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Il tema dell’edilizia sostenibile è all’ordine del giorno non solo tra gli addetti ai lavori ma anche a livello governativo, economico e sociale: gli edifici del prossimo futuro dovranno sfruttare fonti rinnovabili, sprecare meno energia possibile e integrarsi con l’ambiente circostante per consentire alle persone una migliore qualità di vita.
Ne abbiamo parlato con un personaggio di spicco dell’architettura italiana, Stefano Boeri, noto al grande pubblico per essere l’artefice del cosiddetto “Bosco Verticale”, un nuovo complesso residenziale a Milano in cui le forme tipiche dei grattacieli sono state integrate ed arricchite da piante ed alberi disposti su più livelli. Boeri è stato recentemente incaricato di ricostruire con criteri moderni e sostenibili alcuni luoghi pubblici di Amatrice. L’intervista è andata in onda in “A Conti Fatti” rubrica di EconomiaCristiana.It trasmessa ogni domenica da Radio Vaticana 105.0.
Architetto Boeri, il suo bosco verticale non è solo un nuovo stile architettonico ma anche un nuova filosofia edilizia che porta l’ambiente a diretto contatto con gli edifici. Può raccontarci la genesi, l’essenza e la filosofia di questa idea?
Le torri di Milano, il “Bosco verticale”, sono due edifici alti 120 e 90 metri che ospitano sulle facciate circa 21 mila piante: 850 alberi e 5 mila arbusti; le restanti 15 mila sono piante rampicanti, perenni ecc. L’idea è contribuire fortemente a cambiare il rapporto tra artificio e natura all’interno di una grande città. Portare l’equivalente di due ettari di bosco su una piccola superficie nel centro di una città vuol dire, da un lato, produrre ossigeno e assorbire CO2 grazie a foglie, alberi e piante; dall’altro assorbire le polveri sottili del traffico e creare condizioni climatiche che riducono fortemente i consumi energetici.
L’altro grande contributo di questi edifici, che stiamo verificando e studiando in questi mesi, è rispetto alla biodiversità: non solo ci sono più di 100 diverse specie di piante ma hanno anche nidificato più di 15 specie di volatili; significa che molte specie che erano lontane dei cieli di Milano, sono tornate a nidificare grazie a questo esperimento. Io credo che sia un prototipo, un esperimento che sta dando dei frutti interessanti.
Le due torri milanesi sono edifici di pregio, destinati a persone benestanti. Si può conciliare l’edilizia sostenibile con quella popolare?
L’investimento importante fatto per queste due torri ci ha permesso di fare una serie di ricerche e trovare delle soluzioni tecniche che prima non avevamo a disposizione. Oggi noi siamo in grado di utilizzare queste conoscenze per realizzare architetture che hanno una destinazione molto diversa. In Cina, Francia, Svizzera e Albania stiamo facendo delle architetture, non così alte, anche con funzioni diverse, tutte però con la presenza degli alberi sulle facciate, come elemento caratteristico. Quindi, assolutamente si: oggi si può pensare anche ad un’edilizia sociale che porti la natura a contatto diretto con gli abitanti.
In un recente seminario a Pavia, organizzato per discutere di architettura alla luce dell’enciclica ambientale di papa Francesco, la “Laudato si’”, le ha dichiarato che gli architetti hanno ora anche un ruolo attivo nella salvaguardia dell’ambiente e nel miglioramento delle condizioni sociali nelle città.
Credo che la “Laudato si'” sia un testo di grandissima importanza perché pone con forza il problema di un’etica della responsabilità nei confronti del rapporto con la natura. Senza ipocrisie chiama, non solo gli architetti, ma tutti quelli che hanno a che fare con le trasformazioni dello spazio, a fare i conti con le grandi questioni dell’ecologia; l’ecologia integrale, olistica, a cui oggi è importante guardare, come il Pontefice sottolinea più volte.
Credo che, da questo punto di vista, il lavoro dell’architettura sia importante, perché si tratta di immaginare una città che stabilisca un rapporto diverso con la natura. Non dimentichiamo che le città producono circa il 70% dell’anidride carbonica che viene poi immessa nell’atmosfera, e le foreste e i boschi ne assorbono il 45%. Quindi portare i boschi, la foresta, dentro la città, significa in qualche modo andare a combattere il nemico dov’è più forte; oppure, in altri termini, immaginare un nuovo modo di conciliare la città con la presenza della natura. E’ davvero una sfida importantissima per il futuro, e questo richiamo a una visione ecologica integrale mi sembra importantissimo.
Il nostro paese è pronto a questa sfida, dal punto di vista politico, amministrativo, finanziario ed economico?
L’Italia ha delle caratteristiche particolarissime. E’ un paese dove il consumo di suolo, la crescita delle città a scapito dell’agricoltura e della natura non si è mai arrestato. Contemporaneamente è un paese dove sono cresciute le foreste e i boschi perché l’abbandono delle campagne, l’abbandono dell’agricoltura, l’abbandono dei piccoli centri appenninici ha determinato una crescita delle foreste spontanee. Io credo che oggi dovremmo ragionare molto bene su questa condizione e capire, ad esempio, che investire sui boschi e le foreste, che sono una risorsa di tutto il territorio italiano, dalla Valle d’Aosta al Trentino, dal Lazio agli Abruzzi, alla Calabria, potrebbe portarci non solo a immaginare un paesaggio dove la forestazione, anche urbana, è più importante, ma immaginare anche un modello economico. Come nel secolo scorso il carbone e l’acciaio sono stati risorse materiali che hanno, in qualche modo, ispirato e governato un intero modello produttivo, credo che il legno il legno dei nostri boschi possa diventare una risorsa fondamentale per pensare a un sistema di distretti del legno nelle diverse regioni italiane che in qualche modo coprano tutta la filiera: dal taglio, perché sappiamo che la selvicoltura cura e aiuta le foreste e la biodiversità, fino alla fabbricazione, agli arredi, al riciclo del legno come materiale ecologico. E’ un investimento importante. Un po’ provocatoriamente mi è capitato di dire che in Italia servirebbe un ministero del legno e dei boschi.
Un’applicazione pratica di questo concetto è la nuova mensa di Amatrice, realizzata in gran parte in legno, per cui lei ha prestato gratuitamente la sua opera. Può raccontarci il progetto e il suo impegno futuro per le zone terremotate?
Siamo stati chiamati dal Corriere della Sera e dal TG La7 a immaginare uno spazio che fosse una mensa scolastica ma, come il Sindaco di Amatrice ci ha subito chiesto, fosse anche un luogo pubblico, per eventi; un luogo d’incontro della comunità ma anche, mi piace dire, un luogo di lavoro: abbiamo finito di costruire l’edificio della mensa, stiamo finendo l’edificio di altri otto ristoranti, e a pasqua dovremmo inaugurare una piazza che, di fatto sarà, un polo dell’alimentazione, dell’agro alimentare, che darà lavoro a circa 130 persone, quindi a 130 famiglie. Io credo che l’attenzione alla ricostruzione dei luoghi di lavoro sia la condizione perché le comunità non si disperdano. L’effetto di un sisma è che in pochi secondi annulla secoli di storia e decenni di memoria collettiva; si perde il rapporto col presidio del territorio che solo il lavoro può dare: quando dico lavoro intendo pastorizia, zootecnia, enogastronomia, turismo, artigianato. Quando si perde quell’elemento, si perde il senso del fare città, del fare comunità sul luogo. Quindi penso che sia fondamentale partire dal ricostruire, inventare luoghi di lavoro, che permettono alle comunità di non perdere il rapporto con quel territorio.