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Venti anni fa usciva il film “l’Odio” di Kassovitz, film che prendeva spunto dalle rivolte nelle banlieues parigine seguite all’uccisione di un loro abitante. Quel film è stato un punto di riferimento per tutta una generazione, soprattutto per chi allora era attivo nei movimenti e negli spazi sociali delle periferie metropolitane in Italia. Quella rivolta a Parigi era qualcosa di nuovo, qualcosa in cui vedevamo forti continuità e ancor più forti discontinuità col ciclo di lotte degli anni 70/80: ribellismo pauperistico e anarcoide, lotta di classe primitiva, rivendicazione comunitaria, riot americaneggiante (più Malcolm che Martin), dialettica conflittuale centro-periferia…c’era, o ci vedevamo, un po’ di tutto questo.
Anche l’Islam c’era, ma era, o lo vedevamo come, solo uno dei collanti comunitari, testimonianza di una condizione subalterna, grammatica comune degli esclusi.
Dieci anni dopo un’altra rivolta in banlieue. Tornando trovammo una situazione meno anarchica e più organizzata, una coscienza magari non di classe ma di comunità subalterna molto forte, direi una coscienza di luogo, se la intendiamo come categoria geo-socio-culturale.
Una rivolta più organizzata, più indirizzata e con delle leadership che si confrontavano e scontravano in nome di culture politiche e indirizzi diversi. Il fondamentalismo islamico era uno di questi.
Non maggioritario e sicuramente politicamente non attrezzato a dirigere quella rivolta, ma capace di legami profondi in quella comunità, in orizzontale e in verticale, e soprattutto capace di unire, idealmente ma anche nella predicazione, quella comunità con altre comunità subalterne nelle periferie metropolitane europee.
Tra questa rivolta e la strage di Parigi ci passano altri dieci anni e la storia contemporanea: la globalizzazione, l’11 settembre, internet, i social, i drammatici errori di guerra e gli ancor più drammatici errori di dopoguerra dell’Occidente in Medio Oriente.
I protagonisti del film di Kassovitz sono i fratelli maggiori dei protagonisti della seconda rivolta e i padri degli attentatori del 13 novembre.
A scanso di equivoci: per la maggior parte sono i padri di tantissimi ragazzi per bene, di musulmani pacifici, di persone che cercano di uscire dalla subalternità banlieuesard con i percorsi che le democrazie europee mettono a disposizione. Ma sono i padri anche di quella minoranza in cui la predicazione jihadista attecchisce.
Ma qui vanno dette alcune cose per capire il fenomeno, e in questo ci aiutano le biografie degli attentatori: molti hanno in comune la piccola criminalità e il carcere, e proprio in carcere si viene in contatto con la predicazione jihadista, molto più che in moschea. Questo dato dovrebbe dirci molto sul fenomeno che abbiamo davanti, almeno nella sua incarnazione nelle metropoli europee (diverso è naturalmente il caso dell’arruolamento negli altopiani afgani o nel deserto libico). Per questi giovani l’adesione alla jihad è un sentirsi finalmente parte di qualcosa, è una giustificazione alla violenza e all’odio con cui vivono e l’estremo sacrificio è vissuto come un momento di protagonismo reale altrimenti negato dalla società in cui vivono.
C’è un secondo profilo di jihadista europeo oltre a quello sopra descritto ed è quello più evidente nelle stragi di Londra del 2005. Non più giovani subalterni ma seconde o terze generazioni integrate, colte, con profili lavorativi dignitosi o proprio di successo, fedina penale intonsa: una sorta di media borghesia dell’immigrazione. In loro non c’è una rivolta verso la società che li esclude, piuttosto un romanticismo naif, un’adesione ideale ad una comunità globale, ad un progetto mondiale e persino non transeunte. Come i giovani borghesi europei dell’800, sono pronti a partire, in nome di quell’ideale, verso la Siria o l’Iraq.
Ora il punto centrale sta proprio qui, in questo paralleo politicamente asimettrico: i giovani Europei dell’800 partivano per la Grecia o l’Italia in nome della libertà, i giovani Europei del ‘900 si rivoltavano nelle periferie in nome dell’emancipazione. E gli ideali di libertà ed emancipazione si sono concretizzati nella costruzione europea nelle forme della democrazia e dei diritti, i Paesi Europei, l’Europa stessa è stata per lunghi decenni la Patria della democrazia e dei diritti, questi erano la sua identità, il motivo per cui i tanti senza diritti e libertà venivano da noi.
Lo sono ancora?
Formalmente sì, ma sostanzialmente il modello europeo di promozione sociale è in crisi in tutti i suoi Paesi (ognuno col suo modello specifico, ognuno in crisi) da almeno 20 anni, da quando cioè Kassovitz gira il suo film ma soprattutto da quando comincia la costruzione dell’Unione Europea. Non voglio dire che quella costruzione mette in crisi quei modelli, al contrario, dico che si è cominciata quella costruzione unendo Paesi con i rispettivi modelli sociali in crisi, si sono sommate debolezze sperando che la semplice unificazione monetaria, con la sua mano invisibile, le facesse superare.
Le ha invece approfondite, così da venti anni abbiamo società in cui la ricchezza si redistribuisce verso l’alto, la forbice ricchi-poveri si allarga, la classe media scompare, i pochi che hanno accesso alle reti (globali, finanziarie, sociali, culturali, perfino dei diritti) le difendono come privilegi e chi ne è escluso, chi non ha l’accesso si sente estraneo, straniero.
Le nuove forme dell’esclusione, figlie della crisi del modello di promozione sociale europeo, producono un deficit di cittadinanza: ci si sente stranieri nel posto in cui si vive, a prescindere da dove si è nati. Quanti Italiani se ne vanno sentendosi non voluti dalla loro patria?
E se va in deficit il concetto di cittadinanza col corredo di diritti che porta con sé allora saltano i patti sociali.
E se si inceppano i meccanismi di emancipazione e di promozione sociale, allora si incrina l’edificio della democrazia.
Un edificio che ha due pilastri: libertà e emancipazione, ma quest’ultimo è quello dinamico, concreto, è la democrazia operante nelle vite di ciascuno. Se salta questo pilastro la democrazia non si riconosce più, non basta la libertà, questa è un ideale sacrosanto e irrinunciabile, ma senza emancipazione rischia di essere percepita come un lusso dai subalterni, da chi non ha accesso ai suoi benefici.
Se si vuole sconfiggere lo jihadismo in Europa, l’Europa deve lavorare su questa sua identità, deve rinnovarla, rimetterla in moto, ritrovare un modello di promozione sociale (e culturale) efficace e brandirlo come la prima delle sue forze e dei suoi tratti identitari.
Non dico che basti questo, dico però che questo è essenziale.
Non serve brandire la croce, e il Papa lo va ripetendo da molto, come vorrebbero gli imprenditori della paura, serve invece quella giustizia sociale che proprio i partiti di quegli imprenditori hanno smantellato in tutta Europa. Solo che anche questo sembra dirlo solo il Papa.
E questo è un male: le forze laiche, civili, politiche, istituzionali, sono afasiche, sanno parlare solo di guerra (e non sto dicendo che non serva anche un livello militare, magari aiutando le Kurde e i Kurdi al confine del califfato), sanno parlare solo di ipersorveglianza, di libertà in cambio di sicurezza.
Nella Roma ormai invasa dai barbari, Rutilio Namaziano scrive che “gli uomini della fede sono feroci e gli uomini del dubbio sono stanchi”, si sa come andò a finire.
Ma non è scritto che debba finire così anche stavolta, c’è stato un tempo, ed era poco tempo fa, che gli uomini del dubbio erano fieri di esserlo e su questo hanno costruito società più aperte, aperte a tutti, più ricche e libere per tutti.
È su questo per tutti (fur alle-fur ewig) che si vince la sfida.