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Scrivere su Roma, per parlare a chi?

Mentre la città affonda nelle macerie della sua fantastica Storia come un incubo nelle Carceri di Piranesi, scrivere su Roma è un po’ come scommettere, alle corse, su un cavallo zoppo: inutile sprecarci inchiostro, e poi per parlare a chi? Non certo ad amministratori afoni, preoccupati solo di rispondere a un codice etico stabilito dal loro partito o dal loro Capo, e neppure alle singole persone abituate, come solo succede ai romani, ad attraversare campi minati, scavalcare fili spinati, attendere inutilmente autobus sgangherati. Un suk di disperazioni. Chi si ricorda che questa città ha bisogno di idee e progetti? Chi si preoccupa del fatto che esiste una città di sotto dove invisibili presenze senza nome costruiscono rifugi e rovistano tra rifiuti? Eppure, magari perché poco inclini all’assuefazione, continuiamo ostinati a domandarci: sarà ancora possibile disegnare un modo diverso di essere moderni senza pensare di essere a Dubai?

Di Roma si parla ormai solo in occasioni di cronache giudiziarie, di scandali, di presunte o vere mafie, di aggressioni e stupri. Nel mentre la città affonda nelle splendide macerie della sua fantastica Storia, come nelle Carceri di Piranesi. «Siamo sereni, andiamo avanti» è il refrain della sindaca Raggi e della sua squadra, ma nessuno sa in quale direzione. Sarebbe più saggio affermare: «Fermiamoci e chiediamoci dove e in che direzione andare».

Scrivere su Roma è come scommettere, alle corse, su un cavallo zoppo: inutile sprecarci inchiostro, e poi per parlare a chi? Non certo a questi amministratori afoni preoccupati solo di rispondere a un fantomatico codice etico stabilito dal loro partito o dal loro Capo, e neppure alle singole persone ormai abituate, come solo succede ai romani, ad attraversare campi minati, scavalcare fili spinati, attendere inutilmente autobus sgangherati sperando che non cedano lungo il percorso.

Si è dimenticato che una città ha bisogno di idee e progetti; i quali, però, non sono quelli che dovrebbero renderla simile a Dubai o a qualche altra fantasmagoria ultra (o post) moderna. Si è dimenticato che esistono periferie in balia di attività illegali, droga, disagio esistenziale ed economico. E si è dimenticato che esiste una città di sotto dove invisibili presenze senza nome costruiscono rifugi e rovistano tra rifiuti.
Quando le cose vanno bene, l’amministrazione si limita alla pura ragioneria contabile, strozzata dai debiti. La rassegnazione dilaga incontrastata: è già tanto che qualche autobus arrivi alla fermata e raggiunga il capolinea o che una delle due metro funzioni.

È già tanto che non ci si azzoppi una gamba durante il percorso ad ostacoli per arrivare al lavoro. E una volta arrivati si tira un sospiro di sollievo: anche questa mattina ce l’ho fatta, sono salvo! Nel mentre sciami di cavallette travestite da turisti, scendono da torpedoni a due piani, pronti a divorare tutto ciò che incontrano: dall’Altare della Patria al Mosè di Michelangelo, non distinguendo l’uno dall’altro. Centri commerciali fioriscono come funghi intorno e oltre il raccordo anulare e si leggono, sempre più spesso, cartelli di affittasi o vendesi di antichi negozi e botteghe che non ce l’hanno fatta; fioriscono nuovi Bingo, nuovi negozi di «Compro oro», o creative insegne di «Non solo pane», «Non solo pizza»: un suk di disperazioni.

C’è chi ritiene che Roma sia afflitta da un ritardo di modernizzazione, una modernizzazione mancata o incompiuta, tanto che si invoca il trasferimento della sua funzione di capitale ad altre città (la solita Milano). Ma di quale mancata modernizzazione si parla? Non quella di far funzionare gli autobus, di dare pace a una metropolitana che non sa da che parte andare né di mettere fine al problema dello smaltimento dei rifiuti o di valorizzare (anziché far chiudere) quei centri sociali e quelle associazioni dove si creano lampi di possibili comunità conviviali, nuove culture e nuovi linguaggi. Né, ancora, di accogliere i diseredati del mondo o di intervenire sul risentimento delle periferie, prima che diventino polveriere pronte ad esplodere.

Roma non è mai stata, non lo è ancora adesso, e non sarà mai moderna se a questa parola si attribuisce il significato di competere nella classifica delle città globali, o di essere luogo indiscusso della finanza mondiale, o di essere smart o brand per attirare capitali. E insistere nella necessità di modernizzarla (leggi: politica delle grandi opere), è come tentare di normalizzare il collo della giraffa per farlo diventare come quello di un cavallo.

Roma non ha bisogno di aggiunte, di imbellettamenti per diventare una star nel firmamento della globalizzazione o un’attraente prostituta in attesa di clienti. Roma ha già quanto ogni altra città desidererebbe avere; non servono le grandi opere, serve, al contrario, far funzionare e valorizzare ciò che già c’è (non era questo il programma della sindaca Virginia Raggi?). Perché allora non utilizzare questa sua «mancata modernizzazione», questo suo cronico «ritardo», per trarne un vantaggio competitivo nella scena globale, per sviluppare un modo diverso di essere moderni?

Questo potrebbe essere il progetto. Valorizzare le sue bellezze (arte, cultura, tradizioni) e perfino quella sua lentezza e pigrizia, risorsa rara in un mondo che corre troppo veloce; valorizzare la sua tradizione antirazzista (forse più per pigrizia che per merito), per creare luoghi e occasioni di accoglienza, valorizzare quell’immenso patrimonio di verde dell’Agro romano minacciato dall’urbanizzazione, valorizzare le tante esperienze di centri e comunità che producono cultura, convivenza tra diversità e quel welfare spontaneo fatto di coltivazione di orti e di pratiche di sopravvivenza.

E poi ancora impegnarsi seriamente per il Progetto Fori rendendo finalmente giustizia a Antonio Cederna. Dovremmo insomma fare tesoro di questa sua diversità anziché tentare di accorciare il collo della giraffa per renderla simile a un cavallo di razza, del quale non se ne sente alcun bisogno.

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