunciare alle sue ambizioni per alcune divaricazioni interne e per contrasti con i dirigenti democristiani e la gerarchia ecclesiastica.  Nel 1953, il gruppo si sciolse e in parte si frammentò. In particolare, Balbo e Scassellati daranno vita – con un gruppo di dossettiani rimasti senza la loro guida che si era ritirata dalla politica – alla rivista Terza Generazione e contribuiranno alla costruzione di una sinistra democristiana.

I rapporti con Economie et Humanisme

Sebregondi s’era, nel frattempo, messo in contatto con la rivista francese Economie et Humanisme – diretta da padre Louis Joseph Lebret e specializzata sui temi del sottosviluppo a livello mondiale – per approfondire le sue teorie sullo sviluppo del Mezzogiorno. E da quel punto di osservazione egli influenzò enormemente i contributi di Terza Generazione, la quale ebbe a caratterizzarsi, nel suo breve periodo di vita, per le inchieste sociali che conduceva nei territori e per l’approfondimento dei temi dello sviluppo locale e di quello meridionale, in particolare.

Lo scambio tra Sebregondi e padre Lebret fu molto fecondo soprattutto perché permise allo studioso italiano di cimentarsi sui temi dei movimenti sociali, sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli avanzati, e di approfondire le possibilità di una loro più rapida espansione.

L’economista dello sviluppo, Enzo Caputo, in un saggio del 2012 ha analizzato lo scambio epistolare tra Sebregondi e Lebret. E ne vien fuori un ritratto davvero sorprendente sulla capacità dello studioso d’indagare fenomeni così lontani dalla sua esperienza quotidiana. Con grande acume etico e politico, egli avverte il religioso sui rischi di derive populiste e terzomondiste nel dedicare energie intellettuali in una teorizzazione organica di un modello sociale nuovo capace di superare il capitalismo e il socialismo. E consiglia il leader di Economie et Humanisme di orientare il movimento che si batte per l’autodeterminazione dei popoli verso un’azione pragmatica di costruzione di soluzioni fattibili, dialogando con le diverse ideologie in campo e differenziandosi da esse con la testimonianza di un umanesimo moderno.

Egli pone l’esigenza di una nuova governance che rifletta la centralità dello sviluppo nell’epoca contemporanea, favorendo l’incontro e il confronto tra uno Stato garante e promotore di soluzioni corrispondenti agli interessi dei diversi soggetti sociali e i movimenti di questi soggetti organizzati. Tali movimenti presentano problematiche complesse che non s’identificano con quelle di una classe o di una categoria, ma riguardano “pezzi di società” in contesti specifici (nazionali, sub-nazionali). E gli Stati moderni, nelle loro dimensioni nazionali, sovra-nazionali, regionali, possono aprirsi alle diverse istanze dei movimenti e proporre soluzioni di garanzia perché la loro stessa natura è cambiata. “Il ceto medio… diviene la vera base sociale dello Stato, concepito come nuovo centro d’iniziativa autonoma, visto come unico elemento capace di moderare l’antagonismo delle posizioni estreme, di evitare le rotture, di garantire il diritto, la stabilità dell’occupazione, il contenuto reale del salario, la continuità di un progresso del tenore di vita”.

Secondo Sebregondi, di fronte a questo tipo di Stato, i movimenti devono essere in grado di organizzarsi e d’interloquire, dandosi forme nuove di rappresentanza: “una nuova organizzazione che sia insieme di tutela e rappresentanza dei nuovi interessi: una controparte non meramente oppositrice ma integratrice dell’iniziativa statale… I partiti regolano la forma di potere e organizzano le forze che sostengono quella forma… agiscono per il rispetto o per la trasformazione costituzionale, per la formazione delle leggi, per la composizione del governo, per la determinazione dei metodi di governo. Ma si trovano disarmati per quanto riguarda la formazione, la determinazione e la scelta della materia di governo, potremmo dire del contenuto del potere”.

Nella società contemporanea – egli afferma – “i partiti non hanno strumenti propri per giudicare in sé e per manovrare direttamente questa materia: e se, come oggi avviene, per carenza di altre appropriate istituzioni o per timore di perdere un predominio assoluto, tentano di penetrare in questa sfera di competenza, riescono soltanto a creare confusioni di sedi e di termini, a mostrare la propria inadeguatezza… La crisi odierna dei partiti consiste per buona parte nel sentirsi e mostrarsi incapaci di dominare una realtà che non è di loro competenza. I partiti stessi, pertanto, potranno ritrovare una propria solidità istituzionale e chiarezza operativa via via che nuove istituzioni e organismi verranno ad assumere e a condurre, in forma propria, i nuovi rapporti tra cittadini e Stato”.

La democrazia diretta

A questo punto, Sebregondi affronta i problemi della ‘democrazia diretta’ tanto consona alla mentalità e all’organizzazione istituzionale dei popoli anglosassoni, e così poco di casa fra altri popoli, specie latini. Ma anche per questi il problema dell’organizzazione di nuovi istituti di democrazia diretta avrebbe dovuto porsi, dal momento che in tutti i paesi lo Stato si stava trasformando, “da spettatore o regolatore delle iniziative altrui, in attivo e autonomo operatore”.

Insomma, egli è convinto che se si vuole intervenire per lo sviluppo di una comunità, sia essa nazionale, sub-nazionale o locale, bisogna discuterne con la comunità. E questa, per poter discutere, deve organizzarsi, prepararsi, darsi forme adeguate di partecipazione e di rappresentanza.

Nelle pagine esaminate da Caputo, c’è la visione – per quanto embrionale – di un nuovo sistema di governance, in cui si intrecciano: da una parte, lo Stato garante e promotore dello sviluppo e le comunità organizzate con forme specifiche di rappresentanza diretta e, dall’altra parte, i diversi livelli della democrazia rappresentativa. La modernità di questa visione è sorprendente: un modello articolato di governance di questo tipo sarà sperimentato e in parte attuato nelle politiche di coesione regionale dell’Unione Europea. Si tratta del sistema di governance multilivello, comprensivo di forme di democrazia diretta (i gruppi Leader), in cui i piani d’azione locale sono sottoposti a processi di messa a punto e verifica orizzontali e verticali, con la partecipazione dei vari livelli territoriali e di diverse aggregazioni di cittadini.

Sebregondi scrive: “Si tratta di promuovere quella nuova forma di organizzazione dei cittadini che solleciti, guidi ed esprima il formarsi di un’autonoma capacità tecnica, politica e giuridica dei cittadini stessi a concorrere alla determinazione della politica di sviluppo economico e sociale: ciò può e deve farsi senza pretendere di sostituire ed eliminare i partiti e i sindacati, bensì liberando tali organizzazioni da compiti che sono loro impropri , e rendendo perciò stesso più sane e più ampie le condizioni della loro specifica attività”.

Come si è già detto, il contesto italiano non valorizzò le sue elaborazioni. Forse le sue proposte politiche erano troppo laiche, in un contesto nel quale lo scontro tra democristiani e comunisti era dominante e sembrava difficile concepire uno sviluppo che dovesse essere tenuto “al riparo dall’invadenza dei partiti”. Forse dal punto di vista teorico era troppo spregiudicato e attingeva al marxismo, al keynesianesimo, agli scritti di diversi economisti anglosassoni contemporanei e pianificatori di ogni parte del mondo, in un contesto accademico ancora ingessato, nel quadro di un dibattito economico dominato dal confronto tormentato tra Marx, i classici e i neoclassici.

Una sintesi per l’oggi

Caputo così sintetizza i punti salienti del pensiero di Sebregondi che potrebbe oggi essere riproposto e fatto circolare nelle attività formative, finalizzate alla costruzione di nuove classi dirigenti:

  • arretratezza e sviluppo. Rottura e ricomposizione del rapporto tra Stato e società. L’area depressa si dà in presenza di un sistema sociale bloccato, che non riesce ad approfittare delle opportunità esistenti dentro e fuori di esso. Il processo di sviluppo si ha quando questo collegamento si ristabilisce: lo Stato (sia esso nazionale o sovranazionale) offre la prospettiva e i mezzi dell’emancipazione; il sistema sociale riaccende le sue tensioni al cambiamento e si riorganizza per trovare la strada e vincere la sfida dello sviluppo.
  • la centralità del contesto istituzionale. L’inadeguatezza del sistema istituzionale è alla radice della bassa redditività degli investimenti nelle aree depresse. E finché tale inadeguatezza permane, qualunque intervento pubblico è destinato a fallire. Per modificare il sistema istituzionale bisogna partire da un incontro costruttivo tra Stato e comunità interessate.
  • Centralità e universalità dello sviluppo. L’idea dello sviluppo come prospettiva divenuta realistica di espansione sociale, superamento di un blocco e di una frattura tra dinamiche della società e istituzioni, incontro fra la proiezione delle aspettative sociali e la capacità di garantirle e organizzarle da parte dello Stato è attualissima e riguarda il Ghana come la Cina, l’Italia e gli Stati Uniti, o il Vietnam.
  • Dimensione pedagogica dello sviluppo. Una corretta azione educativa rappresenta l’anello di congiunzione fra il concetto di società e quello di sviluppo. Autoinchiesta, autoeducazione, autosviluppo sono percorsi fattibili che trovano riscontro in un ampio ventaglio di esperienze socio-educative in diverse aree del mondo.
  • Partenariato, assistenza e aiuti. Questa idea può essere addirittura rivoluzionaria se applicata alle attuali politiche di cooperazione allo sviluppo, ponendo al centro della cooperazione la “integrazione di interessi”, la condivisione di nuovi spazi di partenariato che esaltino i commerci, gli scambi istituzionali (compresa la legalità e la sicurezza) e culturali, anziché gli aiuti che – in assenza di solide partnership – ribadiscono la subalternità dei destinatari.
  • L’auto-organizzazione e la democrazia diretta. Sono le società interessate (nazioni, comunità) che devono organizzarsi e interloquire ai diversi livelli con gli Stati promotori di sviluppo, per definire e porre in atto i programmi necessari. A livello sub-nazionale, devono nascere nuovi istituti di democrazia diretta, di natura comunitaria che promuovano e permettano questo incontro e questo dialogo, al riparo dall’invadenza dei partiti. Occorrono movimenti specializzati nell’appoggio al sorgere di queste forme, alla formazione delle leadership comunitarie.
  • Nuovi sistemi di governance. Sperimentare un’adeguata dialettica tra le forme di democrazia diretta e i diversi livelli rappresentativi di governo. Così come l’integrazione tra dimensioni comunitarie sub-nazionali e sovranazionali con apertura verso l’alto e verso il basso dei processi decisionali.

 

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Papa Francesco: più cultura e più politica per l’ambiente

L’enciclica “Laudato si’” di papa Francesco andrebbe letta più volte per immedesimarsi davvero nel suo estensore. E se ne può comprendere pienamente il senso solo dopo un confronto tra più punti di vista, da sviluppare con un approccio multidisciplinare: teologico, storico, filosofico, antropologico, scientifico. Quello che non bisognerebbe fare è intruppare il papa nelle proprie “guerre sante” ma rispettare lo spirito del documento che apre a tutte le posizioni e invita al dialogo fecondo.

L’impressione che ne ricavo dopo una prima lettura è che ci troviamo dinanzi ad un testo che ambisce, infatti, ad un confronto a tutto campo con tutti, indipendentemente dai convincimenti religiosi, filosofici e politici. Non solo coi credenti e non solo con gli uomini di buona volontà; tutti dovremmo poter dialogare per contaminarci vicendevolmente. Un testo che offre un’analisi della questione ambientale intimamente connessa alla questione sociale e che guarda con rispetto a tutte le posizioni in campo. Un testo che parte da una profonda fiducia nell’uomo e nella sua capacità di produrre un cambiamento e dall’idea che qualsiasi persona che abiti il pianeta possa assumersi la sua quota di responsabilità nell’affrontare la crisi sociale e ambientale, contribuendo a promuovere uno “sviluppo sostenibile e integrale”.

L’enciclica sul rapporto tra uomo e ambiente si colloca nel solco già scavato dalla lettera apostolica di Paolo IV “Octogesima adveniens” del 1971. In quel testo si parlava esplicitamente di “sfruttamento sconsiderato della natura” e del rischio incombente che l’uomo potesse “distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione”. Successivamente, Giovanni Paolo II ha invitato ad una conversione ecologica globale e Benedetto XVI ha proposto di riconoscere che l’ambiente naturale è pieno di ferite prodotte dal nostro comportamento irresponsabile. Gran parte del testo serve dunque a ribadire posizioni già espresse dai predecessori.

Il documento contiene un’ampia panoramica della crisi ecologica e delle ipotesi di soluzione in campo allo scopo di assumere i migliori frutti della ricerca scientifica oggi disponibile: inquinamento, rifiuti, cultura dello scarto, cambiamenti climatici, acqua, perdita di biodiversità, deterioramento della qualità della vita e della mobilità nelle città sono i temi affrontati. E nell’individuare la causa di fondo di tali problemi punta il dito sulla condizione di isolamento in cui oggi si trova l’individuo e la continua erosione delle relazioni interpersonali come esiti diretti del modello di sviluppo economico, fondato sull’idea della crescita illimitata, e delle innovazioni tecnologiche introdotte non più mediante un’osmosi tra conoscenza scientifica e saperi esperienziali ma mediante forme di dominio esercitate da forze potenti.

Non ci sono novità rilevanti

Non si riscontrano novità su diversi temi a partire dall’aborto, la cui giustificazione è ritenuta incompatibile con la difesa della natura (“Non appare praticabile un cammino educativo per l’accoglienza degli esseri deboli che ci circondano, che a volte sono molesti o importuni, quando non si dà protezione a un embrione umano benché il suo arrivo sia causa di disagi e difficoltà”). Anche riguardo al tema delle politiche di controllo della natalità, l’enciclica non mostra aperture: secondo papa Francesco, infatti, “la crescita demografica è pienamente compatibile con uno sviluppo integrale e solidale”, in maniera che “incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di alcuni è un modo per non affrontare i problemi”.

Resta, dunque, aperto il problema del rapporto tra crescita demografica e squilibrio nella distribuzione della popolazione nel territorio e, a tale proposito, s’invoca la costruzione di un’etica delle relazioni internazionali per l’uso delle risorse ambientali, ma non si indicano dei principi a cui attenersi.

Tra i temi che non presentano novità merita di essere segnalato quello degli Organismi geneticamente modificati (Ogm). Checché ne dica Carlo Petrini, nel documento non c’è affatto una condanna di questa tecnologia, bensì viene ravvisata la necessità di “assicurare un dibattito scientifico e sociale che sia responsabile e ampio”. Scrive il papa: “Quella degli Ogm è una questione di carattere complesso, che esige di essere affrontata con uno sguardo comprensivo di tutti i suoi aspetti, e questo richiederebbe almeno un maggiore sforzo per finanziare diverse linee di ricerca autonoma e interdisciplinare che possano apportare nuova luce”. C’è qui una critica molto esplicita a talune scelte degli Stati, a partire dal nostro Paese, che da tre lustri non finanziano più linee di ricerca sugli Ogm, come denunciato ultimamente in Parlamento dalla senatrice Elena Cattaneo.

Per quanto riguarda il tema della crescita economica, bisogna fare attenzione a non fraintendere il termine “decrescita” nelle proposte del papa: alcune attività e realtà devono decrescere (quelle ad alto impatto ambientale) e altre devono crescere (quelle innovative a minore o nullo impatto). La critica è rivolta al mito della priorità della crescita economica senza qualità sociale e ambientale e non già alla crescita sostenibile.

Una novità sembra essere il passaggio sulle dinamiche dei media e del mondo digitale, “che, quando diventano onnipresenti, non favoriscono lo sviluppo di una capacità di vivere con sapienza, di pensare in profondità, di amare con generosità”. E si auspica “uno sforzo affinché tali mezzi si traducano in un nuovo sviluppo culturale dell’umanità e non in un deterioramento della sua ricchezza più profonda”. È del tutto condivisibile l’idea che “la vera sapienza, frutto della riflessione, del dialogo e dell’incontro generoso fra le persone, non si acquisisce con una mera accumulazione di dati” e che la comunicazione mediata da internet “permette che condividiamo conoscenze e affetti, benché, a volte impedisce di prendere contatto diretto con l’angoscia, con il tremore, con la gioia dell’altro e con la complessità della sua esperienza personale”. Torna anche in questo caso, la giusta preoccupazione per l’esito insoddisfacente nelle relazioni interpersonali e per i rischi di un dannoso isolamento dell’individuo.

Papa Francesco

Papa Francesco

Le responsabilità della politica e della società civile

La forza dell’enciclica va ricercata nelle parole usate per sottolineare l’aggravamento della crisi ambientale e le responsabilità della politica e del mondo della cultura: “Il problema è che non disponiamo ancora della cultura necessaria per affrontare questa crisi e c’è bisogno di costruire leadership che indichino strade, cercando di rispondere alle necessità delle generazioni attuali includendo tutti, senza compromettere le generazioni future”. E l’affondo continua così:  “Si richiede dalla politica una maggiore attenzione per prevenire e risolvere le cause che possono dare origine a nuovi conflitti. Ma il potere collegato con la finanza è quello che più resiste a tale sforzo, e i disegni politici spesso non hanno ampiezza di vedute”. Il papa imputa, dunque, l’aggravamento dei problemi ambientali alla mancanza di una classe dirigente di rilevanza mondiale che sappia agire con lungimiranza e in piena autonomia rispetto ai poteri finanziari.

Ma il dito è puntato anche verso una società civile incapace di confrontarsi rispettosamente su temi di così vasta portata. Il documento del papa riconosce infatti “che si sono sviluppate diverse visioni e linee di pensiero in merito alla situazione e alle possibili soluzioni”. C’è chi afferma – ricorda il pontefice – che i problemi ecologici si risolveranno semplicemente con nuove applicazioni tecniche, senza considerazioni etiche né cambiamenti di fondo. Altri ritengono che la specie umana, con qualunque suo intervento, possa essere solo una minaccia e compromettere l’ecosistema mondiale, per cui converrebbe ridurre la sua presenza sul pianeta e impedirle ogni tipo di intervento. “Fra questi estremi – afferma Francesco – la riflessione dovrebbe identificare possibili scenari futuri, perché non c’è un’unica via di soluzione. Questo lascerebbe spazio a una varietà di apporti che potrebbero entrare in dialogo in vista di risposte integrali”.

Il dialogo tra saperi diversi

L’enciclica dedica poi un capitolo alle convinzioni di fede che derivano dalla sapienza dei racconti biblici e che vengono offerte come contributo fecondo al dibattito tra scienza e fede, tra fede e ragione: elementi questi che si collocano su piani diversi ma possono integrarsi, alimentando una conoscenza reciproca tra culture, religioni, arti, convinzioni filosofiche, acquisizioni scientifiche.  Anche in questo caso non viene stravolta la visione tradizionale della Chiesa sul rapporto tra essere umano e natura ripresa dalla Genesi, che pone l’essere umano al centro del mondo naturale, con la responsabilità di prendersene cura. Una lettura, questa, che – da quando, nel 1967, Lynn White, studioso statunitense di storia medievale, definì il cristianesimo come la religione più antropocentrica del mondo – si è spesso attirata l’accusa di cadere in un eccessivo antropocentrismo, presentando l’essere umano come “signore della creazione”, con il compito di soggiogare la natura e di domarla a suo piacere, e ponendo l’universo semplicemente al suo servizio. Una visione a cui è stata ricondotta, anche, la responsabilità di aver alienato l’essere umano dall’ambiente, in quanto l’unico “a immagine e somiglianza di Dio”, dunque non realmente naturale, e di aver separato in maniera netta Dio dalla natura, spogliando questa di ogni sacralità e in tal modo svalutandola e riducendola a una materialità inerte, senza alcuna rilevanza salvifica.

Anche a giudizio del papa “il pensiero ebraico-cristiano ha demitizzato la natura”, in quanto, “senza smettere di ammirarla per il suo splendore e la sua immensità, non le ha più attribuito un carattere divino”. Ma in ciò egli vede, al contrario, un’ulteriore sottolineatura del “nostro impegno nei suoi confronti”: “Un ritorno alla natura non può essere a scapito della libertà e della responsabilità dell’essere umano, che è parte del mondo con il compito di coltivare le proprie capacità per proteggerlo e svilupparne le potenzialità”. Come pure il papa riconosce all’essere umano, “benché supponga anche processi evolutivi”, “una novità non pienamente spiegabile dall’evoluzione di altri sistemi aperti”, “una singolarità che trascende l’ambito fisico e biologico”: “La novità qualitativa implicata dal sorgere di un essere personale all’interno dell’universo materiale presuppone un’azione diretta di Dio, una peculiare chiamata alla vita e alla relazione di un Tu a un altro tu”.

L’approfondimento serve al pontefice per respingere un’accusa contro il pensiero giudaico-cristiano che avrebbe favorito lo sfruttamento selvaggio della natura, ricavando dal racconto della Genesi un’immagine dell’essere umano come dominatore e distruttore.  “Coltivare” e “custodire” la terra, di cui parla il testo biblico, sono due concetti che si completano a vicenda e implicano una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura. “Ogni comunità – argomenta l’enciclica – può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla e garantire la continuità della sua fertilità per le generazioni future”. La Bibbia non dà adito, dunque, ad un antropocentrismo dispotico che non si interessi degli altri viventi.  E la Chiesa non dice in maniera semplicistica che le altre creature sono completamente subordinate al bene dell’essere umano, come se non avessero un valore in sé stesse e noi potessimo disporne a piacimento. La sapienza biblica è pervasa dalla convinzione che “tutto è in relazione, e che la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri”. Insomma, il papa prende le distanze dall’”ossessione di negare alla persona umana qualsiasi preminenza”. E nega che “un antropocentrismo deviato” possa lasciare il posto “a un biocentrismo”, perché ciò implicherebbe introdurre un nuovo squilibrio, che non solo non risolverebbe i problemi, bensì ne aggiungerebbe altri.

L’enciclica opera uno sforzo evidente per superare gli aspetti più anti-ecologici della tradizione giudaico-cristiana: sia riconoscendo agli altri esseri viventi un valore proprio di fronte a Dio; sia ricordando “che noi stessi siamo terra”; sia abbracciando una visione olistica, in cui tutto è intimamente connesso, tutto è in relazione, tutti gli esseri formano “una sorta di famiglia universale”.

Rifondare il rapporto tra scienza, tecnica e società

La lettura di questo capitolo sulle convinzioni di fede ci riporta, per molti versi, a quella cultura contadina che compone la linfa vitale delle radici delle nostre società odierne.  La trasformazione della natura a fini di utilità è una caratteristica del genere umano fin dai suoi inizi, e in tal modo la tecnica “esprime la tensione dell’animo umano verso il graduale superamento di certi condizionamenti materiali”.

Del resto, la nascita dell’agricoltura, diecimila anni fa, combinandosi con l’uso di simboli, misure, calcolo e scritture, rese possibile lo sviluppo della scienza applicata.  E ciò ha consentito alle società umane di evolvere verso forme di organizzazione complesse. La cultura agricola esperienziale, propria del mondo rurale, e quella scientifica, agronomica ed economico-agraria, si sono entrambe caratterizzate, fino agli albori degli anni sessanta, per la loro capacità di far convivere una visione economico-produttivistica dell’attività agricola con una visione conservativa delle risorse ambientali.

Nella cultura contadina è presente da un tempo immemorabile l’idea che la terra in determinate condizioni “si stanchi”. Ora, l’idea di stanchezza attiene ad un organismo vivente e il fatto che i contadini abbiano sempre associato questa condizione anche alla terra per rispettarne il decorso è la prova di un profondo senso di responsabilità nei confronti di questo bene.  Il momento in cui avviene la rottura tra la conoscenza scientifica e la cultura agricola esperienziale e, dunque, dell’equilibrio tra visione produttivistica dell’attività agricola e visione conservativa delle risorse ambientali va, a mio avviso, collocata dagli anni sessanta in poi con il venir meno progressivamente di un impegno pubblico nella trasmissione del progresso tecnico e, più complessivamente, nelle politiche territoriali che guardano non solo al sostegno agli investimenti ma anche alle attività educative e di crescita culturale.

Da lì bisogna ripartire, con una visione globale dei problemi ambientali e coinvolgendo l’insieme dei cittadini, per ridefinire il rapporto tra scienza, tecnica e società, rifondandolo sulla responsabilità, sull’educazione e sull’interazione dei saperi. Da questa angolatura, l’enciclica contiene un’impostazione chiara, aperta e fiduciosa. E potrà sicuramente essere di stimolo ad una ripresa del confronto su questioni decisive che riguardano il futuro dell’umanità, se tutti accettiamo l’invito all’ascolto reciproco.

Testo dell’Enciclica


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Una Repubblica da fondare sulla capacità di creare lavoro

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La Costituzione italiana si apre con questa affermazione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. La formula fu proposta all’Assemblea costituente da Amintore Fanfani che la illustrò con queste parole: “Niente pura esaltazione della fatica muscolare, come superficialmente si potrebbe immaginare, del puro sforzo fisico; ma affermazione del dovere di ogni uomo di essere quello che ciascuno può in proporzione dei talenti naturali, sicché la massima espansione di questa comunità popolare potrà essere raggiunta solo quando ogni uomo avrà realizzato, nella pienezza del suo essere, il massimo contributo alla prosperità comune”. Le parole “fondata sul lavoro” non esprimono un concetto giuridico ma indicano una caratterizzazione dal punto di vista economico-sociale e anche politico e storico. Solo in un altro passaggio del suo intervento, il relatore fa emergere anche un significato giuridico non per quello che la formula dice, ma per quello che, approvandola, si volle escludere: “Dicendo che la Repubblica è fondata sul lavoro, si esclude che essa possa fondarsi sul privilegio, sulla nobiltà ereditaria, sulla fatica altrui”.

Questo principio costituzionale vuole, dunque, affermare il dovere di ogni cittadino di essere quello che può in proporzione dei propri talenti. E va ad integrarsi con l’altro principio fondamentale contenuto nell’articolo 4 che recita: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Si tratta naturalmente di un diritto potenziale che vuole solo – come spiegò l’on. Ruini nella relazione al progetto – “impegnare vivamente lo Stato ad attuare l’esigenza fondamentale del popolo italiano di lavorare”. Anche Ernesto Rossi nella sua bella opera “Abolire la miseria”, scritta nel 1942 durante il confino a Ventotene, afferma senza mezzi termini che la nozione “diritto al lavoro” è un’assurdità che discende dalla “falsa idea che basti produrre delle cose che soddisfino ai bisogni umani perché il lavoro risulti economicamente produttivo”. Il lavoro non è un diritto che può essere soddisfatto solo dalle leggi sul lavoro. È questa idea molto immiserita di lavoro ad averlo reso un oggetto misterioso.

Se i principi fondamentali riguardanti il lavoro sono rimasti essenzialmente sulla carta e non si sono messi in pratica, c’è una motivazione culturale che andrebbe messa in risalto. Nel nostro Paese si guarda con indifferenza se non con sospetto al lavoro autonomo, intraprendente e, quindi, all’impresa. Ed è questo atteggiamento culturale, sociale e istituzionale negativo verso le imprese che impedisce quel moto solidale spontaneo che tutti dovremmo avere – proprio in base ai principi della nostra Costituzione – verso tutti coloro che decidono di intraprendere fino a consentire loro di raggiungere l’obiettivo occupazionale desiderato dalla collettività. Basta visitare un qualsiasi centro per l’impiego per rendersene conto. È sufficiente entrare in una scuola e ascoltare una qualsiasi lezione per accorgersene. Sono pochissimi gli intellettuali in Italia capaci di affrontare il tema del lavoro dal versante dell’impresa. Qualsiasi iniziativa politica o sindacale sul lavoro non vede mai protagonisti coloro che il lavoro devono crearlo ma solo quelli che ritengono di doverlo ottenere da qualcun altro in quanto “diritto” da “riscuotere”.

Allora cosa si deve fare per “creare lavoro”, come scrive Luca Meldolesi nel suo ultimo libro, per “sprigionare il potenziale produttivo” che c’è nei nostri territori?

Si deve iniettare cultura imprenditoriale che manca: quell’autodisciplina per acquisire costanza, ingegnosità, conoscenza del contesto, capacità di inventare un’idea e pilotarla verso il successo. Ma non basta combinare imprenditorialità, organizzazione e contabilità aziendale. Occorre affrontare le dimensioni psicologiche, antropologiche, sociologiche, sociali, storiche, identitarie, ecc., della creazione del lavoro.

L’imprenditoria non è un’erba spontanea che cresce e si espande in maniera naturale. È il risultato di processi motivazionali che vanno stimolati, accompagnati e orientati verso le migliori pratiche, tenendo conto delle vocazioni e prerogative territoriali. È il frutto di legami comunitari, di beni relazionali, di fiducia da tessere costantemente. È l’esito di una guerra gigantesca da fare tutti i santi giorni contro la mentalità e la pratica assistenzialistica, che è causa ed effetto del clientelismo, della corruzione e dell’illegalità.

La capacità imprenditoriale è un valore che va coltivato come componente fondamentale di quell’aspirazione dell’uomo a incivilirsi, a elevarsi, mediante un percorso tortuoso che non ha mai fine per evitare di correre il pericolo di tornare indietro verso la barbarie. È ricerca continua dell’innovazione e del cambiamento che si contrappone energicamente alla semplice ripetizione della vita. È dinamismo, non è mai un punto di arrivo e neppure un plafond ormai assodato su cui si può sostare (e magari addormentarsi sugli allori). È capacità di abbandonare ogni visione centralistica dello Stato e dell’economia (tutto deve arrivare dall’alto) e di praticare invece un federalismo democratico dal basso, come approccio alla costruzione di buone e sane relazioni di ognuno con le altre persone, con la comunità e con le istituzioni. È anelito a conoscere altre culture e a mettere a disposizione la propria per produrre collaborazioni, processi di ibridazione, contaminazione, costruzione di novità. È superamento di ogni provincialismo, di ogni visione autarchica e neonazionalista per aprirsi alla relazione Italia-mondo, al multiculturalismo attivo, alla cooperazione tra le diverse comunità che vivono in paesi differenti. Non c’è alcuna contraddizione tra il recupero del legame con il territorio e l’internazionalizzazione dell’economia. Solo gli sciamani integralisti che difendono le proprie botteghe – in un mondo dove convive una pluralità di ethos del mercato e di modelli produttivi e di consumo – mettono in contrapposizione questi due elementi. La capacità imprenditoriale è un processo civilizzante di relazioni interpersonali e di conoscenza per superare lo stato di cose esistente e immaginare il futuro con ragionevoli speranze.

 

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Aiuti diretti agli agricoltori: una cattiva politica che distrugge l’idea di Europa

pac

Il Comitato Economico e Sociale Europeo (CESE) ha adottato una relazione informativa su “La riforma della PAC: modalità, diversità, effetti redistributivi e altre scelte degli Stati membri nell’applicazione della riforma dei pagamenti diretti” (relatore Mario Campli) e l’ha trasmessa alle istituzioni della UE. È auspicabile che su questo documento si apra un dibattito pubblico e non si continui a tenere la testa sotto la sabbia. La PAC non è una politica qualsiasi. Il suo bilancio, pari a EUR 408 miliardi per il periodo 2014-2020, rappresenta il 38% dell’intero bilancio dell’UE. Il primo pilastro, pari a 313 miliardi, rappresenta il 77% della spesa totale PAC. I pagamenti diretti, pari a 294 miliardi, rappresentano il 94% del primo pilastro. Questa tipologia di intervento pubblico è la più importante (in termini finanziari) politica “comune” dell’UE. Se questa non funziona, non fallisce solo una politica ma è l’insieme dell’idea di Europa che è messa in discussione e perde di credibilità.

Il testo diffuso dal CESE è  molto articolato perché esamina le decisioni prese dagli Stati membri nell’ambito delle settanta aree di intervento attribuite alla loro discrezionalità. Nella proposta legislativa della Commissione gli ambiti in cui gli Stati membri avevano piena autonomia decisionale erano venti. Il regolamento uscito dalla negoziazione tra il Parlamento, il Consiglio e la Commissione accresce di altre cinquanta le aree di intervento degli Stati membri. Qual è il significato di tale evoluzione? Come mai si è giunti ad un esito siffatto? Quali conseguenze si prevedono per la stessa tenuta del processo di costruzione europea?

Una PAC senza strategia come merce di scambio politico

Da una semplice lettura della lista delle attribuzioni risulta che si tratta di un insieme disorganico di materie e di scelte, alcune di maggiore rilevanza, altre di dettaglio. Con tutta la buona volontà non è possibile individuare alcuna strategia sottostante la flessibilità offerta agli Stati membri. E le decisioni adottate dai governi nazionali non fanno altro che produrre automaticamente, nell’insieme dell’Unione, un effetto moltiplicatore sia nella quantità delle scelte sia nella diversità delle stesse. Un effetto domino che accresce a dismisura la complessità e la farraginosità di questa tipologia di intervento pubblico.

Per procedere ad una lettura d’insieme di tali decisioni il CESE ha adottato una metodologia di analisi articolata in tre passaggi: a) individuazione delle decisioni veramente cruciali; b) individuazione di un sistema di misurazione per esprimere una visione complessiva delle scelte effettuate nell’insieme del territorio dell’Unione, di tipo quali-quantitativo (su una scala da 1 a 5); c) applicazione dell’analisi fattoriale, come tecnica di analisi finalizzata a sintetizzare la complessità delle relazioni tra le variabili trattate. Il sistema di misurazione è basato sulla rilevazione delle scelte adottate, collocate tra i due estremi della scala.

Ne vien fuori un’articolazione molto ampia di modalità che produce effetti redistributivi non valutabili in quanto manca una chiara strategia a livello comunitario e manca anche un quadro coerente e credibile delle presunte strategie nazionali adottate.

L’impressione generale che se ne ricava è quella di un grande e confuso scambio politico (una volta si chiamava, con linguaggio greve ma efficace, “clientelismo”) che vede protagonisti, da una parte, i governi nazionali e i parlamentari europei disponibili a soddisfare qualsiasi richiesta, e, dall’altra, le organizzazioni agricole che rivendicano cose anche contraddittorie tra loro, pur di mettere in bella mostra un ruolo di rappresentanza che di fatto da tempo hanno dismesso.

Elementi costitutivi di una politica dannosa

La relazione informativa del CESE rileva che già la riforma in sé contiene elementi fortemente discutibili.

Il primo elemento risiede nella stessa scelta di conservare una PAC basata su due pilastri, e soprattutto di assegnare, nell’ambito del primo, un ruolo prevalente ai pagamenti diretti. La formula dei pagamenti diretti presenta il difetto di una vaga e poco definita relazione tra obiettivi della politica agraria e strumenti adottati per perseguirli, con il rischio di un’inefficiente distribuzione delle risorse. D’altra parte, il loro frazionamento in una serie di misure (pagamento base, inverdimento, giovani, ecc.) ha aggiunto complessità all’intervento.

Il secondo elemento si lega alla scelta di assumere l’ettaro di superficie come misura dell’equità distributiva tra agricoltori europei. Seppure tale soluzione può apparire quella più facilmente praticabile, non è sulla base dell’unità di superficie che si possono comparare tra di loro le agricolture europee. La scelta dell’ettaro si traduce in un premio alle agricolture più estensive e a più basso valore aggiunto, oltre che, indirettamente, in un rischio importante di trasferire l’aiuto diretto dall’agricoltore affittuario al proprietario della terra. Inoltre, l’aumento dei valori fondiari costituisce un ostacolo alla mobilità fondiaria e al rinnovo generazionale.

Il terzo elemento risiede nella duplicazione e sovrapposizione delle misure tra 1º e 2º pilastro. Segnatamente nei due pilastri sono contemporaneamente comprese misure per la sostenibilità ambientale, i giovani e le aree con vincoli naturali. A parte quest’ultima opzione, che è stata attivata soltanto (ed in misura modesta) dalla Danimarca, le altre due, e soprattutto l’inverdimento, pongono non pochi problemi di compatibilità tra obiettivi e strumenti.

In aggiunta alle suddette criticità insite a monte della stessa riforma della PAC, il CESE ha individuato altri elementi problematici che fanno molto riflettere.

Il primo è che se le politiche comuni europee sono il risultato di scelte così farraginose e rese ancor più disarticolate e contraddittorie con il sistema di governance messo in piedi – che prevede una laboriosa ed estenuante negoziazione tra le tre istituzioni – è evidente che la tela dell’unicità delle politiche tenderà nel tempo a lacerarsi. In altre parole, il sistema decisionale sperimentato con la riforma della PAC contiene in sé un virus che determina automaticamente un processo di rinazionalizzazione di politiche che i Trattati definiscono “comuni”.

C’è poi un altro rilievo importante che la relazione informativa contiene e che va sottolineato. Tutti i regolamenti base sulla riforma della PAC prevedevano un coinvolgimento della società civile nel suo complesso nelle decisioni autonome adottate dagli Stati membri. Da una indagine condotta dal CESE attraverso i suoi membri, risulta al contrario che questa mobilitazione della società civile non è avvenuta. In realtà hanno partecipato alle scelte dei governi nazionali solo le organizzazioni degli agricoltori. In altre parole, il maggior capitolo di spesa del bilancio comunitario viene utilizzato attivando canali partecipativi opachi e ristretti che impediscono ai cittadini europei organizzati di esprimere le proprie valutazioni sulle decisioni politiche che li riguardano.

Dunque, la politica agricola comune risulta meno “comune” che in passato; l’analisi delle informazioni relative alle scelte compiute delinea chiaramente questa percezione. Il lungo processo decisionale ha portato a ritardi nell’accordo politico e nell’applicazione della PAC. Basti ricordare che la nuova PAC si applica dal 1° gennaio 2015 (ovvero, un anno dopo rispetto alla data prevista inizialmente) e che, date le difficoltà di implementazione, gli agricoltori devono presentare le richieste di aiuto senza una completa conoscenza delle nuove norme, a rischio di incorrere in errori che non andrebbero penalizzati.

La PAC che si praticherà nei prossimi anni non sarà più spedita. La relazione del CESE registra che il risultato finale della riforma e delle successive scelte effettuate dagli Stati membri, sulla base di una platea di oltre settanta opzioni delegate, non è una PAC più semplice. La scomposizione dei pagamenti diretti in una serie di misure (pagamento base, inverdimento, ecc.) rischia di tradursi, altresì, in maggiori complicazioni amministrative. In alcuni casi, peraltro, la flessibilità non è poi stata utilizzata, anche in ragione della complessità burocratica. Ne sono un esempio le “pratiche equivalenti” all’inverdimento, introdotte nel corso del negoziato sulla riforma, ma di fatto applicate nel 2015 solo da cinque paesi.

Nel corso della realizzazione concreta della riforma e delle scelte applicative degli Stati membri, le cui conseguenze nelle dinamiche concrete delle aziende agricole e dei mercati agricoli devono ancora manifestarsi, sarà necessario monitorare e verificare puntualmente se l’ampia diversificazione definita nella procedura di co-decisione risulti compatibile con i principi di una politica agricola che i Trattati stessi definiscono ancora “comune”.

Dinanzi a tutte queste incertezze, incongruenze e contraddizioni, forse è davvero giunto il tempo di decidere di chiudere una volta per sempre questo capitolo degli aiuti diretti – che sempre più si rivela un inutile spreco di risorse pubbliche – e di finalizzare i finanziamenti a concreti ed efficaci progetti di sviluppo rurale, gestiti localmente in modo condiviso dalle comunità.

Quello che dovrebbe rimanere come utile politica “comune” andrebbe racchiuso in un’unica azione: assicurare la sicurezza alimentare (garanzia delle forniture e tutela degli agricoltori e dei consumatori) nei confronti della crescente volatilità dei prezzi, attraverso la gestione del rischio fondata su schemi assicurativi e fondi mutualistici, anche in relazione alla necessità della regolazione dei mercati, sempre più aperti e non regolati. È questa la vera riforma della PAC che si attende da 25 anni. Gli aiuti diretti introdotti dalla riforma MacSherry del 1992 dovevano durare solo cinque anni. Ma ancora oggi non riusciamo a liberarcene perché su questa tipologia di intervento pubblico abbiamo costruito un apparato faraonico di gestione che non sa come riciclarsi. Il tutto sulla testa degli ignari cittadini e degli stessi agricoltori europei che subiscono silenti e rassegnati.

 

 

 

 

 

 

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Innovare restando fedeli a se stessi

cittacastello

È difficile parlare di questi tempi agli imprenditori italiani. Soprattutto di argomenti apparentemente astratti, non legati a qualche provvedimento fiscale o a qualche aiuto comunitario. Coloro che fanno impresa in Italia sembrano smarriti e sfiduciati. Al di là degli annunci del governo e di qualche scampolo di riforma che si è riusciti a realizzare, i risultati sono magri e non si avvertono segnali significativi di ripresa. Negli Stati Uniti si è avviato un nuovo ciclo di sviluppo industriale fondato su internet e sulla robotica e, naturalmente, su una trasformazione totale del lavoro sia dipendente che imprenditoriale e su forme totalmente nuove dell’abitare.  Il governo cinese ha varato un programma di costruzione di nuove città dove si trasferiranno entro il 2020 cento milioni di contadini che lasceranno le campagne. I nuovi centri urbani che stanno per nascere non saranno le metropoli fordiste che si sono sviluppate in occidente tra l’ottocento e il novecento. Ma le città-territorio che assorbono gli antichi conflitti tra città e campagna in nuovi equilibri sociali, economici e territoriali, in nuove modalità dell’abitare, mettendo insieme tecnologie digitali, robotica, biotecnologie.  Dove la crisi viene affrontata seriamente, s’investe in sviluppo e innovazione, puntando su ricerca, sperimentazione e istruzione. Si sogna e s’inventa coi piedi per terra. Non si piange e non ci si dispera. Si aguzza il cervello per trovare strade nuove, mai percorse.

In Italia stiamo sulla difensiva

In Italia pensiamo invece di affrontare le difficoltà, stando sulla difensiva. Ci riteniamo l’ombelico del mondo. Interpretiamo il made in Italy come un’arma con cui perseguire improbabili disegni neonazionalisti e, nello stesso tempo, autarchici. Molti sciamani ogni giorno riempiono le prime pagine dei giornali per dispensare a piene mani l’illusione che l’economia italiana possa riprendersi facendo leva esclusivamente sui nostri beni storico-culturali e ambientali e sulle nostre tipicità. Basterebbe – secondo questi venditori di fumo – mettere insieme un po’ di agricoltura e turismo. Niente industria e niente città. Come se l’industria fosse finita con la conclusione del ciclo fordista e la città fosse esaurita con la fine della metropoli. Tra queste lugubri voci che si levano nella foresta preannunciando imminenti catastrofi e improbabili ritorni all’eden, la maggior parte dell’imprenditoria italiana non sa come reagire ed è allo sbando.

È in tale contesto che ho accettato volentieri l’invito di Riccardo e Raoul Ranieri – gestori dell’oleificio fondato nel 1930 a Città di Castello da Domenico Ranieri – ad una iniziativa organizzata a Palazzo Vitelli nella cittadina umbra, in collaborazione con il mio amico oleologo Luigi Caricato, dal titolo significativo: La ricchezza intangibile dell’olivo. Abbiamo così potuto parlare di cultura, crescita, innovazione, futuro in un confronto molto appassionato e non scontato tra giornalisti, scrittori e operatori economici. C’erano con me, oltre naturalmente Luigi Caricato, Giorgio Boatti, Maria Latella e Brunello Cucinelli.

La vocazione originaria dell’agricoltura

Ho raccontato come diecimila anni fa nacque l’agricoltura. Si tratta di ieri se rapportiamo questo tempo ai milioni di anni che ci separano dalla comparsa dei primati sulla terra. Da sempre i gruppi umani si spostavano da un punto all’altro del globo alla ricerca di piante spontanee o di animali da predare per ricavarne del cibo. Allora alcune donne, stanche di quella vita nomade che mal si adattava alle funzioni riproduttive, incominciarono ad osservare come avveniva la crescita e la fioritura di una pianta. Carpendo i segreti della natura, intuirono un fatto straordinario: dal momento della semina di una cultivar di frumento, selezionata tra tante in natura, e il tempo del raccolto, sarebbe trascorso un anno. E rimuginarono che quello era il tempo sufficiente per portare avanti una gravidanza. Gioirono al pensiero di quella intuizione. Finalmente potevano dare un senso e una giustificazione al loro bisogno di fermarsi e di mettere radici in un determinato territorio.  I maschi continueranno ancora per alcuni millenni ad andare a caccia di animali e a raccogliere frutti spontanei. Per loro il mondo non aveva un luogo ma ovunque ci fosse cibo era una meta da raggiungere e poi abbandonare. Le prime comunità stanziali saranno, dunque, formate prevalentemente da donne, bambini e anziani.

Come si può constatare da questo racconto, l’agricoltura non nasce per produrre cibo, come oggi siamo portati a credere per effetto di una comunicazione superficiale e non fondata sulla cultura e sulla scienza. Il cibo già c’era ed era in abbondanza. L’agricoltura nasce per dar vita alle prime comunità umane stanziali. Nasce come forma di vita collettiva, come opportunità per acquisire un primo e rudimentale approccio scientifico nelle attività umane, come ambito di regolazione condivisa per utilizzare le risorse ambientali comuni e così organizzare al meglio le attività comunitarie di cura. La coltivazione della terra sorge come attività di servizio per poter abitare un determinato territorio. Il significato più profondo di coltivare è servire la natura e la comunità al fine di abitare dignitosamente in un luogo. La lingua tedesca chiama con una medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare; il nome dell’agricoltura (Ackerbau) non suona coltivazione, ma costruzione; il colono è un edificatore (Bauer). Nel Mediterraneo non sono le città a nascere dalla campagna: è la campagna a nascere dalle città, che è appena sufficiente ad alimentarle. I contadini mediterranei hanno sempre voluto vivere nelle città – i luoghi degli scambi – dove poter svolgere attività molteplici e avere rapporti continuativi e fecondi con altre città, nonché con la cultura e la scienza. Se si legge attentamente il poema di Esiodo Le Opere e i Giorni, scritto tremila anni fa, si può notare che l’attività agricola è considerata come un servizio, un rito religioso. I lavori e gli scambi sono organizzati sulla base del principio di reciprocità. Essi consistono soprattutto nell’aiuto tra i vicini. La terra è ritenuta una divinità da servire. Essa impartisce i propri comandi mediante il rigore delle stagioni e i cicli regolari della vita vegetale. Noi oggi conosciamo bene le modalità e gli effetti dell’asservimento dell’uomo alla macchina. Ma nell’attività agricola c’è un asservimento ancor più avvolgente alle regole di buon vicinato, ai tempi dettati dalla natura, dal clima, alla resistenza del terreno, alle regole per preservare la fertilità del suolo, alle regole per utilizzare l’acqua in modo parsimonioso. Coltivare non è solo manipolare la natura: è prima di tutto servire la comunità e la natura. Il raccolto del prodotto della coltivazione era funzionale ad una pluralità di impieghi che permettevano l’insediamento stanziale. Solo una parte di quel prodotto serviva ad integrare i frutti spontanei e le proteine animali di terra e di mare. Sin dalle origini l’olio da olive è stato impiegato in una molteplicità di usi. La sfera alimentare si mantiene sempre secondaria. Gli impieghi prevalenti sono nell’illuminazione e nell’industria laniera per poter abitare più agiatamente le città e vestirsi in modo più adeguato. La nascita dell’agricoltura ha costituito un potente correttivo di civiltà.

Il cibo come scambio tra culture diverse

Sin dall’invenzione dell’agricoltura, il cibo e l’atto del mangiare hanno costituito un veicolo di pratiche e dispositivi culturali, capaci di fornire una rappresentazione dei mondi altri. Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare tra culture diverse aprendo i sistemi di cucina ad ogni sorta di invenzioni, incroci, sincretismi, ibridismi e contaminazioni. Conoscere le culture alimentari di un gruppo e scambiare i cibi può, dunque, costituire una pratica che favorisce l’integrazione.

Educare invece a un’alimentazione autarchica e chiusa agli scambi con altre culture, significa negare in radice l’assunto di fondo della nostra cultura del cibo. È davvero penoso e ignobile che s’insinui nei nostri ragazzi – così come sta accadendo mediante programmi di comunicazione e promozione impropriamente finanziati dal pubblico – un odioso pregiudizio: l’idea che l’olio e le olive degli altri paesi che s’affacciano sul Mediterraneo siano di per sé scadenti. E che lo stigma sia inculcato magari in presenza di ragazzi i cui genitori sono originari proprio di quei paesi. Un’umiliazione inflitta a questi nostri nuovi concittadini senza una qualche plausibile giustificazione, specie ora che l’Italia diventa sempre più multietnica.

L’idea che una specie alimentare del mio giardino sia più buona di un ortaggio che arrivi da terre lontane non appartiene alla nostra storia alimentare. Non era mai accaduto che il cibo costituisse un elemento identitario così forte da essere utilizzato per definire un confine invalicabile tra sé e i “barbari” che ci minacciano. Se guardiamo alle nostre tradizioni culinarie si trova sempre un atteggiamento di grande apertura e curiosità nei confronti di qualsiasi specie esotica. La nostra alimentazione presenta stratificazioni e sedimentazioni originatesi in epoche storiche e in spazi geografici lontani; è riflesso e testimonianza di arrivi, passaggi, incontri, commistioni, fluttuazioni, intensi dialoghi con il mondo mediterraneo, l’Oriente, l’Europa continentale e le Americhe. Insomma, le radici della nostra identità alimentare si diramano molto lontano da noi.

Con l’avvento della globalizzazione ci è sembrato che il cibo potesse subire un processo di appiattimento. E saggiamente abbiamo reagito a questo fenomeno valorizzando le diversità. La normativa europea sulle denominazioni d’origine ci ha voluto rammentare che le identità possono essere molteplici. Il cittadino di Matera (che si riconosce nel cibo della sua città e delle sue campagne) non è solo un membro del villaggio globale ma è anche cittadino di Basilicata, d’Italia, d’Europa. E ciascuna di queste identità – tutte mutevoli e in costruzione – vuole i suoi simboli alimentari.

Ma queste multiformi identità hanno tutte pari dignità. Nessuna possiede, sul piano simbolico, uno spessore culturale che sovrasta l’altra. Anzi convivono pacificamente e vanno sempre più a integrarsi e completarsi a vicenda. Solo da noi la cultura della tipicità, da strumento di affermazione del pluralismo delle identità, viene esasperata fino al punto di trasformarla in arma con cui tentare di difendersi nella competizione globale. Da strumento per far convivere identità diverse, la tipicità è diventata elemento scatenante di conflitti tra chi ritiene di affermare l’identità e chi viene accusato di volerla annientare, tra chi presume di tutelare la vera ed unica identità e chi viene tacciato come il paladino della non-identità. Una concezione che esclude ogni collaborazione con le agricolture di altri Stati, considerate come nemiche da combattere. Il tutto condito di una diffusa avversione alla scienza, dettata spesso da timori egoistici e paure millenaristiche; avversione che impedisce l’innovazione.

La nuova ruralità è un’innovazione sociale

L’innovazione, infatti, non si fonda sullo scambio di prodotti autarchicamente pronti e finiti, ma sullo scambio di idee. È per questo che oggi si tende a definirla come innovazione sociale. Solo mettendo insieme le idee, collaborando tra agricolture di paesi diversi, partecipando culturalmente a un processo e integrando apporti scientifici multidisciplinari, riusciamo a realizzare un’innovazione.

Come diecimila anni fa, una nuova agricoltura sta silenziosamente introducendo un correttivo di civiltà. In una globalizzazione che pare aver smarrito il senso del luogo, dagli anni settanta in poi va riemergendo un’agricoltura di servizi che pochi riescono a scorgere e a valutare nel suo significato più autentico. Un’agricoltura sociale che ricostruisce territori e comunità, sperimenta nuovi modelli di welfare, promuove inserimenti socio-lavorativi di persone svantaggiate in contesti non assistenzialistici ma produttivi. Un’agricoltura civile che reintroduce nello scambio economico il mutuo aiuto e la reciprocità delle relazioni interpersonali.

Ancora una volta sono le donne a guidare questo processo di innovazione: non a caso la loro presenza è significativa proprio nelle attività agricole di servizi. Questa nuova agricoltura non mette in alternativa la dimensione territoriale e quella dell’internazionalizzazione. Non si chiude a riccio contro le multinazionali, l’industria, il commercio, i servizi, la ricerca, la scienza. È consapevole  che la rivoluzione tecnologica in atto offre enormi opportunità per individuare percorsi di sviluppo, costruire reti che si diramano nei territori e nel mondo.  L’importante è restare fedeli a se stessi, alla propria vocazione: quella dell’agricoltura è produrre beni relazionali e legami comunitari e poi viene tutto il resto.

 

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale



Senza europei non ci sarà mai un’Europa

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Se non si costruisce prima una società civile forgiata da comunità di cittadini e formazioni sociali che imparino a riconoscersi reciprocamente come europee e appartenenti ad una stessa comunità politica, al di là dei confini nazionali, e che svolgano attività d’interesse generale europeo, non potranno mai nascere istituzioni politiche europee di governo legittimate democraticamente. Ma al momento non c’è una sola associazione europea che svolga effettivamente un’attività di interesse generale sovranazionale.

Se non si costruisce prima un’opinione pubblica europea capace di creare un orizzonte culturale comune, non potranno mai nascere istituzioni politiche europee di governo legittimate democraticamente. Ma al momento non c’è nemmeno un quotidiano che contribuisca a formare un’opinione pubblica effettivamente europea orientata ad elaborare una cultura europea comune.

Se non si costruiscono prima partiti effettivamente europei in grado di elaborare proposte di politica estera e di politica economica di dimensione europea, non potranno mai nascere istituzioni politiche europee di governo legittimate democraticamente.

Siamo in molti ad auspicare la nascita degli Stati Uniti d’Europa. Ma cosa facciamo concretamente e personalmente perché società civile, opinione pubblica e partiti politici evolvano effettivamente nella dimensione europea?

Siamo in molti ad avvertire l’esigenza di una nuova classe dirigente di rango europeo. Ma dobbiamo essere consapevoli che questa si forma inizialmente nella società civile. Non potrà mai nascere né nei partiti, né nelle istituzioni. Allora cosa facciamo concretamente e personalmente per contribuire a formarla?

La costruzione degli Stati Uniti d’Europa non ha nulla a che vedere con la costruzione di un super-Stato a cui trasferire la sovranità degli Stati nazionali. L’esasperata conflittualità che la vicenda greca ha fatto esplodere  è il sintomo più evidente che il percorso federativo dell’ideale europeo è stato tradito.  È  illusorio pensare di evitare i conflitti fra Leviatani (gli Stati nazionali europei) costruendo una sorta di super-Leviatano europeo. Rimarremmo dentro la stessa logica hobbesiana che concepisce la società partendo dal presupposto homo homini lupus. Se non ci liberiamo di questo pregiudizio non faremo nessun passo avanti.

La crisi dell’Unione Europea è l’esito di un’insofferenza delle popolazioni nei confronti di un potere, quello dei burocrati di Bruxelles, che cercano di integrare l’Europa costruendo una sorta di super-Stato, anziché cercare di realizzare una federazione di Stati che lasci il massimo delle libertà a ciascuno di essi e unifichi solo gli interessi comuni.

Quali sono questi interessi comuni da unificare? Innanzitutto l’interesse a relazionarsi insieme verso il resto del mondo per promuovere lo sviluppo delle aree da cui provengono le migrazioni. L’altro interesse comune è la pace interna ed esterna, attraverso una maggiore solidarietà e cooperazione interna e la costruzione di partnership con altri Stati o organismi sovranazionali. Gli Stati Uniti d’Europa devono avere in comune due grandi politiche: la politica estera e la politica economica.

Per realizzare una siffatta unità europea, un criterio di governance globale non può che essere la sussidiarietà. Questo significa che ciascuno deve agire in modo da aiutare l’altro a fare ciò che l’altro deve fare. Non sostituirlo, ma capacitarlo.

L’Europa potrà diventare Unione politica se sarà una rete di reti di relazioni fra soggetti di società civile che creano una cittadinanza europea dal basso e sono sostenuti da un sistema politico (l’Unione) che agisce in modo sussidiario verso di essi. Non si può non vedere che oggi avviene del tutto il contrario.

Pochi sanno che l’UE non ha mai voluto riconoscere le associazioni europee, perché teme le formazioni sociali intermedie. L’attuale UE vuole controllare tutto e tutti attraverso un potere economico e politico invasivo. C’è un intento non detto nell’idea di super-Stato con una moneta unica che attraversa trasversalmente le culture politiche di tutti i raggruppamenti: in un super-Stato si applicherebbe esclusivamente la norma del voto democratico; cioè la regola secondo la quale il più forte imporrebbe la sua volontà.

Una federazione fondata, invece, anche sul principio di sussidiarietà tutelerebbe le singole comunità politiche. Le quali creano beni relazionali per sé, ma li rendono disponibili e fruibili per altri, a patto che essi accettino le regole del rispetto reciproco e della responsabilità verso la socialità che costituisce il tessuto di quella comunità. Si tratta di abbandonare l’idea di integrazione livellatrice e omologante e realizzare quella di interazione tra le culture fondata sulla reciprocità e il mutuo aiuto. Se gli europei non si riconosceranno prima come europei non ci sarà mai un’Europa.

 

Fonte : afonsopascale.it apri l’articolo originale