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Ovvero la scuola dell’antimafia. Cos’è avvenuto a Roma nelle 120 giornate che si sono succedute a quello scioccante martedì 2 dicembre quando la Procura della Repubblica della capitale scoperchiò uno scandalo senza precedenti che coinvolgeva politici, dirigenti pubblici, imprenditori ed ex terroristi nel malaffare e in ogni genere di nefandezze compiute nella città? Come stanno rispondendo la politica e la società civile all’inchiesta giudiziaria più sconvolgente che si sia abbattuta finora su Roma, facendo emergere una mafia del tutto nuova? La società della comunicazione tende a semplificare ogni cosa in una guerra infinita del “bene” contro il “male”. Ed è per questo che – a fronte dell’offensiva mediatico-giudiziaria della Procura di Roma che ha dissolto in un baleno granitici convincimenti, mitizzazioni consolidate e luoghi comuni – la politica e la società civile coinvolte nello scandalo provano innanzitutto a ricostruire una nuova immagine di sé. L’immagine di chi sta dalla parte del “bene” che combatte il “male”. E provano a creare un nuovo recinto in cui collocarsi e distinguersi: lo spazio pubblico delle “anime belle”. Lo fanno utilizzando tutti gli strumenti che la società della comunicazione mette a disposizione per occupare costantemente la scena. Inventano nuovi simboli, nuovi linguaggi, nuove modalità di esercizio del potere e delle forme di violenza con cui esso si manifesta. È sicuramente encomiabile e va incoraggiato l’impegno a contrastare la nuova cupola scoperchiata dagli inquirenti. Tuttavia, è similmente importante disvelare le metamorfosi e i camaleontismi di un’antimafia di facciata priva di ricadute sul benessere collettivo per fare emergere, invece, l’impegno effettivo di persone e gruppi nel creare comportamenti responsabili e consapevolezze diffuse, capaci di incidere sullo sviluppo delle comunità e aprire nuovi spazi di democrazia. Di qui il richiamo metaforico alla “scuola del libertinaggio” del marchese de Sade e a “Salò” di Pasolini. La domanda a cui qui si vuole tentare di dare una prima risposta, è la seguente: siamo o no in presenza di una “scuola dell’antimafia” che sta costruendo pratiche perverse, ciniche e sadiche, volte a distorcere la democrazia, a ridurre gli spazi della partecipazione e ad allontanare le opportunità di crescita sociale, economica e civile delle comunità che vivono a Roma? Se la risposta è affermativa bisognerà agire su due fronti: combattere la mafia e difendersi dall’antimafia di facciata. Perché la mafia e la falsa antimafia sono due facce della stessa medaglia. In questo duplice conflitto e nella diffusione di nuove pratiche sociali – così come sta avvenendo con l’iniziativa di “Spiazziamoli” – può nascere una nuova classe dirigente.
La giornata dell’orrore
La mattina del 2 dicembre 2014 Roma si sveglia e scopre che le inchieste giornalistiche di Lirio Abbate sull’Espresso non erano affatto dei falsi scoop. A mezzogiorno rimbalzano sulle agenzie i nomi di 37 arrestati, tra cui Massimo Carminati, che era appartenuto ai Nuclei armati rivoluzionari ed era stato amico di quelli della Banda della Magliana. Ora viene presentato come il capo di una mafia nuova, una mafia romana: Mafia Capitale. Tra i cento e passa indagati figura, con accusa di associazione mafiosa, anche l’ex sindaco Gianni Alemanno. Mentre i due arrestati eccellenti sono Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative sociali, accusato di associazione mafiosa, turbativa d’asta, trasferimento fraudolento di valori e rivelazione di segreto d’ufficio, e Luca Odevaine, accusato di corruzione aggravata, ex vicecapo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni. Entrambi vicinissimi al Pd.
Nove giorni dopo, sarà il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, a spiegare il senso dell’operazione investigativa alla commissione parlamentare antimafia: “A Roma ci sono una serie di investimenti mafiosi, ci sono alcune associazioni di tipo mafioso presenti nel territorio, come le due di Ostia, una collegata a Cosa nostra e una, quella dei Fasciani, autoctona, già sgominate; ma oggi abbiamo fatto un passo avanti. Sappiamo che non c’è un collegamento con la mafia classica: rispecchia in qualche modo la società romana. Mafia Capitale è originale e originaria”. Nell’ordinanza degli arresti del 2 dicembre si precisa: “Originale perché l’associazione criminale presenta caratteri suoi propri, in nulla assimilabili a quelli di altre consorterie note; originaria perché la sua genesi è propriamente romana, nelle sue specificità criminali e istituzionali (…). Deve escludersi che la sua genesi sia recente e reputarsi che essa sia radicata da tempo, mentre deve ritenersi che essa, sul piano investigativo, sia stata colta nella fase evoluta propria delle organizzazioni criminali mature, che fruiscono, ai fini dell’utilizzazione del metodo mafioso, di una accumulazione originaria criminale già avvenuta”.
Il tutto sembra, dunque, partire dai contesti di violenza dei conflitti antisistema degli anni settanta e ottanta e dai collegamenti tra l’eversione nera con apparati istituzionali. Tali legami si consolidano nel fenomeno criminale della Banda della Magliana per trasformarsi definitivamente in Mafia Capitale: un luogo descritto da Carminati come “mondo di mezzo”, dove si realizzano sinergie e si compongono equilibri illeciti tra il “mondo di sopra”, fatto di colletti bianchi, imprenditoria e istituzioni, e il “mondo di sotto”, fatto di batterie di rapinatori, trafficanti di droga, gruppi che operano con l’uso illegale di armi.
Il fantasma di “Roma ladrona”
Dopo quel brutto martedì nulla è più come prima nella capitale. È crollato definitivamente il mito di una città più ordinata ed efficiente, costruito grazie alla buona amministrazione delle giunte di Rutelli e Veltroni. Un mito che si era avvalso della caduta del primato di Milano capitale morale da quando le inchieste di Tangentopoli avevano dimostrato a confronto il modesto livello della “Roma ladrona”. La parola “Roma” ha ripreso la capacità di suscitare rifiuto e condanna non sapendosi più avvolgere – se mai ci fosse riuscita – nella glorificazione di un mito. Sono tornati a risuonare gli echi di polemiche antiche contro la capitale. Come quella di Papini nei primi anni del novecento: “Chi mi darà torto se io dichiaro che Roma è stata sempre, intellettualmente parlando, una mantenuta? (…) Questa città ch’è tutto passato nelle sue rovine, nelle sue piazze, nelle sue chiese; questa città brigantesca e saccheggiatrice che attira come una puttana e attacca ai suoi amanti la sifilide dell’archeologismo cronico, è il simbolo sfacciato e pericoloso di tutto quello che ostacola in Italia il sorgere di una mentalità nuova, originale, rivolta innanzi e non sempre indietro”. O come quella di Moravia agli inizi degli anni settanta: “Come si fa a voler bene a Roma, città socialmente spregevole, culturalmente nulla, storicamente sopravvissuta a furia di retorica e di turismo?”. E sempre Moravia, rincarando la dose, scrive in apertura a un volume del 1975 significativamente in titolato “Contro Roma”, raccolta delle considerazioni di una quindicina fra saggisti, scrittori e poeti sulla capitale: “Fisicamente, Roma, non è diventata né una grande capitale come Parigi o Londra, né una megalopoli come Rio de Janeiro o il Cairo. È una via di mezzo fra le due cose e ha i difetti così della megalopoli come della capitale senza averne i pregi”. Alla constatazione che Roma era una delle città “peggio tenute, più sporche, più neglette e più maltrattate d’Europa” Moravia aggiungeva anche “la mancanza di raffinatezza, la volgarità squallida e devitalizzante propria dello Stato”. E come un insulto affermava: “Roma è una città, a dirla in breve, statale”. “Roma è soltanto – sosteneva lo scrittore Libero Bigiaretti – una bellissima (a tratti, a momenti) città sfasciata, traboccante in maniera incomposta, dalla morfologia abnorme, e che ‘funziona’ fortunosamente alla meglio, ed è assolutamente non idonea – dopo cento anni di tirocinio – alle mansioni di capitale”. Per Guido Piovene Roma, “vetrina vistosa dei vizi nazionali”, è politicamente “senza qualità”. E continua: “Tra Roma e le diverse parti d’Italia, non si sa quale sia più attiva nel corrompere l’altra. L’Italia è tutta e quasi egualmente mafiosa, la periferia guasta il centro e il centro la periferia. Tra un’Italia male unita e una capitale senza qualità politica si ha un circolo sbagliato, da cui il buono resta estromesso. Roma sarebbe una delle città più attraenti del mondo se non svolgesse una funzione che non è la sua”.
È Galli della Loggia sul Corriere della Sera a dare voce alla nuova ondata di invettive contro Roma. “Non è più Tangentopoli, ormai”, tuona l’editorialista. “È Mahagonny, la città immaginata dalla fantasia di Brecht e Weill dove è legge l’assenza di legge”. Nell’intreccio tra corruzione e criminalità “è cresciuto a Roma un ceto più o meno vasto di professionisti, di consulenti, di personaggi introdotti in alcuni punti chiave dello Stato, di veri e propri delinquenti in guanti bianchi, ma anche di uomini-ombra più di mano, tipo Salvatore Buzzi, la cui attività sostanziale è ormai quella di intermediare il malaffare con la decisione politico-amministrativa”. La caratteristica di Mafia Capitale è quella di privilegiare la corruzione alla violenza, per evitare l’attenzione della magistratura e dell’opinione pubblica. E nei fatti di corruzione non solo le imprese, ma anche la politica e la pubblica amministrazione assumono il ruolo di soggetti comprimari. Roma sta incarnando nel senso comune l’immagine della capitale dell’intreccio perverso tra mafia e corruzione.
Il “regolamento” di Sodoma Capitale
Ma come reagiscono la politica e la società civile al brutto risveglio di quel martedì nero che ha messo in luce in modo così appariscente la presenza di una mafia che spara poco ma corrompe tanto? L’opinione pubblica è scossa e terribilmente sbandata e tra la gente si rafforza l’ostilità verso le istituzioni e l’indignazione verso la classe dirigente. La disgregazione in atto è potente, lo sbandamento dell’opinione pubblica è terribile e sono formidabili gli interessi che si coalizzano attorno all’idea di affidare Roma a poteri straordinari, guidati “dall’alto”, piuttosto che rimetterla alle decisioni del suo popolo. Nessuno ragiona sul futuro della città e su come definire armoniosamente il ruolo e le funzioni della capitale italiana come strada maestra per sottrarla alla corruzione e al malaffare. Nessuno collega il proliferare di questa nuova mafia con la fragilità dell’assetto istituzionale e con l’esigenza di riforme profonde. Non solo a livello nazionale con un esecutivo che risponda al popolo, con un Parlamento meno centrale ma più efficace nell’intervenire e nel fare le leggi, con un decentramento capace di trasformarsi in autonomie responsabili, con una magistratura che renda l’azione penale e civilistica più efficace ma anche meno politicizzata. Ma anche a livello romano con Municipi che diventino veri e propri Comuni e che – una volta acquisito il diritto all’autogoverno – diano vita con quelli limitrofi ad una vera capitale metropolitana, con poteri reali e risorse adeguate. Solo da questa scelta preliminare può dipendere il modello organizzativo dell’amministrazione: la sua qualità, la sua efficienza, l’articolazione delle sue competenze e funzioni. Solo da questa opzione di fondo può prendere forma un’idea di sviluppo della città nell’era di internet e della robotica. Non a caso il “modello Roma” delle giunte di Rutelli e Veltroni non poté andare oltre il “buon governo” di facciata: non si fondava, infatti, su un progetto istituzionale di funzioni e poteri armoniosamente costruito. Nulla di tutto questo diviene però oggetto di dibattito pubblico ma solo quello che la società della comunicazione sa meglio assimilare: messaggi semplificati, battute ad effetto, banalità da bar nel tentativo disperato – da parte di chi li formula – di restare a galla con le minori perdite possibili.
Nessuno si avvede che anche questa volta si ripete – come in un copione ingiallito da rispettare rigidamente senza margini d’inventiva – il medesimo rito che si consumò dopo lo scandalo di Mani pulite e l’assassinio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Anche allora i partiti di governo minati nella loro credibilità morale a causa della corruzione e della collusione con le mafie e per questo perseguiti da una magistratura portata sugli scudi da un vasto e radicale movimento d’opinione, vengono di fatto commissariati dall’establishment. Tra il 1992 e il 1996 si susseguono i cosiddetti governi tecnici che avviano il rientro dell’Italia in Europa in condizioni di forte dipendenza nei confronti dei vertici di Bruxelles. Quando la politica perde credibilità, non si è abituati ad attingere immediatamente nuove risorse con l’esercizio della democrazia, e quindi restituendo immediatamente ogni decisione al popolo sovrano. Ma i più, per conservare le proprie rendite di posizione, si rendono disponibili a cedere sovranità ad altri poteri e a forze esterne sovranazionali. Anche a Roma è la Procura ad avere il pallino in mano ed è con essa che il Pd e la giunta Marino, entrambi sotto schiaffo, dovranno vedersela. Tramite Renzi e la supervisione di Bruxelles, a cui dar conto degli impegni riguardanti il piano di rientro del debito pregresso del Comune di Roma.
Come i protagonisti del romanzo di Sade e del film di Pasolini, anche i nostri eroi – il commissario, il sindaco e il magistrato – si sono forse riuniti in qualche torre immaginaria della campagna romana per stringere il loro patto di potere mediante un “regolamento”? Non si sa. Quel che appare è la comune osservanza di una regola non scritta: dare l’impressione all’opinione pubblica che tutto cambi perché nulla cambi. Ancora una volta è il principe di Salina a dettare le regole del gioco, le regole di Sodoma Capitale.
Il commissario
A distanza di poche ore dallo scandalo, il segretario del Pd romano, Lionello Cosentino, rassegna le dimissioni immediatamente accolte dal premier e segretario nazionale del partito, Matteo Renzi. Il quale nomina commissario il presidente del Pd, Matteo Orfini. Lapidaria la prima dichiarazione del commissario: “Emerge a Roma un partito da rifondare e ricostruire su basi nuove”. E commissiona all’economista Fabrizio Barca uno studio sui circoli democratici della capitale per venire a capo delle ragioni del coinvolgimento del partito nei gravi fatti di collusione tra criminalità organizzata, imprenditoria e amministrazioni pubbliche.
L’ipotesi di lavoro che Barca e la sua équipe presentano alla vigilia di Natale si poggia su due elementi, entrambi individuati come fenomeni concomitanti all’origine dei fatti collusivi: a) l’accumularsi di errori nell’azione pubblica di governo della città, specie in quella che avrebbe dovuto assicurare inclusione sociale ai suoi cittadini più vulnerabili (servizi essenziali di urbanizzazione, di sicurezza, abitativi, di cura degli anziani e dell’infanzia, ecc.); b) la progressiva trasformazione del partito in una “macchina per il bilanciamento del potere” priva di riferimento a una visione della città e a un progetto politico e mescolata in forme spesso improprie con l’amministrazione (municipale e comunale). Per curare il morbo i due fenomeni da correggere sarebbero questi: a) le cordate dei “signori delle tessere” che avrebbero trasformato il Pd appena nato in un partito “feudale”, privo di una visione di città; b) gli strumenti e le regole per il governo della città, utili nella prima fase delle giunte Rutelli, ma rivelatisi fragili o addirittura perversi successivamente, fino a trasformarsi in mezzi di degenerazione con la giunta Alemanno. “Il partito – scrive Barca – non serviva più a raccogliere e traghettare fabbisogni, idee e possibili soluzioni dalla comunità di iscritti e cittadini agli amministratori, a tenere gli amministratori sotto controllo”.
La ricerca commissionata al gruppo MappailPd consiste nella costruzione di un questionario da sottoporre ai coordinamenti di 110 circoli non già – si precisa – per individuare capri espiatori ma per identificare l’idea di partito che i singoli circoli incarnano. E così il 15 marzo arriva la relazione intermedia del gruppo di studio a metà della ricognizione, le cui prime anticipazioni sono impietose: c’è un partito cattivo, un altro buono e un altro ancora dormiente. Quello cattivo è anche “pericoloso e dannoso”: in esso “non c’è trasparenza e neppure attività, si lavora per gli eletti anziché per i cittadini, traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di ‘carne da cannone da tesseramento’”. Quello buono “esprime progettualità, capacità di raggruppamento e rappresentanza, ha percezione della propria responsabilità territoriale, sa agire con e sulle istituzioni, è aperto e interessante per le realtà associative del territorio e sa essere esso stesso associazione (inventando forme originali di intervento), informando cittadini, iscritti e simpatizzanti”. E poi “emerge una sorta di partito dormiente, dove si intravedono le potenzialità e le risorse per ben lavorare, e dove il peso di eletti e correnti è sfumato, ma che si è chiuso nell’autoreferenzialità di una comunità a sé stante, poco aperta all’innovazione organizzativa, al ricambio, al resto del territorio”.
L’ex ministro delle politiche di coesione conta di concludere il lavoro entro maggio. E solo allora si aprirà il tesseramento per giungere al congresso entro la fine dell’anno. Dunque, pare di capire che il dibattito interno al Pd romano verterà sui risultati dello studio diretto da Barca. Eppure i democratici americani e il Labour britannico, per affrontare le loro difficoltà, non sono partiti dalla propria organizzazione ma dalla società con cui i partiti dovrebbero interagire. La stessa cosa andrebbe fatta a Roma perché la mafia copre il vuoto della rappresentanza sociale. L’obiettivo del commissario sembra, invece, essere quello di cambiare metodo di lavoro del partito per renderlo capace di darsi una visione di città. Insomma, permane in lui l’idea che basti cambiare il partito per produrre innovazione sociale. Ma quella parte di società che potrebbe effettivamente produrre tale innovazione sta prevalentemente fuori del partito e interagisce – come ci dice il rapporto intermedio del team di Barca – con quella ristretta componente buona del Pd che sa essere “aperta e interessante per le realtà associative del territorio”. E la mafia è annidata lì, nelle lacune e debolezze di quella parte di società. Non a caso i partiti li ha solo sfiorati. Lo scambio è avvenuto con gli amministratori (i decisori politici) e coi vertici tecnici della pubblica amministrazione. Proprio per questo motivo Mafia capitale non è paragonabile a Tangentopoli. Gli scandali corruttivi dei primi anni novanta videro coinvolti i tesorieri dei partiti che costituivano i comitati d’affari. Oggi l’associazione mafiosa è insediata negli interstizi tra cittadini e società, laddove appunto le rappresentanze degli interessi dovrebbero leggere e selezionare i bisogni sociali e tramutarli in richieste leggibili per la politica e per i cittadini. Afferma Pignatone che “il vero collante [dell’associazione mafiosa] è costituito dalla convenienza reciproca: la possibilità di entrare nei luoghi decisionali della pubblica amministrazione e il denaro. Denaro in grande quantità, la possibilità di averne sempre di più, di mantenere i rubinetti sempre aperti”. E continua: “Nella nostra inchiesta tutto si mescola: il mafioso parla da manager e da burocrate, il funzionario si presta a operazioni corruttive di impatto economico a volte minimo a volte significativo, pronto a ripeterle qualunque sia la postazione che la politica sceglie per lui; l’imprenditore accetta o addirittura cerca la protezione del mafioso, mentre delicati incarichi amministrativi di nomina politica vengono affidati a persone indicate da Carminati”. Sembra, dunque, abbastanza evidente che la mafia romana svolga una vera e propria attività lobbistica: “crea” emergenze e ne pilota la percezione nell’opinione pubblica; offre una nuova agenda di bisogni comprensibili; indica gli uomini giusti al posto giusto nella pubblica amministrazione per acquisire risorse pubbliche, sottraendole così ai servizi effettivamente necessari ai cittadini; non offre ai decisori politici solo soldi ma anche consenso elettorale in virtù del forte controllo del territorio da essa esercitato.
Sono tutte attività che la criminalità non potrebbe svolgere qualora vi fossero efficienti organizzazioni di rappresentanza delle forze sociali in grado di adempiere alle proprie funzioni in un rapporto diretto coi cittadini, le imprese, i lavoratori, il territorio. Ma queste strutture oggi hanno smarrito la propria mission originaria e sono disperse in mille rivoli, divise per settori, categorie, forme giuridiche, bisogni speciali, storie ideologiche, ecc., intente a gestire pezzi di spesa pubblica per “mantenere” le proprie strutture organizzative: patronati, caf, caa, servizi per i sistemi di qualità, formazione professionale, attività promozionali, vigilanza agli affiliati, ecc. E invece le mafie agiscono in loro sostituzione “raccordandosi” con gli amministratori pubblici (sia decisori politici che strutture tecnico-amministrative), “cavalcando” i bisogni dei cittadini e trasformando le diverse esigenze in richieste funzionali ai propri affari illeciti. Non è un fatto nuovo. Già nel secondo dopoguerra si verificò questo fenomeno in alcune regioni meridionali laddove le organizzazioni democratiche erano estremamente deboli. Perché le mafie non sono anti-Stato ma altro-Stato.
Orbene, il commissario farebbe bene a ispirarsi al Labour britannico che nel 2010, dopo la seconda peggior sconfitta della sua storia, ha scelto il community organizing o capacity building per rigenerare il proprio rapporto con la società. Si è insomma mosso dall’esterno del partito, mappando le comunità, i suoi leader naturali, la cittadinanza attiva e l’associazionismo diffuso. Oggi la priorità è quella di strutturare, in modo sano e trasparente, gli spazi di definizione dei bisogni sociali partendo “dal basso”, incrociando coloro che già lo fanno, spesso in silenzio e contrastati dalle “sigle” e “siglette” che pretendono di essere le depositarie della rappresentanza sociale senza svolgerne più le funzioni. Si tratta di capire i motivi che rendono difficili a Roma i percorsi partecipativi per la progettazione integrata territoriale, pur vivamente raccomandati dalle politiche europee strutturali e di coesione. Andrebbero approfondite a fondo le ragioni dell’inerzia nell’attuazione dei piani di zona dei servizi socio-assistenziali e socio-sanitari e delle correlate forme partecipative. Bisognerebbe studiare il modo come connettere la governance delle cooperative sociali e delle associazioni di volontariato con gli utenti, i lavoratori e il territorio e sostenere la “valutazione” partecipata dei servizi offerti ai cittadini.
Solo se si creano, si rafforzano e si risanano questi luoghi, i partiti potranno svolgere un ruolo. Potranno, cioè, diventare strumenti di collegamento tra cittadini organizzati e istituzioni, oltre che promotori di classi dirigenti che si formano nell’ascolto dei bisogni. Ma c’è la necessità di una iniziativa politica nella società per avviare tale processo, con la consapevolezza che il problema non è prevalentemente nei partiti ma è fuori di essi. Spetta però ai partiti prenderne coscienza e agire di conseguenza. Si vedrà se il congresso del Pd romano saprà cogliere questo aspetto che lo studio MappailPd contiene e andrebbe ulteriormente approfondito e discusso.
Ma intanto Orfini, coadiuvato da tre subcommissari, rappresenta il partito nelle attività territoriali e nei rapporti con l’Amministrazione capitolina e con le altre forze politiche. In Campidoglio sono indagati due esponenti Pd: Mirko Coratti, presidente dell’Assemblea capitolina, e Daniele Ozzimo, assessore alla casa. I quali si dimettono poche ore dopo aver saputo del loro coinvolgimento nelle indagini. La situazione in Campidoglio la spiega il procuratore Pignatone alla commissione parlamentare antimafia. Dice che l’organizzazione criminale “si rapporta in modo completamente diverso con le due giunte che si sono succedute”. E infatti, tra gli arrestati – sottolinea il magistrato – ci sono tre figure “di vertice” dell’amministrazione guidata da Alemanno, a sua volta indagato, a cui viene contestato il reato di associazione di stampo mafioso. Mentre questa “presenza di vertice”- fa notare il procuratore – non c’è più quando in Campidoglio si insedia la nuova giunta guidata da Marino. Rimane però la “presenza estremamente pesante di Buzzi, che si caratterizza con tentativi di corruzione anche con la nuova amministrazione”. Spiega Pignatone che quando si arriva alle elezioni del 2013, i vertici di Mafia Capitale si dicono tranquilli sull’esito del voto perché vantano agganci sia nell’uno che nell’altro schieramento.
A seguito di queste dichiarazioni, il commissario del Pd fa quadrato sul sindaco criticando i precedenti attacchi del partito al suo operato. Così Marino può ristrutturare la sua giunta: dimissiona Rita Cutini, assessore alle politiche sociali, sposta l’assessore Paolo Masini dai lavori pubblici alla scuola e nomina il magistrato Alfonso Sabella assessore alla legalità e alla trasparenza, la presidente del Centro Servizi Volontariato del Lazio Francesca Danese alle politiche sociali e alla casa e il coordinatore capitolino dei progetti speciali Maurizio Pucci ai lavori pubblici. Non così ad Ostia, il territorio considerato il cuore delle infiltrazioni mafiose a Roma, dove il Pd locale viene affidato da Orfini al senatore torinese Stefano Esposito. Qui la prima misura messa in campo è l’azzeramento della giunta municipale. Una decisione sofferta che passa dapprima attraverso le dimissioni annunciate in conferenza-stampa da parte del presidente municipale Andrea Tassone: “Non ci dimettiamo per lotte intestine o perché abbiamo ricevuto avvisi di garanzia o altro, ma io azzero oggi la mia esperienza amministrativa e rimetto il mio mandato per lanciare un appello al sindaco Ignazio Marino, quello di avere la consapevolezza che Ostia non è come tutti gli altri Municipi”. Si tratta, dunque, inizialmente di dimissioni revocabili a precise condizioni da trattare con il sindaco. Ma dopo alcune giornate di passione consumate nel leggere carte giudiziarie e nel sondare l’aria che tira in Procura, arrivano quelle definitive che avrebbero dovuto portare alle elezioni anticipate del Municipio, restituendo così lo scettro al principe, al popolo sovrano. E invece è il sindaco Marino a svolgere la funzione di commissario del Municipio, in attesa che arrivi un altro magistrato in aspettativa a supplire – cambiando temporaneamente casacca e mettendo così sotto i piedi il principio della separazione dei poteri di Montesquieu – una politica incapace di fare il proprio mestiere.
C’è comunque da dire che, al di là del Pd, nessun’altra forza politica della città ha avviato dibattiti interni, percorsi di verifica e di riorganizzazione delle proprie strutture. Sel ha confermato il pieno appoggio al sindaco in una riunione pubblica alla presenza di Niki Vendola. E nelle prime settimane di dicembre, Giorgia Meloni si è candidata a sostituire Marino, annunciando un congresso di rifondazione di Fratelli d’Italia-An da tenere a febbraio che però non si è svolto. Anche Alfio Marchini, leader della lista che prende il suo nome e che ha conseguito il 10% dei consensi, ha chiesto le dimissioni del sindaco. Berlusconi lo vorrebbe alla guida di un cartello di centrodestra nel caso si vada a votare anticipatamente per il Campidoglio. Sono però contrari a questa ipotesi di leadership Meloni e Storace. E Marchini non cede nemmeno questa volta alle sirene come fece quando rifiutò di sostenere Marino al ballottaggio con Alemanno: pensa ad irrobustire il suo movimento senza allearsi né con la destra, né con la sinistra. E Mafia Capitale è un’occasione da non lasciar cadere.
Il sindaco e il magistrato
Marino dice che farà il sindaco per due mandati e non pensa affatto a dimettersi. Ma finora non ha ancora proposto all’Assemblea capitolina un dibattito pubblico su quanto è emerso dall’inchiesta di Mafia Capitale e sulle scelte future per la città. È contemporaneamente sindaco di Roma capitale e della Città metropolitana ma non ha maturato alcuna idea di come le due istituzioni che presiede possano unificarsi in un progetto costituente per dare all’Italia una vera e propria capitale. È come se l’argomento non lo riguardasse. È in barca e deve continuare a remare. Non importa verso dove. L’importante è amministrare nella legalità e nella trasparenza come richiedono la magistratura e il governo sotto la pressione di un’opinione pubblica allo sbando a seguito dell’inchiesta giudiziaria. Inoltre, va rispettato il piano di rientro del debito del Comune per tranquillizzare l’occhio vigile di Bruxelles. Se ci sarà la possibilità di fare anche altro a vantaggio dei cittadini, è tutta ciccia. Altrimenti pazienza.
Marino ha scelto Sabella a fargli da “tutore” in una macchina amministrativa che l’ex magistrato antimafia giudica “patologicamente alterata e totalmente fuori controllo con profonde e antiche radici”. “La patologia – spiega Sabella – è quella che di fronte a un ceto politico locale scarsamente preparato c’è una burocrazia comunale in grado di amministrare, decidere, scegliere senza che nessuno possa ostacolarla”. E precisa che i fenomeni corruttivi sono diffusissimi e che è costretto a segnalare alla Procura, ogni giorno, distorsioni e anomale procedure in favore di determinate ditte. “Nella Palermo controllata dai corleonesi di Totò Riina – racconta a un giornalista de “La Stampa” – almeno le carte erano formalmente in regola, qui la mafia ha occupato spazi vitali della vita pubblica”. L’assessore alla legalità dice che in queste 120 giornate ha occupato la maggior parte del suo tempo a firmare in autotutela richieste di annullamento di un paio di decine di gare con procedure a evidenza pubblica, cioè quelle gare che prevedono il bando pubblico, la commissione giudicatrice, la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale. Un paio di decine a fronte di almeno diecimila procedure negoziate, cottimi fiduciari, affidamenti diretti, somme urgenze. Racconta al giornalista: “Ho azzerato le somme urgenze e gli affidamenti diretti e ho dettato regole per ridurre all’osso le procedure e renderle trasparenti come una casa di vetro”. È lui che ha predisposto le regole per la trasparenza dei dati personali non solo di coloro che svolgono la funzione di indirizzo politico in Campidoglio, nei Municipi e nelle società partecipate, ma anche dei dirigenti. Dovranno tutti rendere disponibili on line la propria dichiarazione dei redditi e la situazione patrimoniale complessiva di tutta la famiglia fino al secondo grado di parentela. Ad un altro giornalista dice che in sostanza vuole sapere “se il capo dipartimento o il direttore generale dell’azienda tal dei tali ha la Porsche o la Panda, se ha la villa a Cortina o vive in un appartamento a Tor Bella Monaca”. È convinto che è dal tenore di vita che spesso emergono le contraddizioni. Ma è anche ben consapevole dei limiti dello strumento: moglie e congiunti non sono infatti obbligati alla pubblicazione e se uno ha intenzione di nascondere i propri beni con intestazioni fittizie, eludere i controlli è piuttosto semplice. Leggendo queste dichiarazioni di Sabella nel suo nuovo ruolo di assessore comunale viene in mente la lezione di Leonardo Sciascia sul rapporto tra politica e giustizia e alcune sue sottolineature fulminanti: spesso chi amministra la giustizia – fa notare lo scrittore – è portato ad “assumere un che di ieratico, di religioso, di imperscrutabile e con conseguenti punte di fanatismo”.
Oltre Sodoma Capitale, il prete di strada
Don Luigi Ciotti è da vent’anni presidente di Libera, un coordinamento di associazioni che hanno come finalità il contrasto alla mafia e alla corruzione. Lo fece prete agli inizi degli anni settanta il cardinale Michele Pellegrino, che gli affidò come parrocchia i marciapiedi di Torino. Da parecchi anni vive sotto scorta minacciato continuamente da Totò Riina e dai suoi sodali. Cosa Nostra non gli perdona di aver ottenuto dal Parlamento la legge sui beni confiscati ai mafiosi. A Roma ha il suo quartier generale in via Quattro Novembre. La ex Provincia gli ha messo a disposizione una minuscola bottega che si affaccia sul Foro di Traiano, quasi ai piedi della Colonna. Sull’insegna si legge: “I sapori della legalità”. Vi si trovano prodotti che arrivano dalle terre confiscate e coltivate: vini, pasta, salse, miele, melanzane, peperoncino di Calabria, olio di Puglia, passata di pomodoro della Sicilia.
Con il sostegno della Regione Lazio, il 22 marzo dell’anno scorso don Ciotti ha promosso a Latina la XIX Giornata della Memoria e dell’Impegno in Ricordo delle Vittime di Mafia. Ha poi partecipato attivamente al meeting della legalità “Lazio Senza Mafie” promosso dall’Osservatorio per la sicurezza e la legalità della Regione Lazio, dal Progetto ABC – Arte, Bellezza, Cultura e da Sviluppo Lazio e che si è svolto a Roma dal 26 al 29 novembre. Il 16 dicembre – quattordicesima giornata di Sodoma Capitale – ha preso parte a Roma al Congresso di Legacoop, l’associazione a cui aderisce la cooperativa 29 giugno, presieduta da Buzzi. Lo scandalo che si è consumato nella capitale domina necessariamente l’assise. Federica De Sanctis, giornalista di SkyTg24, “presentatrice” del congresso, chiama sul palco il presidente di Libera che così affronta il tema della giornata: “Bisogna sempre vigilare, non c’è realtà che si possa dire esente. Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode. Di fronte ai bivi bisogna decidere da che parte stare: imboccare la strada in salita, non possiamo essere troppo prudenti, dobbiamo osare di più, avere più coraggio. Siate sereni, cacciate le cose che non vanno (…). Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli. C’è una mentalità irriducibile sulla quale bisogna interrogarci. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma non può essere la legalità secondo le circostanze, non è una carta d’identità che si tira fuori quando fa comodo, dobbiamo evitare che ci rubino le parole, le stanno svuotando del loro significato. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione. L’etica, la legalità non sono obiettivi tra gli altri, ma è lo sfondo per tutto il resto, non prestiamoci mai a chi offre al privilegio la possibilità di calpestare i diritti”. Un discorso che tocca le corde più profonde e i valori di un’organizzazione che intende attuare i principi cooperativistici e solidaristici. Un discorso che, tuttavia, con ogni probabilità non riesce ad influenzare nel concreto la scelta e l’individuazione dei giusti modelli di governance che le imprese cooperative dovrebbero darsi per evitare di essere coinvolte in attività illecite. Il gruppo dirigente di Legacoop ritiene, infatti, che i fondamentali della cooperazione stiano a posto e che non ci sia nulla da approfondire e da innovare. Nel dibattito congressuale, lo scandalo di Mafia Capitale viene derubricato a questione di mele marce: ieri la “29 aprile” di Buzzi, oggi la “Concordia” e domani?! Nel frattempo, l’Alleanza delle Cooperative Italiane (ACI), coordinamento nazionale costituito dalle Associazioni più rappresentative della cooperazione italiana (AGCI, Confcooperative, Legacoop), tace sulla necessità di un ripensamento dei modelli di governance, salvo far osservare a Legacoop che il male sta nel gigantismo delle sue cooperative. Cosa del tutto discutibile: un’impresa può, infatti, adottare misure che la mettano al riparo da comportamenti corruttivi e illegali indipendentemente dalle sue dimensioni. Il grande tema da porre è, invece, quello di rafforzare la funzione sociale delle cooperative come impatto sociale sul territorio. E per farlo dovrebbero cercare nelle loro modalità di gestione e di governo modelli flessibili e inclusivi, che le portino ad essere sempre più le organizzazioni delle comunità per le comunità.
Don Ciotti ha una personalità carismatica e il suo linguaggio tende ad agire direttamente sulle coscienze dei suoi uditori. E questa attitudine educativa del fondatore, questo suo carisma, costituisce l’originalità e l’identità specifica in cui si riconoscono gli aderenti al movimento. Ma spesso la cattiva gestione della paura di perdere questa caratteristica originaria rende l’organizzazione auto-immune, cioè incapace di attrarre nuove persone generative e creative di qualità. Potrebbe accadere anche a Libera di diventare auto-immune se non dovesse germogliare rapidamente un visibile e plurale gruppo dirigente capace di inventare nuove modalità di intervento e nuove forme di espressione per preservare meglio il suo spirito originario. A questo proposito Luigino Bruni ha scritto pagine molto penetranti sulle opportunità e i rischi dei carismi nelle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI) su cui varrebbe la pena riflettere e confrontarsi.
Come dice don Ciotti, la legalità, la trasparenza e la lotta alla corruzione non costituiscono obiettivi a sé stanti, discipline o materie distinte dal resto, ma devono fare da sfondo e permeare il tutto. Solo il massimo di apertura e di spirito di collaborazione con tutti gli altri soggetti sociali interessati ad agire su questi temi, pur svolgendo attività diverse, può favorire una più diffusa cultura di contrasto alle mafie. Non dovrebbero, dunque, valere né primogeniture, né professionismi esclusivi.
La Fondazione Libera Informazione collabora con la Regione Lazio nell’elaborazione del rapporto annuale “Mafie nel Lazio”. Il 13 marzo è stato presentato quello relativo al 2015 alla presenza del presidente Nicola Zingaretti. È un lavoro di grande interesse che ricostruisce puntualmente la mappa della presenza mafiosa a Roma e nella regione, dimostrando che entrambe non siano mai state immuni dalla penetrazione criminale. “La specificità – si legge nel rapporto – è quella di essere zona di confine e di poteri istituzionali al più alto grado, di essere un centro di flussi economici vasti e che da Roma, come dagli altri capoluoghi di provincia, si diramano poi a raggiera verso l’Italia intera”.
Il documento è senza dubbio un prezioso strumento di indagine e di informazione che utilizza quasi esclusivamente la vasta letteratura giudiziaria e gli atti della Commissione parlamentare antimafia. È questo anche il suo limite: manca, infatti, un’analisi sulle politiche per la legalità, attuate e da realizzare, e come queste si possano intrecciare con le diverse politiche ai differenti livelli istituzionali e coi comportamenti e le strategie dei corpi intermedi e della società civile. Manca un’indagine sociologica del fenomeno mafioso effettuata direttamente nelle comunità locali infiltrate dalla criminalità. Quando si parla di mafia non si dovrebbe fare riferimento solo ai comportamenti illegali che la magistratura persegue ma anche al brodo di coltura entro cui questi comportamenti si alimentano: un’attitudine diffusa alle pratiche clientelari e agli atteggiamenti omertosi, rapporti anomali nelle pubbliche amministrazioni tra chi è titolare dell’indirizzo politico e chi esercita la gestione amministrativa, lo svuotamento della funzione di rappresentanza in molte organizzazioni sociali preoccupate esclusivamente a dare continuità ai servizi erogati coi finanziamenti pubblici.
In Italia. l’analisi sulle mafie è di fatto delegata alla magistratura. Le istituzioni, le associazioni e i media non fanno altro che ricostruire i fatti e mettere insieme i dati che emergono da atti giudiziari e da materiali investigativi. La prima e ultima grande indagine sociologica nella capitale la realizzò negli anni sessanta Franco Ferrarotti e la sua équipe nelle borgate e nelle baraccopoli romane. E poi non ce ne sono state più della stessa importanza. Ma senza questi strumenti la politica non sarà mai nelle condizioni di svolgere un’analisi compiuta del fenomeno mafioso e di individuare correttamente le misure per contrastarla.
I magistrati, sia quando esercitano le loro funzioni che quando accorrono a supplire quelle della politica, guardano al tema con l’ottica del perseguimento del reato e, quindi, suggeriscono esclusivamente misure che permettono di individuare con maggiore facilità i comportamenti illeciti. Non sono in grado di dare un contributo nell’analizzare le cause sociali del fenomeno e soprattutto di indicare strumenti per diffondere una cultura della legalità. Ma tali indicazioni possono venire solo dall’inchiesta sociologica sul campo con la strumentazione scientifica idonea che questo tipo di indagini richiede.
Pur con questi limiti, il rapporto “Mafie nel Lazio” contiene notizie poco note ma molto utili che riguardano ad esempio il riutilizzo sociale dei beni confiscati. Si tratta della nascita di un protocollo fra il Tribunale di Roma, la Corte d’Appello, la Regione Lazio, Roma Capitale, Unindustria, Camera di Commercio e successivamente allargato a Cgil, Cisl, Uil, Libera, FederLazio, Cnca, Coldiretti Lazio. “Il protocollo – spiega il presidente del Tribunale di Roma Guglielmo Muntoni – è relativo alla gestione e all’assegnazione provvisoria dei beni sequestrati ai boss e ancora non utilizzati. Il nostro compito è quello di fare una mappatura della situazione, di sollecitare i comuni che hanno questi beni sui propri territori e procedere, nell’interesse della tutela economica del bene e del riutilizzo sociale, ove possibile, per la collettività. Il nodo principale del protocollo è la costituzione di un ‘data base’ con la collocazione di tutti i dati, appunti, relativi ai singoli beni su un sito riservato, cui possano accedere i firmatari del protocollo d’Intesa”. Si tratta di capire se il protocollo è aperto anche ad altre organizzazioni che intendono aderire e se c’è la disponibilità a rivedere la legge sui beni confiscati per trasformare questi beni in proprietà collettive da far gestire liberamente alle comunità locali.
Né Mafia Capitale né Sodoma Capitale: Spiazziamoli
All’insegna della parola d’ordine “Spiazziamoli – 50 piazze per la democrazia e contro le mafie”, il 6 e 7 marzo si sono svolte a Roma quasi un centinaio di eventi, spettacoli, giochi di piazza, performance, sit in, flash mob, presentazioni, dibattiti, assemblee per “rompere i silenzi sulle mafie, vincere la corruzione, promuovere i diritti, ricostruire il welfare”. Per la prima volta una grande manifestazione, che ha riguardato tutti i municipi e migliaia di persone, ha messo al centro la voglia dei cittadini di dire “no” alle mafie e di contribuire a costruire un futuro migliore per la città. Le iniziative sono state liberamente organizzate da altrettante associazioni di ogni tipo, gruppi, comitati, realtà territoriali e cittadini che si sono riuniti nel coordinamento “Spiazziamoli” sulla base di un documento predisposto unitariamente. I temi affrontati nei dibattiti sono stati tanti: la lotta alla corruzione e per la trasparenza, la centralità di un nuovo welfare territoriale (reddito minimo, agricoltura sociale, minori in difficoltà, immigrazione, ecc.), nuove regole per il terzo settore, lotta all’usura, centralità dell’alimentazione, rifiuti, nuovi modi dell’abitare, riutilizzo per finalità sociali dei beni confiscati e pubblici inutilizzati, politiche culturali e dei beni storico-archeologici, gioco d’azzardo, appalti pubblici, aree protette, consumo di suolo, ecomafie, beni trasporti, narcotraffico, Roma Capitale Metropolitana, ecc.
Un ruolo trainante è stato svolto dall’Associazione Da Sud che nasce in Calabria dieci anni fa e che dal 2009 ha la sua sede nazionale a Roma nello storico quartiere del Pigneto. Uno spazio di coworking, un osservatorio sulle mafie, un laboratorio permanente di creatività e di innovazione sociale dove vengono organizzati dibattiti, eventi culturali e slow food. Un luogo dove sorge la prima mediateca sulle mafie e l’antimafia della capitale dedicata a Giuseppe Valarioti e dove, contemporaneamente, si pubblicano materiali creativi originali per raccontare storie riguardanti gli stessi argomenti.
Tra le organizzazioni che hanno aderito all’iniziativa figura il Forum del Terzo Settore che sta elaborando una carta dei valori da far sottoscrivere alle organizzazioni aderenti. In tale documento non solo sono definiti i principi ma sono previsti anche gli strumenti e le modalità per garantirne l’applicazione fino all’espulsione delle organizzazioni inadempienti. C’è il Coordinamento per la promozione di nuovi enti locali (Co.Pro. NEL) che sta portando avanti la campagna per avviare un processo costituente di Roma Capitale Metropolitana. C’è anche il coordinamento Corviale Domani che ha avviato un percorso di progettazione condivisa nell’intero territorio dove sorge il palazzone, per l’utilizzo integrato dei fondi europei, nazionali e regionali. C’è l’Unione nazionale inquilini ambiente e territorio (Uniat) impegnata nella tutela del diritto alla casa, nel fornire assistenza ai problemi dell’abitare oltre che a promuovere attività culturali sui temi ambientali, della tutela del territorio e in contrasto ai processi di impoverimento. C’è CarteinRegola, un laboratorio di cittadini, associazioni e comitati che vuole lavorare sulle regole, a partire da quelle che guidano le trasformazioni urbane, la mobilità, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali. Per le centrali cooperative c’è l’AGCI, quella più piccola di tradizione laico-socialista. Mancano Legacoop e Confcooperative del Lazio, entrambe commissariate perché lambite da vicende di corruzione. Ma non si conoscono i termini del dibattito interno su come intendono superare le difficoltà. Dopo lo scandalo di Mafia Capitale ancora non c’è stata un’iniziativa appropriata delle organizzazioni imprenditoriali e dei sindacati. È come se il tema non li riguardasse. E invece una parte importante del problema sta proprio nella crisi della rappresentanza sociale.
Nel documento di “Spiazziamoli” è scritto che “il radicamento delle mafie, l’inquinamento del commercio, dell’economia e del terzo settore, il sistema di corruzione generalizzato, il controllo di interi pezzi di territorio, la diffusione a macchia d’olio di sale slot, i fiumi di droga che arricchiscono i clan, il silenzio delle classi dirigenti sulle dinamiche mafiose, l’impossibilità di cittadini e associazioni di intervenire nei processi decisionali sono questioni esiziali per la democrazia in questa città”.
C’è, dunque, una rete di soggetti collettivi a Roma che si trova finalmente concorde nel porre alla città un tema di fondo: il legame strettissimo tra lotta alle mafie e allargamento della democrazia. Contestando di fatto l’operazione strisciante di Sodoma Capitale che tende, invece, a sottrarre ai cittadini gli spazi democratici e partecipativi. Non è facile muoversi sul doppio versante del contrasto alle mafie e alla corruzione e del disvelamento di una iniziativa per la legalità che si ferma agli aspetti formali e risponde esclusivamente alle esigenze comunicative per tentare di innalzare il livello di reputazione delle proprie organizzazioni. Dopo le due giornate di mobilitazione non si è fatto più nulla insieme. E c’è una discussione difficile se dare un minimo di strutturazione al coordinamento “Spiazziamoli” per continuare a collaborare con ulteriori iniziative comuni. Bisognerebbe fare in modo che questa discussione diventasse pubblica e coinvolgesse i cittadini che hanno partecipato agli eventi. Inoltre, non è privo di significato il fatto che in occasione delle due giornate di mobilitazione hanno organizzato iniziative anche quindici circoli del Pd e cinque di Sel. C’è dunque la possibilità di un dialogo tra questa nuova ed embrionale società civile che sta emergendo nella città sui temi della lotta alle mafie e componenti dei partiti disponibili a collegarsi attivamente con essa. Il team di Barca farebbe bene a tenerne conto nell’analisi che sta conducendo all’interno dei circoli del Pd per fare in modo che tali buone pratiche diventino materia di dibattito congressuale.
Se questa rete crescerà nei prossimi mesi sull’onda di nuove iniziative di approfondimento, di formazione, di animazione territoriale, di percorsi partecipativi di sviluppo locale, diventando lo strumento con cui l’antimafia diventa, in modo sano e non perverso, cultura diffusa e senso comune, una vera “scuola dell’antimafia” che non sforni “professionisti dell’antimafia” – per riprendere una celebre polemica di Sciascia – ma costruttori di comunità; se accadrà tutto questo, potrà forse maturare una nuova classe dirigente capace di prendere le redini della città e di dare una visione strategica per fare in modo che Roma diventi davvero una capitale europea. Si tratta di vincere sia sul fronte di Mafia Capitale che su quello di Sodoma Capitale. Ed è questa la vera posta in gioco.