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Il PD romano è comprensibilmente depresso. Lambito dall’inchiesta giudiziaria cosiddetta “Mondo di mezzo”, ha dovuto subire il commissariamento di Matteo Renzi. Ma la persona prescelta dal segretario a rivitalizzarlo è un parlamentare di Roma, Matteo Orfini. Il quale ha commissionato a Fabrizio Barca uno studio sui circoli democratici della capitale per venire a capo delle ragioni del coinvolgimento del partito nei gravi fatti di collusione tra criminalità organizzata e amministrazioni pubbliche. Eppure i democratici americani e il Labour britannico, per affrontare le loro difficoltà, non sono partiti dalla propria organizzazione ma dalla società con cui i partiti dovrebbero interagire. La stessa cosa andrebbe fatta a Roma perché la mafia copre il vuoto della rappresentanza sociale.
L’ipotesi di lavoro intorno a cui Barca e la sua équipe si muovono si poggia su due elementi, entrambi individuati come fenomeni concomitanti all’origine dei fatti collusivi: a) l’accumularsi di errori nell’azione pubblica di governo della città, specie in quella che avrebbe dovuto assicurare inclusione sociale ai suoi cittadini più vulnerabili (servizi essenziali di urbanizzazione, di sicurezza, abitativi, di cura degli anziani e dell’infanzia, etc.); b) la progressiva trasformazione del partito in una “macchina per il bilanciamento del potere” priva di riferimento a una visione della città e a un progetto politico e mescolata in forme spesso improprie con l’amministrazione (municipale e comunale). Si mischiano così ingredienti diversi per una minestra di dubbia efficacia nella cura del morbo: a) le cordate dei “signori delle tessere” che avrebbero trasformato il Pd appena nato in un partito “feudale”, privo di una visione di città; b) gli strumenti e le regole per il governo della città, utili nella prima fase delle giunte Rutelli, ma rivelatisi fragili o addirittura perversi successivamente, fino a trasformarsi in mezzi di degenerazione con la giunta Alemanno. Il tutto per sostenere l’improbabile ipotesi secondo la quale sarebbero questi due fenomeni a scatenare il rapporto perverso tra partito e amministrazione. “Il partito – scrive Barca – non serviva più a raccogliere e traghettare fabbisogni, idee e possibili soluzioni dalla comunità di iscritti e cittadini agli amministratori, a tenere gli amministratori sotto controllo”.
Purtroppo l’ex ministro della coesione territoriale non ha sperimentato direttamente cos’era il Pci alla fine degli anni ’80 e non ha vissuto le diverse prove di “partito nuovo” con il Pds prima e i Ds poi. E quindi non può sapere che da almeno trent’anni la maggiore formazione politica della sinistra italiana non riesce più a sintetizzare la complessità sociale, non propone più decisioni da realizzare, non trasforma più i bisogni della società in scelte che gli amministratori e i cittadini possano comprendere e valutare e, soprattutto, non esercita più alcun controllo sugli eletti. Ma quello che maggiormente non vuole prendere in considerazione, nonostante le molteplici critiche di questi anni alla sua idea rinnovatrice del Pd, è che questa mutazione non è avvenuta per una qualche vendetta della storia o perversione dei gruppi dirigenti. Ma semplicemente per una ragione obiettiva: il modello di partito che Barca ha in testa non è più realisticamente compatibile con la società che la sinistra stessa ha contribuito a edificare mediante le sue conquiste storiche.
L’economista introduce, infine, una sorta di demarcazione conflittuale tra i vertici del Pd romano, individuati come detentori del potere feudale, e la base degli iscritti e dei dirigenti dei circoli, identificati come portatori del cambiamento. Un’ipotesi del tutto irrealistica perché le strutture di base non sono altro che lo specchio fedele dei “signori delle tessere” a cui fanno riferimento per le loro attività. L’obiettivo di Orfini e Barca sembra essere quello di cambiare metodo di lavoro del partito per renderlo capace di darsi una visione di città. Insomma, permane in loro l’idea fissa novecentesca del partito fine e non strumento per cambiare le cose. L’idea – questa sì perversa – che basti cambiare il partito per produrre innovazione sociale.
Ma quella parte di società che potrebbe effettivamente produrre tale innovazione sta fuori del partito. E la mafia è annidata lì, nelle sue lacune e debolezze. Non a caso i partiti li ha solo sfiorati. Lo scambio è avvenuto con gli amministratori (i decisori politici) e coi vertici tecnici della pubblica amministrazione. Proprio per questo motivo “Mondo di mezzo” non è paragonabile a “Tangentopoli”. Gli scandali corruttivi dei primi anni ’90 videro coinvolti i tesorieri dei partiti che costituivano i comitati d’affari. Oggi l’associazione mafiosa è insediata negli interstizi tra cittadini e società, laddove appunto le rappresentanze degli interessi dovrebbero leggere e selezionare i bisogni sociali e tramutarli in richieste leggibili per la politica e per i cittadini. Afferma il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che «il vero collante [dell’associazione mafiosa] è costituito dalla convenienza reciproca: la possibilità di entrare nei luoghi decisionali della pubblica amministrazione e il denaro. Denaro in grande quantità, la possibilità di averne sempre di più, di mantenere i rubinetti sempre aperti». E continua: «Nella nostra inchiesta tutto si mescola: il mafioso parla da manager e da burocrate, il funzionario si presta a operazioni corruttive di impatto economico a volte minimo a volte significativo, pronto a ripeterle qualunque sia la postazione che la politica sceglie per lui; l’imprenditore accetta o addirittura cerca la protezione del mafioso, mentre delicati incarichi amministrativi di nomina politica vengono affidati a persone indicate da Carminati». Sembra, dunque, abbastanza evidente che la mafia romana svolga una vera e propria attività lobbistica: “crea” emergenze e ne pilota la percezione nell’opinione pubblica, come ha efficacemente rilevato Cesare Buquicchio; offre una nuova agenda di bisogni comprensibili, come ha brillantemente scritto Gabriele De Giorgi; indica gli uomini giusti al posto giusto nella pubblica amministrazione per acquisire risorse pubbliche, sottraendole così ai servizi effettivamente necessari ai cittadini; non offre ai decisori politici solo soldi ma anche consenso elettorale in virtù del forte controllo del territorio da essa esercitato.
Sono tutte attività che la criminalità non potrebbe svolgere qualora vi fossero efficienti organizzazioni di rappresentanza delle forze sociali in grado di svolgere le proprie funzioni in un rapporto diretto coi cittadini, le imprese, il territorio. Ma queste strutture oggi hanno smarrito la propria funzione originaria e sono disperse in mille rivoli, divise per settori, categorie, forme giuridiche, bisogni speciali, storie ideologiche, ecc., intente a gestire pezzi di spesa pubblica per “mantenere” le proprie strutture organizzative: patronati, caf, caa, servizi per i sistemi di qualità, formazione professionale, attività promozionali, vigilanza agli affiliati, ecc. E invece le mafie agiscono in loro sostituzione “raccordandosi” con gli amministratori pubblici (sia decisori politici che strutture tecnico-amministrative), “cavalcando” i bisogni dei cittadini e trasformando le diverse esigenze in richieste funzionali ai propri affari illeciti. Non è un fatto nuovo. Già nel secondo dopoguerra si verificò questo fenomeno in alcune regioni meridionali laddove le organizzazioni democratiche erano estremamente deboli. Perché le mafie non sono anti-Stato ma altro-Stato.
Barca e Orfini farebbero bene a ispirarsi al Labour britannico che nel 2010, dopo la seconda peggior sconfitta della sua storia, ha scelto il community organizing o capacity building per rigenerare il proprio rapporto con la società. Si è insomma mosso dall’esterno del partito, mappando le comunità, i suoi leader naturali, la cittadinanza attiva e l’associazionismo diffuso. Oggi la priorità è quella di strutturare, in modo sano e trasparente, gli spazi di definizione dei bisogni sociali partendo “dal basso”, incrociando coloro che già lo fanno, spesso in silenzio e contrastati dalle “sigle” e “siglette” che pretendono di essere le depositarie della rappresentanza sociale senza svolgerne più le funzioni. Si tratta di capire i motivi che rendono difficili a Roma i percorsi partecipativi per la progettazione integrata territoriale, pur vivamente raccomandati dalle politiche europee strutturali e di coesione. Andrebbero approfondite a fondo le ragioni dell’inerzia nell’attuazione dei piani di zona dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari e delle correlate forme partecipative. Bisognerebbe studiare il modo come connettere la governance delle cooperative sociali e delle associazioni di volontariato con gli utenti, i lavoratori e il territorio e sostenere la “valutazione” partecipata dei servizi offerti ai cittadini.
Solo se si creano, si rafforzano e si risanano questi luoghi, i partiti potranno svolgere un ruolo. Potranno, cioè, diventare strumenti di collegamento tra cittadini organizzati e istituzioni, oltre che promotori di classi dirigenti che si formano nell’ascolto dei bisogni. Ma c’è la necessità di una iniziativa politica nella società per avviare tale processo, con la consapevolezza che il problema non è prevalentemente nei partiti ma è fuori di essi. Spetta però ai partiti prenderne coscienza e agire di conseguenza.