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La sindrome della biscazziera
di Aaron Sorkin. Con Jessica Chastain, Idris Elba, Kevin Costner, Michael Cera, Jeremy Strong USA 2017
Molly Bloom (Chastain) è un’ex giovane promessa dello sci ma, dopo anni di dura preparazione sotto la severa guida del padre Larry (Costner) rigido psicoterapeuta, al momento della qualificazione per le Olimpiadi, un rametto sulla pista l’aveva messa fuori gioco. Trasferitasi a Los Angeles, si era mantenuta agli studi, facendo la cameriera in hot-pants in un bar alla moda. Qui conosce Dean Keith (Strong), un intrallazzatore che, vedendola particolarmente abile nel far consumare bevande costose agli avventori, la assume come segretaria e, dopo poco, la mette a parte del suo business: organizza serate di poker con giocatori famosi e la porta con sè come segretaria ed organizzatrice delle partite, alle quali partecipano uomini d’affari, assi dello sport, registi e attori famosi – in particolare un tal Player X (Cera), star di Hollywood, grande giocatore e anima delle serate. Dean, che a sua volta gioca e perde, la mette di fronte ad un aut-aut: lei guadagna ottime mance dai giocatori e, quindi, se vuole continuare dovrà fargli da segretaria per il resto di settimana senza stipendio. Lei lo manda all’inferno e decide di organizzarsi per conto proprio: d’accordo con Palyer X organizza un tavolo alternativo. Poco dopo, consapevole che i grandi capitali sono a New York, si sposta lì; affitta una suite al Plaza, alza la posta di ingresso da 10.000 a 250.000 dollari, assume come assistenti di sala delle top model (Natalie Krill, Stephanie Harfield e Madison McKinley) che, quali habitué dei parti più esclusivi, hanno anche il compito di spargere la voce tra giocatori ricchissimi e, come croupier, l’affascinante e disinvolta B (Angela Goats). Al suo tavolo non manca di arrivare X, con il suo seguito di star del cinema e dello sport e gli affari procedono bene. Tra i giocatori abituali ci sono l’eterno perdente Brad (Brian d’Arcy James), il prudentissimo e sempre vincente Harlan (Bill Camp) e Douglas Downey (Chris O’Dwod), alcolista e innamorato di Molly. Gli affari vanno benissimo – lei ormai gestisce tre bische – ma per reggere il ritmo e lo stress, Molly è sempre più dipendente da droghe. Una sera il compassato Harlan, perde una mano a causa di un bluff di Brad (l’unico che gli sia mai riuscito!) e, infuriato, gioca somme sempre più alte, nell’illusione di rifarsi, fino a perdere 1.200.000 dollari (questo gli costerà il lavoro e il matrimonio); Molly è preoccupata per il grosso debito del quale dovrà rispondere ma una settimana dopo Harlan arriva con un assegno per l’intera somma. B. la convince a prendere una percentuale sulle giocate (pratica illegale negli Stati Uniti) e X getta la maschera: lui gestisce alcuni dei giocatori dai quali ricava il 50% sulle vincite (suoi sono i soldi con i quali Harlan ha coperto il debito) e lei dovrà accettare al tavolo quelli che lui le indica: arrivano così dei non meglio identificati ebrei russi – tra i quali Shelly Habib (Jon Bass) che si presenta con Matisse come garanzia – che giocano forte e pagano senza difficoltà. Per accontentare il suo autista (anche guardia del corpo e confidente) Donnie (Jeff Kassel) lei accetta di incontrare due sedicenti uomini d’affari, John G (Jason Weiberg) e Bobby (Matthew D.Matteo), che in realtà sono due mafiosi che, minacciandola, le offrono protezione. Molly se ne libera ma, rientrata in casa, viene aggredita, derubata di 2 milioni e di vari gioielli e pestata a sangue dal loro boss (Frank Falcone). Dopo due settimane chiusa i casa per guarire dalle ferite – non può certo chiamare la polizia – è pronta a tornare ma una telefonata di Douglas la mette in allarme: lui, ex-bancarottiere, ha accettato di fare l’informatore per l’F.B.I. e ha raccontato degli ambigui clienti della sala da gioco. Come se non bastasse, anche Brad – che vendeva per milioni titoli fasulli alle persone con le quali, volutamente, perdeva al gioco – messo sotto torchio dai federali fa il suo nome. Molly cerca la fuga ma un plotone di agenti dell’F.B.I., armi in pugno, l’arresta e le sequestra tutti i beni, circa 4,5 milioni di dollari. Lei, libera su cauzione, per campare scrive un libro sulle sue vicende, Molly’s Game, nel quale però rivela pochissimo per non compromettere i suoi ex clienti. L’attende un processo con gravi imputazioni (l’accusano, tra l’altro, di essere collusa con la mafia russa) e lei va dal famoso avvocato Charlie Jaffey (Elba) e – aiutata dalla bambina di lui, Stella (Whitney Peak), che ha letto il libro e ne ammira la determinazione – lo convince a difenderla. Partecipa a un drammatico incontro con il Pubblico Ministero David Sagen (Dan Lett), nel quale Jaffey cerca di convincerlo a lasciar cadere le accuse più gravi, ottenendo la richiesta di un colloquio riservato. Molly viene fatta uscire e lei, per placare la tensione, va a pattinare sul ghiaccio; qui viene raggiunta dal padre – non lo vedeva da quando, anni prima, a causa delle sue infedeltà, si era separato dalla madre (Claire Rankin) – che, in una sorta di psicoterapia lampo, la rassicura sul suo amore ed il suo appoggio. Molly, rafforzata da questo incontro, quando Charley cerca di convincerla ad accettare l’accordo che lui ha raggiunto con il P.M. – in cambio dei file e delle cassette di tutte le partite giocata nei suoi locali, lui farà cadere le accuse e le farà restituire tutte i soldi confiscati – rifiuta nettamente: non rovinerà la vita di tante persone che avevano avuto fiducia in lei. Una pesante condanna sembra inevitabile ma il giudice (Graham Greene), che ha capito che lei era stata incastrata, sostanzialmente innocente, per carpirle in modo ricattatorio rivelazioni, la lascia libera con una multa e qualche mese ai servizi sociali.
Sorkin è alla sua prima regia ed ha un passato di ottimo sceneggiatore ed autore teatrale (da un suo dramma è tratto il primo film a cui ha partecipato, Codice d’onore), tra gli altri ha firmato gli script di The rock, The social network, L’arte di vincere e Steve Jobs e la scrittura di Molly’s Game – con il suo andamento ondivago nel tempo – è un meccanismo quasi perfetto. Il “quasi” nasce, in parte, dal paragone inevitabile con i grandi film sul gioco d’azzardo, quali California poker, Casinò, Il grande peccatore (da Il giocatore di Dostoevskij), Atlantic city, E io mi gioco la bambina, L’uomo dal braccio d’oro e, in particolare, Cincinnati Kid nel quale la partita finale di poker è, di per sé, elemento di tensione e suspense. In Molly’s Game questo non c’è: le partite sono raccontate all’essenziale e il pittoresco bestiario dei giocatori d’azzardo è appena accennato, solo in funzione delle disavventure realmente vissute da Molly, tanto che – quasi a giustificazione – gli spietati meccanismi del grande azzardo sono visti come un esempio della più generale disumanità del mondo degli affari (più o meno puliti) e non come un’occasione drammaturgica in sé. E’ assai probabile che la reticenza dell’autrice/protagonista delle vicende (per fare un esempio, Player X sembra sia Tobey Maguire ma nel libro e nel film è tutto appena alluso) si sia riverberata nella scrittura; certo, anche la caricaturale seduta analitica con il padre, da Bignami del freudismo, che accelera il finale non contribuisce al possibile processo di empatia, necessario alla riuscita di un dramma ma, di contro, le scelte di cast sono perfette: non solo la Chastain ed Elba, bravissimi, fanno scattare un climax quasi erotico nei loro dialoghi ma tutti, a partire dal misuratissimo Costner, al seraficamente crudele Cera, ai precisi Camp, O’Dwod e D’Arcy James, evidenziano la capacità – tutta teatrale – di Sorkin nel rendere credibili caratteri appena sbozzati. Il Kid di Steve McQueen, l’imbattibile Lancey di Edward G. Robinson e il rassegnato cartaio di Karl Malden erano un’altra cosa ma Sorkin non è Norman Jewison. Forse, al di là del valore del regista – l’autore de La calda notte dell’ispettore Tibbs e di Jesus Christ Superstar è quasi irraggiungibile – c’è da considerare, a lato, la differenza tra il poker tradizionale – gioco di abilità e di fortuna – e il moderno Texas Hold’em, brutale scontro di soldi nel quale vince sempre il più ricco o il più incosciente. In questa chiave il parallelo poker/ capitalismo finanziario acquista un senso.