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Quasi quasi è meglio il remake
di Simone Spada. Con Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Anna Ferzetti, Andrea Arcangeli, Jessica Cressy Italia 2019
Tommaso (Mastandrea) vive e lavora da anni in Canada, e, pur essendo terrorizzato dagli aerei, saluta la moglie (Alessandra Carrillo), bacia i figli (Caterina Spada e Giordano Mastandrea) e vola a Roma per raggiungere l’amico Giuliano (Giallini), attore di successo, ora malato terminale. Il suo scopo è quello di convincerlo a recedere dal proposito di interrompere le invasive cure per lasciare che la malattia segua il proprio inevitabile decorso. Giuliano è, come sempre, ironico ed estemporaneo: il metodico Tommaso si trova ad acquistare per lui un pacchetto di erba in pieno giorno in un parco pubblico da una disinvolta pusher (Marta Bulgherini), a giocare a rimpiattino per eludere una giovane attrice, Caterina (Barbara Ronchi), che – innamorata e un po’ esaltata – vuole alleviargli gli ultimi momenti di vita e a trattare come in un suk arabo il prezzo di una cassa da morto con un imbarazzato impiegato delle pompe funebri (Fabrizio Sabatucci). Lo scopo del suo viaggio è presto dimenticato: Giuliano è irremovibile e il colloquio con l’oncologo (Stefano Fregni), al quale assiste, chiarisce che le cure non avrebbero altro scopo che quello di allontanare un po’ la fine; questo addolora la sorella di Giuliano, Paola (Anna Ferzetti), che contava su di lui per fra “ragionare” il fratello. L’estroverso Giuliano vuole solo un po’ di compagnia (e, visto che c’è, qualcuno che paghi i conti delle sue trovate) e così Tommaso si trova ad essere testimone di una calma ma dura sfuriata di Giuliano a due colleghi (Paolo Giovannucci e Paola Squitieri) che, imbarazzati, lo evitavano, della riappacificazione, invece, con l’amico (Blas Roca Rey) che in passato si era separato dalla moglie perché li aveva scoperti amanti, della surreale lettura dei tarocchi, nella quale il cartomante (Pietro De Silva) gli predice “un lungo viaggio”. La preoccupazione più pressante per Giuliano è trovare una sistemazione per l’adorato ed anziano cane Pato (Nike); prova a lasciarlo ad una coppia (Pietro Ragusa e Elena Lietti), che sembra ben disposta ma che il giorno dopo glielo restituisce: il loro figlio adottivo (che ha da poco perso i genitori) teme che possa morire troppo presto. I due se ne vanno per un giorno a Barcellona a trovare il figlio di Giuliano, Leo (Andrea Arcangeli), che studia e vive lì con la fidanzata Sophie (Cressy); lui non ha il coraggio di dire al ragazzo la verità ma la sua ex-moglie (Fabrizia Sacchi) gli rivelerà che il figlio sapeva tutto. Giuliano- dopo anni di televisione – è felice di recitare con gigionesco successo ne “Le relazioni pericolose” ma anche questa gioia gli viene tolta dal direttore del teatro (Renato Scarpa), che – preoccupato dalle reazioni del pubblico alla notizia della malattia – lo sostituisce con l’incapace Filippo Buttafuoco (Ivan Talarico). La decisone di Giuliano si fa più drastica e, dopo una notte di litigi e di sesso con Paola, Tommaso torna con al guinzaglio il cane Pato, che Giuliano (come probabilmente aveva deciso sin dall’inizio) gli consegna al check-in.
Domani è un altro giorno è, come è noto, il remake dello spagnolo Truman – Un vero amico è per sempre e gli sceneggiatori Ciarrapico e Vendruscolo ne ripercorrono con sostanziale fedeltà il filo narrativo ma il risultato è un film tutto nuovo e sorprendente: là dove gli ottimi Ricardo Darin e Javier Camara davano una prova magistrale di recitazione, Giallini e Mastandrea incarnano per intero il film e le sua emozioni: sfrontato e impudico il primo, trattenuto e commosso il secondo sono la prova che la grande commedia italiani con i suoi “mostri” (Sordi, Tognazzi, Manfredi, Mastroianni) non è morta. Il merito è in gran parte del produttore Maurizio Tedesco – proprio lui, grazie a Mastandrea, aveva lanciato Giallini ne “L’odore della notte” di Calligari (“Ah Little me stoni “Cuore matto”!) – che ha cominciato con Dino Risi e si vede: Domani è un altro giorno richiama le atmosfere dei titoli migliori del Maestro, Il gaucho e Il giovedì. Qualche decennio fa la Milano Libri tradusse con successo un collana di libri dell’americana Pyramid, che disegnava una storia del cinema in chiave divistica; quello che la rendeva interessante era il punto di vista che la caratterizzava: i film erano visti come filiazioni della politica editoriale delle produzioni. Questo era sicuramente vero per le major statunitensi ma, in realtà, è stato vero anche da noi: i film di Dino De Laurentis (poi di suo nipote Aurelio), Goffredo Lombardo, Franco Cristaldi, Fulvio Lucisano, Luciano Martino (per citare i più noti) avevano – al di là degli autori – una loro precisa connotazione. Ora, salvo lodevoli eccezioni (Cattleya e Tadue ad esempio) il produttore è spesso poco più di un tramite tra varie fonti – perlopiù pubbliche – di finanziamento. Ben venga il ritorno a campo pieno di un produttore della vecchia, solida scuola che, in questo caso, servendosi di una buona regia di servizio, ha intuito le possibilità che il recupero del film spagnolo (correttissimo ma, almeno per noi, freddino) offriva: qui ci si commuove davvero e – con le giuste cadenze – si cede a liberatorie risate (il colloquio a gesti tra Giuliano – sorpreso e un po’ seccato con l‘amico che è andato a letto con la sorella – e Tommaso nella hall dell’albergo è da antologia).
Antonio Ferraro