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Pinocchio

C’era una volta “una fiaba” diranno i miei (eventuali) lettori. No ragazzi, una cupa storia senz’anima.

di Matteo Garrone. Con Federico IelapiRoberto BenigniGigi ProiettiRocco PapaleoMassimo Ceccherini  Italia, Gran Bretagna, Francia, 2019

Il falegname povero Geppetto (Benigni) si fa dare dal collega ubriacone Mastro Ciliegia (Paolo Graziosi) un pezzo di legno per farne un burattino; questi gli dà un tronco di pino e Geppetto decide che la marionetta si chiamerà Pinocchio (Ielapi). Mentre lo lavora si accorge che sa parlare e, quando lo ha finito, vede che può anche muoversi e camminare. Pinocchio corre fuori felice, nella disperazione di Geppetto che lo cerca per tutto il paese; poi, stanco ed affamato torna a casa, accolto dai consigli e dai rimproveri del Grillo Parlante (Davide Marotta), al quale infastidito lancia un martello. Poi si addormenta davanti al fuoco e gli si bruciano i piedi. Geppetto, al ritorno, glieli rifà e si vende l’unica giacchetta per comprargli dal mercante (Sergio Forconi) un abecedario, perché l’indomani possa andare a scuola. Ma la vista del teatro dei burattini di Mangiafuoco (Proietti) lo attrae e, dopo aver rivenduto l’abecedario all’avido venditore per il prezzo del biglietto, vi si reca, bigiando la scuola. Nel teatro Pinocchio crea scompiglio perché gli altri burattini interrompono lo spettacolo per far salire sul palco la strana marionetta senza fili. Mangiafuoco lo imprigiona e la sera lo fa prendere dai gendarmi burattini (Massimo Viafora e Aldo Marinuccio) perché vuole usarlo come legna per arrostire il montone ma le sue lacrime lo fanno starnutire (segno di commozione) e si salva, come allo stesso modo salva Arlecchino (Claudio Gaetani) dalla medesima sorte. L’indomani Mangiafuoco, starnutendo a più non posso, libera Pinocchio e gli dona 5 zecchini d’oro. Lui, felice, sta tornando dal babbo ma per la strada incontra il Gatto (Papaleo) e la Volpe (Ceccherini), che dopo essersi fatti pagare una lauta cena, dicono a Pinocchio di aspettare l’alba lì all’osteria per potere andare nel Campo dei Miracoli, dove seminando le monete le troverà moltiplicate. Quando l’oste (Gigio Morra) lo sveglia e i due non ci sono; corre al luogo designato e trova due assassini intabarrati (sono il Gatto e la Volpe) che lo inseguono e lo impiccano, pronti a carpirgli le monete quando sarà morto, ma si addormentano e la fatina (Alida Baldari Calabria) lo scioglie e lo porta a casa sua, dove, con l’aiuto della Lumaca (Maria Pia Timo), lo cura e gli fa scoprire come le bugie gli facciano crescere il naso.

Non è il caso di proseguire oltre nel raccontare la notissima favola di Pinocchio. Basti dire che il film segue pedissequamente (anche troppo!) la trama del racconto con tutti i personaggi – più un maestro sadico (Enzo Vetrano), inopinatamente aggiunto – dalla Fata (Marine Vach), a Lucignolo (Alessio Di Domenicantonio), il Giudice Scimmia (Teco Celio), l’Omino di Burro (Nino Scardia), il Corvo direttore del circo (Massimiliano Gallo), il Tonno (Maurizio Lombardi) e il contadino Giangio (Domenico Centamore), fino al lieto (?) fine della trasformazione del burattino in un bambino vero.

La leggenda narra di una maledizione che voterebbe all’insuccesso le trasposizioni del romanzo di Collodi. Certo – a parte l’indimenticabile Le avventure di Pinocchio televisivo (1972) di Luigi Comencini (niente a che vedere con la miniserie del 2009 diretta da Alberto Sironi) –  finora una gran fortuna non l’hanno avuta, se si pensa al bel cartone di Walt Disney che fu (almeno inizialmente ma poi si riprese) un flop o ai due cartoni italiani – Un burattino di nome Pinocchio (1972) di Giuliano Cenci e Pinocchio (2012) di Enzo D’Alò, su disegni di Lorenzo Mattotti – e al didascalico Le avventure di Pinocchio (1947) di Giannetto Guardone (con un Gassman giovanissimo, irriconoscibile come Pescatore Verde) o all’imbarazzante Pinocchio (2002) di Roberto Benigni, vediamo una sequela di vistosi insuccessi. Il discorso vale anche per gli immaginari sequel Le straordinarie avventure di Pinocchio (1996) di Steve Barron e Il mondo è magia – Le nuove avventure di Pinocchio (1999) di Michael Anderson e per il fantascientifico Pinocchio 3000 (2004) di Daniel Robichaud; non ho invece notizie sugli esiti dei due film russi – Pinocchio/La chiavetta d’oro (1939) di Alexandr Ptsuko e Le avventure di Pinocchio (1959) di Ivan Ivanv-Vano e Dmitrij Babicenko – basati sulla rielaborazione di Tolstoj La piccola chiave d’oro o le avventure di Burattino, né del porno Le avventure erotiche di Pinocchio (1971) di Corey Allen, in cui la vergine Geppetta si costruisce un bell’amante da un tronco di pino, con comodo di naso allungabile. Garrone aveva già tentato il quasi colossal fiabesco ne Il racconto dei racconti, gravando tre splendidi racconti del Pentamerone – Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile di appesantimenti moralistici e toni incongruamente noir (laddove l’originale era grottescamente e allegramente popolano) ed ora torna con il libro di Collodi per il quale ha condiviso la sceneggiatura con Ceccherini. La scelta di partenza è già di per sé incongrua: il racconto segue, quasi passo passo, la trama della fiaba, non tenendo conto che il racconto a puntate di Collodi per il giornale Il Fanfulla terminava con l’impiccagione di Pinocchio (che moriva e tanti saluti!) e che l’autore – ben lieto di continuare ad essere pagato – aveva colto al balzo le proteste dei  lettori (che volevano un lieto fine) per allungare il brodo con tante puntate, ciascuna quasi a sé stante, con un alternarsi di personaggi e situazioni che tenessero avvinto il pubblico. Il film di Disney, non a caso, semplifica le vicende, certamente, da un lato, per ragioni economiche e di adattamento all’audience americana ma anche per dare un’unità narrativa a quella farraginosa sequenza di avvenimenti. Ma è nel passaggio dallo script alle immagini che vengono fuori tutti i limiti dell’operazione. Io non sono tra i fanatici del libro di Collodi (se non ci fosse stato Disney lo avrei detestato e dimenticato) ma riconosco al racconto e al personaggio un’allegra birbanteria e – quando viene fuori dalle spiacevolezze pedagogiche – una sua leggerezza, mentre Garrone lo appesantisce con scenari e colori costantemente cupi, sporcati, respingenti. Lo stesso si può dire della direzione degli attori: è come se Garrone intraprendesse una gara con se stesso nel rendere più grevi e scostanti i vari caratteri (a partire dai costumi: per tutti valga l’inguardabile Lumaca dell’incolpevole Maia Pia Timi): Pinocchio è un tristissimo legnetto pieno di venature; il Giudice fa rimpiangere i compostissimi personaggi dei vari Pianeta delle scimmie; Benigni, dopo essere stato un attempatissimo Pinocchio è un lagnoso Geppetto; delle due inespressive fatine è impossibile non dico innamorarsi ma nemmeno affezionarsi un po’; il Gatto non tiene neanche il proprio ritmo di eco balorda; Mangiafuoco più che pentito e commosso sembra affetto da disturbo borderline di personalità; il Grillo si merita in pieno la martellata che, purtroppo, non lo accoppa; si salva, in parte, la Volpe, cui evidentemente Ceccherini ha cucito addosso la propria materica arguzia toscana ma, addirittura, viene inserito – su echi tra Dickens e Com’era verde la mia valle – un odioso Maestro picchiatore che giustifica ampiamente la fuga di Pinocchio e Lucignolo. Evidentemente – sono tutti (o quasi) attori di ottimo mestiere – siamo di fronte ad una scelta registica che privilegia (come nel sopravvalutatissimo Dogman, nel quale i bagliori luciferini del personaggio di partenza, il canaro, si smorzano in lamentosi vittimismi) i toni bigi e marrone sporco di una poetica inasprita e incupita  che non sa raccontare sentimenti che non siano vagamente ricattatori e  rende ancor più incomprensibile la voglia di Pinocchio di abbandonare la sicura protezione del corpo di legno per entrare da essere umano nel brutto mondo di Garrone. Gli incassi – è un Natale con poche scelte – sono comunque buoni e i bambini si lasciano trascinare dai genitori a vederlo.

 

 

 

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