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Ragazzi di vita e le periferie di Roma

Cosa è cambiato nella periferia romana? Ragazzi di vita va in scena al Teatro Argentina, adattamento teatrale del romanzo di Pier Paolo Pasolini con la regia di Massimo Popolizi.
Mentre il Riccetto scendeva giù per via di Donna Olimpia coi calzoni lunghi grigi e la camicetta bianca, che «piuttosto che un comunicando o un soldato di Gesù pareva un pischello quando se ne va acchittato pei lungoteveri a rimorchiare», Pier Paolo Pasolini scavato in volto, con gli occhiali scuri, silenzioso e partecipe gli camminava a fianco. L’architettura pasoliniana di Ragazzi di vita – ripresa e sviluppata scenicamente dall’adattamento drammaturgico di Emanuele Trevi e dalla regia di Massimo Popolizio – è tutta lì, nell’affiancare ai personaggi una presenza che osserva, racconta, passo che incede ma non si sovrappone. In quella capitale disseminata di piccoli quartieri, Pasolini attinge dalle borgate romane restituendo al lettore la semiologia di un universo umano; un narratore interno che racconta la povertà del Secondo Dopoguerra, la miseria vissuta allora dai ragazzi come immanenza della vita stessa da portare nello stomaco, sulle labbra, come uno stornello o una canzone di Claudio Villa.

La versione teatrale dei quadri che compongono i capitoli del romanzo pasoliniano è affidata al corpo dei diciannove attori che sciamano sul palco come tra le borgate anni Cinquanta verso il centro – di Roma, e di sé stessi – seguendo e determinando silenziosamente l’unico arco narrativo che coincide con il contenuto morale del romanzo: il Riccetto (in carne e parola di Lorenzo Grilli), quel protagonista-pretesto per la descrizione del sottoproletariato romano, che all’inizio dello spettacolo si getta in acqua per salvare una rondine e alla fine della lunga messa in scena resterà a guardare un altro ragazzo, Genesio (Alberto Onofrietti), che muore annegato nell’Aniene. Tutta qui l’evoluzione da regazzini a giovanotti, verso lo sguardo smaliziato di una Roma che si piegherà all’individualismo portato dal boom economico.

La scelta registica della terza persona che accompagna i discorsi diretti e le descrizioni, e l’allestimento scenico che asseconda l‘energia dei “ragazzi”, esaltano la vocazione del romanzo; la reinvenzione linguistica intercetta la contaminazione tra il romanesco dei parlanti di allora, quelli di oggi e quel codice con cui Pasolini è intervenuto nel tessuto romano; Lino Guanciale da narratore-poeta riesce a vestire i panni di Pasolini e a sposare intenzioni (registiche e attoriali) di Popolizio, la carnalità degli attori è persuasiva nel lasciarsi seguire, così come le scene di Marco Rossi. La recitazione di alcuni interpreti parte però dall’eccesso, la dinamica dei volumi cede a volte al “gridato” soprattutto nelle prime scene, salvo ritrovare poi una propria armonia; l’autonomia dei diversi quadri, la struttura stessa del testo letterario e forse la mancanza di una vera partecipazione emotiva vanno, alla lunga, a scapito dell’attenzione dello spettatore, ché il teatro non gode del privilegio di un libro di poterne chiudere le pagine e di riaprirle poi.

Intanto però il pubblico ride, i frammenti si susseguono ironici e godibili lasciando al dramma pochi stralci di testo tra un’invettiva romana, un froscio, un tuffo dar Ciriola o un furto sull’autobus. Tanto che avvolti nelle poltrone del Teatro Argentina ci si chiede quale sia dell’indagine sociale, costata a Pier Paolo Pasolini l’oltraggio al pudore, l’arco narrativo che ci conduce all’oggi: oltre l’ennesimo omaggio a PPP cosa ha ancora da dire a noi questo testo? A fine spettacolo, davanti all’uscita di servizio degli artisti, è uno degli studenti di italiano di un centro d’accoglienza della periferia romana, venuto a vedere Ragazzi di Vita con il progetto Spettatori Migranti/Attori Sociali (percorso di educazione alla cittadinanza che passa attraverso la spettatorialità teatrale come atto di partecipazione sociale, di formazione linguistica e di integrazione culturale, attivato da Teatro e Critica con il Cas Casilina) che mi anticipa e formula la sua domanda per Francesco Giordano, uno degli interpreti che si ferma a parlare con noi: «cosa vi spinge a fare questo spettacolo?» «Le problematiche che ci sono state nel ’55 le possiamo incontrare ancora. La povertà prima e la globalizzazione poi che ha avuto la meglio sulla persona».

Gli undici ragazzi della periferia romana di oggi, che Pasolini non poteva ancora immaginare, arrivati anche loro al centro, al Teatro Argentina, dopo lo spettacolo sono entusiasti. Si rivolgono senza remore a Francesco Giordano, a Paolo Minnielli e a Silvia Pernarella «Genesio muore nel fiume? », «perché i ragazzi rubavano?», «la situazione è cambiata in Italia, oggi non si ruba più?», «come si diventa attori?», «perché in scena ci sono solo 3 donne?» e poi «perché non ci sono attori neri in scena? Perché non prendete degli attori neri insieme a quelli bianchi e li fate recitare assieme così da creare una grande famiglia?». A rispondere a quest’ultima domanda, e così alla mia e a tutte, è Lino Guanciale: «Noi dobbiamo fare progetti come tu dici; ma, stavolta, questa storia è tutta italiana, non c’erano africani nelle nostre borgate negli anni Cinquanta e io penso che la forza di questo progetto sia proprio questa: dire che adesso c’è la stessa miseria di allora, anche se a volte sembra aver cambiato colore, per questo motivo dobbiamo assolutamente trovare una soluzione nella relazione, perché quella di oggi è la stessa miseria di allora che persiste».

I “ragazzi” di Pasolini sono personaggi emarginati dalla città normale, degna e patinata. Agguantano la vita a piene mani e a pieni polmoni da un universo di fibrillazioni e vitalità anarchiche che è totalmente altro rispetto ai contesti borghesi, ai micro-cosmi protetti e istituzionali di lavoro o scuola.

A casa, mentre rileggo le note di regia, mi viene voglia di chiedermi ancora, e di continuare a farlo: a chi il teatro, oggi, deve riuscire a parlare?

RAGAZZI DI VITA
di Pier Paolo Pasolini
drammaturgia Emanuele Trevi
regia Massimo Popolizio
con Lino Guanciale
e Sonia Barbadoro, Giampiero Cicciò, Roberta Crivelli, Flavio Francucci, Francesco Giordano, Lorenzo Grilli, Michele Lisi, Pietro Masotti, Paolo Minnielli, Alberto Onofrietti, Lorenzo Parrotto, Cristina Pelliccia, Silvia Pernarella, Elena Polic Greco, Francesco Santagada, Stefano Scialanga, Josafat Vagni, Andrea Volpetti
scene Marco Rossi
costumi Gianluca Sbicca
luci Luigi Biondi
canto Francesca Della Monica
video Luca Brinchi e Daniele Spanò
assistente alla regia Giacomo Bisordi

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