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Spesso confuso con quello della condivisione, il modello del capitalismo delle piattaforme è tutto fuorché sharing economy. Uber, Foodora o Deliveroo promuovono un modello di precarizzazione totale noto come gig (che in inglese significa “lavoretto”) economy.
Quando diciamo economia della condivisione, diciamo qualcosa di preciso e specifico. Non diciamo, ad esempio, Uber. Non diciamo Foodora o Deliverroo, piattaforme che di collaborativo e di condiviso hanno ben poco. Quando parliamo di Uber, Foodora o Deliveroo parliamo, piuttosto, di gig economy. Ma che cos’è, allora, la gig economy? È un modello dove le prestazioni lavorative stabili sono azzerate e, di conseguenza, gli impiegati e i dipendenti a tempo indeterminato praticamente non esistono. Le prestazioni lavorative continuative sono un pallido ricordo di quando la classe operaia sognava il paradiso e quella creativa si illudeva di averlo raggiunto.
Non esistono più posti di lavoro – né a tempo determinato, né indeterminato – e l’offerta di prestazioni lavorative, prodotti o servizi avviene solo “on demand”, quando c’è richiesta. In sostanza, un caporalato digitale. L’espressione gig economy deriva dal termine inglese “gig”, lavoretto. Nel mondo dello spettacolo “gig” è il cachet. Il precario 4.0 è chiamato gig worker e il modello è quello dell’on-demand (economy), completamente disintermediata grazie a app e piattaforme digitali proprietarie.
Nella gig economy il mercato tra domanda e offerta è gestito online. Ma il “gestore” non è un arbitro imparziale e non innova: distrugge la cornice giuridica e il fondamento di ogni relazione e garanzia di lavoro. Un fenomeno, questo, che gli studiosi hanno già ribattezzato Plattform-Kapitalismus, capitalismo delle piattaforme, che attraverso app solo in apparenza neutrali mette in relazione soggetti che cercano e soggetti che offrono prestazioni temporanee di lavoro.