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Diario Europeo n.29
“Questa” Unione Europea potrebbe essere considerata come “sospesa in un passato rimosso”. La definizione è stata data, recentemente, da Gian Enrico Rusconi alla situazione del Brennero, mentre il governo dell’Austria ipotizzava di ristabilire la frontiera con l’Italia. Per estensione potremmo usare questa immagine per evidenziare il tipo di fase che sta vivendo l’intera Unione: appare come sospesa sul passato delle diverse Europe della storia. “ La geopolitica insegna che, nelle vicende politiche, le rotture prevalgono spesso sulle continuità e che il passato incombe sul presente, e dunque sul futuro”. Così scrive Manlio Graziano, in: “Le cinque Europe (più una)”, La Lettura/Corriere della sera, 8 maggio 2016. E aggiunge un esempio, a dir poco, inquietante: “durante i quarantasette anni di esistenza delle seconda Jugoslavia (1945-1992), le differenze tra serbi, croati, sloveni, bosniaci eccetera sembravano definitivamente svaporate, al punto che nove famiglie su dieci erano formate da coppie miste. Nel 1992 all’improvviso la guerra civile riprese là dove si era fermata nel 1945, tanto che i nemici principali ripresero perfino i nomi di allora: cetnici serbi contro ustascia croati”.
Cinque Europe: Europa mediterranea (capitale, Roma); Europa carolingia (capitale, Parigi-Aquisgrana); Europa prussiana (capitale, Berlino); Europa asburgica (capitale, Vienna); Europa bizantino-ottomana (capitale, Istanbul). Più una: Europa britannica (capitale, Londra).
“Sotto i confini del vecchio Continente riaffiora l’antica eredità di alcuni blocchi geopolitici rivali: carolingio, mediterraneo, bizantino-ottomano, prussiano, asburgico. E quello britannico, che potrebbe staccarsi per via referendaria”. L’articolo-analisi presenta e commenta un saggio uscito nel 2012, di Robert D. Kaplan : “The revenge of Geography – La vendetta della geografia”. R. Kaplan, con un sottotitolo (“ La battaglia contro il fato”) ha voluto prendere le distanze da un simile approdo.
Anche “Diario europeo”, continuando a descrivere il cammino faticoso di “Una filosofia per l’Europa”, vuole contribuire ad arginare una simile sventura. Vogliamo continuare, dunque, ad approfondire, con una terza ed ultima puntata, le dinamiche della filosofia europea, convinti che sono proprio la cura e la cultura di un pensiero europeo gli antidoti ad una deriva di questo tipo. Lo facciamo, benintesi, senza girare la testa per non vedere ciò che è sotto i nostri occhi: le molteplici pulsioni e le diverse forme socio-politiche (ormai anche organizzate in partiti, e persino al governo di Stati membri) che producono un pericoloso bradisismo politico e culturale. La Geografia si vendicherà? Dove la Politica non arriva, sarà la forza del Pensiero a supplire e a rigenerarla.
(French Theory)
Mentre in Germania si sviluppava la ricerca che abbiamo molto sinteticamente richiamato nei due precedenti “Diari”, con una guerra che squassava il continente, anche dalla Francia molti intellettuali emigrano negli USA, portando in quel nuovo contesto l’articolatissima filosofia francese. “Mentre surrealismo, esistenzialismo e storiografia delle ‘Annales’ sono stati trapiantati come tali, prima di essere americanizzati – scrive Roberto Esposito – la French Theory è un prodotto creato ex novo dagli intellettuali americani, dopo l’arrivo negli Stati Uniti di un piccolo drappello di filosofi francesi” (p.111). Come i vari Derrida, Deleuze, Foucault, con molta libertà avevano lavorato sui testi di Hegel, Nietzsche e Heidegger, così gli interpreti americani della loro filosofia hanno successivamente rielaborato il loro pensiero, dando origine a quella che chiamiamo “French Theory”, dandole una nuova energia e “ tale da proiettarla , in traduzione inglese, nel circuito internazionale” . E così, in tale ambito vasto, la ricerca ed il pensiero di Althusser (critica marxista della ideologia), Lévi-Strauss (Antropologia), Psicoanalisi (Lacan), Letteratura (Barthes), analisi Linguistica (Saussure), trovano un nuovo inizio. E proprio in questo nuovo destino “ad essere in gioco, ancora una volta, è proprio la questione del fuori. Il modo di impostarla e, prima ancora, di intenderla. Dove passa il “fuori” e cosa, precisamente, esso significa? Quali sono i suoi confini e quando si mostra per la prima volta? Da dove emerge e verso cosa muove? Sia Derrida, sia Foucault inscrivono il proprio pensiero nell’orizzonte aperto da questi interrogativi” (p.122).
Attenzione: la portata strategica di questi interrogativi sta nel fatto eminentemente ‘politico’ che essi riguardano l’Europa e la sua perduta centralità. Ed è proprio Michel Foucault – nella sua ricerca intorno alla “biopolitica” e al “biopotere” – a consentire l’ancoraggio con la concretezza della storia. Questi concetti (filosofici) “riconosciuti nella loro storicità e perciò sottratti alla totalizzazione cui naturalmente tendono, (possono) essere assunti come campi di lotta, e dunque di potenziale rovesciamento degli attuali rapporti di forza,( e) costituiscono il fronte avanzato delle dinamiche politiche contemporanee” (p.144).
(Italian Thought)
L’indagine filosofica di Foucault ci consente di approcciare il contesto italiano. “Se le sue radici affondano nell’operaismo degli anni Sessanta, la nozione di “Italian Thought” nasce, assai più recentemente , in relazione all’elaborazione della categoria di ‘biopolitica’ (p.146); ma non bisogna pensare a una derivazione del “Pensiero Italiano” dalla “Teoria Francese” , anche se resta indubitabile un collegamento con essa: da una parte, con la ricerca di Giorgio Agamben (Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita -1995), dall’altra con il noto saggio di M. Hardt e A. Negri (Impero- Cambridge 2000/Milano 2001).
La derivazione, però, non può essere ritenuta immediata (senza ulteriori mediazioni ), per via della “sua (del Pensiero Italiano) tendenza alla contaminazione (che ) ne rende impossibile una definizione autoctona, centrata intorno ad un nucleo identitario (….) Un debito analogo, il pensiero italiano lo contrae nei confronti della filosofia tedesca, in una modalità che spesso si sovrappone alla matrice francese (…) Autori come Walter Beniamin e Carl Schmitt non risultano meno influenti nella costruzione del pensiero italiano attuale, di Foucault e Deleuze” (p. 157). Approfondiamone alcune tendenze.
(qualità specifiche)
“Per un verso il pensiero italiano appare più giovane, e più immaturo (…) per altri versi coglie elementi della contemporaneità – soprattutto relativi all’orizzonte della politica – in maniera precoce e anche più incisiva di altre genealogie filosofiche” (p.158). Non stiamo, quindi, dinanzi ad un fenomeno “minore”, ma diverso e specifico. Le altre filosofie “sperimentano nei confronti della prassi politica, una distanza o quantomeno un dislivello (…) il pensiero italiano rovescia tale tendenza, trovando nell’azione politica un radicamento essenziale” (p.158). Certamente alla base di questa tendenza c’è anche l’impegno politico dei suoi protagonisti (vedi l’operaismo degli anni Sessanta e proiezioni nei successivi anni). Ma forse c’è anche una specificità ulteriore; “anziché precedere la prassi, nasce da essa in una forma che oltrepassa sia la autonomia della filosofia sia la neutralità della teoria”. Perciò, Roberto Esposito lo chiama “Pensiero”, e non “Filosofia” o “Teoria”. Subito, dunque , possiamo individuarne una sorta di precipitato nella circostanza che “il movimento del ‘fuori’, nella riflessione italiana contemporanea, coincida con il terreno del ‘contro’, in una tensione di natura politica” (159).
(una linea di filiera)
Questa configurazione ci spinge, infatti, a individuare una linea di ascendenza che ci rinvia ad un pensiero che va oltre gli ultimi cinquant’anni: e ci fa incrociare un percorso “che da Machiavelli arriva a Gramsci, e quindi, le esperienze dell’umanesimo civile, l’illuminismo riformatore, l’hegelismo napoletano, la resistenza al fascismo (…) e lo scontro con il potere , politico ed ecclesiastico (che) ha segnato l’intera storia del “Pensiero Italiano” già da Bruno, Galilei e Campanella (…) la morte violenta di Gramsci e Gentile , seppure ai lati opposti della medesima barricata in difesa del proprio pensiero, conferisce a questo (Pensiero) una intensità politica difficilmente rintracciabile in altre culture nazionali “ (p. 159). Nello stesso tempo – e qui fa premio un contesto storico-ambientale anch’esso tutto specifico e anche grandioso – esso assume e invera nella contemporaneità “figure arcaiche, o comunque di provenienza greca e romana, come : bios, sacertas, communitas, persona, imperium” (p. 159). Dunque: politica e storia; ma anche: natura e crisi. “Quello del rapporto tra teoria e crisi e quello della relazione tra secolarizzazione e teologia politica, la riflessione di Vico, ma anche di Cuoco e Leopardi hanno influito potentemente sulla discussione aperta in Italia a partire dagli anni settanta” (p.161). E fino ai giorni presenti, con gli studi di Paolo Virno e di Remo Bodei.
(proviamo a ricapitolare)
L’Italian Thought mostra da un lato, “ un lessico prevalentemente politico”, dall’altro, “traduce la semantica del ‘fuori’ in quella del ‘contro’; la sua (apparente) non assonanza con il linguaggio filosofico, gli consente una “tendenza alla valorizzazione del conflitto” (p. 169, passim). Attenzione, però: in forme diverse e anche con linguaggi diversi questo “Pensiero” confluisce – con accentuazioni – in quella “ attitudine antagonista (che) non è estranea né alla filosofia tedesca né a quella francese (…) essa costituisce, infatti, il presupposto della dialettica negativa di Adorno, ed è implicita nella dinamica tra potere e resistenza, teorizzata da Foucault” (p. 170).
(la teologia politica, andare oltre)
Il potere. Intorno allo studio del potere si è sviluppata, dunque, “una delle più complesse categorie della tradizione europea” (p. 185). Roberto Esposito ha dedicato a questa specifica tematica un saggio, a se stante, nel 2013 (“Due. La macchina della teologia politica e il posto del pensiero”, Einaudi). La teologia politica è una teoria (una interpretazione) del potere (della sovranità) e, quindi anche, del Moderno. Scrive Massimo Cacciari, in un recente piccolo e densissimo saggio: “L’espressione ‘teologia politica’ non può limitarsi a significare l’influenza esercitata da idee teologiche sulle forme della sovranità mondana” ( “Il potere che frena”, Adelphi,2013, p.12). La sua ampia e densa portata, dunque, va cercata in Carl Schmitt su cui “Diario” si è intrattenuto nel suo n. 27 del 19 Aprile. In un sua opera specifica (“Politische Theologie, 1922/ edizione italiana a cura di: G.Miglio e P, Schiena- “Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità”, 1972) Schmitt tratteggia la sua concezione della sovranità: “Sovrano è colui che decide sullo stato di eccezione”; dove – da giurista- sottolinea il limite del diritto statuale. Nello stesso tempo, egli indica dove sta il luogo o l’origine della sovranità: “la politica oltre lo stato”. “ Dove – precisa Roberto Esposito- al termine ‘oltre’ va conferito un significato di ulteriorità, ma anche di originarietà, seconda la nota tesi schmittiana che lo Stato presuppone il principio del politico” (p. 186). Gli autori italiani che hanno ‘pensato’ dietro l’impulso schmittiano sono soprattutto Mario Tronti e Massimo Cacciari. Essendo la “teologia politica un pensiero della fine” (Tronti), “il potere qualsiasi sia, dall’Impero agli Stati che nascono dalla sua dissoluzione, tende a frenare tale evento (la fine) ritardandone il compimento (…) A contendersi il dominio del mondo sono le nuove potenze, sempre più autonome da fini generali, dell’economia e della tecnica, di fronte alle quali risultano patetici gli appelli del Politico” (Cacciari). Sullo sfondo, per tutti, resta la analisi di Paolo di Tarso (San Paolo) e la sua visione della dialettica permanente tra: fede/legge, promessa/comando, potere costituente/potere costituito. Ma “se c’è una questione che tutti gli esponenti dell’Italian Thought tematizzano, pur se da angoli di visuale e con intenzioni differenti, è quella della fine della teologia politica (…) La teologia politica si mostrerebbe come la figura millenaria che ha assunto la metafisica a partire da quando le religioni monoteistiche hanno riempito il nostro spazio di pensiero” (p. 194). Specularmente, già negli anni Venti, il giovane W. Benjamin aveva aperto un altro orizzonte di speculazione e di analisi parlando di “capitalismo come religione”.
Fin qui, si potrebbe dire: una filosofia dell’Europa. “Teologia politica e teologia economica sono articolazioni interne di quella macchina metafisica cui ancora soggiacciono il nostro linguaggio e la nostra condizione”, così verso la fine della sua corsa attraverso il pensiero filosofico europeo – dentro guerre tremende e stato-nazioni impotenti – chiosa Roberto Esposito (p. 195).
(Una filosofia per l’Europa)
Ma ecco che la ‘Storia’ si incarica di darci la sua lezione. Scrive Roberto Esposito: “il 31 maggio del 2003 un articolo co-firmato da Habermas e da Derrida (ormai i lettori e le lettrici di Diario hanno dimestichezza con questi protagonisti!) sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, non solo sanciva la fine del Kulturkampf franco-tedesco, ma intendeva siglare un nuovo inizio per la filosofia europea. Esso coglieva nelle manifestazioni di protesta contro la guerra anglo-americana in Iraq, simultaneamente attivate a Parigi, Berlino, Roma, Madrid e Londra, “ i segni della nascita di una sfera pubblica europea” (scrivevano i due filosofi). E aggiunge Esposito: “In realtà ciò che sembrava un fenomeno nuovo era il punto di precipitazione di un processo avviato già un quindicennio prima dal collasso dell’impero sovietico e dalla conseguente riunificazione della Germania (p. 195).
Care lettrici e cari lettori di “Diario”, torniamo ancora lì, sotto il muro crollato di Berlino.
Sotto le macerie di quel Muro sono rimasti sepolti: la vergogna di una dittatura comunista, che costituiva una macchia nelle eredità culturali e umanistiche dell’Europa, la drammatica vicenda umana e il dolore di tanti caduti in fuga dall’est all’ovest sotto i colpi di una polizia cieca e ottusa e il sistema politico, economico e militare specifico della guerra fredda, antidoto inutile alle reiterazioni delle follie belliciste. Quelle macerie, però, una volta che la polvere si è posata e con essa sono evaporati anche gli entusiasmi e la festa, hanno svelato: la “sorpresa” di una intera classe dirigente che, a sua volta, ci sorprende; la impreparazione sia dei governi sia degli apparati (le mitiche “cancellerie”) degli Stati- nazioni che ancora oggi ci inquieta; il disegno strategico di unità europea (il sogno europeo originario degli anni Cinquanta: fine delle guerre fratricide, la pace, l’unita a piccoli e progressivi passi) fondata consapevolmente su una condivisa e permanente divisione della Germania. Forse non si poteva pretendere di più dai fondatori di un sogno, degno veramente di questo termine, all’indomani della immensa sciagura: le due guerre mondiali. “ Le macerie lasciate dalla guerra non erano soltanto materiali, ma coinvolgevano anche un pensiero che non aveva saputo costituire un argine contro tale deriva” (p. 196).
Due sono le lezioni, permanenti e indimenticabili. La prima: le generazioni nuove – Millenials – non diano per scontata la conquista della pace; non la diano mai come un bene “scontato”. La seconda: una lezione, non ancora ben acquisita sia dalle classi dirigenti dei Paesi membri dell’Unione, sia da diversi movimenti e organizzazioni della società civile europea: l’Unione europea che continua la sua costruzione dopo la riunificazione della Germania è lontanissima dalla Comunità europea dei Trattati di Roma. Dopo il 1989, la semantica del discorso europeo è radicalmente cambiata. L’Europa non è (solo) una risposta alle tragedie del passato ma una proposta strategica per affrontare le sfide del futuro. Bisogna, allora, correre, correre. Da una parte, il completamento della Unione economica e monetaria, dall’altra l’avvio deciso e convinto della Unione politica.
Ma vorrei lasciare l’ultima parola al filosofo Roberto Esposito che ci ha accompagnato in questa piacevole e intensa camminata nel pensiero europeo: “E’ urgente rimettere in moto il processo al momento bloccato di unificazione politica. Solo in tal caso , l’Europa sarà in grado di perseguire scopi strategici in rapporto a questioni globali di carattere politico, economico, sociale, distinguendosi sia dal capitalismo senza uguaglianza di tipo anglosassone sia da quello senza libertà di marca asiatica. Ciò che in tal modo si profila all’orizzonte, come unica alternativa, reale e possibile, a un mondo unipolare percorso da conflitti endemici, è un multilateralismo di vaste entità regionali, diversamente caratterizzate, in grado di bilanciarsi reciprocamente. All’interno di esso l’Europa ha storia, risorse, cultura”.(p. 235)