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Oggi siamo tutti schiacciati sul presente e legati all’immediatezza. La comunicazione digitale che distribuisce una valanga di messaggi non ha più nulla di significativo e decisivo da comunicare. Si è offuscato, fino a scomparire, il faccia a faccia. Si comunica “a”. Non si comunica più “con”. La parola “comunicare” ha dimenticato la sua radice etimologica, che è “unione”, “comunione”, “comunità”.
È per questo che siamo afflitti da una grigia mediocrità e da una piatta, monotona ripetitività. Stanchezza, usura psicologica e solitudine sono i mali del tempo presente.
Il rapporto tra le persone non è più un rapporto umano; è solo utilitaristico. Tra le varie forme di reciprocità prevalgono quelle distruttive (conflitti, guerre, vendette, ritorsioni) su quelle generative (confidenza, fiducia, cooperazione, sviluppo civile, mercato, mutualità, amicizia, amore). Il processo di individualizzazione si è realizzato con dispositivi di serializzazione. Il facile asservimento alle mode induce, infatti, ad omologarsi nella serie.
E una forte domanda di senso, a cui non sappiamo rispondere, ci afferra le viscere. Una nostalgia di “totalmente altro”. Un bisogno di trovarci in luoghi “totalmente diversi”. Una fame di eternità oltre l’effimero e l’inconcludenza. Questa domanda di senso altro non è che la ricerca del sacro. Il concetto di “sacro” precede quello di “religioso” e di “divino”. Non vanno confusi. Il sacro attiene a quegli aspetti metaumani che più occorrono alla convivenza umana, pena il trasformarsi dei rapporti tra le persone in rapporti mercificati, utilitaristici, pena la perdita della dimensione utopica, della mai perfettamente dominabile imprevedibilità degli individui. Senza il sacro l’uomo perde quello che, più umanamente, è umano.
Sacro e sessualità nella storia dell’umanità sono stati elementi tra loro sempre connessi. Un tempo esisteva però un rapporto positivo tra religiosità e sessualità. Oggi le religioni si presentano spesso in opposizione alla sessualità. Anche per questo motivo sono diventate più dissacranti che nel passato. La liberazione dei rapporti sessuali, che si è manifestata al suo apice negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, ha costituito una tappa fondamentale nella conquista di una maggiore autodeterminazione. Tuttavia, si è molto intrecciata con la società dei consumi e con l’affermazione di una mentalità utilitaristica e un atteggiamento competitivo e predatorio. Sia gli uomini che le donne spesso utilizzano la sessualità come strumento di negoziazione, di ricatto e di competizione. E quando non serve a questi fini, ci si rinchiude nei rapporti virtuali favoriti da internet. Perfino i rapporti tra le persone sono stati fagocitati nella sfera dell’efficienza. E dunque vanno tenuti a livelli minimi fino all’evanescenza. Quando ci si incontra è da maleducati toccarsi, abbracciarsi, guardarsi negli occhi. Senza fini utilitaristici è da perdigiorno mangiare insieme e darsi del tempo. Per recuperare la dimensione del sacro e rivitalizzare, in questo modo, i legami comunitari, gli individui dovrebbero imparare a vivere positivamente la sessualità. Si tratta di improntare i rapporti con gli altri più alla trasparenza e meno all’utilità, ove il gioco degli interessi prevale. C’è in noi un desiderio dell’altro come altro. Più esattamente di un altro come me, che mi è simile e compagno, che mi completa, ma soprattutto che vale non perché serve a me, ma per sé. Che quindi non posso mai ridurre a me – lo tratterei come cosa e lo perderei – ma che posso raggiungere solo nella sua libertà.
L’amore non è – né può mai essere – possesso, ma reciprocità positiva e perciò confidenza e fiducia. Per amare così è necessario contenere la prepotenza, la ricerca dell’utilità, comprendere che o si cresce insieme o qualsiasi accrescimento è solo apparenza, è solo un simulacro della potenza, in effetti un fallimento. Il sacro – cioè la nostra umanizzazione – si riacquista e si espande aprendoci ad una sessualità gioiosa, fondata sulla fraternità delle relazioni.