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Dolor y Gloria

Almodovar e Banderas: è subito cinema

di Pedro Almodóvar. Con Antonio BanderasAsier EtxeandiaLeonardo SbaragliaNora NavasJulieta Serrano  Spagna 2019

Il famoso regista Salvador Mallo (Banderas) da qualche anno ha smesso di lavorare; ad una crisi creativa ed esistenziale si accompagnano vari malori (in parte, ma non solo, psicosomatici): ha forti dolori alle schiena, persistenti mal di testa e soffoca deglutendo. La Cineteca Nazionale ha appena restaurato Sabòr, un suo vecchio film che – per dissapori con l’interpretazione del protagonista Alberto Crespo (Etxeandia) – da allora non ha più voluto rivedere ma, quando gli viene proposto di presenziare alla proiezione insieme all’attore, lui accetta e va dall’amica attrice Zulema (Cecilia Roth) per farsene dare l’indirizzo. La prima accoglienza è ostile ma, via via, il loro rapporto si scioglie (in passato erano stati anche amanti) e quando Alberto fuma un crack di eroina, Salvador gli chiede di provarla, scoprendone le qualità lenitive. Sotto l’effetto della droga, Salvador ricorda la propria infanzia di bambino (Asier Flores) povero e molto versato nello studio e nel canto, che insieme al padre (Raùl Arévalo) e alla madre Jacinta (Penelope Cruz) si era trasferito dal paese a Paterna, dove si erano ritrovati a vivere in una grotta intonacata, che la volenterosa madre rende il più decorosa possibile, anche grazie all’aiuto del muratore analfabeta Eduardo (César Vicente), al quale in cambio Salvador insegna a leggere, scrivere e far di conto. Riaffiora anche il ricordo della dama di carità Beate (Susi Sanchez) che, sollecitata dalla madre che voleva che lui studiasse ma non poteva permettersi di mandarlo a scuola, era riuscita a farlo entrare in seminario, provocando la sua rabbia perché temeva lo facessero diventare prete. Salvador e Alberto ricominciano a frequentarsi e l’attore va spesso da lui a portargli la droga; un giorno, mentre il regista dorme, questi gli apre il computer e trova un racconto dal titolo Addiciòn (Dipendenza) e gli chiede di poterlo rappresentare a teatro ma Salvador rifiuta. Il giorno della proiezione di Sabòr, i due sono pronti ed eleganti ma Salvador non se la sente di affrontare il pubblico, così parla attraverso il telefono col presentatore (Julian Lopez) e con il pubblico e rivela la rabbia che aveva provato per l’interpretazione di Alberto, troppo drogato per rendere le sfumature del personaggio; questi si arrabbia e se ne va ma, poco dopo, Salvador, per farsi perdonare, gli dà il copione purché lo porti in scena firmandolo come suo (lui non se la sente di affrontare, anche solo indirettamente, le luci della ribalta). Il monologo ha successo e una sera arriva a teatro Federico (Sbaraglia), il vecchio amore di Salvador cui Addiciòn è dedicata; lui si riconosce perfettamente nel giovane drogato tanto amato e curato dall’allora esordiente regista e chiede ad Alberto i recapiti di Salvador. Va da lui in piena notte e i due vecchi amanti, bevendo tequila, si raccontano con affetto le rispettive vite. Federico, prima di andarsene gli propone di fare, per una volta ancora, l’amore ma lui con garbo rifiuta. La sua agente Mercedes (Navas) lo convince ad andare dal medico (Pedro Casablanc) che, oltre a dargli nuove cure per aiutarlo ad uscire e dalla dipendenza dall’eroina, gli prescrive una risonanza magnetica per accertare le cause – che potrebbero essere tumorali – della disfagia che lo fa soffocare. L’analisi accerta che si tratta solo di una calcificazione risolvibile con un semplice intervento. Salvador, che anche grazie a questa notizia sta riprendendo la forza di vivere, rivela a Mercedes di non aver mai superato la morte di sua madre che, in tarda età (Serrano), dopo avergli confessato la sua delusione per la sua vita sregolata e per il suo stare troppo poco con lei, gli aveva chiesto di essere portata al paese per chiudere la vita nel proprio letto ma la repentina morte in ospedale, non gli aveva consentito di mantenere neanche quella promessa. In una galleria di arte naif trova un acquerello che lo ritrae bambino e lui lo acquista, riconoscendolo come il disegno che gli aveva fatto Eduardo il giorno in cui era andato a casa sua e si era lavato, dopo aver montato le piastrelle della cucina; alla vista del corpo nudo del giovane, il piccolo Salvador era svenuto e si era svegliato febbricitante. L’operazione va a buon fine e Salvador ha deciso: scriverà e dirigerà un film, dal titolo El primero deseo (Il primo desiderio), ispirato a quel primo, decisivo turbamento d’amore.

“Il cinema della mia infanzia sapeva di pipì. Di gelsomino. E di brezza d’estate.” In questa frase c’è il senso profondo dell’ispirazione del film: Almodovar non fa Almodovar ma è Almodovar; il cinema non è più solo il regno di trasgressivi e melodrammatici sogni ma è anche la concretezza delle proiezioni in piazza su di un muro bianco, con Pedro e gli altri bambini che non volevano perdere nemmeno un istante delle emozioni di Natalie Wood in Splendore nell’erba o di Marilyn Monroe in Niagara per rispondere ad una banale necessità fisiologica. Queste ultime citazioni, come il video di Mina che canta Come sinfonia, sembrano essere rimandi alle fantasmagorie di Tacchi a spillo con le strepitose rivisitazioni di Un anno d’amore e di Piensa en mi o allo scatenarsi dei tre steward di Amanti passeggeri nell’interpretazione ultragay di I’m so excited o all’esplodere di Caetano Veloso con Cucurrucucù Paloma nel tenero dramma di Parla con lei ma non è così. Qui la musica ha la tradizionalissima funzione di accompagnamento e tutto è un racconto dolente e personalissimo di un autore in fuga dalla maniera e alla ricerca di sé. Anche Banderas (già ritrovato in La pelle che abito) non è più il simbolo della seduzione sottilmente perversa di Matador, de La legge del desiderio o di Legami ma l’alter ego perfetto del regista come – per dichiarazione dello stesso regista – Mastroianni con Fellini. A Cannes il film è stato accolto con pareri discordi: gli almodovariani duri e puri sono stati delusi, chi sa amare il cinema senza etichette lo ha saputo apprezzare. Il premio quale miglior attore a Banderas sembra essere – magari involontariamente – un compromesso tra le due scuole di pensiero: lui (certamente con la di gran lunga migliore interpretazione della sua carriera) è talmente Almodavar da far diventare il suo riconoscimento un premio al film e al regista. Se “l’amore non basta a salvare chi ami”, come ci dice il disperato e disilluso Salvador, un film sincero e potente può, per due ore, risarcirci di questa mancanza.

 

 

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