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Labsus intervista gli attivisti dell’ex-Asilo Filangieri di Napoli.
Con la delibera 893/2015 il Comune di Napoli ha riconosciuto il Regolamento d’uso collettivo dell’ex-Asilo Filangieri, portando un inedito modello di governo dei beni comuni all’interno del nostro ordinamento.
La delibera riconosce autonomia di organizzazione e produzione ai fruitori del bene.
Tale regolamento infatti è stato prodotto in maniera autonoma dalla collettività di riferimento che usufruisce del bene, e pone l’autogestione della struttura come uno dei principi cardine della sua gestione. Abbiamo intervistato gli attivisti dell’Asilo, per capire gli aspetti più importanti e le novità che questo regolamento porta nella pratica teorico-giuridica dei beni comuni.
La storia
L’ex-Asilo Filangieri, ora L’asilo, è un centro di produzione interdipendente dedicato all’arte e alla formazione, autogestito dalla comunità di riferimento, ossia i lavoratori dell’arte e della cultura.
L’edificio storico, patrimonio Unesco nel cuore di Napoli, nonché demanio comunale, era stato scelto come sede del Forum delle Culture, di fatto dato come fondo di garanzia ad una fondazione privata.
Sulla scia delle diverse esperienze legate agli spazi culturali autogestiti che ha investito l’Italia, nel 2012 i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo e della cultura occupano l’immobile che viene così riconsegnato alla cittadinanza e riconosciuto dal comune di Napoli tramite la delibera 400/2012, in cui non solo si riconosce l’importanza della cultura come bene comune, ma si riconosce “ai lavoratori e alle lavoratrici dell’immateriale” la possibilità di gestire in maniera partecipata e trasparente uno spazio pubblico dedicato alla cultura. Nasce così l’esperimento dell’Asilo e dopo tre anni di tavoli pubblici, la comunità che usufruisce dello spazio, con l’aiuto di studiosi e giuristi, dà alla luce il Regolamento collettivo d’uso civico e collettivo urbano, convertito in atto amministrativo tramite la delibera 893 /2015.
Il Regolamento e i beni comuni
Tale Regolamento d’uso pone delle basi giuridiche al concetto di bene comune, diffuso nella prassi ma di difficile categorizzazione a livello giuridico. Partendo dalla nota definizione della Commissione Rodotà, dove il bene diventa comune se legato all’esercizio dei diritti fondamentali della persona, si è aggiunta un’interpretazione estensiva della tradizione degli usi civici, dove l’uso collettivo di un bene è strettamente legato alla partecipazione diretta della collettività (come già riconosciuto dalla Corte Costituzionale nella sent. 345/1997). Come ci spiega Giuseppe, “Noi volevamo che fosse riconosciuto il bene monumentale ex Asilo Filangieri come bene comune e per noi un bene diventa tale quando è legato ad un determinato regime di governo, ossia quando è presente una particolare forma di fruizione che garantisce ai cittadini non solo un potere di accesso, ma un metodo codecisorio per quanto riguarda le pratiche e la gestione degli spazi”. La partecipazione diretta della comunità diventa quindi un punto fondamentale per definire la categoria dei beni comuni, dove “la comunità si crea attraversando lo spazio, ossia nel momento in cui si mettono insieme le risorse, i mezzi di produzione artistico-culturali, le competenze” e che si autoregola tramite assemblee e tavoli di lavoro aperti alla cittadinanza tutta.
L’uso civico della struttura si basa sulla capacità di autonormazione civica di tale comunità e si fonda sui principi di imparzialità, inclusività, accessibilità e autogoverno della comunità, in quanto “gli operatori della cultura devono essere autonomi nelle scelte che fanno, vale a dire non essere soggetti a nessuna ingerenza da parte della partitocrazia né da parte dell’economia, ossia dalle logiche del profitto”, sottolinea Nicola.
Per un nuovo pubblico
“Tale sperimentazione”, si legge nel Regolamento, “si configura come demanialità rafforzata dal controllo popolare”. Il bene in questione rientra quindi in uno “speciale regime pubblicistico”, in cui lo Stato non è gestore dall’alto della struttura (come ad esempio con il meccanismo del bando pubblico), ma, tramite un meccanismo di sussidiarietà orizzontale, diventa garante del funzionamento della struttura stessa, riconoscendo l’autonomia di gestione dei fruitori dello spazio e assumendosi lui stesso oneri e responsabilità relativi al funzionamento del bene. Un pubblico che risponde quindi all’ articolo 3 della Costituzione, pronto a rimuovere ciò che può ostacolare il godimento collettivo della struttura da parte della comunità e della cittadinanza tutta. Il concetto di utilizzo collettivo del bene rientra nella volontà di “declinare i beni comuni a livello relazionale”, ci spiega Nicola, “ossia mettere in evidenza che la singola persona nell’esercizio legato ai diritti dei beni comuni non può che relazionarsi ad altri soggetti”.
Quindi uso collettivo di uno spazio pubblico, affidato alla gestione della comunità di riferimento tramite la condivisione degli oneri e delle responsabilità tra tale comunità e le istituzioni che hanno la titolarità del bene. E qui si evidenzia l’importanza del regolamento: la sua esistenza assicura infatti la pubblicità del bene, e permette un’amministrazione diretta da parte della collettività tramite modelli di democrazia partecipativa, che possano durare nel tempo indipendentemente da chi attraversa lo spazio. A livello pratico, ciò si traduce da una parte nell’introduzione di un elemento di terzietà (ossia il controllo delle istituzioni del rispetto di tale Regolamento), e dall’altra si riconosce il credito che tale struttura dà alla cittadinanza, di fatto tramite la partecipazione del Comune ai costi di gestione della struttura (come ad esempio l’utilizzo di dipendenti comunali per aprire e chiudere l’edificio o eventuali lavori straordinari legati a problemi dello stesso). “L’edificio deve essere tenuto come una piazza e sta all’istituzione garantire che le persone lo possano utilizzare”, ci spiega Giuseppe. Si riducono quindi i costi minimi della produzione teatrale e allo stesso tempo si riconosce una redditività civica del bene in questione, garantendo autonomia di organizzazione e produzione ai suoi fruitori.
L’esperimento de L’Asilo porta sicuramente nuovi spunti nel dibattito sui beni comuni (e il conseguente ruolo che possono avere le istituzioni) e per quanto sia legato ad una situazione specifica, può essere d’esempio nella creazione (e continua sperimentazione) di nuove forme di democrazia partecipata e di autogestione di quei beni che, per privatizzazioni o gestione centralistica statale, vengono di fatto sottratti alla collettività.