Il caso. Al Centro-Nord iscrizioni a picco: effetto del calo delle nascite ma soprattutto della crisi Al Sud poche strutture e liste d’attesa lunghissime “Servono modelli flessibili per aiutare le famiglie”
Sono ancora i più belli del mondo, come li definì Newsweek negli anni Novanta. E non soltanto a Reggio Emilia. Ma in Toscana, in Umbria, in Veneto, in Lombardia. Architetture all’avanguardia, eco-capolavori, mini campus di giochi e scoperte dove crescere sembra un’avventura speciale. Eppure gli asili nido italiani sono in crisi. Un’eccellenza che si va sgretolando. Posti vuoti, rette altissime, Comuni in affanno, famiglie con i redditi dimezzati, madri disoccupate, e per la prima volta negli ambitissimi nidi del Centro-Nord le liste d’attesa non ci sono più. I bambini cioè restano a casa. O affollano i concorrenziali e spesso più economici asili privati. Iscrizioni in calo del 4%, come aveva già segnalato l’Istat nel 2013: non era mai accaduto dal 1971, quando fu approvata la legge nazionale sui nidi d’infanzia, che li trasformò da luoghi assistenziali nel primo gradino della scala educativa. Ma la discesa è continuata: nel 2015 a Roma le iscrizioni sono calate di 1.500 bambini, la “mitica” Reggio Emilia ha segnato una discesa del 4,3%, e lo stesso è accaduto a Venezia, Mantova, Trieste, Firenze. Una conversione a U, in controtendenza con l’Europa, e contro tutti gli studi più recenti, che raccontano quanto frequentare un buon nido nei primi mille giorni di vita sia garanzia, poi, di maggiori capacità e relazioni nella crescita.
«Un controsenso — commenta Daniela Del Boca, docente di Economia politica a Torino — negli ultimi vent’anni non abbiamo fatto altro che chiedere più nidi e oggi abbiamo i posti vuoti. E siamo ben lontani dall’obiettivo europeo del 33% dei bambini iscritti: in Italia la media è del 17%, ma la quasi totalità è nel Centro-Nord». Se a Trento il 23% dei piccoli sotto i tre anni usufruisce di baby-servizi, in Calabria la percentuale è del 2,1%, la più bassa d’Italia. E c’è voluta la mobilitazione di una ong come “Action Aid” per riuscire a far riaprire, nel settembre scorso, a Reggio Calabria, l’unico nido comunale presente in città, 190mila abitanti e 5mila bambini in lista d’attesa. Una goccia nel mare. «Al Sud, purtroppo, i nidi non sono mai nati, con una grave deprivazioneper i più piccoli, mentre sono fioriti laddove (al Nord) l’occupazione delle donne è piena, al 60%,contro il 20% del Meridione ».(C’è da chiedersi allora dove siano stati deviati i tanti fondi arrivati al Sud in questi anni, proprio per la costruzione di nuovi asili). Dietro la flessione delle iscrizioni ci sono, per Del Boca, più fenomeni: «L’aumento delle rette, determinato anche da una cattiva gestione dei fondi. L’impoverimento delle famiglie. La mancanza di lavoro delle donne che quindi restano a casa con i figli, in particolare le immigrate. E infine il calo della natalità».
Il costo medio di una retta è di circa 311 euro al mese per ogni bambino, secondo un recente dossier di “Cittadinanzattiva”, ma con punte che possono arrivare a 600 euro nel caso di Lecco, il Comune più caro d’Italia. «Costi impossibili, così i nidi chiuderanno tutti», sottolinea Laura Branca, presidente dell’associazione “Bologna-Nidi”, e curatrice del corposo dossier “Mille nidi in mille giorni”, dallo slogan lanciato nel settembre 2014 dal premier Renzi, ma i cui risultati, venti mesi dopo, ancora non si vedono. Laura Branca è una delle mamme che parteciparono alla cosiddetta “rivolta dei passeggini” contro l’esternalizzazione dei nidi decisa dal Comune di Bologna. «Quello che emerge dal nostro monitoraggio è un bollettino di guerra di chiusure e strutture cedute in appalto, e questo vuol dire, spesso, una caduta della qualità », spiega Branca. «Le cooperative applicano contratti al ribasso, gli educatori vivono una condizione di precariato permanente, aumenta il numero di bambini per operatore, c’è un turn over altissimo e assai negativo per i piccoli. Per tagliare i costi sono scomparse le cucine, i bambini mangiano pasti precotti, ma è solo un esempio. Certo, ci sono ancora struttu- re d’eccellenza, ma le crepe sono ormai dappertutto».
Aldo Fortunati, direttore dell’area educativa dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, approfondisce l’analisi. «Non c’è una disaffezione culturale verso il nido, le famiglie semplicemente non se lo possono permettere. Anche chi ottiene il posto, o rinuncia in partenza (nel 15% dei casi) oppure, dopo pochi mesi, trasferisce il bimbo in una struttura privata più economica. O, ancora, semplicemente smette di pagare la retta: sono moltissimi i casi di morosità. E a ciò si aggiunge una giungla dei criteri di accesso, che si trasforma in una guerra tra poveri ». In mancanza di riferimenti nazionali, ogni Comune decide per sé. Chi privilegia le madri che lavorano, chi quelle che non lavorano.
Dice Fortunati: «La nuova legge sul percorso 0-6, che collegherà i nidi alle scuole dell’infanzia, potrebbe rilanciare tutto il sistema. Perché i numeri calano, ma la cultura del nido si è invece radicata, basta guardare le regioni del Centro-Nord. È come alla fine degli anni Sessanta: non era ovvio mandare i figli all’asilo, poi ci fu la riforma statale della scuola materna, e oggi il 99% dei bambini la frequenta».
Un progetto antico, quello 0-6, rilanciato dalla senatrice pd Francesca Puglisi nella legge delega della Buona Scuola. Far uscire i nidi dalla dimensione di alta nursery e considerarli sempre più scuola, seppure facoltativa. «I Comuni vivono una perenne incertezza sui fondi, che si riverbera sulle aperture e chiusure di nidi. Non condanno l’esternalizzazione, in molti casi le cooperative fanno un lavoro eccellente. Ma riorganizzare le risorse, con standard nazionali decisi dal Miur, come prevede la legge 0-6 — commenta Susanna Mantovani, docente di Psicologia alla Bicocca — può essere una buona strada. Immaginando nuove flessibilità di orari e servizi, e più formazione degli educatori. È una sfida, ma ai nidi non bisogna rinunciare: per i bambini sono esperienze straordinarie e formative».
DOCENTE
Daniela Del Boca insegna Economia politica a Torino: “Siamo lontani dal 33% di bimbi iscritti come chiede la Ue”