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Una bella conferma di autori ed attori (veramente e splendidamente) indipendenti
di Giulia Brazzale, Luca Immesi. Con Cosimo Cinieri, Désirée Giorgetti, Dario Leone, Livio Pacella, Milton Welsh Italia 2018
In un bosco Scudiero (Giorgetti) bussa al carrozzone da circo dove dorme Capitano (Pacella), che si sveglia imprecando perché non è riuscito, nel sogno che capiamo essere ricorrente, a rompere la testa ad un nemico. I due si apprestano a dare, come ogni mattina, una rappresentazione agli animaletti del bosco, raccontando la tremenda guerra tra le mosche della città di Merdia, guidate dal re Moschide, contro le formiche della regina Formicuzza. Intanto arriva con un paracadute Soldato (Leone) e Capitano lo prende alle spalle e lo colpisce alla testa con una pietra, facendolo svenire. Scudiero, che è affascinato dal giovane sconosciuto, gli presta le prime cure e lo porta nei pressi del carrozzone, nonostante le proteste dell’altro. Dopo poco Capitano racconta, come sempre, i suoi ricordi di guerra – la Grande Guerra – e del Generale (Cosimo Cinieri) che mandava a morire i suoi soldati con fanatica noncuranza. Nel racconto, lui si identifica nella madre, vedova di guerra sconvolta dal dolore e costringe gli altri due ad accompagnare come prefiche i lamenti della donna. Poco dopo il racconto, sempre con lui protagonista, si sposta nella Seconda Guerra e lo vede partire con i partigiani, avendo lasciato l’amata Maria che gli aveva promesso di aspettarlo. Ora è con due compagni, il disincantato Lupo (Simone Longo) e un ragazzo (Fabio Benetti); in uno scontro a fuoco con i tedeschi guidati dal Maggiore Mayer (Welsh) il giovane muore e l’ufficiale ordina di uccidere 30 italiani (10 per ogni militare morto ucciso dai tre partigiani). E’ notte e Soldato decide di scappare dal bosco, seguito di lì a poco da Scudiero; non trova, però, la via d’uscita ma solo un balilla (Giovanni Calapai) che lo porta per mano in una radura dove stanno il Generale ed altri morti nelle guerre. Poco dopo si materializza un altro ricordo: Soldato, in divisa da milite fascista sposa Maria (Giorgetti) ma, quando durante il pranzo di nozze, lei va nella sua stanza a frugare tra i propri ricordi, lui la sorprende con le lettere d’amore di Capitano e le fa una scenata. L’indomani Soldato, convinto che nel carrozzone sia nascosta la mappa per uscire dal bosco, vi entra e porta via una scatola di metallo che però contiene solo delle lettere, una pistola ed un vestito da donna, Scudiero prende il vestito e se lo mette, rivelandosi – anche a sé stessa – come Maria. Arriva Capitano e racconta di come, tornato dalla guerra civile, si fosse precipitato da Maria – che aveva indosso proprio quel vestito – e avendola trovata sposata, avesse spaccato la testa con una pietra a Soldato, e poi sparato a Maria e a sé stesso.
Dopo l’intenso e magico Ritual la Esperimentocinema di Brazzale ed Immesi si avventura in un nuovo progetto di grande visionarietà e coraggio. Partendo dal testo teatrale del veneto Pino Costalunga, Le guerre orrende – ricco di riferimenti colti, con citazioni di Ruzante e Folengo, Govoni, la Batracomiomachia attribuito ad Omero e ripresa da Leopardi, Apollinaire – i due autori, con l’aggiunta di un’acca ad Orrende, come da lezione machiavellica, hanno dato il loro senso – in questo riconducibile a Jodorowsky, che in Ritual era fisicamente e autoralmente presente – di un film non tanto e non solo pacifista ma portatore di un segnale (artistico e stilistico) di pacificazione: non si esce dall’(h)orrenda guerra che è in noi, negandola ma accettandola, né si può realmente raccontarla senza trasfigurarla in arte. Le guerre horrende non è solo questo: è un bel film con una regia solida e matura e, per molti aspetti, richiama le splendide realizzazione del Carmelo Bene cineasta, un Bene ammorbidito, ammodernato (pacificato appunto) ma con una capacità di trasformare materiali poveri (anche se la produzione conferma la capacità di reperire tutto ciò che serve con i mezzi a disposizione) in perfetta attrezzeria; così come sono notevoli sul piano artistico le capacità di agire su più piani; per esemplificare: il ferino personaggio della prostituta Celestina (Francesca Trincia) è certamente memore della Saraghina di Fellini ma è anche – sin dal nome – parente della meretrice cinquecentesca di Fernando de Rojas. Una citazione merita il bel passaggio dal colore al bianco e nero dei ricordi del Direttore della Fotografia Ivo Lucchin. Il pregio maggiore del film è però nei tre bravissimi protagonisti, Livio Pacella, Dario Leone e Désirée Giorgetti; lei, in particolare, si conferma come uno dei talenti più veri e forti di queste ultime stagioni, un’attrice nata che vorremmo continuare a vedere sullo schermo, dove, spesso, ci dobbiamo accontentare di scialbe e ripetitive performance.