Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone
Sayonara, je suis Catherine Deneuve
di Kore’eda Hirokazu. Con Catherine Deneuve, Juliette Binoche, Ethan Hawke, Clémentine Grenier, Manon Clavel Francia 2019
La grande attrice Fabienne (Deneuve) ha appena dato alle stampe un’autobiografia e la figlia sceneggiatrice Lumir (Binoche) la raggiunge con il marito Hank (Hawke), attore di mediocri serie televisive, e la figlioletta Charlotte (Grenier) da New York, dove vive da anni. Il rapporto tra madre e figlia non è facile: quest’ultima la incolpa di non essersi mai davvero occupata di lei, presa solo dalla sua carriera e di aver causato il suicidio della sua amica-rivale Sarah, alla quale lei, da bambina, era legatissima. Naturalmente anche il libro è fonte di polemiche: Lumir si indigna nel leggere frasi sciroppose nelle quali la diva racconta di inesistente lunghe e affettuose passeggiate mano a mano con la figlia e anche il devoto segretario/maggiordomo Luc (Alain Libolt), che ha sacrificato anche la sua vita privata per starle accanto, si licenzia bruscamente perché nello scritto non c’è una parola su di lui. Solo Charlotte – che è convinta che la nonna sia la simpatica strega di una favola – sembra toccarle un po’ il cuore tanto che, stando al gioco, le dice che la tartaruga Pierre che sta in giardino sia il nonno che lei ha trasformato. Le dimissioni di Luc costringono la recalcitrante Lumir a sostituirlo come accompagnatrice e tuttofare sul set del film che sta girando, la cui trama è quella di una donna che vive nello spazio per non invecchiare ed ogni sette anni scende sulla terra per vedere la figlia Amy. Fabienne – che ha degli inconfessati senso di colpa per la morte di Sarah – ha accettato il ruolo di Amy a 73 anni perché la protagonista Manon (Clavel) è considerata la nuova Sarah (e in effetti la ricorda molto). Intanto, in famiglia, le tensioni non mancano: arriva, inatteso, Pierre (Roger Van Hool) per bussare a quattrini, Fabienne fa ubriacare Hank, che si stava disintossicando dall’alcool; il solo che non sembra essere a disagio è il nuovo compagno della diva, Jacques (Christian Crahay), pago del ruolo di cuoco, massaggiatore e, occasionalmente, amante cui lei lo ha relegato. Con il set del film, date le premesse, il rapporto è complicato: lei non studia la parte, accentua i capricci da diva, si lamenta che l’attrice (Ludivin Sagnier) che interpreta Amy a 38 anni non le somigli affatto e, durante una scena nella quale Amy anziana deve dichiarare il proprio deluso amore filiale a Manon, si impapina e se ne va furente dal set. Sarà Lumir, accusandola di vigliaccheria, a riportarla indietro e lei, ora, recita con un’intensità coinvolgente. Questo episodio serve anche a sbloccare i suoi rapporti affettivi: rivela alla figlia che, di nascosto, era andata a vederla durante un recita scolastica, regala a Manon un abito di scena di Sarah che lei aveva sempre custodito gelosamente, garantisce alla nipote che sarà una grande attrice e, dopo essersi fatta scrivere un testo di scuse da Lumir, convince Luc (che in realtà non aspettava altro) a tornare da lei. E’, forse in po’ più umana ma continua a pensare che sia valsa la pena la pena di essere una cattiva madre e una cattiva amica ma un’ottima attrice.
Kore’eda è noto e premiatissimo (sino alla Palma d’Oro a Cannes per il precedente Un affare di famiglia) come cantore di un Giappone minore, di piccole vite attraversate da forti – ma, spesso, attutiti – sentimenti. Sulla carta non è il primo nome al quale si penserebbe per la realizzazione di un film, apparentemente, così francese con due mostri sacri di quella cinematografia. Altri autori, altrettanto caratterizzati dalle proprie origini, in questi ultimi anni, hanno ambientato in paesi stranieri le loro opere: penso agli iraniani Farhadi (Il passato ambientato in Francia ma con protagonisti prevalentemente iraniani e lo spagnolo Tutti lo sanno) e Kiarostami con il giapponesissimo Qualcuno da amare. Il passo di Kore’eda è più ardito: non solo dirige, oltre alla Binoche (che, almeno, è sua amica), la complicata (anche per i cineasti francesi) Deneuve ma lancia una serie di richiami biografici su di lei: l’affetto/rivalità per la collega Sarah che richiama il suo rapporto con la sorella Francoise Dolréac, il vestito che lei regala alla collega emergente è una copia di una delle mise di Bella di giorno, il compagno amante del cibo e pacioccone ricorda Mastroianni e quando, elencando le attrici francesi con nome e cognome con la stessa iniziale, viene fatto il nome di Brigitte Bardot, Fabienne/Deneuve fa una smorfia (le due non si sono certo amate). La storia, poi, è molto francese: è vero che le attrici sono, nei loro tic, uguali in tutto il mondo ma il clima attorno a Fabienne è tipico della retorica da Comédie- Francoise. Eppure, se ne esce con lo stessa d’animo di empatia per piccole cose e lievi scostamenti sentimentali che proviamo dopo ogni film di Kore’eda: le inquadrature che accarezzano la scena sono tipiche del suo stile, cosi come l’attenzione per particolari che introducono a stati d’animo appena accennati (un albero che dolcemente si spoglia, la pacifica tartaruga, una festicciola di compleanno cinese). Il risultato è che la grande, egocentrica diva è tranquillamente accostabile, ad esempio, all’eterno adolescente di Ritratto di famiglia con tempesta o ai “ladri di bambini” di Un affare di famiglia: come loro è teneramente avvinghiata ai propri difetti che sono, in fondo, la loro più profonda umanità.