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A quasi cento giorni dall’insediamento di Virginia Raggi come Sindaco di Roma, la città ha vissuto ieri l’ennesima giornata di teatralizzazione della politica. La messa in scena – di questo si tratta: una rappresentazione mediatica di un processo decisionale, da fruire nel palcoscenico delle piattaforme comunicative dei social media – riguardava il voto dell’Assemblea capitolina sulla candidatura di Roma alle Olimpiadi del 2024.
La giornata di ieri rappresenta la sintesi perfetta del quadro politico romano e dell’approccio alla gestione del potere delle sue classi dirigenti, quelle emergenti – i 5 Stelle – e quelle tradizionali, impersonate dal presidente del Coni Giovanni Malagò. Il ruolo di quest’ultimo nelle vicende della Capitale venne descritto magistralmente dal giornalista economico Alberto Statera su «Repubblica», nell’ormai lontano 2007: «Giovanni Malagò, detto affettuosamente “Megalò”, figlio di una nipote dell’antico ministro democristiano Pietro Campilli, ex concessionario-principe della Bmw e ora di Ferrari e Maserati, ha fatto negli ultimi anni del Reale Circolo Canottieri Aniene, nato nel 1892 da una costola del Tevere Remo (considerato allora troppo nero e papalino) la più formidabile concentrazione di upper class della capitale. Una sorta di stanza di compensazione dei poteri borghesi dei ruoli e della ricchezza, il melting-pot perfetto di commercianti e professionisti, costruttori e alti burocrati, personaggi dello sport, dello spettacolo e imprenditori».
Ieri, insomma, si rappresentava la lotta di classe 2.0 nella sua declinazione romana, quella tra i «cittadini» dell’uno vale uno e la Roma del generone. Ha vinto la piccola borghesia avvocatizia -assurta oggi a «classe generale» – di Virginia Raggi (residente nella borgata, sebbene adottiva, di Ottavia), contro lo strapotere dei quartieri bene: Parioli, Flaminio e Trieste-Salario. Impossibile comprendere quanto avvenuto ieri senza avere chiara la geografia simbolica della città.
Ma ieri si è inscenata, questa volta nella sostanza, la Caporetto della politica e dei buoni processi decisionali. Si sono palesati i limiti e il carattere di queste due anime di Roma, e si è persa l’ennesima occasione per avviare un dibattito acceso e informato sul futuro di una città priva – letteralmente – di progetti o piani strategici. Non sapremo mai se Roma avrebbe potuto disegnare con successo un grande evento internazionale; ma non sappiamo nemmeno se essa sarebbe stata in grado di discuterne in modo sufficientemente maturo da portare a una decisione adeguata, almeno per approssimazione (come sappiamo essere avvenuto per Londra 2012 o per Boston 2024, dove si è invece deciso di rinunciare alla candidatura attraverso un dibattito pubblico serrato).
Oggi, per capire Roma, vanno esaminati con attenzione i comportamenti di questi due contendenti. Partiamo da quello in sella da maggior tempo, il Comitato Roma 2024 di Giovanni Malagò (nell’epoca della personalizzazione della politica non può non personalizzarsi anche la «comitatologia»). Il peccato originale del Comitato è stato quello di non voler coinvolgere in modo reale la città. Gli strumenti e i software per dibattere e partecipare sono ormai innumerevoli, e sono stati testati in moltissimi processi decisionali attorno al globo: poteva essere punto di vanto sperimentarne uno, o più di uno, al fine di coinvolgere uno città diffidente ed esausta come Roma, senza limitarsi a un semplice piano di marketing e comunicazione.
In un recente seminario tenutosi nell’Università di Roma Tre sul tema della «Lezione olimpica», è stato dimostrato come gli eventi di promozione e presentazione della candidatura olimpica non abbiano mai visto coinvolto in prima persona il Comune di Roma; partner, di fatto, non strategico del Comitato. È stato trascurato, insomma, persino il fronte istituzionale della città. Con lo stesso Comune, prima del suo commissariamento dell’ottobre 2015, è nato un forte conflitto attorno al progetto di sviluppo infrastrutturale dei Giochi, anch’esso mai discusso con la città: metà del budget previsto era destinato all’area universitaria di Tor Vergata (periferia sud), dove si sarebbe concentrata la «legacy» dei giochi. Un villaggio olimpico che sarebbe divenuto sede di abitazioni per studenti, in un numero tale da coprire metà del fabbisogno nazionale di case per lo studente (ma per la sola Roma 2).
Un progetto che fa a pugni con la logica di sviluppo strategico di Londra 2012, orientato a ridisegnare la periferia dell’East End, ma anche con quella di Parigi 2024, che ruota attorno alla riqualificazione di un’altra area difficile come quella di Saint Denis. Entrambi inseriscono l’evento olimpico all’interno di una progettazione strategica della città, nella quale i Giochi divengono parte di un disegno più ampio: una pianificazione condivisa con la città – tanto che il processo decisionale a più voci di Londra 2012 è oggetto di analisi «da manuale», per esempio in Le decisioni di policy di Bruno Dente (Il Mulino, 2011, p. 179) – che sembra regalare una visione di metropoli più ampia di quella rappresentata dall’eredità degli studentati.
La debolezza del progetto e l’assenza di un processo di discussione partecipata – attraverso il quale poter coinvolgere la città in un percorso di individuazione di idee, proposte, problemi, desideri… – ha caratterizzato il progetto Malagò: tanto forte la mancanza di «connessione sentimentale» con la città, tanto più forte l’autoreferenzialità del sistema di relazioni che ne ha sostenuto l’azione. Quanto meno un grave errore strategico, che mostra però la crisi della classe dirigente locale di lungo corso.
E quella di recentissimo insediamento? Per ora agisce per rimozioni. Rimosso il vecchio establishment, opera anche la rimozione dei problemi complessi. Grazie a un apparato ideologico che premia una versione molto semplicistica della idea della decrescita e del conflitto contro la casta: il «grande» (evento, in questo caso), è sempre nemico del «piccolo» e della cura del micro, come se la gestione quotidiana di una metropoli non avesse a che fare con i grandi disegni di indirizzo strategico (cosa deve essere la Roma del 2025 per la Sindaca in carica? Di cosa vivrà?). Uno scorciatoia che porta allo stesso risultato di quella operata dal vecchio establishment (quello del «non disturbate il navigatore»): la città, per colpa di tutti, non viene messa in condizione di discutere, dibattere e confliggere in modo articolato e informato, rimanendo senza occasioni di pensarsi proiettata nel futuro.