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EUROPA, ultima chiamata

Si conclude qui Diario Europeo alla vigilia di una grande ricorrenza. Il 25 marzo 1957 venivano infatti siglati i Trattati di Roma. Si concluderanno a Roma i primi Sessanta anni dell'Europa libera e unita con l’auspicio che non siano celebrazioni vuote e/o rituali. Ma una ripartenza

È, questo, il tempo di una ‘tempesta perfetta’. Il 2016 e il 2017 saranno ricordati, nella storia dell’Europa unita, come il biennio della grande scommessa.

Il 23 giugno 2016, i popoli del Regno Unito (ancora oggi mentre scriviamo sono membri del Parlamento dell’Unione) – dividendosi tra loro (Inghilterra e Galles, per uscire; Irlanda e Scozia per restare) – hanno votato, in un referendum consultivo con risicata maggioranza di uscire dall’Unione europea; il 2 ottobre lo stato membro – Ungheria – ha votato, in un referendum consultivo, contro la Decisione del Consiglio dell’Unione per la ripartizione di quote di profughi e migranti, sbarcati sul territorio dell’Unione; da ottobre 2016, lo Stato membro – Polonia – è sotto procedura da parte della Unione, per infrazione ai principi inerenti allo Stato di diritto (art. 6 del TUE); il 4 dicembre 2016, il Paese membro – Austria – ripete la elezione diretta del presidente della repubblica, avendo come favorito un esponente (Norbert Hofer) dichiaratamente populista; il 15 marzo 2017, lo Stato membro – Olanda – procederà alle elezioni politiche, avendo in testa come favorito il ‘partito della libertà’ di Geert Wilders, favorevole all’uscita dell’Olanda dalla Unione; il 23 aprile (primo turno) e il 7 maggio (secondo turno), lo Stato membro – Francia – procederà alle elezioni del presidente della repubblica, con in testa nei sondaggi Marine Le Pen, favorevole all’uscita della Francia dall’euro; tra agosto e ottobre 2017, lo Stato membro – Germania – procederà alle elezioni politiche, la cancelliera Angela Merkel è contrastata dal neo partito populista Afd (Alternative fur Deutschland), che erode consensi soprattutto ai due partiti CDU-CSU del suo elettorato.

(il Tempo d’Europa)

‘Diario europeo’ giunge alla sua ultima tappa di “questo tempo” di Europa.

Ha preso le mosse da uno choc industriale (i software montati su alcuni modelli Volkswagen per adulterare la misura dei livelli di inquinamento stabiliti nell’Unione) emerso nel settembre 2015 e si è incamminato nei giorni e mesi del “tempo” di questa Europa Unita, imperfetta ed incompleta. Mai avrebbe immaginato a quali altri più scioccanti eventi andava incontro (dal terrorismo nelle sue piazze, nei suoi teatri e chiese, alla sospensione di Schengen), fino all’elezione del presidente degli Stati Uniti d’America – 8 novembre 2016 – gli Stati Uniti d’America – USA – di un ricco costruttore, Donald Trump, un esponente populista, anche in contrasto con il partito repubblicano di riferimento.

Via via, confrontandoci con la durezza delle sfide e la fragilità della “Unione” – sospesi tra la duplice cruciale eventualità di un tempo tra intervallo o durata – erano sempre due le domande che facevano da guida al nostro faticoso percorso: da una parte: “che tempo è, il tempo che non ha futuro?”; dall’altra: “ per chi suona la campana?”.

Memori delle “eredità culturali, religiose ed umanistiche” dell’Europa, alle quali si sono “ispirati” (Preambolo al Trattato) i capi di Stato e di governo dei Paesi europei firmatari del Trattato sull’Unione europea, ’Diario’ vuole lasciarsi istruire da una di quelle eredità: le parole di Paolo di Tarso, nella prima Lettera ai Corinzi (scritta in greco) dove, riflettendo sul suo tempo (il tempo a lui presente) e sulle sfide poste alla sua generazione, Paolo scrive: “ò kairòs (il tempo di ora, il tempo opportuno) synestalménos estìn (si contrae, comincia ad accorciarsi)”. In profondità, quella parola greca sta ad indicare il comportamento del felino che si contrae sulle zampe prima di spiccare il salto che lo porterà a raggiungere il suo obiettivo (la preda). Dovrebbe trattarsi, quindi, di una buona notizia: nel senso di un tempo pieno di contraddizioni e responsabilità, che ti mette urgenza e ti trasmette un permanente stato di allerta e una tensione massima, e/ma ti proietta verso un esito positivo. Sai che puoi fallire e sai anche che devi affrettarti.

Con questo sentimento, abbiamo titolato questa ultima tappa di ‘Diario’: “Europa, ultima chiamata”.

Sessanta anni fa: il 25 marzo 1957, a Roma, venivano siglati i “Trattati di Roma”. Fra pochi mesi, dunque, si concludono (i primi?) 60 anni di Storia dell’Europa libera ed unita. Si concluderanno a Roma, con l’auspicio – di ‘Diario’ e dei suoi lettori e sue lettrici – che non siano celebrazioni vuote e/o rituali. Ma una ripartenza.

(Il Trattato che istituisce la Comunità economica europea (TCEE) è il trattato internazionale che ha istituito la CEE. È stato firmato il 25 marzo 1957 insieme al Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica (TCEEA); insieme, sono detti “Trattati di Roma”. Insieme al trattato che istituisce la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) firmato a Parigi il 18 aprile del 1951, i Trattati di Roma rappresentano il momento costitutivo della Comunità europea, che con il Trattato di Maastricht, febbraio 1992, prenderà il nome di Unione Europea).

(la sfida cruciale: non si può amare un mercato unico)

“Mai come oggi quella che pure porta il nome di “Unione” sperimenta il rischio della scissione, senza che le opposizioni che la solcano riescano a saldarsi in una relazione significativa. Tutt’altro che rapportarsi nella loro differenza, la sue parti appaiono disperse in una molteplicità irrelata che non ha neanche la forza costituente del conflitto. La separazione non riguarda soltanto i Paesi, ma qualcosa di più profondo che attiene alla motivazione stessa dello stare insieme. È come se la realtà dell’Europa si distaccasse drasticamente dalla sua ragione, schiacciandosi sul suo nudo dato geografico” (Roberto Esposito, Da fuori-una filosofia per l’Europa, citato).

La generazione, nata appena dopo la seconda guerra fratricida tra europei, vive questo tempo del “rischio della scissione” e del “conflitto senza una sua forza costituente”; la Costruzione europea fin qui realizzata, imperfetta e incompiuta – nei pilastri fondanti una vera e propria integrazione europea culturale, economica, sociale, politica – resta un patrimonio disponibile per le future generazioni, ma a rischio. Nuove spinte centrifughe e distruttive emergono in uno scenario di pericolosa stasi della prospettiva e di appannamento della strategia comune. È ora di reagire. “Non si può amare un Mercato Unico” (Jacques Délors). È il compito della nuova generazione di europei ed europee nata mentre il muro della divisione dentro l’Europa, crollava a Berlino; e non solo a vantaggio della città e dello stato tedesco.

Tutto è ancora possibile. Dal 9 maggio 1950 (discorso di Robert Schuman) al 2017, il percorso unitario ha compiuto soltanto sessantasette anni di vita; dai “Trattati di Roma” ci separano sessanta anni; dal 9 novembre 1989/3 ottobre 1990 (caduta del muro di Berlino e riunificazione della Germania), la nuova fase del percorso unitario ha compiuto soltanto 28/27 anni di storia.

Tra contraddizioni nuove e più antichi nodi irrisolti, il tempo del processo unitario, fino ad ora compiuto, non è, storicamente, un tempo enorme. Ciò che è nuovo sta nella portata del cambiamento dei contesti globali e della loro velocità, nel quale il processo unitario ora deve evolvere. Qui sta la sfida. Inedita e per molti versi drammatica.

(la incompiuta democrazia europea e il nuovo patto costituente)

Con un crescendo via via intenso e con forme diversamente urticanti, nei diversi Paesi membri è tornato a manifestarsi la “questione nazionale”; insieme ad una diversificata – in certi casi inattesa e stupefacente, per la sua inadeguatezza e sfrontatezza – declinazione della “questione democratica”.

È noto che “lo stato nazionale è la principale innovazione istituzionale dell’Europa, accanto al capitalismo di mercato e all’universalità di ricerca; nell’esperienza storica della modernità europea rappresenta l’incarnazione dell’autorità politica e il principale fattore di strutturazione della società, al cui interno sono state affrontate le grandi questioni della libertà individuale, della giustizia sociale, della risoluzione non violenta dei conflitti” (cfr. A. Cavalli-A. Martinelli, “La società europea”, il Mulino, 2015). Si tratta di una realtà storica ed antropologica, ineliminabile: nelle culture e nelle identità europee, infatti, “l’ideologia nazionalista possiede una grande forza emotiva, sviluppa identità collettive e movimenti politici, miranti a promuovere la sovranità, l’unità, l’autonomia di coloro che vivono in un territorio dato, sono legati da una cultura politica distintiva e condividono un insieme di fini comuni” (ivi).

E’ necessario, pertanto, tenere insieme due acquisizioni: a) nazione e nazionalismo incorporano anche elementi premoderni, ma sono e restano forme ed espressioni della modernità; b) gli stati nazionali non sono (forse come sbrigativamente si pensava) in via di sparizione, ma certamente sono impari – come tali – a confrontarsi, per garantire ai suoi cittadini la libertà (anche in vista di una forma e della sostanza di una democrazia sovranazionale) con la crescente e permanente interdipendenza globale, da una parte, e la contestuale tendenza alle segmentazioni identitarie localistiche, dall’altra. Questa fase della integrazione europea (sia quella realizzata prima del 1989-1990; sia quella successiva a quello choc storico e strategico, le cui conseguenze sono ancora in atto) non è riuscito ad assumere il dato storico del nazionalismo (se non come contrasto alle sue manifestazioni più estreme: le guerre intra europee; contrasto, però, che non è riuscito ad estendersi all’azione tesa a rimettere nell’alveo democratico le violazioni allo Stato di diritto, dentro l’Unione, nel cui ambito alcuni Stati membri teorizzano e praticano una cosiddetta “democrazia illiberale”) e andare oltre il semplice stigmatizzarlo, inglobandolo nel suo processo di integrazione e trasformandolo in una energia per una appartenenza più ampia, riconoscibile di fronte al mondo esterno. È, dunque, a questo livello che bisogna produrre una decisa innovazione politico-strategica: cambiando in profondità il modello di governance dell’Unione, perché la “logica funzionalista e i meccanismi politici del passato – metodo intergovernativo – non sono più sufficienti”. Abbiamo pensato (ed ancora oggi spesso si pensa) che il passaggio dalle “democrazie degli Stati nazionali” alla “Democrazia europea”, fosse automatico e spontaneo (bastava trasportalo al livello sovranazionale, attraverso un “Trattato” e formule di ingegneria organizzativo-istituzionale: Il Trattato di Lisbona, è stato l’ultimo generoso tentativo in questo senso). Non è così. Drammaticamente non è stato così e per troppo tempo abbiamo tardato a rendercene conto. E siamo ancora lì. La Democrazia Europea (dove il termine non è un semplice aggettivo), certamente, non potrà che essere fondata sugli stessi principi dello “Stato di diritto” della Storia d’Europa, ma le sue dinamiche, le sue prassi, le forme istituzionali e di modello decisionale dovranno essere inventate e sperimentate. Il tutto deve essere espressione giuridica di una sostanziale “Società europea”. Questa ultima, rappresenta ed è la costruzione più difficile e mai definitiva; alla cui base sta una articolata e complessa infrastruttura vitale dei sistemi educativi e della formazione della coscienza civile. Tutto questo non è stata, fino ad ora, la prima pre-occupazione del processo di costruzione dell’Unità europea. Bisogna prenderne coscienza e avviare rapidamente percorsi di cambiamento.

I soggetti fondanti questa Europa Libera e Unita, sono due: i Popoli e gli Stati. Come ai tempi del primo costituzionalismo europeo del XIX secolo, i due Soggetti fondatori devono attuare una sorta di “rivoluzione democratica”. All’epoca, i parlamenti nominati dal sovrano si ribellarono al Re.

Il Parlamento dei popoli europei – distinguendosi dagli Stati – deve riprendersi in prima persona la iniziativa legislativa. Gli Stati nazionali – distinguendosi dai Popoli – potranno e dovranno ritrovarsi in una “Camera degli Stati membri” nella quale esercitare in permanenza (non più con/nei “vertici” periodici e/ o episodici) la loro specifica funzione di co-fondatori della Unione. Realizzando nei fatti e coram populis che la “autodeterminazione democratica significa che i destinatari di leggi cogenti ne sono al tempo stesso gli autori” (J.Habermas). Insieme – Popoli e Stati daranno la “Fiducia” ad un Esecutivo-Governo dell’Unione (attuale Commissione). I Parlamenti nazionali saranno ad un tempo “antenne” per il parlamento dell’Unione e “prosecuzione sovranazionale” della democrazia dei popoli-stati (non più mondi separati, non più teatri di parti diverse in commedia). In questo scenario di piena legittimazione democratica, una urganza speciale deve essere assicurata al completamento della Unione economica e monetaria: la zona euro. “L’esigenza fondamentale è di restituire chiarezza e fiducia all’assetto istituzionale dell’area euro, dal momento che sappiamo che quello attale è incompleto”( Mario Draghi, citato in “Diario” del 10 luglio 2016).

Una ripartenza storica, dunque (il modo degno di celebrare, meditando, i 60 anni dei Trattati fondanti) – un nuovo Patto Europeo Costituente – per dare la risposta democratica alla crescente delegittimazione circolare: tra Governi nazionali- Istituzioni comunitarie europee- movimenti antidemocratici nazionalistici. E’ urgente e strategico, infatti, arrestare: da una parte la deriva da parte di Stati- nazioni che si chiamano fuori dalle solenni decisioni del (attuale) “Consiglio” (secondo la logica di una “unione à la carte”, come nel caso della ripartizione di immigrati nei diversi territori dell’Unione), segando così il ramo dell’albero comune su cui si sta seduti; dall’altra prosciugando lo stagno dove nascono e prolificano le pulsioni populiste, che – senza mandato democratico – mirano ad espropriare i Popoli d’Europa della sovranità democratica nel/del Parlamento dell’Unione.

(interlocutrice del mondo)

Una Unione fragile e già indebolita dalla crisi finanziaria ed economica, e quindi sociale, si è svegliata, incerta e preoccupata, alla notizia del cambiamento socio-culturale-politico-strategico e di governo negli Stati Uniti d’America. Pur prescindendo dai seri problemi di ordine valoriale e dei diritti, lo choc rivela che l’Unione non è attrezzata a governare fenomeni di rilevanza strategica internazionale (con le loro specifiche conseguenze sui sistemi istituzionali e politici comunitari e nelle società degli Stati e Paesi membri). Forse con una certa enfasi è stato affermato che “ Per la prima volta, da sessant’anni, l’Europa dovrà camminare con le sue gambe” (Sergio Fabbrini, “Usa isolazionisti, Ue senza politica”, Il Sole 24 ore, 13 novembre 2016); ma l’analisi è ben impostata e convincente: “il punto è che questo ordine liberale internazionale (il complesso delle organizzazioni mondiali, ivi enumerate) ha reso possibile l’avvio e il consolidamento del processo di integrazione europea. Gli anti-americani che popolano le piazze europee (e il talk-shw televisivi) continuano a non rendersi conto che l’Europa pacificata è stata resa possibile dall’America vittoriosa. Senza la diffusione della democrazia, l’apertura dei commerci, la definizione di regole sovranazionali, gli stati europei non avrebbero potuto avviarsi sul percorso dell’integrazione. L’integrazione europea è stata certamente voluta da statisti come De Gasperi, Konrad Adenauer e Robert Schuman, ma è stata però resa possibile dalla sicurezza che gli americani le hanno fornito. Naturalmente – aggiunge Fabbrini- quello americano è stato un sostegno giustificato da una visione ma anche da interessi”.

‘Diario europeo’ ha già affrontato le problematiche relative al “posto di Europa nel mondo” (vedasi Diario del 27 novembre 2015 e del 14 marzo 2016), e averlo fatto in momenti meno scioccanti di quelli che si profilano ora, rinvia alla visione dell’urgenza del “tempo d’Europa” in cui ‘Diario’ si colloca. Dalle vicende ora incombenti emerge anche una sorta di “kairòs” (tempo opportuno) per fare scelte – o almeno avviarle – che fino ad ora (contrarietà ed opposizione del Regno Unito e anche di Stati come la Polonia e altri membri Nato) sono state impedite: “insomma, la sottrazione ancorché parziale dell’impegno americano costringerà – bon gré, mal gré – i governi dell’Unione a riaffrontare il progetto di quella Comunità Europea della Difesa che il parlamento francese bloccò nel 1954 e che neppure con i successivi Trattati di Roma del 1957 si tentò di riaprire” (Massimo Riva, L’Unione dopo Trump, la Repubblica 15 novembre 2016). Pertanto, dopo una non breve riflessione – qualche mese di conciliaboli e confronti – lunedì scorso,14 novembre, il Consiglio dei ministri della difesa e i ministri degli esteri dei 27 Stati membri, a Bruxelles (mentre e nonostante i festeggiamenti e anche le visite fatti in America da parte dei capi di governo di molti Paesi membri dell’est europeo e, contraddittoriamente, in forza di qualche paura in più di Polonia e di Ungheria a motivo delle simpatie del sig. Trump verso il sig. Putin) hanno approvato le proposte presentate dall’Alto rappresentate della politica estera e la sicurezza della UE, Federica Mogherini, già al vertice informale di Bratislava, che saranno definitivamente sottoposto al Consiglio europeo di dicembre (e successivamente (!) al Parlamento europeo). La creazione di una struttura centrale di pianificazione (non ancora uno Stato Maggiore europeo), il coordinamento delle attività di ricerca e sviluppo dell’industria militare e la messa in comune di assetti su questioni strategiche come l’intelligence, la copertura satellitare e l’uso dei droni sono le parti più rilevanti del pacchetto.

A sessant’anni dai Trattati di Roma, questa fotografia d’insieme sulla integrazione europea deve farci riflettere e deve muovere il pensiero e l’azione di questa Unione. ‘Diario’ ricorrerà alla lettura e analisi di un alto funzionario nelle Istituzioni della Unione europea, in tanti anni di carriera e professionalità, per dare i connotati di massima della situazione; scrive Enzo Moavero Milanesi:“ Un altro snodo è costituito dalla precaria situazione dell’UE: l’originario disegno lungimirante si sta sfarinando e non tiene il passo di un mondo radicalmente mutato da rivoluzione tecnologica, globalizzazione, crisi economica e finanziaria, massicci flussi migratori, terrorismo. I meccanismi decisionali arrugginiti e, soprattutto, si rivelano fatali la disaffezione dei cittadini e la litigiosità fra i leader. Perso l’animo collaborativo dei fondatori, alcuni protagonisti attuali privilegiano gli interessi nazionali alla costruzione del consenso su quello comune; ci sono fratture così profonde da determinare opzioni drastiche, come la Brexit. Ormai, gli USA si trovano di fronte questa Unione Europea, e da qui nascono interrogativi nodali” (in “ L’impatto del fattore Trump sui fragili equilibri della Ue”, in “ Corriere della sera”, 14 novembre 2016).

La disaffezione dei cittadini alla quale Moavero fa riferimento è registrata e misurata da Eurobarometro (primavera 2016): il 55% dei cittadini dei 28 Paesi dichiara di non avere fiducia nella Ue, contro il 33 che si mostra fiducioso; solo il 17 % ritiene che l’Unione stia andando nella giusta direzione (con una diminuzione del 6% rispetto all’anno precedente); Inoltre, soprattutto in Italia, si affievolisce il senso di appartenenza: il 49% si sente europeo, mentre un altro 49% è di parere opposto (cfr. Nando Pagnoncelli, Scenari, Corriere della sera 15 novembre 2016, per gli opportuni approfondimenti). Noi siamo certi che Eurobarometro è ben letto e molto noto anche a Bruxelles (se non altro perché è un sondaggio finanziato con il bilancio europeo e, dunque, possiamo ritenere che ai suoi “numeri/messaggi”, J.C. Junker, presidente di turno della Commissione europea, non riserverà parole stizzite e colorite, alle quali ci sta abituando).

Questi “scenari” sollecita ‘Diario’ a rinviare i lettori e le lettrici alle numerose e specifiche analisi e proposte relative al welfare europeo e a pezzi di esso che – da subito – sarebbe possibile realizzare a livello europeo: presa in carico della disoccupazione da crisi aziendali o di settori della industria e dei servizi già europeizzati nella loro configurazione di mercato unico interno; ed anche la messa in comune di un “piano di emergenza contro la precarietà e nuove povertà”).

Una “chiamata” specialissima va a Europa dai paesi e dalle persone colpite da un terremoto devastante. “Quei borghi sono Europa”, titolava molto opportunamente Corriere della sera, il 27 ottobre 2016. “Un’Italia che smotta, cade a pezzi, e che ha bisogno di anni e anni di cure, di ricerca, di quel lavorio che Matteo Renzi ha battezzato “Casa Italia” ed è , deve essere, il punto di rinascita e di messa in salvo di un patrimonio urbanistico, di un assetto idrogeologico del quale per decenni non ci siamo preoccupati. Non è faccenda di zero virgola qualcosa, quella che andiamo a raccontare a Bruxelles. E’ una realtà estrema che ci mette alla prova, come quella della migrazioni che ci attraversano, premono sulla nostra coste, e fanno dell’Italia (e della Grecia) terra europea dai confini che è impossibile proteggere. L’Europa, di fronte a tutto questo, non può chiudere gli occhi. Non può far finta di nulla. Perché Europa siamo noi, perché le nostre città e i nostri borghi medievali che più sono a rischio in queste ore, vivono nella cultura europea, fanno parte della crescita e della identità dei cittadini di parigi, di Berlino, di Madrid. Perché i ragazzi d’Europa non capirebbero, domani, il dolore della nostra gente lasciata sola” (Goffredo Buccini, in Corriere della sera). Tra i paesi colpiti c’è Norcia, dove è nato Benedetto, poi santo della chiesa cattolica e protettore d’Europa. “Succisa virescit – tagliata ricresce”, recita il motto dei benedettini. E può ben essere anche il motto della durata del sogno europeo.

É facile immaginare il grande ed efficace risultato, anche in termini di simpatia e rinnovata fiducia sul valore dell’Europa libera e unita – al di là della buona letteratura europeista – che avrebbe questa solidarietà e convergenza europea. E’ sempre la prossimità alle vicende delle persone, alla loro umanità, ai destini dei cittadini e delle cittadine d’Europa che fa la differenza. Allo strabismo degli Stati e al cinismo di componenti delle società europee, soltanto più Europa, più integrazione, anche nelle forme delle cooperazioni rafforzate , potrà offrire subito una supplenza , che poi si rivelerà creatrice di quel tempo d’Europa che da intervallo si tramuterà in durata.

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