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Nuove voci contro la povertà, primi vagiti di un nuovo welfare

Ci sono molte famiglie vulnerabili, che prima della crisi avevano un’adeguata capacità di far fronte ai propri bisogni e che ora l’hanno persa. L’isolamento aumenta la vulnerabilità. La soluzione? Costruire ambiti pubblici, luoghi civici in cui sia possibile segnalare i propri bisogni senza avvertire lo stigma.
In sintesi il ragionamento è questo: ci sono in giro molte famiglie vulnerabili; persone che prima della crisi avevano un’adeguata capacità di far fronte ai propri bisogni, ma che in questi ultimi anni hanno inciampato in qualcosa che ha cominciato a metterne in crisi l’equilibrio: la perdita del lavoro di uno dei componenti, l’aggravamento dei carichi familiari, problemi di salute, la separazione. L’esperienza ci dice che poche di queste persone sono arrivate a chiedere aiuto ai servizi sociali, bloccate da un lato dal pudore e, dall’altro, dai meccanismi con i quali funzionano i servizi tradizionali. Molte persone non vogliono riconoscere di aver bisogno di una mano, ma altrettante non hanno una rete di relazioni – parentali, amicali, di vicinato – in grado di aiutarli anche solo in termini di ascolto e di orientamento nella ricerca di risposte.

Quindi, si conclude la prima parte del ragionamento, isolamento e impoverimento aumentano la vulnerabilità di una fascia di popolazione che è cresciuta a dismisura in questi ultimi anni. Se tutti aspettassero di arrivare con l’acqua alla gola per rivolgersi ai servizi locali, questi ultimi verrebbero travolti da una marea che metterebbe a rischio non solo i servizi in sé, ma anche la stessa convivenza democratica. C’è chi parla infatti di un vero e proprio esodo silenzioso dalla cittadinanza da parte di una fetta importante di nostri concittadini, impoveriti e incattiviti nei confronti di tutto ciò che ha una funzione pubblica.

E dunque, che fare? Ecco l’ipotesi: costruire ambiti pubblici, luoghi civici, in cui sia possibile segnalare i propri bisogni senza avvertire lo stigma che spesso vi si accompagna; luoghi aperti e attraversabili, non riconoscibili come “servizi”, hub in cui i cittadini possano trovare tante opportunità diverse, tra le quali anche risposte ai propri bisogni. Ma che siano soprattutto risposte collettive e non individuali – superando l’”effetto bancomat” che ormai affligge i servizi locali – aggregando le energie positive che anche le persone e la famiglie in difficoltà conservano. Insomma, luoghi di costruzione di legami generativi ancor prima che sportelli-a-domanda-risposta.

Da qualche settimana siamo qui proprio per questo: il Comune ha messo a disposizione questa vecchia sala conferenze, completamente trasformata in un piccolo hub in cui sperimentare se effettivamente si può far emergere i bisogni e utilizzare i legami sociali come carburante per un nuovo modo d’intendere il welfare locale. La sala è stata suddivisa da nuove pareti in laminato che ritagliano una reception, due stanze per colloqui e una grande area per il lavoro di gruppo.
Le pareti non arrivano al soffitto e questo sta già generando qualche problemino di privacy, ma mi dà oggi la possibilità di percepire la direzione in cui ci stiamo muovendo. Le voci, infatti, formano un tappeto di suoni sospeso al soffitto: voci che si accavallano e si sovrappongono, si intrecciano.

Qui stiamo lavorando per allestire laboratori di comunità con i comitati genitori delle scuole, di là si sta svolgendo il primo “smartjob”, brevi cicli di incontri di orientamento lavorativo per disoccupati, dalla terza stanza arriva l’eco attutito del lavoro degli educatori finanziari. Le ultime voci, le più confuse, stanno lavorando nella reception per promuovere gli incontri serali dello “yoga della risata” e quelli della rete di associazioni che si sta muovendo dentro e attorno a questo nuovo hub civico.

Prime con-fuse voci di un nuovo impegno corale.
Timidissimi vagiti di un nuovo welfare?

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