DAL Centre Pompidou a Parigi al progetto del campus della Columbia University a New York, l’architettura per Renzo Piano è un’arte sociale che non può ridursi all’esportazione pura e semplice di modelli formali. Un’arte civica che negli ultimi progetti dell’architetto sta guardando alle periferie come luoghi che caratterizzeranno la città del futuro. E non è un caso che molti dei cantieri recenti siano situati ai margini delle grandi metropoli. Non solo l’università di Harlem, ma anche la nuova sede della Normale a sud di Parigi, una scuola superiore che si stima accoglierà tremila persone. Piano sta partendo proprio ora per raggiungere il cantiere della Columbia.
Tra gli ultimi suoi progetti ci sono università e scuole, qual è la funzione dell’architettura?
“L’architettura è un’arte pubblica, nel senso che ha a che fare con la gente. È l’arte di costruire la città, i luoghi in cui ci si incontra, gli spazi pubblici della convivenza. Tra questi ci sono certamente le scuole ma anche le biblioteche o le sale per i concerti. La mia speranza è che l’architettura vada sempre di più in questa direzione”.
È in questo senso che ha più volte parlato di un’arte civica?
“Sì, un’arte di frontiera, che sconfina nella scienza e nella tecnologia, in cui l’invenzione è sempre ancorata alla società. L’architettura è fisica, materica, ma è anche astratta. Ha a che fare con la gravità e con la bellezza, con la scienza e con la leggerezza. Infine è un’arte sociale. Sbaglierebbe l’architetto che si dimenticasse di questo. Il nostro è un mestiere difficile, che deve rimanere lontano dalla cosmesi”.
La prova forse la dà il tempo?
“Il mio amico Luciano Berio diceva che le nostre arti vivono di tempi lunghi, come le foreste. Le città devono durare. Non si deve fare l’architetto badando agli indici di gradimento, ma cercando di interpretare i cambiamenti del proprio tempo”.
A volte però i cambiamenti possono non piacere. Capita spesso che le opere dei grandi architetti vengano criticate.
“Di tanto in tanto l’architetto vive momenti difficili. Ma è normale, i cambiamenti devono essere metabolizzati. Mi è successo tante volte. Ora sto andando a New York, dove è in corso di costruzione il campus della Columbia University ad Harlem. Un campus che invece di essere chiuso sarà aperto sulla città. È una grande trasformazione, non è stato facilissimo farla passare. D’altra parte ci sarà sempre chi reagisce in maniera conservativa. Lo stesso Beaubourg ai tempi della sua costruzione ha diviso molto”.
Da un po’ di tempo sta dedicandosi alle periferie. È lì, ai margini delle grandi città, che vede il futuro dell’architettura?
“Quello delle periferie è sicuramente il tema del futuro. Sono convinto che Parigi si salverà solo se saprà trasformare le sue banlieue. Naturalmente non si tratta di fare grandi opere ma di ricucire, assecondare le periferie. Nei prossimi quarant’anni bisognerà dedicarsi per forza a questo”.
L’architettura
con una missione sociale dunque non può che abbandonare i centri storici?
“Non possiamo dimenticare un dato: il 90 per cento delle persone abitano nelle periferie. È lì che si respira l’energia vitale della città”.
“L’architettura è un’arte pubblica, nel senso che ha a che fare con la gente. È l’arte di costruire la città, i luoghi in cui ci si incontra, gli spazi pubblici della convivenza. Tra questi ci sono certamente le scuole ma anche le biblioteche o le sale per i concerti. La mia speranza è che l’architettura vada sempre di più in questa direzione”.
È in questo senso che ha più volte parlato di un’arte civica?
“Sì, un’arte di frontiera, che sconfina nella scienza e nella tecnologia, in cui l’invenzione è sempre ancorata alla società. L’architettura è fisica, materica, ma è anche astratta. Ha a che fare con la gravità e con la bellezza, con la scienza e con la leggerezza. Infine è un’arte sociale. Sbaglierebbe l’architetto che si dimenticasse di questo. Il nostro è un mestiere difficile, che deve rimanere lontano dalla cosmesi”.
La prova forse la dà il tempo?
“Il mio amico Luciano Berio diceva che le nostre arti vivono di tempi lunghi, come le foreste. Le città devono durare. Non si deve fare l’architetto badando agli indici di gradimento, ma cercando di interpretare i cambiamenti del proprio tempo”.
A volte però i cambiamenti possono non piacere. Capita spesso che le opere dei grandi architetti vengano criticate.
“Di tanto in tanto l’architetto vive momenti difficili. Ma è normale, i cambiamenti devono essere metabolizzati. Mi è successo tante volte. Ora sto andando a New York, dove è in corso di costruzione il campus della Columbia University ad Harlem. Un campus che invece di essere chiuso sarà aperto sulla città. È una grande trasformazione, non è stato facilissimo farla passare. D’altra parte ci sarà sempre chi reagisce in maniera conservativa. Lo stesso Beaubourg ai tempi della sua costruzione ha diviso molto”.
Da un po’ di tempo sta dedicandosi alle periferie. È lì, ai margini delle grandi città, che vede il futuro dell’architettura?
“Quello delle periferie è sicuramente il tema del futuro. Sono convinto che Parigi si salverà solo se saprà trasformare le sue banlieue. Naturalmente non si tratta di fare grandi opere ma di ricucire, assecondare le periferie. Nei prossimi quarant’anni bisognerà dedicarsi per forza a questo”.
L’architettura
con una missione sociale dunque non può che abbandonare i centri storici?
“Non possiamo dimenticare un dato: il 90 per cento delle persone abitano nelle periferie. È lì che si respira l’energia vitale della città”.